Opera Omnia Luigi Einaudi

I cinque prestiti di guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/01/1916

I cinque prestiti di guerra

«Corriere della Sera», 13 gennaio[1], 18[2] e 28[3] giugno, 16 luglio[4], 26 dicembre[5] 1915, 6 febbraio[6], 10 marzo[7] 1916, 4 febbraio[8], 27 marzo[9] 1917, 15[10] e 30[11] gennaio 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 83-132

 

 

I

Il primo prestito

 

I risultati della sottoscrizione per il prestito nazionale dimostrano come l’appello del governo sia stato largamente ascoltato dai risparmiatori italiani. Le notizie comunicate ufficialmente, e tuttora incomplete, dicono invero che i privati sottoscrittori hanno offerto più di 80 milioni di lire, aggiungendo ai quali i 500 milioni del consorzio bancario di garanzia, si superano il miliardo e 300 milioni. Così lo stato potrà, pur soddisfacendo completamente alle domande dei privati sottoscrittori, limitarsi, per il completamento del miliardo, a richiedere meno di 200 milioni di lire al consorzio bancario.

 

 

Caratteristica confortante di questo prestito è che le sottoscrizioni sono venute dalle grandi e insieme dalle piccole città, e ancora dai borghi rurali; dal mezzogiorno d’Italia e dalle isole, come dal settentrione; e sovratutto che ad esse hanno partecipato relativamente più i piccoli risparmiatori, le borse minute, che i maggiori capitalisti. È stata la fiducia dei molti, della gente che ha fede nella parola dello stato, e che non teme di affidargli la propria piccola fortuna sudata a frusto a frusto, quella che ha creato il successo del prestito.

 

 

Il successo è reale, senza esagerazioni morbose, e ciò era desiderabile nell’interesse generale. Le sottoscrizioni vistose, di due, tre, dieci, quaranta volte il prestito, che si usavano in qualche paese straniero, sono un indice patologico e fanno mal presagire del risultato reale del prestito. L’ultimo esempio clamoroso si ebbe, prima della guerra, in Francia, per il prestito di 900 milioni nominali, e 805 milioni effettivi, emesso il 7 luglio al corso di 91, e al saggio lordo d’interesse del 3,50%. Il successo fu apparentemente colossale: i 900 milioni furono sottoscritti 40 volte. In realtà, l’enormità delle sottoscrizioni dimostrò che i veri risparmiatori si erano tenuti in disparte, disperati di poter ottenere la somma che essi desideravano; e i sottoscrittori furono sovratutto banche e intermediari, i quali corsero ad accaparrarsi il prestito, nella speranza di poter rivendere con profitto i titoli ai veri risparmiatori. Venne la guerra; e sarebbe potuta avvenire una crisi finanziaria, che già si addensava sull’orizzonte francese; gli speculatori si trovarono nell’impossibilità di ritirare i titoli che avevano ad esuberanza sottoscritto, e i corsi caddero sin verso l’80, e adesso di poco superano l’87, sebbene il governo abbia promesso di accettare al corso di 91 i titoli 3,50% nelle future sottoscrizioni di prestiti che si dovranno emettere a più alto saggio d’interesse per liquidare le spese della guerra. Un prestito troppe volte sottoscritto è un prestito fluttuante sul mercato, in balia ad ogni stormir di fronda di cui la speculazione possa prender paura. L’ideale di ogni prestito sarebbe che venisse sottoscritta esattamente la quantità offerta, né più né meno. A questo ideale ci avviciniamo o lo superiamo, a seconda che non si tenga o si tenga conto dei 500 milioni del consorzio di garanzia, che sono pure sottoscrizioni reali, che le singole banche hanno a priori assunto nella fiducia di poter collocare la quantità sottoscritta fra la propria clientela.

 

 

Da informazioni che ho ragione di ritenere fondate, non si è verificato in Italia il fenomeno, spesso accaduto in passato in Germania e in Francia, di sottoscrizioni superiori alla cifra che realmente i sottoscrittori intendevano ritirare. Per fortuna i risparmiatori italiani non sono ancora abituati a simile espediente per far fare grande figura alle cose piccole, e spettacolosa alle cose grandi. I sottoscrittori, in prevalenza appartenenti alle medie e piccole borse, hanno sottoscritto per le somme che erano sicuri di avere a propria disposizione, e nulla più. Alcuni non hanno osato nemmeno disporre di tutto il proprio deposito bancario, malgrado le esplicite dichiarazioni dei decreti reali, per timore che la moratoria in realtà dovesse ancora frapporre qualche ostacolo al ritiro delle somme. Le banche le quali non volevano esporsi a critiche da parte della propria clientela non hanno spinto a sottoscrivere più delle somme realmente disponibili, e hanno fatto bene.

 

 

Se un fenomeno può essere constatato sicuramente, questo è l’astensione di molti risparmiatori, specialmente di quelli che appartengono ai ceti più danarosi. Il prestito emesso al tasso del 4,64%, nelle presenti condizioni del mercato monetario era sovratutto un buon affare per lo stato il quale si obbligava a pagare un mite saggio d’interesse, e per i risparmiatori delle classi medie e modeste, i quali dovevano contentarsi dei modesti frutti del 3 e del 3,50% offerti dalle casse di risparmio e dagli impieghi assolutamente sicuri, quali sono quelli che soltanto convengono alle modeste fortune; e questi risparmiatori hanno trovato una fortunata occasione per fare un ottimo investimento dei loro risparmi.

 

 

Ho però l’impressione che, salvo eccezioni sempre numerose, le borse più grosse non abbiano concorso molto al successo del prestito. Mi limito a constatare il fatto, il quale dimostra due cose. La prima si è che la raccolta di 800 milioni fra le grandi masse risparmiatrici è un trionfo quale nessuno avrebbe creduto possibile un tempo: mentre la seconda è che nel paese esistono ancora forti masse di risparmio disponibile, costituenti una riserva, la quale dovrà venir fuori in caso di bisogno, quando lo stato dovesse una seconda volta far appello al credito pubblico. In quel giorno si potrà fare a meno di porre ai ricchi italiani l’alternativa che fu posta or ora in Olanda: o accorrere a sottoscrivere il prestito volontario, ovvero rassegnarsi a obbedire a un prestito forzato. Se il governo saprà eventualmente attenersi, come ha fatto questa volta, alle condizioni del mercato, un altro miliardo dovrebbe essere sottoscritto da quello strato di risparmiatori che oggi ha preferito tenersi in disparte.

 

 

Ho detto che l’essere stati sottoscritti 1 miliardo e 300 milioni in tutto, di cui 800 dai privati sottoscrittori, è un trionfo del piccolo e medio risparmio in Italia. Non dimentichiamo invero che, se l’Italia ha pagato il 4,64%, ha pagato più del 4% inglese, ma assai meno della Francia, che a stento è riuscita finora ad emettere 700 milioni di buoni della difesa nazionale (al 5%) e se ha voluto ottenere altri 250 milioni ha dovuto rivolgersi al mercato di Londra e pagare di nuovo il 5%; assai meno della Germania, la quale, tenuto conto dei premi al rimborso, ha pagato per il suo prestito di 5 miliardi e mezzo di lire poco meno del 5,50%; e meno persino della Svizzera, la quale è tornata al tipo 5%. Né occorre parlare dell’Austria, dell’Ungheria e della Russia, dove i saggi di interesse superano il 6 e 7%.

 

 

Tenendo conto anche soltanto degli 800 milioni, questa è una cifra la quale eguaglia l’1% della fortuna nazionale, largamente valutata in 80 miliardi di lire. In confronto alle loro rispettive fortune, le sottoscrizioni estere non appaiono di tanto più riuscite: in Germania il prestito di 5 miliardi e mezzo di lire, rappresenta l’1,50% della fortuna nazionale; e nei 5 miliardi e mezzo sono comprese le sottoscrizioni di banche, che sono state escluse dagli 800 milioni italiani. Né in Germania l’odierna sottoscrizione era stata preceduta, negli ultimi anni, dalle emissioni a getto continuo di buoni del tesoro, che dal 1912 in poi hanno in Italia assorbito così gran parte delle disponibilità monetarie del paese.

 

 

Qui si tocca il punto più delicato, e forse dolente della situazione monetaria italiana nel momento presente. Quando si stavano emettendo, a blocchi di 300 milioni per volta, i buoni del tesoro quinquennali 4%, io ebbi ripetutamente a manifestare il mio dissenso rispetto alla via seguita. L’emissione di buoni del tesoro a breve e brevissima scadenza – fra buoni quinquennali e buoni ordinari si era giunti alla vigilia della guerra a circa 1 miliardo e mezzo – era parsa a me allora, e pare ancor adesso, imprudente; poiché apparecchiava giorni affannosi agli uomini di governo che avessero poi dovuto reggere in momenti gravi il timone dello stato. Dicevo allora, e la guerra non era scoppiata né era preveduta, che il ministro del tesoro deve sempre cercare di conservare o di ristabilire una situazione del tesoro assai liquida in guisa da poter ricorrere, quando l’orizzonte si oscuri, ai buoni del tesoro come al mezzo più facile, più pronto di far denaro. Non si volle, e si preferì lasciare all’avvenire il compito di sbrogliare la matassa. Si poteva in tempi tranquilli – dopo la pace di Losanna e anche durante la guerra di Libia, la quale non aveva esercitato nessuna influenza sui mercati europei e poca influenza aveva avuto in Italia, di gran lunga minore della semplice ripercussione della guerra europea – si poteva emettere un prestito di 2 miliardi, e sarebbe stato largamente sottoscritto. Non si volle, perché si aveva l’ubbia di non voler emettere prestiti propriamente detti, come se i buoni del tesoro quinquennali non fossero una maniera di prestito, diversa dalle ordinarie soltanto perché essa è adatta ai tempi di grande commozione e non conveniente nei tempi tranquilli. Non si volle, perché si aveva timore di far ribassare la rendita 3,50%, come se i corsi alti di una rendita, il cui saggio non corrisponde più a quello del mercato, non fossero un indice erroneo della ricchezza e della forza di un paese. Oggi gli on. Salandra e Carcano hanno avuto il coraggio di un prestito a lunga scadenza, e non hanno avuto timore di emetterlo al 4,50%. Il paese ha risposto al loro appello, ed essi hanno ben meritato del paese, come accade sempre a quelli i quali fanno una finanza sincera e chiamano prestiti i prestiti e imposte le imposte. Se si fosse sempre operato a questo modo, le condizioni del tesoro italiano sarebbero granitiche. Siamo almeno lieti che gli uomini, i cui nomi ho sopra ricordato a titolo d’onore, abbiano contribuito ad irrobustirlo, osando in tempo di guerra di lanciare quel prestito che non si era voluto emettere in tempo di pace!

 

 

Grazie al concorso delle masse risparmiatrici, la cui virtù mai non rifulse così vivida come nei momenti gravi, il tesoro italiano oggi è in grado di affrontare i cimenti a cui la fortuna d’Italia volesse chiamarlo. Sia lode e plauso alla gente modesta e fidente!

 

 

II

Il secondo prestito

Questo prestito di guerra italiano è la prosecuzione del prestito nazionale del miliardo emesso nel gennaio scorso per la preparazione alla guerra. Essendo ormai conosciute le modalità particolari, ben nota e familiare ai risparmiatori ed entrata nelle consuetudini delle contrattazioni la cartella del prestito, fa saggio consiglio offrirne una nuova identica serie nell’occasione della presente guerra. Le troppo numerose specie di titoli intralciano le contrattazioni; conquistano diverso favore presso il pubblico; sicché i prezzi giornalieri sono spesso instabili e nominali. Le obbligazioni del «nuovo» prestito nazionale, confondendosi con quelle del «primo» prestito, con cui hanno comuni le caratteristiche del reddito percentuale, della scadenza al 1° gennaio 1940 e del diritto di riscatto da parte dello stato dopo il 1° gennaio 1925, comporranno con esse una massa imponente, la quale avrà un grande mercato e possederà quindi le migliori attrattive per i sottoscrittori. Costoro sapranno di potere, in qualunque momento, comprare o vendere il titolo, ed a prezzo effettivo e normale, perché, su così gran massa, ogni giorno vi sarà chi vorrà vendere e chi vorrà comprare, e dalle molte contrattazioni uscirà fuori un prezzo normale e non oscillante accidentalmente. Il quale ottimo risultato non si sarebbe ottenuto se il tipo del prestito fosse stato diverso da quello precedente; e si fossero dovuti formare due separati mercati, più piccoli e perciò più incerti ed instabili.

 

 

Questa la ragione tecnica fondamentale del metodo prescelto nella emissione del nuovo prestito nazionale.

 

 

La sua caratteristica più spiccata, quella che lo deve raccomandare ad ogni italiano il quale possegga od abbia fiducia di possedere entro l’anno un risparmio, piccolo o vistoso che esso sia, è tuttavia una caratteristica «morale». Il governo italiano ha saputo, in questa occasione solenne, dimostrare che i metodi finanziari migliori, più sicuri del successo, sono quelli che rendono ossequio alla equità ed al senso di parità di trattamento fra tutti quelli che hanno concorso e concorreranno a fornire all’erario i mezzi per la condotta della grande impresa nazionale della conquista dei confini d’Italia.

 

 

Quale motivo aveva trattenuto alcuni risparmiatori dal sottoscrivere al primo prestito nazionale del gennaio scorso? La speranza o la persuasione che, entrando l’Italia in guerra, altri prestiti si sarebbero dovuti emettere, a condizioni più favorevoli per i sottoscrittori. Dissero costoro: a che pro sottoscrivere oggi un 4,50 a 97, quando fra alcuni mesi potremo avere lo stesso 4,50 a 95 o 94 o 93 lire o forse un 5% a 100 lire? Questa psicologia dell’aspettativa sarebbe stata ragionevole, se i reggitori della finanza italiana fossero stati uomini indifferenti alle ragioni della parità di trattamento verso coloro che, prima o dopo, concorsero ad apprestare i mezzi necessari alla fortuna della patria. Il calcolo dei ritardatari si chiarì un calcolo sbagliato perché gli on. Salandra e Carcano hanno visto chiaramente che il credito di uno stato tanto più si eleva quanto più il suo governo tien fede non solo alle promesse formalmente fatte, ma persino alle aspettative di quelli che in passato ebbero fiducia nello stato. L’on. Carcano non aveva dichiarato che altri prestiti non vi sarebbero stati, e neppure che, insorgendo il bisogno di emetterli, essi sarebbero stati fatti a condizioni uguali a quelle offerte nel gennaio. Nessun diritto a risarcimenti od a favori avevano dunque i sottoscrittori del primo prestito; ma l’equità consigliava che ad essi i quali, primi, erano venuti in soccorso dell’erario, mentre altri, più calcolatori, si traevano in disparte, non venisse fatta una sorte peggiore di quella che si offriva ai nuovi sottoscrittori.

 

 

Questa l’idea madre, l’idea feconda, la quale sta a fondamento del nuovo prestito nazionale. Il prestito deve fare appello ad una più vasta schiera di risparmiatori, deve penetrare in tutti i più piccoli centri della penisola, deve avere la virtù di trarre fuori dai forzieri, dalle cassette di sicurezza, dai cassetti più riposti, dai ripostigli sicuri tutti i risparmi disponibili degli italiani. Epperciò è naturale che, per avere questa maggior virtù attrattiva, il prestito odierno sia offerto ad un prezzo più basso: a 95 lire invece che a 97 lire.

 

 

Ma è equo, è altamente significativo che ai vecchi sottoscrittori, i quali hanno versato 97 lire, sottoscrivendo 1 miliardo di lire, venga fatta la condizione, di favore, di poter sottoscrivere, fino a concorrenza delle obbligazioni vecchie possedute, altrettante nuove obbligazioni al prezzo di 93 lire per cento nominali. Così la condizione del sottoscrittore al primo prestito viene parificata a quella del nuovo sottoscrittore; poiché egli, avendo versato 97 lire sulla vecchia obbligazione e 93 sulla nuova, «in media» avrà versato 95 lire, ossia precisamente la stessa somma pagata dai nuovi sottoscrittori.

 

 

Né basta. Il governo non ha voluto solo dimostrare, «col fatto», quanto fosse geloso tutore della equità verso tutti i risparmiatori, vecchi e nuovi; ma ha voluto vincolarsi a serbare la stessa equità in avvenire. Leggasi l’articolo 4 del decreto legislativo: «Se in avvenire, fino a tutto il 1916, si rendessero necessarie nuove emissioni di obbligazioni, e le relative condizioni fossero più favorevoli, per i sottoscrittori, di quelle stabilite nel presente decreto, le condizioni medesime saranno estese ed applicate ai titoli emessi per virtù di questo stesso decreto».

 

 

Nessuno può prevedere quanto durerà la guerra; né quale sarà il suo costo. Nessuno oggi può sapere se, conchiusa la pace, non saranno necessari nuovi prestiti per assestare e consolidare le pubbliche finanze. Non è parimenti dato di sapere oggi se, mutando le condizioni del mercato, non debba in avvenire essere opportuno consiglio emettere un terzo prestito nazionale a condizioni ancora più favorevoli per i sottoscrittori: a 90 lire ad esempio, se di tipo 4,50, o fors’anco di un nuovo tipo, con un maggior saggio di interesse. Orbene, quelle migliori condizioni saranno senz’altro estese ai sottoscrittori del presente secondo prestito. Il presente titolo sarà parificato in tutto, sia per il saggio dell’interesse, sia per il prezzo di emissione, con modalità facili a determinarsi, al nuovo titolo che eventualmente potesse essere emesso, a migliori condizioni, fino a tutto il 1916. Ecco una solenne promessa dello stato di trattare gli attuali sottoscrittori alla stessa stregua dei futuri sottoscrittori, ove a costoro credesse di dover offrire condizioni migliori. La promessa trae vigore specialissimo dal fatto che, «senza esserci obbligato», oggi il governo ha creduto suo dovere di parificare ai nuovi sottoscrittori anche quelli del gennaio scorso.

 

 

La convenienza dei risparmiatori italiani a sottoscrivere si presenta dunque chiara. Il «nuovo» sottoscrittore, pagando 95 lire l’obbligazione del valore nominale di 100 lire, ottiene un reddito del 4,73%, ove «non» si tenga conto del vantaggio del premio di 5 lire che si otterrà al momento del rimborso; ed un reddito del 4,843% netto, ove di questo premio, come è logico, si tenga calcolo. Il «vecchio» sottoscrittore, colui cioè che eserciterà l’opzione spettante ai portatori delle obbligazioni del primo prestito nazionale, pagando 93 lire, per ogni 100 nominali, farà dal canto suo un impiego di capitale al 4,84 «non» tenendo conto ed al 4,988%, qualora tenga conto del premio di 7 lire al rimborso. Chiara è quindi la convenienza dell’impiego. In sostanza, il vecchio sottoscrittore ha dinanzi a sé un impiego al 5% netto in cifra tonda; di cui il 4,84% sotto forma di un interesse di 4,50 lire per 93 lire versate, ed il resto sotto forma di un premio di 7 lire al rimborso. Il nuovo sottoscrittore, il quale pagherà 95 lire, otterrà un reddito alquanto minore, ma sempre soddisfacentissimo. Nessun titolo italiano di uguale sicurezza, di così facile commerciabilità, di taglio così comodo oggi offre un rendimento così alto. Nessun altro titolo, a reddito fisso, porta con sé la speranza, anzi la certezza di «un aumento di reddito», nella eventualità di nuove emissioni, fino a tutto il 1916, di prestiti a migliori condizioni da parte dello stato. Nessuno ha quindi ragione di attendere; neanche dal punto di vista più ristretto dell’interesse pecuniario. Se nel 1915 o nel 1916 si emetteranno nuovi prestiti più favorevoli, l’attuale sottoscrittore godrà senz’altro del maggior reddito. Frattanto comincierà subito a fruire di un interesse elevato, del 4,988 per i vecchi e del 4,84% per i nuovi sottoscrittori, che alcun tempo fa sarebbe stato follia sperare.

 

 

Le ragioni d’interesse non sono le sole che devono spingere i risparmiatori italiani a rispondere con slancio e con entusiasmo all’appello del governo. Su queste ragioni mi sono dilungato, per spiegare come esse rispondano ad un elevato rispetto dell’equità da parte dello stato. Nel momento presente però il risparmiatore italiano sente che la spinta dell’interesse si sposa all’imperativo del dovere verso la patria. Questo è il tempo dei fatti operosi e concordi: il soldato, il quale combatte e versa il sangue per la patria, deve sapere che, dietro di sé, non vi è nessuna incertezza; che i capitalisti, i quali hanno disponibili le centinaia di migliaia di lire, che i risparmiatori minuti, i quali posseggono le centinaia e le poche migliaia di lire, che i proprietari, i quali attendono i raccolti od i fitti, che gli impiegati in attesa dello stipendio, tutti accorrono volonterosi a dare allo stato «tutto» quanto essi hanno, anzi di più di quanto essi hanno oggi, elevando le sottoscrizioni fino a comprendere i redditi del prossimo avvenire. Il secondo prestito nazionale dovrebbe avere un successo non inferiore al primo, ove anche si tenesse soltanto conto delle sue felici caratteristiche finanziarie; ma ne avrà uno di gran lunga maggiore, ove gli italiani pensino che oggi il dovere primo di tutti è di provvedere, è di contribuire alla vittoria; è di rinunciare a qualche cosa, di prorogare una spesa non urgente, è di compiere un sacrificio possibile pur di raggiungere la meta. Questa è alta: gli uomini che ad essa ci guidano hanno il polso fermo e la volontà sicura. Provvedano gli italiani a fornire loro con larghezza pronta i mezzi materiali necessari alla maggior grandezza della nostra patria!

 

 

III

 

Su alcune modalità del nuovo prestito nazionale è opportuno di ritornare, affinché la nozione di esso risulti chiara ai molti, i quali vorranno accorrere ad affidare i propri risparmi allo stato, con sicurezza e buon frutto da parte loro e con vantaggio grande, d’altra parte, della cosa pubblica. Una guerra, giusta e necessaria, come la nostra, non si conduce senza mezzi finanziari adeguati; e questi non si possono tutti chiedere alle emissioni di biglietti a corso forzoso. La massa di questi può crescere senza pericolo grave a due condizioni:

 

 

  • che si provveda ai pagamenti che lo stato ed i privati debbono fare all’estero, con prestiti e con aperture di credito nelle piazze straniere dove si devono eseguire i pagamenti. A questo punto si è provveduto nel convegno che ebbe luogo a Nizza fra il cancelliere inglese dello scacchiere, signor McKenna, il governatore della Banca d’Inghilterra ed il ministro italiano del tesoro, on. Carcano, il quale era accompagnato dal comm. Stringher, direttore generale della Banca d’Italia. Grazie a questa collaborazione italo-inglese, i nostri dirigenti avranno in mano un potente strumento per eseguire i pagamenti di forniture all’estero e per regolare i cambi in genere coll’estero;
  • che un prestito interno, il cui versamento sia graduato nel tempo, permetta di riassorbire quei biglietti che fossero stati emessi nella circolazione del paese in quantità forse eccedente. Il governo, per far fronte ai suoi pagamenti, emette, via via, 300 milioni e poi altri 300 e poi ancora altre somme di biglietti? Occorre che sia emesso un prestito, affinché i sottoscrittori, pagando nelle diverse rate 300 e poi 300 milioni di lire e poi altre somme ancora, restituiscano nelle casse dello stato quei biglietti che erano esuberanti.

 

 

Il problema che si tratta di risolvere è dunque delicato: lo stato comincia a spendere quanto occorre per la condotta della guerra, facendosi fornire biglietti dagli istituti di emissione; ed emette poscia un prestito, il quale dovrebbe restituire nelle sue casse i biglietti che prima ne erano usciti, così da impedire che i biglietti circolanti crescano troppo. Crescere dovranno, poiché le spese sono molte; ma è bene che l’aumento sia assorbito dal provento di prestiti.

 

 

Poiché non è possibile prevedere quali saranno le spese della guerra, dipendendo esse dalla sua durata, dal consumo di munizioni e di materiale da guerra, dal suo teatro, ecc. ecc., era difficile concretare in una cifra precisa il fabbisogno dell’erario, sicché parve prudente consiglio non fissare un massimo al prestito di guerra. Lo stato accetterà tutte le somme che gli saranno offerte. Così si fece in Germania, in occasione del primo prestito di 4 miliardi e mezzo di marchi e del secondo di 9 miliardi; così si fece in Austria-Ungheria per amendue i prestiti colà emessi; così si fa in Francia colla emissione a gitto continuo delle obbligazioni e dei buoni della difesa nazionale, per cui si sono raccolti già più di 6 miliardi. In Inghilterra invece il grande prestito di guerra fu enunciato nelle somme fisse di 350 milioni di lire sterline; ma in seguito si adottò del pari il metodo delle emissioni illimitate, a gitto continuo, di buoni del tesoro, venduti dalla Banca a prezzo fisso a chiunque di giorno in giorno ne faccia domanda.

 

 

I prestiti per cifre illimitate sono in parte novità, ma novità ragionevoli consigliate dappertutto dalla esperienza di questa guerra divoratrice di capitali enormi. Altrove i capitalisti ed i risparmiatori hanno risposto con entusiasmo all’appello dello stato. Non è tempo questo di consigli pavidi e di incertezze. Pensino coloro che hanno o potranno avere nel secondo semestre del 1915 capitali disponibili che è non solo loro dovere, ma loro urgente interesse versarli tutti allo stato. Ben più forti versamenti, ed a fondo perduto, dovettero fare gli sventurati belgi, a cui fece difetto sin dall’inizio l’apparecchio militare atto a tener lontano il nemico dal territorio della loro patria! Ora, l’apparecchio finanziario è parte integrante dell’apparecchio bellico; e come i soldati spargono il loro sangue, così quelli rimasti a casa devono versare il loro denaro, e tutto il loro denaro, allo stato. Tanto più che, come già dimostrai, il versamento è fatto con assoluta sicurezza di rimborso, con un premio, alla restituzione, di 5 o 7 lire e con ottimo frutto annuo nel frattempo.

 

 

La mancanza di un limite fisso al prestito non è senza vantaggi di semplicità per il sottoscrittore. Tutte le sottoscrizioni diventano, per questo carattere del prestito, irriducibili. Non vi è più la incertezza intorno alla accettazione o meno da parte dello stato di tutta la somma offerta dal sottoscrittore. Ogniqualvolta lo stato emette un prestito per una somma fissa, ad esempio 1 miliardo, i sottoscrittori pensano: che cosa accadrà se le sottoscrizioni supereranno il miliardo? Di quanto lo supereranno? Quanto mi sarà assegnato sulle 1.000 o 10.000 lire che ho sottoscritto? Forse 800 od 8.000 lire e forse solo 500 o 5.000 lire? Se io voglio ottenere 10.000 lire precise di titoli, non sarebbe forse opportuno sottoscrivere per una somma superiore a quella desiderata, forse 12.000 o 15.000 lire? Non vi è il pericolo che la sottoscrizione non superi il miliardo e che io debba ricevere e pagare tutte le 12 o le 15.000 lire sottoscritte, anche per la parte eccedente la somma di denaro effettivamente da me posseduta?

 

 

Questi i dubbi che si presentano ai sottoscrittori dei prestiti a cifra fissa. Nei prestiti a cifra illimitata, il dubbio non ha ragione d’essere. Ognuno è certo di ricevere l’intiera quantità di titoli domandata. Chi versa 9.300 o 9.500 lire riceverà un titolo di 10.000 lire nominali; chi versa 930 o 950 lire, ne riceverà uno da 1.000 lire.

 

 

Anche le modalità del pagamento sono semplificate. Con un prestito a somma fissa, il primo versamento non si può chiamare precisamente una prima rata, non conoscendosi ancora la somma esatta che sarà assegnata, dopo chiusa la sottoscrizione, ad ogni singolo sottoscrittore, sibbene è una caparra, la quale andrà poi in parziale o totale pagamento della prima rata. Tuttociò reca qualche imbarazzo, poiché sulla «caparra» non possono decorrere interessi a favore del sottoscrittore, non avendone lo stato la disponibilità; mentre il sottoscrittore ha di fatto versata la somma. Col prestito illimitato, questa difficoltà scompare. Il primo versamento di 20 lire per ogni 100, da farsi dal 1 all’11 luglio, è una vera prima rata, definitiva, su cui non si ritorna e su cui lo stato può subito pagare gli interessi, ricevendola subito.

 

 

Un’altra difficoltà eliminata è quella dei versamenti a saldo. Quando il prestito è a cifra fissa, non si possono ricevere subito versamenti a saldo, perché è ignota, ripeto, la quantità di titoli assegnata ad ogni sottoscrittore.

 

 

Come si faceva ad accettare, nel gennaio scorso, 970 lire a saldo di 1.000 nominali da Tizio, quando poteva darsi che a lui fossero assegnate solo 800 o 700 nominali? Perciò si poterono solo accettare allora degli acconti a caparra, obbligando coloro, che avevano i denari pronti, a ritornare una seconda volta per versare il saldo, restituire la ricevuta provvisoria e ritirare il certificato provvisorio, da cambiare poi col titolo definitivo.

 

 

Stavolta l’inconveniente è tolto. Chi vuole, versa subito tutta la somma di 93 o 930 o 9300 od altra qualsiasi multipla di 93 o 95 e riceve subito il certificato provvisorio liberato. Egli non avrà da ritornare che una volta sola, probabilmente già a partire dal settembre, per cambiare il certificato provvisorio col titolo definitivo.

 

 

Anzi, per coloro che fanno il versamento a saldo subito, si è ordinata un’altra agevolezza importantissima. A molti, per svariatissimi motivi, non piace far sapere a nessuno e neppure alla Banca d’Italia ed al ministero del tesoro i fatti propri; non piace far sapere che si è sottoscritta una somma di 1.000 o di 100.000 lire. Costoro, presentandosi dal 1° all’11 luglio allo sportello dei versamenti della Banca d’Italia con le 93.000 lire contanti (ed in questo caso altresì con le 100.000 lire nominali di obbligazioni del primo prestito da fare stampigliare, per ottenere la agevolezza delle 93 invece delle 95 lire) potranno chiedere un certificato provvisorio al portatore. Questi certificati si stanno già preparando e saranno di cifre fisse di 1.000 e 10.000 lire, ovvero colla cifra da riempirsi dal cassiere in inchiostro al momento della consegna. Porteranno la firma del direttore della sede e del cassiere della Banca d’Italia e daranno diritto a ricevere, a suo tempo, i titoli definitivi. Chi non vorrà andare personalmente, potrà mandare il commesso, l’agente di cambio, il banchiere. Chi abita in un piccolo paese potrà incaricare una persona od una banca o cassa di fiducia di acquistare per conto suo un determinato numero di questi certificati provvisori al portatore. Contro presentazione di essi, saranno senza formalità rilasciati i titoli definitivi. Maggiore rapidità e maggiore assenza di formalità sarebbe stato difficile desiderare.

 

 

Chi, per sue diverse ragioni, pur pagando subito tutto, non desideri invece il certificato provvisorio al portatore, non avrà che da astenersi dall’esprimere questo desiderio e riceverà il certificato provvisorio nominativo.

 

 

Nel suo congegno pratico, il presente secondo prestito nazionale si presenta dunque più agile e snello del primo; e, anche sotto questo aspetto, merita ancor più largo favore presso il pubblico dei risparmiatori.

 

 

IV

La lettera che la Manifattura Festi-Rasini ha indirizzato alla presidenza dell’Istituto cotoniero italiano a proposito del prestito nazionale è un vero modello di logica e di buon senso. Che una larga sottoscrizione al prestito fosse un interesse diretto e vivo degli italiani, si era cercato di dimostrare qui, sotto i più vari aspetti; che sovratutto il prestito fosse il mezzo più sicuro di tener lontano quel vero flagello di Dio che è l’emissione sovrabbondante della carta-moneta era un punto su cui si era insistito moltissimo. Ma è utilissimo che di questa verità siano persuasi gli industriali medesimi e questi veggano come essi siano direttamente e personalmente interessati al buon successo del prestito. Né sono interessati soltanto gli industriali, ché anzi i danni più gravi di una insufficiente copertura del prestito sarebbero risentiti dalle masse lavoratrici, dagli impiegati a stipendio fisso, dai redditieri, i quali hanno investito i loro capitali in rendite di stato, in cartelle fondiarie, in obbligazioni a reddito fisso, dai professionisti, ecc. ecc. Tutti costoro, se non vogliono vedere sostanzialmente diminuiti i loro redditi, devono fare ogni sforzo perché il successo arrida al prestito.

 

 

La dimostrazione che fu data infinite volte, è notissima ai principianti della scienza economica; ma non è inutile ripeterla ancora una volta.

 

 

Che, invece dell’oro, si usi carta-moneta per provvedere ai negozi ordinari della vita, ai pagamenti interni, è indifferente e può essere utile. L’oro è ingombrante, è pesante, è soggetto a logorio coll’uso, costa a trasportare e ad assicurare; mentre la carta-moneta è comoda, maneggevole, pochissimo costosa, facile a trasportare e ad assicurare. Si aggiunga che, se in un paese occorrono 2 miliardi di moneta d’oro per far fronte ai bisogni della circolazione, basta forse 1 miliardo come riserva metallica, chiuso nei forzieri della banca, per garantire una circolazione di 2 miliardi di carta-moneta; sicché, usando questa, si ottiene il vantaggio importantissimo di risparmiare la metà dell’oro che prima era necessario. Il paese, il quale prima aveva impiegato 2 miliardi del suo capitale per procurarsi altrettanto oro e fabbricarne monete, adesso potrà contentarsi di impiegare in oro 1 miliardo, depositare questo nelle cantine della banca ed emettere, sulla sua garanzia, 2 miliardi di carta-moneta. Il restante miliardo risparmiato potrà essere impiegato in case, macchine, scorte di magazzino, ecc., ossia in cose utili agli uomini.

 

 

Quella della carta-moneta fu quindi una delle maggiori invenzioni tecniche che mai si siano compiute; precisamente equivalente a quella di una macchina, la quale riesca con metà sforzo (costo di 1 miliardo di oro) ad ottenere lo stesso risultato che prima si otteneva con sforzo doppio (costo di 2 miliardi d’oro).

 

 

Ma si dice acqua e non tempesta. Finché lo stato – o la banca o le banche di emissione, che si possono considerare come un tutt’uno con lo stato – si contentano di emettere 2 miliardi di carta al posto dei 2 miliardi di oro che prima erano in circolazione, dal cambio il paese non può ricavare altro che benefici. Ma se lo stato è costretto nient’altro che la dura necessità può indurre uno stato a seguire tal via – ad aumentare la quantità della carta-moneta circolante a 3 od a 4 miliardi di lire, le cose cambiano.

 

 

Ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta-moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrarre prestiti onerosi al 4,50 o 5%, quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

Se tuttavia i governanti dei paesi moderni fanno ogni sforzo per emettere prestiti e per limitare le emissioni della carta-moneta, ciò accade perché l’esperienza delle guerre passate ha dimostrato come i prestiti onerosi siano di gran lunga meno costosi delle emissioni gratuite di carta-moneta.

 

 

Il peso dei prestiti pubblici a che cosa si limita? Agli interessi annui. Se uno stato emette un prestito di 1 miliardo al 4,50%, sono 45 milioni all’anno di maggiori interessi che lo stato deve pagare e di maggiori imposte che quindi i contribuenti debbono versare allo stato. È un onere; ma che finisce e si limita a 45 milioni all’anno. Pagati questi, tutto è finito.

 

 

Se invece lo stato ricorre al metodo apparentemente gratuito della carta-moneta, i danni per la nazione sono assai più gravi. Lo stato in un primo momento risparmia 45 milioni di lire all’anno di interessi; ma a qual prezzo per la collettività?

 

 

L’esperienza si è incaricata di dircelo. La carta-moneta è una merce come tutte le altre. Nessun ordine governativo, nessuna legge, nessuna minaccia può impedire che essa segua la sorte di tutte le merci, che è di deprezzare quando esse diventano abbondanti. Il governo del terrore ci si provò durante la rivoluzione francese; ma né le multe enormi, né il carcere e neppure la ghigliottina poterono frenare il fatale ribasso di pregio degli assegnati, che il governo ogni notte faceva stampare in quantità crescenti per provvedere alle spese dell’indomani. Se ne stamparono per 46 miliardi di franchi, fino ad ottenere il bel risultato che nessuno si degnava nemmeno di fare lo sforzo di raccattare i biglietti da mille perduti per la via dai viandanti. Tanto essi erano deprezzati!

 

 

Naturalmente, il deprezzamento è in proporzione alla sovrabbondanza; ma è certo che quanto più abbondano, tanto meno i biglietti valgono. Altre cause contribuiscono, in un paese dove i biglietti sono sovrabbondanti, ad esacerbare il ribasso ed a fare oscillare l’aggio. Ma se il marco-carta tedesco perde su Nuova York il 15%; se il franco-carta francese perde l’8%; mentre la lira sterlina perde solo il 2%, la causa fondamentale sta nelle emissioni larghe di carta-moneta in Germania ed in Francia e nella modestia delle emissioni in Inghilterra; sicché la perdita inglese nel cambio si può dire esclusivamente dovuta a ragioni di sbilancio commerciale e di maggiori spese di spedizione ed assicurazione attraverso l’Atlantico; mentre le ben maggiori perdite tedesche e francesi si spiegano in massima parte con il rinvilio della carta-moneta divenuta abbondante.

 

 

Si comprende che il rinvilio della carta-moneta deve assumere una forma diversa da quella del rinvilio delle altre merci. Si dice che il frumento ribassa quando da 40 lire discende a 30 od a 25 lire; ma si dice che la moneta ribassa quando il prezzo del frumento sale da 25 a 30 od a 40 lire o quando il prezzo dell’oro sale dalla parità di 100 lire oro per ogni 100 lire carta al rapporto di 100 lire – oro per ogni 102, 105 o 110 lire-carta. Siccome il nome «lira» non varia, ciò che varia è il numero delle lire-carta che si devono dare per avere oro, o frumento, o cotone greggio, o panni od altre merci qualunque.

 

 

Se tutti i prezzi variassero contemporaneamente, il rinvilio della carta-moneta produrrebbe piccoli inconvenienti. L’industriale, il quale deve pagare il cotone greggio aumentato del 10% d’aggio sulla carta contro il dollaro americano, venderebbe i filati od i tessuti aumentati del 10% ai consumatori nazionali; l’operaio, il quale deve pagare le cose necessarie all’esistenza rincarate del 10%, otterrebbe l’aumento dei salari da 5 a 5,50 al giorno; l’impiegato passerebbe da 100 a 110 lire di stipendio. Tutti i prezzi sarebbero spinti all’insù; tutti ragionerebbero di redditi e di ricchezze in cifre più grosse; ma, come accade in una folla quando tutti si alzano in punta di piedi, o come in Brasile, dove per acquistare gli oggetti più minuti fa d’uopo spendere migliaia di reis, tutti si troverebbero allo stesso punto di prima.

 

 

Disgraziatamente, gli affari di questo mondo non vanno così lisci. Vi sono Prezzi, i quali aumentano subito, al di là persino del necessario, in conseguenza del rinvilio della moneta; altri aumentano più lentamente ed altri infine non aumentano affatto. Di qui una serie di scompigli e di danni gravissimi.

 

 

L’industriale cotoniero deve pagare subito il cotone greggio più caro, perché gli americani vogliono essere pagati in bei dollari e non si impacciano delle lire italiane. Ma è egli sicuro di vendere i filati ed i tessuti ad un prezzo corrispondentemente maggiore? Oggi forse sì; ma per cause indipendenti dall’aggio, essendo cresciuta la richiesta per le forniture governative; sicché avrebbe probabilmente ottenuto gli stessi prezzi anche se non avesse dovuto subire il danno dell’aggio. Ma, tornata la pace, cessate le eccezionali domande del governo e fermo l’aggio, a causa della stazionaria abbondanza di carta – moneta, come farà il cotoniero a sostenere i prezzi dei filati e dei tessuti? Sarà forse cresciuta la domanda del mercato interno; o non vi è pericolo che sia diminuita?

 

 

L’esperienza insegna che, dopo nato l’aggio, crescono subito i prezzi di tutte le merci che noi dobbiamo acquistare dall’estero – cotone, lana, frumento, ferri e prodotti siderurgici ecc. ecc. – e delle merci similari nazionali; ed i prezzi delle altre crescono più lentamente. Ogni industriale può da sé fare i conti e vedere come nella grande maggioranza dei casi egli corre rischio di essere danneggiato dall’aggio.

 

 

Peggio stanno altre categorie di persone. Il risparmiatore, il redditiere che ha investito il suo patrimonio in rendita di stato, in cartelle fondiarie, in obbligazioni che gli fruttano 3,50 lire per ogni 100 nominali, acquistava prima, con quelle 3,50 od un multiplo di esse, una certa quantità di pane, di carne, di vino, di vestiti. Svilita la carta-moneta, egli riscuoterà bensì le sue solite 3,50 lire; ma ben presto si accorge che le sue 3,50 lo portano meno lontano: le porzioni di cose che egli può acquistare sono divenute più piccole.

 

 

L’impiegato, che ha 100 o 500 lire di stipendio mensile, vede rincarare anch’egli il prezzo delle cose necessarie; più o meno, a seconda dei casi, ma in media abbastanza. Rimarrà fisso il fitto di casa, se egli ha in corso un contratto, ma gli alimenti saranno assai più cari. Andrà egli dal principale o dal comune o dallo stato a chiedere un aumento di stipendio a 110 o 550 lire? Non è questo in moltissimi casi il momento più opportuno: comuni, stato, opere pie, industriali hanno da pensare ad altro che ad aumentare stipendi.

 

 

La stessa cosa si dica del professionista, avvocato, medico, ingegnere, ragioniere, perito. Aumentare le parcelle, proprio nel momento in cui i clienti si diradano non è buon consiglio. Conviene rassegnarsi e subire le conseguenze del rinvilio della carta-moneta.

 

 

Infine gli operai. Possono, momentaneamente e finché dura la guerra, crescere i salari nelle industrie occupate a soddisfare i nuovi bisogni pubblici. Ma sarebbero cresciuti lo stesso, anche senza il rinvilio della moneta ed il conseguente aggio; e gli operai avrebbero avuto il vantaggio di essere pagati in moneta buona. Invece, quando la moneta rinvilisce, l’operaio talvolta guadagna di più; ma l’aumento non gli reca alcun beneficio, ché esso è assorbito dal maggior costo della vita. Spesso, inoltre, l’operaio non riesce ad ottenere alcun aumento di salario; e le 5 lire di carta-moneta che egli continua a ricevere comprano solo tanta roba, quanta prima si poteva acquistare con 4,50 lire.

 

 

Finita la guerra, si potrà dire che il risultato generale non muterà; per una ragione che dirò per ultima e che rischiara forse il danno più rilevante dell’aggio. Ritornati invero i tempi normali, si dovrebbero ristabilire i rapporti internazionali commerciali. Sarebbe anzi utile che si intensificassero con i paesi alleati, Inghilterra e Francia e con quelli neutrali, Stati uniti ed America meridionale. Ma, come raggiungere lo scopo, con questa malaugurata trincea dell’aggio che rende costosi i passaggi di merci e di capitali? Potrebbe essere che all’Italia convenisse assumere a mutuo qualche centinaio di milioni all’estero, beninteso senza obbligarci a nulla fuorché pagare i pattuiti interessi, per dare impulso a qualche promettente industria. Come potremo far ciò, se i capitalisti temeranno di vedersi svalutato il loro capitale, all’atto del rimborso, a causa dell’aggio oscillante? Lo stesso si dica per le più rapide transazioni commerciali: l’esistenza dell’aggio e più la sua variabilità sono un ostacolo o, meglio, una cagione di maggior costo per le più proficue transazioni commerciali.

 

 

Quindi è evidente che l’aggio riduce la massa degli affari, le occasioni di guadagno e di impiego di capitali; quindi diminuisce la richiesta di mano d’opera da parte degli industriali; quindi ancora tende a ridurre i salari degli operai. Con una moneta svilita, gli operai, gli impiegati, i professionisti, gli industriali lucrano minor quantità di moneta e con quella minor quantità si acquista una ancor minore quantità di roba.

 

 

Eppure, in tempo di guerra, i governi sono dalla necessità, che non vuol legge, costretti a stampare ed emettere quantità enormi di biglietti e quindi sono costretti, contro voglia, a recare ai cittadini tutti i gravi danni che ho sopra elencati.

 

 

L’unico mezzo che i governi hanno di astenersi dall’emettere troppa carta-moneta è di emettere prestiti. Ma ai governi è solo dato di offrire le cartelle dei prestiti ai cittadini, additando loro così la via della salvezza. Spetta ai cittadini accogliere la via e salvarsi sottoscrivendo largamente al prestito.

 

 

Gli industriali, i quali non vogliono perdere ora sull’aggio e vogliono, finita la guerra, evitare il rischio di una crisi di domanda dei loro prodotti, i commercianti interessati al fiorire dei traffici internazionali, gli armatori, che amano la marina mercantile italiana gli impiegati, i professionisti, gli operai, i creditori dello stato, possessori di cartelle e di obbligazioni, che non vogliono vedersi volatilizzare tra le mani le loro lire di reddito, di salario e di onorario; tutti costoro, se vogliono tenere lontano da sé e dall’Italia quel flagello di Dio che è l’aggio alto e l’aggio oscillante, ad un solo mezzo possono ricorrere: sottoscrivere fino al massimo possibile al prestito nazionale. Il dilemma è chiaro: o lo stato ottiene i mezzi della condotta della guerra dal libero consenso dei cittadini sottoscriventi al prestito, o dovrà procurarseli stampando biglietti a corso forzoso. Potrà anche ricorrere a prestiti forzosi o ad imposte di guerra. Ma né i prestiti forzosi, né le imposte di guerra, né i biglietti sovrabbondanti possono essere attraenti per nessuno. Sicché parmi essere oramai dimostrato che non solo l’amor del paese, ma l’interesse diretto positivo di fare un buon impiego e negativo di evitare danni gravi e personali debbono spingere tutte le classi sociali a collaborare alla riuscita della grande impresa del prestito nazionale.

 

 

V

Il terzo prestito

Il nuovo prestito nazionale, che il governo annuncia, avrà sicuramente una lieta accoglienza dai risparmiatori italiani. I quali per ben due volte hanno compreso l’appello patriottico ad essi rivolto da chi regge le sorti d’Italia nello storico momento attuale e non lasceranno certo inascoltata la terza chiamata a raccolta delle armi finanziarie che il paese può mettere in campo per la difesa dell’italianità e per la conquista dei nostri confini naturali. Non è ancora spenta l’eco solenne del successo di quello che in Francia fu chiamato il prestito della vittoria. Entro i limiti della nostra minore potenzialità finanziaria, il prestito italiano deve avere un successo egualmente alto e solenne. Esso deve significare che gli italiani sono ben decisi a condurre la lotta per la liberazione della italianità e per la difesa contro l’egemonia tedesca, sottoponendosi a tutti i sacrifici necessari. Già hanno dimostrato di essere pronti al sacrificio, quando senza mormorare hanno accolto l’annuncio dell’obbligo di pagare più di 300 milioni di lire di imposte aventi carattere permanente, oltre a poco meno di altri 100 milioni di imposte con carattere eccezionale.

 

 

Il coraggio del governo nell’imporre e la tranquillità degli italiani nell’accogliere, con alto sentimento del dovere, l’annuncio dei nuovi tributi costituiscono un saldo piedestallo al nuovo prestito, quale soltanto forse l’Inghilterra può orgogliosamente affermare di avere costruito più saldo. Nessun altro tra i paesi belligeranti può vantarsi di avere apparecchiato prima i mezzi tributari opportuni per fare il servizio degli interessi del prestito; neppure la Russia, alla quale non si può disconoscere il merito grande di avere dovuto applicare nuove imposte per riparare al disavanzo cagionato dalla abolizione della vendita delle bevande alcooliche.

 

 

Questo merito grande italiano non è rimasto ignoto all’estero. Ancora di recente l’«Economist», il grande giornale della City di Londra, scriveva che

 

 

quando l’appello per un nuovo prestito nazionale sarà lanciato in Italia, i sottoscrittori verranno in numero ancor più grande che nel luglio scorso; perché essi sanno: 1) che il governo è deciso ad attenersi alla più rigida economia nell’amministrazione del pubblico denaro (decreto del 18 novembre scorso); e 2) che esso destina il ricavo delle nuove imposte al servizio dei nuovi prestiti. Questo è un programma sincero e retto, veramente rassicurante per i creditori dello stato.

 

 

Nessuna migliore prefazione, fa d’uopo rilevare con insistenza, poteva invero il governo italiano fare al nuovo prestito. I risparmiatori ed i capitalisti italiani, i quali accorreranno a sottoscrivere, sono sicuri che già esistono i fondi annui con cui provvedere al pagamento degli interessi promessi dall’erario. Se anche il successo del nuovo prestito fosse, come è augurabile, di gran lunga superiore a quello dei due prestiti precedenti, già sarebbero pronte le imposte necessarie a pagare gli interessi pattuiti. Se lo scopo è santo, se la sicurezza è salda, le condizioni del prestito sono veramente attraenti. Non mi tratterrò sulle modalità che l’emissione presente ha comuni colle due precedenti. Cercherò di mettere in luce i punti per cui il terzo prestito si differenzia dal primo e dal secondo.

 

 

Innanzi tutto è diverso il saggio dell’interesse: il 5% invece del 4,50%. Il saggio antico, tradizionale, rotondo dei vecchi prestiti, con cui si fece l’Italia unita, ritorna in onore. In avvenire si potrà dire che, come la rendita 5% diede i mezzi necessari alla formazione dell’Italia, il prestito nazionale 5% avrà fornito i denari necessari alla guerra per la definitiva liberazione del territorio patrio. Il risparmiatore accoglierà certo con favore un saggio di interesse che senz’essere usuraio, risponde alle nuove esigenze del mercato. È vero che anche il prestito 4% del luglio scorso fruttava, tenendo conto del premio al rimborso, poco meno del 5%; ma è anche vero che il pubblico dei risparmiatori non ama fare conti, non sempre accessibili a tutti, e preferisce che l’interesse promesso gli sia pagato senz’altro sotto forma ed a titolo di interesse puro e semplice. Il sotto scrittore sa che egli, acquistando il titolo nuovo, avrà diritto di ricevere ogni anno cinque lire di interesse, da lui intieramente consumabili, senza intaccare menomamente il capitale.

 

 

Egli d’altro canto non può trascurare un’altra circostanza: che egli lucra l’interesse di 5 lire nette mediante il versamento di sole lire 97,50; cosicché il reddito vero sul versato è di circa il 5,13%. Né qui si ferma il vero reddito: poiché al momento del rimborso, il quale non può venir prima del primo gennaio 1926, né dopo il primo gennaio 1941, lo stato gli dovrà rimborsare 100 lire invece delle 97,50 da lui versate, con un premio di lire 2,50. Tenendo conto del premio di lire 2,50 e distribuendolo sui 10-25 anni di durata del prestito, il reddito aumenta di circa altri 6 centesimi, giungendo in tutto al 5,19% netto. Un frutto cosiffatto, in Italia, da un titolo di stato di prim’ordine, eguale in tutto alla rendita e sotto parecchi rispetti intrinseci migliore della rendita, da lunghissimo tempo era impossibile ad aversi.

 

 

Passo sopra alle modalità della durata, dell’ammortamento, della rateazione dei pagamenti, dell’esenzione da qualunque imposta presente e futura, ecc. ecc., che si riscontravano già nei prestiti precedenti e mi trattengo su due novità: la facilità delle sottoscrizioni e la consegna dei titoli. Fu lamentato, nelle passate sottoscrizioni, da molti, anche fra i lettori del «Corriere», che non si accettassero sottoscrizioni presso gli uffici postali, diffusissimi in tutto il regno, accessibilissimi a tutti, comodi per i pagamenti nei piccoli comuni e nelle campagne. A questo quasi universale desiderio ha data soddisfazione il decreto odierno: gli uffici postali sono ammessi a ricevere sottoscrizioni. È da augurarsi che le istruzioni e gli incoraggiamenti pecuniari agli ufficiali postali siano tali da facilitare in ogni modo la grande impresa della sottoscrizione. Nelle campagne vi è un terreno vergine da sfruttare. In molte contrade rurali d’Italia le disponibilità si sono accumulate in un’annata contraddistinta bensì da cattivi raccolti, ma altresì da prezzi alti. E non dovrebbe essere impossibile accaparrare per il prestito una parte di queste disponibilità.

 

 

Era desiderio di molti risparmiatori di vedere diminuite al minimo la formalità della sottoscrizione; e già la volta precedente il governo aveva cercato di andare incontro a questi desideri dando ricevute provvisorie al portatore. Ma il mezzo escogitato non impediva che il sottoscrittore dovesse parecchie volte ritornare agli sportelli del prestito: una prima volta per sottoscrivere, una seconda per cambiare la ricevuta del versamento col certificato provvisorio; ed una terza per cambiare il certificato provvisorio con il titolo definitivo.

 

 

Oggi, con intuizione felice dei gusti del pubblico, tutto ciò, per chi lo voglia, non ha più ragion d’essere. Colui il quale farà il versamento immediato dell’importo totale della sottoscrizione riceverà senz’altro il titolo definitivo, al portatore. Nessuna noia, nessun obbligo di ritornare. Si presentano i denari e si ritira il titolo definitivo al portatore. Non fa d’uopo farsi conoscere: e, versato il denaro, il sottoscrittore se ne va col suo titolo definitivo nel portafoglio; senza alcun fastidio di ritornare, cambiare, attendere, farsi conoscere.

 

 

Naturalmente il titolo definitivo al portatore può solo essere dato a coloro che faranno il versamento immediato e totale dell’importo sottoscritto. Agli altri, che verseranno a rate, sarà fornito il certificato provvisorio, il quale potrà essere cambiato in qualunque momento nel titolo definitivo al portatore, quando essi completino il dovuto pagamento.

 

 

Qualche osservazione può ancora farsi rispetto a due punti nuovi, l’uno che si potrebbe dire di novità necessaria e l’altro di novità volontaria da parte dello stato.

 

 

La novità «necessaria» è l’opzione riconosciuta ai portatori del secondo prestito nazionale del luglio scorso, in conformità dell’articolo 4 del regio decreto 15 giugno 1915. Diceva quell’articolo 4 che, se entro il 1916 il governo avesse emesso un nuovo prestito a condizioni più favorevoli del 4,50%, queste medesime condizioni sarebbero senz’altro estese al prestito allora emesso.

 

 

Ed ora il governo mantiene la parola data. Il portatore del titolo 4,50% del luglio ha il diritto di cambiare, senza obbligo di sottoscrivere la benché minima somma al nuovo prestito, il suo 4,50 nel nuovo 5%. Nessuno, io immagino, dei vecchi sottoscrittori vorrà perdere la propizia occasione per aumentare del 0,50% il proprio reddito. Naturalmente, occorrerà pagare un piccolo conguaglio. Il vecchio titolo 4,50% era stato pagato 95 lire – anzi 93 lire sole da coloro che avevano esercitata l’opzione riservata ai portatori di titoli del primo 4,50% del gennaio: ma da ciò si deve fare astrazione, perché anche essi avevano ottenuto il loro titolo ad una media di 95 lire, fra il 97 di prima ed il 93 di dopo – ; mentre oggi il 5% costa 97,50 lire. Giustizia vuole, affinché i sottoscrittori del prestito del luglio scorso non ricevano a 95 lire ciò che i nuovi d’adesso pagherebbero 97,50, che ai primi sia chiesto un conguaglio di 2,50 lire. Ciò è pura giustizia, perché ad essi erano state promesse le stesse condizioni dei prestiti futuri: non condizioni più favorevoli. Ma chi non vorrà pagare per una volta tanto lire 2,50 pur di assicurarsi un maggior reddito annuo di lire 0,50?

 

 

La seconda novità, «volontaria» quest’ultima da parte del governo, è l’annuncio che saranno accettati come denaro contante:

 

 

  • in pagamento delle obbligazioni sottoscritte e fino a concorrenza del relativo importo, i buoni del tesoro ordinari all’intiero loro valore nominale, ossia al 100%, salvo lo sconto degli interessi al 4,50%. Ottimo proposito, il quale potrà trasformare una parte dei 518 milioni di buoni del tesoro ordinari a scadenza di 3, 6, 9 e 12 mesi, in circolazione al 30 novembre 1915, in un prestito permanente. Ottimo, perché libera il governo dall’impegno e dalla preoccupazione di rimborsare vistose somme a breve scadenza; ed ottimo anche perché, diminuendo la massa dei buoni del tesoro già emessi, metterà in grado il governo di servirsi in seguito nuovamente di questo mezzo di far denaro, senza il timore di crescere troppo i debiti a brevissima scadenza. Si intende che i portatori di buoni ordinari del tesoro hanno la facoltà, non l’obbligo, di versarli come denaro contante nella prossima sottoscrizione;
  • in pagamento delle somme versate all’atto della sottoscrizione e fino a concorrenza della metà della somma sottoscritta, i buoni quinquennali del tesoro 4%, con scadenza negli anni 1917 e 1918. I buoni scadenti nel 1917 ammontano a 330.990.000 lire, quelli con scadenza nel 1918 a 400 milioni; in tutto 731 milioni in cifra tonda. Per ora rimangono esclusi dal beneficio della conversione i buoni emessi nel 1914 con scadenza nel 1919, per l’ammontare di 502 milioni di lire.

 

 

I buoni 1917 saranno accettati al prezzo di 99 lire; ed i buoni 1918 al prezzo di lire 97,80, prezzi amendue superiori a quelli correnti. È indubitato il vantaggio che hanno i portatori dei buoni nel giovarsi della opzione liberalmente largita loro dallo stato. Guadagnano in capitale, perché i loro titoli sono conteggiati a lire 99 e 97,80, mentre pagano il nuovo solo 97,50. Guadagnano in interessi, perché sostituiscono un reddito del 5% al vecchio reddito del 4%. È naturale però che, per concedere siffatto vistoso beneficio, il governo richiegga loro un versamento in denaro contante corrispondente alla metà della loro sottoscrizione. Anche di questa offerta è augurabile e probabile abbiano a giovarsi molti portatori che avevano comprato buoni quinquennali a titolo di investimento permanente e che fin d’ora si preoccupavano per sapere in qual modo avrebbero investiti, alla scadenza, i loro risparmi. Oggi viene offerto, a buonissime condizioni, un investimento al 5% con guadagno sul valore capitale. Accogliendo l’invito, essi non solo faranno un buon affare a proprio vantaggio, ma rinsangueranno altresì il tesoro con nuovo denaro, con denaro fresco, come dicono i nostri alleati di oltr’Alpe.

 

 

Ancora una volta fa d’uopo ripetere l’incitamento che fu già dato da queste colonne in occasione dei prestiti precedenti: un’ottima operazione economica, ed un’opera patriottica. Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non avere compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria?

 

 

Non minore sarà lo sforzo che dovrà essere compiuto da ognuno che in Italia abbia autorità morale, goda di influenza politica, o goda di virtù persuasiva sui suoi concittadini. Questa è l’ora in cui ogni dubbiezza deve essere sormontata, in cui coloro che hanno studiato in modo particolare i problemi finanziari e gli altri che in altri modi partecipano alla vita pubblica devono collaborare attivamente al successo della terza prova del credito nazionale. Consigliare ad elettori, ad amici, a dipendenti, a lettori l’acquisto di obbligazioni del prestito nazionale è opera patriottica, perché è consiglio:

  • di fare economie e risparmi, in un momento in cui ogni spesa superflua è dannosa ed è quasi un delitto contro la patria;
  • di formarsi un reddito per gli anni venturi, quando gli uomini d’oggi e le generazioni venture avranno appunto bisogno di risparmi formati per sormontare il costo della liquidazione della guerra;
  • di fornire fondi allo stato, affinché questo possa evitare di emettere biglietti e possa quindi contrastare efficacemente l’ascesa del cambio, che tanto rincara il costo della vita;
  • di dare all’erario ciò di cui lo stato ha bisogno per la condotta della guerra.

 

 

L’unica maniera di non pagare quella indennità di guerra su cui il dott. Hellferich ancora ieri insisteva superbamente e quei maggiori tributi che ne sarebbero la conseguenza è, per gli alleati della quadruplice, la resistenza vittoriosa al nemico. Per resistere, insieme coi saldi cuori dei nostri soldati, fan d’uopo i mezzi materiali. Questi li dobbiamo dar noi, accorrendo, con entusiasmo, a recare il maggior contributo possibile al prestito nazionale.

 

 

VI

Una domanda la quale viene spesso fatta a proposito di questo, come dei precedenti due prestiti nazionali, è la seguente: perché il governo non ha emesso rendita perpetua, tipo 3,50% ovvero tipo 5%? Il pubblico, si osserva, è siffattamente abituato alla rendita perpetua, che ne avrebbe assorbito ingenti quantità senza che il mercato quasi se ne risentisse. La carta azzurra della rendita anche questi piccoli fatti esteriori hanno la loro importanza – è così gradita e consueta all’occhio del risparmiatore che questi quasi considera come un titolo di second’ordine, un titolo cadetto quello che non porta lo stesso colore. Lo stato avrebbe fatto inoltre un buon affare, perché avrebbe potuto emettere rendita 3,50% se non proprio ai prezzi di 85 di qualche settimana fa, forse a circa 80 lire. Ossia, pagando 3,50 su 80 si sarebbe caricato di un interesse del 4,40% circa, in confronto del 5,13% che paga sul nuovo prestito.

 

 

Queste le considerazioni che taluni fanno a favore di una emissione 3,50%; e ad esse non si può non riconoscere un peso non lieve. Ma d’altro canto non occorre dimenticare le ragioni non meno gravi le quali militavano contro l’emissione di una rendita 3,50% e favorivano l’adozione di un tipo 5%. L’intrattenerci su queste obiezioni non è inopportuno neppure oggi che è chiuso il primo periodo della sottoscrizione. Ancora per tutto il mese di febbraio i volonterosi possono accorrere a fornire i loro capitali allo stato; e specialmente nelle campagne e nei piccoli borghi, più tradizionali ed attaccati alle vecchie abitudini, fa d’uopo dimostrare la superiorità del nuovo titolo sulla vecchia rendita.

 

 

In primo luogo, è vero che lo stato si sarebbe caricato solo di un interesse di 3,50 lire su 80 ossia del 4,40%. Ma si sarebbe riconosciuto pur sempre debitore di un capitale di 100 lire. E quindi, oltre all’interesse del 4,40% sul capitale ricevuto, lo stato, nell’eventualità della restituzione, avrebbe dovuto rimborsare 20 lire in più delle ricevute; il che avrebbe aumentato notevolmente l’effettivo saggio dell’interesse. È vero che lo stato non avrebbe dovuto preoccuparsi della restituzione del capitale, trattandosi di una rendita perpetua. Ma il danno per lui avrebbe preso la forma di una molto maggiore difficoltà di conversione in avvenire della rendita oggi emessa ad un saggio più basso di interesse.

 

 

Se oggi si emette rendita a 3,50%, bisogna attendere che il saggio dell’interesse sul mercato sia ribassato almeno al 3% prima di porre, ad imitazione di quel che si fece nel 1906, ai portatori il dilemma: o voi vi contentate del 3%, ovvero io, stato, vi rimborso le 100 lire mutuatemi. Ora, nulla fa prevedere oggi quando il saggio dell’interesse dalle attuali altezze del 5% e più sarà disceso al 3%. Forse dovranno passare parecchie generazioni prima che cotal fatto bene augurante abbia a verificarsi. La tendenza al rialzo esisteva già prima della guerra e questa l’ha inacerbita grandemente.

 

 

Invece ben potrà darsi – sebbene non sia cosa certa – che fra 10 anni il saggio dell’interesse sul mercato siasi ridotto al 4,50%. Ed allora – dopo il 1° gennaio 1926, ché prima il governo non può, a termini del decreto di emissione, rimborsare nulla – il governo avrebbe il diritto di fare ai portatori dell’attuale prestito la proposta: o voi consentite a ricevere solo il 4,50%, ovvero io vi rimborso le 100 lire che mi avete mutuato. Badisi che il governo non potrà costringere i portatori alla riduzione; ma potrà solo rimborsare loro il capitale, ove essi volontariamente non consentano alla riduzione. È possibile così che, passati 10 anni, lo stato, grazie alla conversione, venga a pagare solo il 4,50%, ossia all’incirca quanto pagherebbe emettendo rendita 3,50%. Con questo vantaggio in più, che se dopo il 1926 le condizioni del mercato miglioreranno ancor più, lo stato potrà – sempre col consenso volontario dei portatori, i quali, non consentendo, potranno chiedere il rimborso delle intiere 100 lire mutuate allo stato – convertire successivamente il prestito al 4 e forse al 3,50%. Passeranno molti anni prima che ciò accada; ed i portatori possono perciò dormire i loro sonni tranquilli. Ma certamente lo stato potrà in avvenire giovarsi più facilmente dell’arma delle conversioni libere con un tipo 5% che con un tipo 3,50%.

 

 

Non v’è dunque nessun dubbio che lo stato non aveva convenienza ad emettere un 3,50% nel presente momento. Assai meglio un 5%. Sta bene – mi sento dire. Ammettiamo pure che sia più opportuno emettere un tipo 5%. In tal caso perché non si è emessa una rendita 5%, invece di un prestito 5% rimborsabile fra 10-25 anni?

 

 

La ragione è chiara. A parità di interesse 5%, l’unico argomento in favore della rendita è l’abitudine. Tutti gli altri argomenti sono in favore del prestito.

 

 

Notisi innanzi tutto che rendita e prestito sono la stessissima e precisa cosa. Sono amendue un titolo di riconoscimento di un debito dello stato. In materia di debiti pubblici, non vi sono debiti primogeniti e debiti cadetti, della mano destra e della mano sinistra. Sono tutti debiti dello stato e corrono tutti le medesime sorti, hanno cioè tutti la medesima sicurezza e le medesime garanzie. A proposito dell’attuale prestito, il decreto istitutivo ha esplicitamente riconosciuto ai suoi portatori i medesimi privilegi, quanto ad esenzione da imposte e tasse presenti e future, a diritto di deposito per cauzioni, ecc., di cui gode la rendita.

 

 

Che cosa rimane dunque a favore della rendita? Due abitudini: del colore azzurro, la quale non ha manifestamente alcuna importanza; e del nome di rendita perpetua. Questa seconda è l’unica differenza sostanziale: ma è a favore del prestito.

 

 

Che cosa vuol dire invero rendita perpetua? Molti portatori hanno l’illusione che il nome «rendita perpetua» voglia significare sul serio che lo stato si sia obbligato a pagare in perpetuo 3,50 ovvero 5 lire di interesse ed a non restituire mai il capitale. Niente di tutto ciò. La sola persona a cui il vocabolo perpetuo si attagli bene è il portatore del titolo. Egli non può mai chiedere il rimborso del capitale mutuato e non ha mai il diritto di chiedere un aumento dell’interesse primitivamente pattuito. Perciò la rendita dicesi «perpetua». Quanto allo stato, nessun vincolo di questo genere esiste. Ad esempio, per la rendita perpetua 3,50%, lo stato ha il diritto, a partire dal 1920, di rimborsare in qualunque momento, a suo arbitrio, il capitale ed ha sempre quindi il diritto di porre il dilemma: o voi vi contentate di un interesse minore, ovvero io vi rimborso il capitale. La perpetuità dunque non esiste affatto, nel caso della rendita così detta perpetua; e se esiste, è una perpetuità zoppa, la quale vincola il portatore non mai lo stato.

 

 

Come un titolo così stravagantemente contrario ad ogni interesse dei capitalisti e dei risparmiatori sia potuto entrare nelle loro buone grazie non si capisce. È la pura forza dell’abitudine quella che può spiegare il fatto curioso.

 

 

Se si fa astrazione dall’abitudine, è evidente quanto sia più conveniente il nuovo prestito.

 

 

Invero questo non è perpetuo; ma abbiamo veduto or ora come sia tutta apparente e parziale la perpetuità della rendita. Dal canto suo, il fatto che il nuovo titolo 5% dovrà essere rimborsato fra il 1° gennaio 1926 ed il 1° gennaio 1941 è tutto a favore del portatore. Mentre questi, colla rendita, è sicuro che lo stato sceglierà il momento più opportuno per sé per minacciare il rimborso, col prestito potrà darsi che il saggio dell’interesse non sia troppo ribassato; e quindi egli potrà, se gli piaccia, chiedere il rimborso delle 100 lire, ovvero consentire ad una rinnovazione del prestito ad un saggio di interesse discreto ed abbastanza remunerativo. Colla rendita insomma, il portatore corre solo l’alea del ribasso dell’interesse; col prestito, il portatore corre amendue le alee: del ribasso e del rialzo. Supponiamo, invero, che lo stato non si decida a rimborsare il capitale fino all’ultimo momento; e non si decida perché, per nuovi avvenimenti, il saggio dell’interesse sul mercato non ribassò al disotto del 5%. Venuta la scadenza del 1° gennaio 1941, se il saggio dell’interesse è rialzato al 6%, il portatore potrà profittare della circostanza e rinnovare il prestito al 6%. È poco probabile; ma l’esempio è addotto per spiegare come il diritto ad ottenere il rimborso del capitale entro un dato termine, sia pregevole per il sottoscrittore. Il diritto è pregevole anche per un altro rispetto: perché assicura che il titolo alla lunga non potrà ribassare notevolmente di prezzo. Abbiamo visto la rendita a 105 e poi a 78. Queste variazioni si comprendono in un titolo che non ha mai il diritto al rimborso. Non sarebbero possibili, specie a mano a mano che ci avvicineremo al 1941, per il nuovo titolo. Chi vorrebbe vendere per 80 lire un titolo che fra 10,5,3 o 2 anni deve essere rimborsato in 100 lire? Il diritto al rimborso in una cifra fissa ed entro un dato termine è un validissimo sostegno al prezzo corrente di un titolo.

 

 

Molti risparmiatori hanno una preoccupazione esagerata intorno a ciò che essi potranno fare quando il governo, passati i 10 anni, volesse rimborsare le 100 o le 1.000 o le 100.000 lire oggi prese a prestito. Almeno, essi dicono, colla rendita dormiamo sonni tranquilli; e non ci pensiamo più. Già si vide che questa è una illusione. Essi dormono i loro sonni tranquilli perché, ad ogni volta che lo state offre loro il rimborso, rispondono: tenetevi il capitale e pagateci pure gli interessi in una somma minore. Così fecero nel 1906 e così faranno in avvenire, quando il saggio diminuisse sul mercato al di sotto del 3,50%. Se essi vogliono solo questo genere singolare di tranquillità l’hanno perfettamente uguale col prestito.

 

 

Perché, trascorso il primo gennaio 1926, il governo sarà felicissimo di tenersi i denari, ottenendo il consenso dei suoi creditori ad una riduzione di interessi. Quale ragionevole probabilità vi è mai chi dal 1926 in poi i governi si trovino in grado di rimborsare i miliardi che oggi vanno prendendo a mutuo? Nessuna. Sicché i portatori tranquilli possono stare ugualmente sicuri della lunghissima durata dei loro investimenti; ed in più, corrono l’alea favorevole di potere essi, esercitare il diritto a chiedere il rimborso del capitale in un momento più favorevole ad essi che allo stato. Municipi, provincie colonie dell’Inghilterra hanno sempre avuto l’abitudine di emetter prestiti del tipo di quelli che furono in Italia ora messi in uso da l’on. Carcano. Orbene, parecchi di questi mutui, al 3 ed al 3,50%, vengono a scadenza oggi; ed i capitalisti chiedono ed i municipi e le colonie consentono alla rinnovazione al 4,50% ed al 5%. Se fosse trattato di rendite perpetue, i portatori si sarebbero dovuti contentare del 3 e del 3,50%: né godrebbero del beneficio dell’aumento odierno del saggio dell’interesse.

 

 

L’esempio dimostra i vantaggi e l’inesistenza degli immaginari inconvenienti supposti dal pubblico nel prestito in confronto alla rendita. Poiché il nuovo titolo può essere ovunque sottoscritto poiché gli ufficiali postali anche dei più piccoli paesi hanno l’obbligo di pagarne le cedolette di interesse semestrale, come si fa per rendita, io non dubito che i risparmiatori finiranno per prende anche con esso la affettuosa consuetudine che hanno colla rendita. Ed a maggior ragione, poiché trattasi di un titolo intrinsecamente più pregevole della rendita.

 

 

VII

Basta porre a confronto i risultati dei tre prestiti nazionali italiani per avere l’impressione viva dello sforzo crescente con cui il paese intende alla condotta della guerra:

 

 

Primo prestito

4,50% del

gennaio 1915

milioni 1.000

Secondo

4,50%del

luglio1915

milioni 1.146

Terzo

5% del

gennaio1916

milioni 2.281

 

 

La cifra del terzo prestito è al netto dei versamenti in titoli del primo prestito 4,50% del gennaio 1915 ed in buoni del tesoro 4% 1917-18, che si eliminarono sia perché non sono denaro contante, sia perché farebbero doppio con le cifre del primo prestito nazionale e dei buoni quinquennali. I 2 miliardi e 281 milioni comprendono invece i versamenti effettuati in buoni ordinari del tesoro i quali, essendo a breve scadenza (da 3 a 12 mesi) equivalgono a denaro contante; tanto più che il tesoro acquista la facoltà di emettere altri buoni in sostituzione di quelli per tal modo ritirati.

 

 

Né il totale di 2 miliardi e 281 milioni dà la misura esatta dello sforzo; poiché ad esso converrà aggiungere il prodotto della sottoscrizione nelle colonie italiane e fra gli italiani all’estero, la quale annunciasi sotto auspici più promettenti che nel luglio scorso.

 

 

L’Italia può dunque a giusta ragione essere orgogliosa del risultato raggiunto, che fu superiore a quello che si era toccato nell’intiero anno scorso, con due successivi appelli al credito pubblico. Il governo che scelse un tipo attraente, il consorzio che efficacemente contribuì alla riuscita, la stampa, gli uomini politici, i propagandisti che diedero opera efficace alla volgarizzazione del prestito hanno tutti bene meritato del paese.

 

 

Ma poiché la guerra dura pertinace, dura e lunga, il risultato raggiunto deve sovratutto indurci a provvedere subito ai mezzi opportuni per continuare ed intensificare l’opera ora compiuta. È certo che al successo del prestito contribuì massimamente la felice scelta di un saggio di interesse, il 5%, rispondente alle condizioni del mercato, bene accetto ai risparmiatori, tradizionalmente uguale al frutto che dal capitale i detentori credono aver ragione di ottenere. È molto dubbio se, ove fosse stato conservato il tipo del 4,50% dei due primi prestiti, le sottoscrizioni nette avrebbero toccato i 2 miliardi e 300 milioni di lire. Anche un titolo 4,50% emesso a 90 lire sebbene sostanzialmente più oneroso per lo stato di un 5% a 97,50, non avrebbe avuta una uguale potenza di attrattiva. Andare contro ai fatti, alle esigenze del mercato, ai criteri radicati nella testa dei detentori del capitale, non giova. Un primo punto possiamo perciò fermare in modo sicuro: che nei futuri prestiti, quando verranno, lo stato si dovrà tenere stretto alla regola aurea, le mille volte provata vera dall’esperienza storica e splendidamente oggi riaffermata in Italia, la quale consiglia di preferire il saggio di interesse, qualunque sia, il 4, il 5 ed occorrendo il 6%, il quale risponda alle condizioni del mercato. Con un 4,50% venduto in luglio, per i più dei sottoscrittori, a 93, si raccolsero 1 miliardo e 146 milioni; con un 5% venduto a 97,50, ossia con un piccolo sostanziale aumento di interesse per lo stato, si raccolse più del doppio.

 

 

Questo vuol dire che in Italia i denari ci sono. Basta saper scegliere la via giusta per farli uscir fuori. Oggi non si conoscono ancora i dati sulla situazione dei depositi a risparmio ed in conto corrente presso gli istituti di emissione, le banche e le casse di risparmio a fine febbraio. Quando si conosceranno, è probabile si possa constatare che i depositi diminuirono di gran lunga meno dei 2 miliardi e 300 milioni netti sottoscritti al prestito nazionale.

 

 

Il che vuol dire che oggi, durante la guerra, la capacità di risparmio del paese è assai superiore alla normale. Fatto naturale se si pensa che la guerra trasforma parte di ciò che era capitale in redditi di fornitori, industriali, agricoltori, militari, loro famiglie, intermediari, impiegati ed operai di imprese belliche. La guerra non produce, finché dura, una diminuzione, bensì un aumento dei redditi della massima parte della popolazione. Per fortuna, gli italiani sono un popolo ancora frugale e parsimonioso; sicché, salvo alcuni strati sociali cittadini, quei maggiori redditi non si trasformano per lo più in consumi, ma in risparmi. Ed i risparmi fluiscono, per vie diverse, direttamente od indirettamente ai prestiti pubblici.

 

 

Perciò a me sembra potersi fondatamente presumere che i futuri appelli al risparmio non segneranno un successo minore del presente. L’esperienza odierna gioverà, oltreché a seguire la norma aurea già detta delle emissioni al saggio corrente, qualunque sia, dell’interesse, anche per altri rispetti:

 

 

  • Oramai la massa del prestito tipo 5% è diventata imponente: 2 miliardi e 285 milioni di denaro nuovo, 504 milioni e mezzo provenienti dal primo prestito 4,50, 148 milioni da conversioni di buoni quinquennali del tesoro; in tutto 2 miliardi e 933 milioni, a cui aggiungendo le sottoscrizioni delle colonie e dell’estero e il tramutamento della massima parte del miliardo e 146 milioni del secondo prestito nazionale, giungiamo facilmente ai 4 miliardi di lire. Un titolo, il quale esiste in una massa di 4 miliardi, è un magnifico titolo. Facilmente negoziabile ed attivamente negoziato, a prezzi pieni di mercato. Di fronte a questo titolo, che ha tutte le qualità per divenire il titolo principe italiano, superiore anche alla rendita 3,50%, che cosa stanno a fare i 495 milioni del 4,50% del gennaio 1915 che i loro detentori non vollero convertire in 5%? Poiché moltissimi detentori invocavano la parificazione, il governo accolse in parte il desiderio, a condizione che fosse sottoscritto altrettanto prestito nuovo e fosse versata una quota di conguaglio di 5 lire. L’equità avrebbe voluto si chiedesse il versamento di sole lire 2,50 e si concedesse, come per il secondo prestito, la facoltà di mutamento, senza obbligo di veruna nuova sottoscrizione. Oggi, se l’equità verso coloro che pagarono le 5 lire vieta di mutare il prezzo del conguaglio, urge sempre togliere di mezzo i 495 milioni che vollero rimanere al tipo 4,50%. Non giova ai detentori e neppure avvantaggia lo stato la esistenza di un piccolo blocco di titoli, a mercato ristretto e detenuto da malcontenti. È da presumere che molti di costoro non effettuarono la mutazione non perché non volessero pagare le 5 lire, sì perché non avevano i denari per effettuare il versamento di altrettante somme del nuovo prestito. Tolgasi questa restrizione, oramai superflua: e lo stato, con suo utile, incasserà lire 5; mentre i portatori potranno ottenere un titolo meglio negoziabile.
  • Occorre, per il successo dei futuri prestiti, radicare l’idea che gli ultimi non saranno meglio trattati dei primi. Altrimenti vi è sempre chi, facendo benanco un cattivo calcolo, si riserva di arrivare per ultimo. Per evitare il pericolo, l’Inghilterra esplicitamente promise l’equiparazione a tutte le migliori condizioni che saranno offerte durante la guerra; la Francia, senza promettere nulla, emise il suo primo prestito 5% ad un prezzo, al disotto di cui nessun francese calcolò si potesse scendere in avvenire; e la Germania si industria ad emettere i successivi prestiti a condizioni sempre meno favorevoli, sia pure in apparenza, dei precedenti per i sottoscrittori. Di questa regola converrà far tesoro in avvenire, poiché se i portatori di una massa di 4 miliardi del prestito 5% vedranno che essi non saranno meno bene trattati dei futuri sottoscrittori, un ulteriore, potentissimo impulso si avrà per raggiungere una meta anco più alta di quella ora toccata.
  • Finalmente, la relativa tenuità dei 148 milioni di conversioni dei buoni quinquennali 4% e la probabile piccolezza dei buoni ordinari convertiti provano che i buoni del tesoro sono nel tempo stesso poco noti nel grande pubblico e rispondenti a bisogni particolari dei risparmiatori. Poco noti, perché se il pubblico ordinario ne avesse posseduti, non avrebbe mancato di convertirli in maggior copia; ma rispondenti ad esigenze speciali di impieghi di denaro a breve o a brevissima scadenza. Perché lo stato non va incontro a queste particolari esigenze e non popolarizza maggiormente i suoi buoni del tesoro?

 

 

L’ora è scoccata per questa specie di titoli, che hanno carattere di provvisorietà, di impiego temporaneo e di preparazione a prestiti futuri. Ma bisogna cominciare subito. Se il governo si decidesse a vendere, a sportello aperto, presso tutti i suoi uffici, anche postali, senza limite fisso di tempo, buoni al portatore, per qualunque somma rotonda, anche di 5 e di 20 lire, come si fa in Francia, per qualunque scadenza, a tre e sei mesi, 1 anno, 2,5 anni a volontà del richiedente, a saggi di interessi allettanti, oggi a 4% per i buoni brevissimi ed a 5% per i più lunghi, un flusso continuo di acquisti si formerebbe; e centinaia di milioni affluirebbero a poco a poco alle casse dello stato. E quando verrà l’ora, in buona parte questi buoni sarebbero pronti per la conversione, a cui dovrebbero aver diritto fin dall’origine, nei titoli del futuro prestito.

 

 

VIII

Il quarto prestito

Domani si apre la sottoscrizione al quarto grande prestito nazionale per le spese della guerra italiana. Importa che i risparmiatori ricordino che essi sono chiamati a compiere un grande dovere verso il loro paese, rinunciando a tutti i consumi, i quali non siano assolutamente indispensabili. Siamo giunti ad una svolta nel corso della guerra, in cui le astinenze moderate e facili più non bastano. Occorre la rinuncia sentita, vorrei dire dura; affinché viveri e munizioni non abbiano a mancare alla popolazione civile ed all’esercito nel momento supremo. Riflettasi alla sorte del Belgio, della Serbia e delle provincie francesi invase, dove la miseria è atroce, dove la rinuncia è imposta dalla forza e dove le taglie obbligatorie sostituiscono i prestiti volontari.

 

 

Oggi invece il governo italiano chiede rinuncie e sacrifici presenti ai cittadini suoi; ma offre in cambio il mezzo di aumentare i propri redditi in avvenire.

 

 

Il nuovo titolo, il quale rende 5 lire per ogni 100 nominali, ma viene pagato dal sottoscrittore soltanto 90 lire, offre un reddito, che da oltre quarant’anni in Italia più non si otteneva dai titoli di stato. Il 5,55% netto è tale un frutto che sarebbe parso un sogno ai risparmiatori della generazione che volse dal 1880 al 1910, quando lo stato italiano faceva le conversioni libere al 3,50% e quando, ad imitazione di ciò che era accaduto all’estero, si pronosticavano conversioni al 3 ed al 2,50%. Oggi invece viviamo lungo un’ondata di interessi alti; e sarebbe imperdonabile l’errore di quei risparmiatori, i quali non facessero ogni sforzo per profittarne.

 

 

Ed è ben lungo il periodo per cui lo stato assicura il reddito del 5,55%! Importa ritornarvi sopra, perché da lettere ricevute veggo che non da tutti la cosa è stata compresa.

 

 

Dichiarando al primo articolo del decreto reale 2 gennaio 1917 che il nuovo consolidato 5% non è soggetto a conversione a tutto l’anno 1931, il governo volle dire con tutta chiarezza:

 

 

  • che lo stato ha l’obbligo di pagare 5 lire per ogni 100 nominali, ossia per ogni 90 lire versate, per i 15 anni dal primo gennaio 1957 al 31 dicembre 1931. Durante il quindicennio lo stato non ha il diritto né di rimborsare il capitale né di ridurre l’interesse;
  • dopo il 31 dicembre 1931 lo stato godrà del diritto di conversione. Ma ciò non vuol dire che lo stato possa a suo piacere ridurre capitale od interessi. Mai no. Lo stato avrà esclusivamente il diritto di dire ai portatori dei titoli: o voi vi contentate di un interesse minore, per esempio del 4,50% o del 4%, invece che del 5%; ovvero io vi rimborso il capitale di 100 lire che voi mi avete mutuato. Il diritto di conversione ha cioè puramente e semplicemente il significato di un diritto riservatosi dallo stato di rimborsare il capitale preso a prestito, quando i creditori non vogliano contentarsi di un interesse minore. Sarebbe iniquo obbligare lo stato a non rimborsare mai il capitale. Un obbligo siffatto non è ammesso dal codice civile per i privati; e non vi è ragione che se lo assuma Io stato. Fra 15 anni vedranno i capitalisti che cosa convenga loro di fare: se accettare il rimborso delle 100 lire ovvero contentarsi di un 4,50% o di un 4%. Essi stipuleranno un nuovo contratto di mutuo con lo stato; e penseranno allora, tenuto conto del frutto possibile a ricavarsi da altri impieghi, quale alternativa giovi meglio di accettare.

 

 

E, badisi, dopo il 31 dicembre 1931 lo stato dovrà ad essi rimborsare non le 90 lire versate, ma le 100 lire nominali. Ciò è pacifico. Lo stato non è debitore di 90 lire, sibbene di 100, e tutte queste 100 deve rimborsare.

 

 

Nel quale obbligo si scorge un altro vantaggio del prestito. Poiché è possibile ed anzi probabile che, finita la guerra e trascorso il primo periodo di assestamento, nel quale forse il saggio dell’interesse continuerà ad essere alto, i risparmi tornino ad essere prodotti in misura più abbondante d’ora in confronto alla richiesta, e l’interesse abbia una tendenza a diminuire. Basterebbe che dal 5,55% il frutto corrente dei capitali calasse al 5%, perché un titolo il quale frutta 5 lire nette dovesse da 90 salire al prezzo di 100 lire. Ecco un guadagno di 10 lire, il quale si aggiunge al frutto del 5,55% garantito per 15 anni. Talché si dovrebbe dire che il consolidato nuovo frutta al minimo il 5,55%; ma può dare anche il 6%, tenendo conto del possibile aumento di prezzo capitale.

 

 

Tutti questi sono vantaggi e garanzie indiscutibili e cari ai risparmiatori. Ma altri ve ne sono, di non minor peso.

 

 

Il nuovo titolo, al pari della rendita 3,50% e dei primi prestiti nazionali 4,50% e 5%, gode dell’esenzione da qualunque imposta presente e futura. Nessuna falcidia potrà essere operata, a titolo di imposta, sull’interesse; il quale dovrà essere pagato nella somma netta di 5 lire al semplice esibitore del titolo.

 

 

Come la rendita 3,50%, il nuovo consolidato, che è una vera rendita 5%, sarà iscritto nel gran libro del debito pubblico, ossia prenderà posto fra quei debiti dello stato che hanno un carattere specialmente intangibile. Tutti i debiti dello stato sono ugualmente sacri; ma ve ne sono alcuni a cui si è voluto rendere lo speciale onore della iscrizione nel gran libro, quasi a ricordare in perpetuo alle venture generazioni che grazie ad essi esiste lo stato italiano uno ed indipendente. La iscrizione ha forza sovratutto morale: ma importava metterla in luce.

 

 

Perciò anche il nuovo consolidato gode di tutti i privilegi ed i benefici e di tutte le disposizioni di legge che regolano il gran libro ed il servizio del debito pubblico dello stato. Ultimo ed importantissimo privilegio: il nuovo consolidato godrà «degli stessi diritti e benefici che venissero accordati ad occasione di nuovi prestiti di stato che si emettessero, durante la guerra, a condizioni più favorevoli per i sottoscrittori di quelle fissate con il decreto del 2 gennaio».

 

 

Questa è la clausola del decreto, la quale dovrebbe spingere i dubitanti e sospettosi a passare sopra ad ogni dubbio e sospetto. Un ritardo a sottoscrivere, mosso dalla speranza di ottenere domani condizioni migliori, sarebbe priva di scopo. Nocque al terzo prestito nazionale del gennaio 1916, che pure ebbe un così grande successo, la mancanza di siffatta clausola. Ben fece perciò il governo ad inserirli nel presente bando per il quarto prestito. Se anche, perdurando la guerra, lo stato emettesse un nuovo prestito al 6%, senz’altro l’attuale rendita del 5 verrebbe portata al 6%; se, per ipotesi, venisse emesso un ad 80, lo stato sarebbe obbligato a versare un premio di 10 lire, differenza fra 90 e 80, agli esibitori dei titoli emessi oggi.

 

 

Bando dunque agli indugi che sarebbero contrari all’interesse più evidente dei risparmiatori! La nuova sottoscrizione deve essere una grandiosa prova della volontà di tutti gli italiani di contribuire alla grande impresa nazionale.

 

 

IX

Il successo del quarto prestito di guerra è dunque stato grande, superiore a quello, che pure aveva superato le speranze di tutti, del terzo prestito del gennaio 1916. Non fa d’uopo aggiungere altre parole per esaltare lo sforzo dei risparmiatori italiani. Piuttosto conviene accennare agli insegnamenti che dal successo derivano ed alla linea di condotta da seguire nell’interesse collettivo per continuare a procacciare denaro allo stato.

 

 

Una constatazione fa d’uopo fare: sebbene la cifra delle sottoscrizioni con versamenti in cedole, buoni del tesoro e titoli esteri abbia raggiunto la rilevante cifra di 1 miliardo e 160 milioni nominali di lire, la maggioranza dei portatori dei buoni del tesoro si astenne dal darli in pagamento dei titoli del prestito.

 

 

Concorrevano infatti al diritto di versamento forse 800 milioni in capitale nominale di buoni del tesoro quinquennali 4%, che si possono dire «antichi» perché emessi in virtù delle leggi del 1912, 1913 e 1914 (guerra di Libia); 1 miliardo e 722 milioni di buoni triennali e quinquennali nuovi 5% e 3 miliardi e 616 milioni di buoni ordinari e per forniture militari: in tutto più di 6 miliardi di buoni. Poiché con 1 miliardo e 100 milioni nominali e 990 milioni effettivi presentati al pagamento di nuova rendita entrano anche cedole e titoli esteri, bisogna concludere che la quota dei buoni versata in pagamento del prestito fu inferiore al sesto dei buoni esistenti. È probabile che la proporzione massima di buoni presentati si sia avuta fra i vecchi buoni 4%, prossimi a scadenza; la minore fra i buoni ordinari.

 

 

Quale la conclusione? Che i buoni rispondono ad un bisogno del pubblico. Vi sono categorie di capitalisti, i quali non vogliono o non possono imprestar denaro allo stato a lunga scadenza, mentre sono dispostissimi a mutuar denaro a breve scadenza. Tra quelli che non vogliono, ricorderò i timidi, i quali hanno paura del diluvio universale, amano i buoni interessi offerti dallo stato; ma vogliono avere la sicurezza del rimborso dei loro capitali a breve scadenza, per metterli in salvo o per impiegarli più fruttuosamente nell’ipotesi del verificarsi di qualche sconquasso. La specie comica di questi timidi è quella di coloro che tengono serrati nel forziere i biglietti, illudendosi di non far così prestiti a nessuno; mentre in realtà mutuano denaro allo stato senza interesse. Se questi timidi recano i loro capitali in deposito alla cassa di risparmio od acquistano buoni del tesoro, non lamentiamocene troppo. In un modo od in un altro quei capitali finiscono nelle casse dello stato; e l’unica conseguenza è che i possessori si contentano oggi di un frutto minore e sottoscriveranno domani, a pace fatta, al prestito di consolidamento 5% a 100 lire.

 

 

Vi sono, accanto ai timidi che non vogliono o non osano, coloro i quali non possono sottoscrivere ai prestiti pubblici consolidati. Vi sono industriali, commercianti, agricoltori, i quali hanno capitali disponibili, ma sanno di averne bisogno prossimamente od a pace fatta, per ricostituire le loro scorte, per impianti e costruzioni sospese, per migliorie agrarie prorogate. A questi non si può chiedere di investire i risparmi a tempo indefinito. Vi sono altri che hanno bisogno, per l’indole della loro azienda o per necessità legali, di far bilanci, calcolando su rimborsi dovuti in cifre fisse. Per costoro, desiderosi di mutuar denaro allo stato, il titolo ideale è il buono.

 

 

In conclusione: bisogna riaprire al più presto possibile il rubinetto dei buoni. Sembra che l’interesse dei buoni ordinari, il quale era stato ridotto, per diminuire la concorrenza dei buoni al prestito, al 3% per i buoni da 3 a 5 mesi, al 4% per i buoni da 6 ad 8 mesi ed al 4,25% per i buoni da 9 a 12 mesi, stia per essere rialzato rispettivamente al 3,50, al 4,50 ed al 4,75%. Ottimamente.

 

 

Una delle lezioni della guerra è stato lo sforzo del tesoro e degli istituti di emissione dei paesi belligeranti di rendere caro quello che comunemente si chiama il prezzo del denaro e che è poi il saggio di interesse per i prestiti a breve scadenza. Nell’attuazione di questo programma di incarimento del denaro si è specialmente distinta, per conto del tesoro inglese, la Banca d’Inghilterra; la quale con successivi tentativi cercò di spingere il saggio di interesse sui buoni del tesoro ordinari al massimo necessario per ottenere i seguenti risultati:

 

 

  • indurre giorno per giorno il pubblico a risparmiare per godere il buon interesse offerto dal buono.
  • accaparrare tutto il risparmio disponibile nel paese. È noto come, prima del recente prestito, i buoni del tesoro in circolazione giungessero alla cifra fantastica di 25 miliardi di lire italiane;
  • togliere denaro a coloro che avrebbero potuto impiegarlo altrimenti che per scopo di guerra.

 

 

Quando il denaro è abbondante ed è a buon mercato, esso cerca impiego in riporti di titoli in borsa, in speculazioni commerciali. Spinge i titoli all’aumento e favorisce il movimento di rincaro delle merci. È ciò che accade oggi in Italia. Il denaro in Italia per impieghi brevi è troppo abbondante: si impiega al 5, al 4,50, più spesso al 4% e persino al 3,75%. In tempo di pace, sarebbe assurdo che il governo pigliasse denari a prestito solo per impedire eventuali crisi di borsa. Ma i movimenti di rialzo, in tempo di guerra, possono essere pericolosi; potendo dar luogo a reazioni di ribassi ed a panico, ove si verificasse qualche avvenimento che temporaneamente eccitasse i nervi della speculazione. A Parigi ed a Londra il governo interviene per impedire la formazione di un mercato finanziario eccitato dall’abbondanza del denaro; ed interviene, senza inutili vessazioni ed empiastri, nel solo modo veramente efficace: rincarando il denaro, coll’offerta di assorbirlo intieramente a saggi non convenienti per i privati speculatori.

 

 

È bene segnalare all’opinione pubblica questo programma del rincaro del prezzo del risparmio in cerca di impiego a breve scadenza, il quale è adottato con così buon successo dai nostri alleati. Vegga il tesoro fino a qual punto convenga spingere il saggio d’interesse sui buoni ordinari; vegga se non convenga riprendere subito la vendita a sportello aperto dei buoni triennali e quinquennali 5%. Anche in questo campo, come in quello dei prestiti esteri, fa d’uopo non litigare sul mezzo punto o sul punto in più od in meno d’interesse. L’importante è di non lasciare, se fosse possibile, neppure un centesimo in mano dei privati; ma di fare assorbire tutti i capitali disponibili dal tesoro. Ogni 100 milioni di più assorbiti dai buoni del tesoro, sono 100 milioni di meno di biglietti nuovi che il tesoro deve emettere per fronteggiare le spese di guerra ovvero sono 100 milioni di biglietti vecchi che rientrano nelle casse dello stato. Ecco il modo di lottare contro il rialzo e di ottenere la diminuzione dell’aggio. Il ribasso dell’1% sull’aggio è ben più vantaggioso alla collettività della perdita per il tesoro dell’1% in più pagato sui buoni del tesoro.

 

 

X

IL QUINTO PRESTITO

Oggi s’inizia la sottoscrizione al quinto prestito nazionale per la prosecuzione della guerra. Bisogna che tutti gli italiani concorrano al suo successo, tutti entro i limiti dei propri mezzi; per sole 100 lire, se non si può sottoscrivere una somma maggiore, associandosi con altri per comperare una cartella da 100 lire, se non si hanno disponibili neppure le 86,50 lire per una sottoscrizione unitaria.

 

 

A sottoscrivere consigliano imperiosamente:

 

 

  • il sentimento del dovere verso il proprio paese. Resistere bisogna, ha detto il capo del governo. E non si resiste soltanto sulla Piave, si resiste anche fornendo ai soldati i mezzi di sussistenza e di armamento. La quantità di derrate, di vestiti, di prodotti in generale che in un anno si possono ottenere in paese non è cresciuta certamente durante la guerra. Fino ad un certo punto, si possono importare derrate alimentari, materie prime, armi e munizioni dall’estero e si possono pagare con prestiti fatti all’estero. Ma la maggior copia di mezzi di resistenza si deve ottenere all’interno. È necessario perciò che i civili risparmino sul loro reddito e tutto il proprio risparmio forniscano allo stato, affinché questo possa acquistare i prodotti che i civili non consumano;
  • la persuasione della necessità in cui lo stato si trova di farsi consegnare ad ogni costo una parte dei prodotti ottenuti in paese. Se i risparmiatori non sottoscrivono al prestito, lo stato stamperà biglietti e comprerà ugualmente i prodotti necessari all’esercito; la certezza che il successo del prestito è necessario per impedire rialzi di prezzi e rincaro ulteriore della vita. Se i cittadini italiani producono in un anno per 20 miliardi di lire di merci e di servizi ed hanno quindi un reddito complessivo di 20 miliardi, equivalenti in media a 555 lire a testa; e se lo stato ha bisogno in quest’anno di prelevare per i bisogni dell’esercito 10 miliardi di lire, l’unica scelta possibile è fra queste due alternative: o volontariamente i cittadini si decidono a risparmiare 10 su 20 miliardi, consumando solo 10 miliardi di prodotti ed imprestando allo stato gli altri 10 ed in questo caso lo stato con i 10 miliardi ricavati dai prestiti in consolidati 5% o in buoni del tesoro compererà i 10 miliardi di prodotti lasciati liberi dai civili. Tutto finirà lì; e non vi sarà rialzo di prezzi e rincaro della vita, perché tra amendue, privati e stato, avranno fatto domanda di soli 20 miliardi di lire di prodotti. Ovvero, i cittadini non, risparmiano e pretendono di godersi tutti i 20 miliardi di prodotti. In tal caso lo stato stampa biglietti per 20 miliardi di lire, e sul mercato interno si ha lo spettacolo che, ferma rimanendo la quantità dei prodotti, e più probabilmente diminuendo dessa per le chiamate sotto le armi, i privati fanno una domanda per 20 miliardi e lo stato per altrettanto. I prezzi rialzano; la roba, quella che c’è, si divide per esatta metà fra privati e stato, ma amendue la pagano il doppio di quanto l’avrebbero pagata. Ciò produce lagnanze, querele, disagi acutissimi per coloro i cui redditi non crebbero. O non è meglio, nell’interesse generale, postoché ad ogni modo si finisce per consumare per forza la metà roba di prima, di ottenere il medesimo effetto senza il danno del rincaro dei prezzi?
  • la convenienza, anzi la necessità di costituirsi una riserva per il dopo guerra. Risparmiare ed imprestare denaro allo stato non solo vuol dire risparmiare per amore invece che per forza, comprare ai prezzi antichi metà roba di prima, invece che comprarne metà a prezzi doppi, significa altresì costituirsi una riserva preziosa. Noi non sappiamo come si svolgerà il periodo del dopo guerra. Sarà inevitabilmente un periodo di assestamento e di crisi. Occorre essere preparati contro il pericolo di disoccupazione e di interrotti guadagni. Anche l’industriale, anche il proprietario correranno rischi di crisi. Fa d’uopo premunirsi col risparmio;
  • la convenienza di ottenere un buon frutto dal proprio risparmio. Un frutto sicuro del 5,78%, quale mai nessuno aveva sperato in pace. Un frutto garantito immutabile sino al 31 dicembre 1931. Non è meglio spendere la metà del reddito e godere del 5,78% sul resto; piuttostoché spender tutto, a prezzi doppi, acquistando la medesima quantità di roba?

 

 

XI

L’on. Nitti sta facendo, come ministro del tesoro, un’ottima serie di discorsi agli industriali, ai commercianti, agli operai di Genova, Torino, Milano per persuaderli a sottoscrivere al prestito. Egli, che è uomo d’ingegno pronto, ha veduto che era meglio finirla con i soliti discorsi degli uomini politici, che sappiamo tutti a memoria, che cominciano e finiscono invariabilmente con le solite invocazioni patriottiche, sono infarciti di luoghi comuni e sono principalmente occupati a non dir nulla che possa dispiacere agli uditori e possa compromettere l’oratore. Come ministro del tesoro, Nitti parla francamente, brutalmente ai suoi ascoltatori, li piglia per il petto e con il suo tono sorridente e pacato dice loro: o voi vuotate il vostro portafoglio, largamente, abbondantemente, come non lo avete mai vuotato sinora, o gli austriaci vi piglieranno vita e portafoglio e onore e libertà. lo non vi ringrazio, se voi mi date il vostro denaro, tutto il vostro denaro; perché in questo momento, in cui i padri danno i loro figli alla patria, i possessori di ricchezze, piccole, medie, grandi ricchezze devono dare tutto ciò che possono per la difesa della patria. Dare non è un merito, non è un atto per cui i sottoscrittori meritino ringraziamenti; perché in un momento in cui si giuocano le fortune d’Italia, in un momento in cui si deve risolvere il problema della libertà e della schiavitù, tutta la ricchezza appartiene allo stato. Nessuno potrebbe trovare nulla a ridire se lo stato prendesse tutto, senza alcun compenso. Invece lo stato, se non ringrazia, dà il 5,78% all’anno di interesse, che è un frutto magnifico, al quale alcuni anni fa nessun risparmiatore avrebbe mai sognato di potere aspirare.

 

 

Ho assistito a quello, tra i discorsi dell’on. Nitti, che egli ha tenuto nel salone della Camera di commercio di Torino. Pubblico ufficiale, le solite autorità le quali vanno a sentire i discorsi dei ministri, ma anche pubblico di autentici industriali e commercianti, molti dei quali hanno ottenuto benefici dalla guerra e non pochi dei quali sono oggi di malumore perché l’ufficio locale delle imposte, diretto da un funzionario di primo ordine, li costringe a pagare a titolo di imposta sui sopraprofitti troppo più di quanto essi si immaginassero; disposti per conseguenza a fare il viso dell’armi a quel ministro che li invita a sborsare altri denari, sia pure a prestito. Si aggiunga il carattere della borghesia piemontese, fredda e brontolona, la quale fece le campagne dell’indipendenza, magnificamente, con soldati di antica razza guerriera, educata alla guerra da una dinastia di ferro, ma sempre brontolando contro Vittorio Emanuele; contro Cavour, contro Napoleone III, contro gli zuavi francesi contro i milordi inglesi.

 

 

Nitti non abbondò verso questi suoi ascoltatori in complimenti inutili. O voi mi date a prestito al 5,78% i miliardi che mi occorrono od io ve li prenderò per forza. Ve li prenderò, emettendo miliardi di biglietti di stato e di banca, che sono poi anch’essi di stato e svalutando nelle vostre mani il vostro reddito, che per il rincaro generale dei prezzi, acquisterà la metà, il terzo di roba di quanto acquistate oggi. Ovvero ve li prenderò con nuove imposte. In Germania hanno già stabilito l’imposta patrimoniale: perché non ci si potrebbe pensare anche in Italia?

 

 

Ecco finalmente un ministro che parla chiaro! Dopo tanti anni, di pace e di guerra, in cui la maggiore preoccupazione degli uomini di governo era di negare che i biglietti sovrabbondanti fossero la cagione principale, originaria del rialzo del costo della vita, come si potesse negare o sottovalutare una verità chiara come la luce del sole, Nitti dice: io so di fare una assai brutta, assai dannosa cosa emettendo biglietti. Ma io la devo fare perché non voglio negare i mezzi all’esercito; perché se li negassi tradirei il paese. Pensate voi a darmi i denari a prestito perché io cessi dal dovere fare quella brutta cosa che si chiama emettere biglietti. Il ministro disse anche altre cose interessanti: io ho fiducia che il consolidato 5%, oggi emesso ad 86,50, tra pochi anni sarà a 100. Se non toccherà la pari, sarà a zero. Non c’è via di mezzo tra il 100 e lo zero. Sarà a 100 se la guerra finirà con onore dell’Italia, sarà a zero se la vittoria sarà del nemico. Ma in questo caso non illudetevi di salvare alcunché dalla rovina: non gli altri titoli, non i biglietti, non i depositi bancari, non le terre, non le case. Tutto sarà confiscato o sovratassato, in guisa da non lasciar nulla agli attuali detentori. Dunque voi avete non solo il dovere, ma anche l’interesse di dare i vostri denari allo stato. È un premio, fruttifero per giunta, di assicurazione per il resto della vostra fortuna.

 

 

Il ministro ricordò ancora alcuni dati, che già si erano letti nella esposizione finanziaria sua e in quelle del Carcano; ma su cui giova insistere.

 

 

Oggi è di buon tono sparlare e lamentarsi dell’Inghilterra. Chi è amico della Germania, disse Nitti, si riconosce subito: è uno che parla male dell’Inghilterra. Ora questa è una ingiustizia ed un errore. Gli alleati avevano imprestato al governo italiano fino al 31 ottobre 1917 ben 7.531.621.000 lire-oro, equivalenti a 9 miliardi e 800 milioni di lire-carta (pp. LXX-LXXI dell’esposizione Nitti). Gli italiani avevano dato a quella medesima epoca, sotto forma di prestiti nazionali redimibili e consolidati, soltanto 8.616.615.700 lire-carta. Gli alleati hanno quindi avuto maggior fiducia nell’Italia, di quanta noi abbiamo avuto in noi stessi. «Io pago – continuò Nitti inesorabilmente, ripetendo del resto cose che già risultarono dalle esposizioni finanziarie – il 5,78% agli italiani che compiono il dovere di darmi denaro a prestito; ma ancora recentemente gli alleati mi diedero denaro al 3,50%». Vorranno gli italiani mostrarsi meno fiduciosi e meno larghi verso se stessi di quanto verso di loro siano gli inglesi e gli americani?

 

 

Queste sono le semplici, oneste e dure verità che l’on. Nitti va predicando per la propaganda del prestito. È una propaganda fatta all’anglosassone, senza fiori di rettorica e senza parole roboanti, ma che io ritengo otterrà buoni risultati. Gli industriali e commercianti torinesi, a cui il ministro ricordò le tradizioni militari del Piemonte, la povertà antica, nonostante la quale i loro antenati avevano resistito a Francia ed a Spagna non si offesero per il non velato rimprovero alle manifestazioni assai tiepide partite talvolta da Torino e lo applaudirono energicamente.

 

 

Così va fatto. Gli italiani non sono ragazzi, a cui non convenga dire il linguaggio della verità. Altre verità occorre loro dire e subito e per tempo. Ne ricorderò due soltanto e spero che anche queste troveranno luogo in qualche prossimo discorso del ministro del tesoro. La prima si è che il tesoro, pagando il 5,78% ai sottoscrittori del prestito, paga troppo. Dando ad 86,50 un titolo che, se non cadremo in servaggio, ciò che nessuno vuole, andrà fra non molti anni a 100, il tesoro fa ai suoi sottoscrittori un partito troppo largo.

 

 

Bisogna imprimere ben bene nella mente dei capitalisti che condizioni così larghe non saranno più offerte. Inghilterra, Francia, Italia, tutti abbiamo peccato sotto questo rispetto. Ma, al di là della Manica, cominciano a sorgere voci autorevoli ed insistenti per consigliare di fare macchina indietro. Ogni settimana l’«Economist» di Londra ripete che il tesoro inglese non deve più dare il 5% ai sottoscrittori. In un bello, classico volume intitolato Finanza di guerra (War Finance, King ed., Londra) il professore Nicholson, dell’università di Edimburgo, espone il medesimo concetto.

 

 

Da quanto si promise ai sottoscrittori che essi avrebbero goduto delle migliori condizioni che sarebbero state concesse in avvenire, i sottoscrittori si persuasero che un aumento di interesse sarebbe stato dato, naturalmente. Si lamentarono quando si tardò a dirlo. E quando il nuovo prestito, con il più alto interesse, fu annunciato, essi pensarono che si rendeva soltanto omaggio alle loro legittime aspettative.

 

 

Era necessario, dar di più per attrarre i sottoscrittori più restii? No, risponde il Nicholson. Nello stesso modo che, quando l’arruolamento era volontario (in Inghilterra prima della coscrizione obbligatoria), gli egoisti si rallegravano, vedendo gli altri arruolarsi, perché maggiore sarebbe stata la richiesta e più alti i salari di quelli rimasti a casa, così i capitalisti egoisti si rallegrano nel vedere crescere le sottoscrizioni altrui, perché pensano che così gli altri titoli, privi di assorbimento, potranno essere da loro acquistati a buon mercato. A persuadere i capitalisti restii non giovano le larghe offerte. Occorrono le minaccie, eseguite, di prestiti forzosi, a più basso saggio di interesse.

 

 

L’on. Nitti annunciò che i denari li avrebbe ottenuti, se non per amore, per forza; e parlò di possibili nuove imposte. Non sarebbe meglio dire francamente che, se anche la guerra finisse d’un colpo, oggi, senza lasciare strascichi di liquidazioni, sarebbe pur sempre necessario stabilire imposte nuove? E non piccole, variegate imposte; ma grossi tributi, a largo rendimento? L’annuncio, oltreché per i motivi altra volta già esposti, sarebbe utile per spingere tutti a risparmiare il più possibile, per possedere un maggior reddito e così meglio fronteggiare il cresciuto onere delle imposte. Supponiamo che il possessore di 10.000 lire all’anno di reddito, netto dalle imposte vecchie esistenti, debba pagare 1.000 lire all’anno di nuove imposte. O non sarebbe per lui un vantaggio, oggi che i redditi di moltissimi sono cresciuti, risparmiare tanto da comprare 20.000 lire di consolidato? Avrebbe 11.000 lire di reddito invece di 10.000; e, dedotte le 1.000 lire di imposte nuove, rimarrebbe con le solite antiche 10.000 lire di reddito netto, invece che con 9000.

 

 

Ecco dunque due verità necessarie a dirsi: che il tesoro è stato ed è troppo largo con i sottoscrittori e che il fisco dovrà inesorabilmente chiedere nuovi tributi, qualunque cosa accada ed in qualunque momento finisca la guerra. I risparmiatori hanno perciò interesse a sottoscrivere subito, perché altrimenti in avvenire otterranno patti peggiori o potranno anche, quelli che oggi non sottoscrissero, essere costretti ad imprestare i loro capitali liquidi allo stato al 4%. Hanno interesse altresì a risparmiare quanto più possono per mettersi in grado di pagare le nuove imposte senza falcidiare il reddito antico.

 

 


[1] Con il titolo Il successo del prestito. [ndr]

[2] Con il titolo Un dovere patriottico e un buon affare. [ndr]

[3] Con il titolo Il congegno pratico del nuovo prestito nazionale. [ndr]

[4] Con il titolo I danni dell’aggio ed il prestito nazionale. [ndr]

[5] Con il titolo La felice organizzazione del nuovo prestito nazionale. [ndr]

[6] Con il titolo Rendita e nuovo prestito. [ndr]

[7] Con il titolo Gli ammaestramenti del terzo prestito nazionale. [ndr]

[8] Con il titolo Che cosa offre il governo ai risparmiatori italiani. [ndr]

[9] Con il titolo Dopo la chiusura del prestito. [ndr]

[10] Con il titolo Oggi si apre la sottoscrizione al 5°prestito nazionale. Perché si deve sottoscrivere. [ndr]

[11] Con il titolo La propaganda dell’on. Nitti per il prestito. (Le verità che egli dice e alcune altre che si potrebbero aggiunge. [ndr]

Torna su