Opera Omnia Luigi Einaudi

La lotta contro la frode fiscale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/09/1907

La lotta contro la frode fiscale

«Corriere della sera», 22 settembre 1907

 

 

 

Che i contribuenti combattano una diuturna, incessante battaglia contro il fisco è cosa risaputa, ed è nella coscienza di tutti che la frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri finché le leggi tributarie rimarranno, quali sono, vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco.

 

 

L’amministrazione finanziaria che deve dispiegare l’accortezza pratica maggiore, e nello stesso tempo dar prova della conoscenza più larga delle discipline giuridiche nel combattere la frode fiscale, è senza dubbio la direzione generale del demanio e delle tasse negli affari. Le leggi sulle tasse di registro e bollo sono un istrumento mirabile di complicazioni e di sottigliezze, foggiato a poco a poco e ridotto a perfezione viemmaggiore sotto la spinta delle frodi immaginate dal contribuente per sottrarre l’aver suo al dovere tributario. È questo il campo senza dubbio più difficile del diritto tributario, poiché con le tasse sugli affari voglionsi colpire una moltitudine stragrande di atti e di negozi giuridici e la misura della tassa dipende in gran parte dall’interpretazione che vien data della natura dell’atto compiuto. Tanto grave è la pressione fiscale che avvocati e notai aguzzano tuttodì l’ingegno per dare agli atti più consueti di compravendita, donazione, appalto, ecc., le forme più complicate ed artifiziose quando in tal modo si riesce a pagare una tassa minore. Ed alla loro volta gli agenti fiscali devono usare la maggiore accortezza per mettere a nudo il nocciolo dell’atto compiuto, spogliandolo della corteccia posticcia, allo scopo di attribuire allo Stato la somma di tributo che in realtà gli è dovuta.

 

 

Che in questa battaglia, nella quale si consumano tante sottili intelligenze e tanti capitali che meglio sarebbero adoperati alle opere della produzione, lo Stato, burocratico ed impacciato, rimanga sempre soccombente, non si potrebbe affermare certamente. L’ultima relazione sull’amministrazione del demanio e delle tasse sugli affari per l’esercizio 1905-906, pubblicata, or non è molto, a cura del direttore generale comm. Ghino Fucini, prova la vigile cura e la sottile penetrazione con cui la burocrazia veglia con fortuna alla tutela degli interessi fiscali. Con troppa fortuna, diranno i contribuenti, sentendo che le tasse sugli affari rendevano, per accertamenti compiuti nell’anno, 169.615.499 lire nel 1884-1885, e resero 190.751.355 lire nel 1894-95, 214.338.215 lire nel 1904-905 e 239.188.984 lire nel 1905-906.

 

 

Confortante e mai più veduto è stato in special modo l’aumento nel reddito delle tasse di registro, che in un anno solo balzarono da 64.672.494 a 73.959.536 lire, con un aumento di 9.287.042 lire di cui 6 milioni circa dovuti alle trasmissioni di immobili a titolo oneroso, 445 mila lire alle trasmissioni di mobili e merci a titolo oneroso, lire 1.622.271 agli appalti per costruzioni, somministrazioni ecc., 460 mila lire alle locazioni di case, concessioni di diritti d’acqua e locazioni d’opere. Ma l’amministrazione si rammarica del crescere continuo delle leggi le quali concedono privilegi ed immunità ad industrie e regioni speciali, come quelle a favore degli zolfi, del credito agrario siculo, della Calabria, delle provincie meridionali, della Sicilia e della Sardegna. Non che quelle immunità siano da condannarsi, ma esse sono, nella opinione della finanza, concesse in maniera oscura ed incompleta, sicché all’applicazione non danno quei risultati che se ne attendevano, o vanno oltre il pensiero dei proponenti, dando luogo a frodi da parte di chi il legislatore non voleva beneficare.

 

 

L’amministrazione non nasconde le sue simpatie per quegli sgravi che vengono concessi generalmente a tutti coloro i quali si trovano nella medesima situazione. Esempio la legge 22 gennaio 1902 la quale riduceva alla metà l’enorme tassa del 4.80 per cento sui trasferimenti immobiliari a titolo oneroso pel prezzo non superiore a L. 200 ed ai due terzi la tassa per i trasferimenti tra L. 200 e L. 400. Temevasi che si aprisse con ciò l’adito alle frodi e cioè che molte contrattazioni per vendite superiori a tali cifre dovessero farsi apparire stipulate per minor prezzo allo scopo di profittare del beneficio della riduzione. Ma non fu così, perché i trasferimenti inferiori al valore di 400 lire aumentarono appena da 201.123 nel 1900-901 a 239.783 nel 1905-906, aumento naturale e che avrebbe dovuto essere ancor maggiore se la riduzione delle tasse di registro fosse stata accompagnata da una giusta diminuzione delle tasse di bollo ed ipotecarie e dei diritti catastali e notarili, i quali essendo stabiliti in misura fissa e graduale crescono moltissimo il costo sui trasferimenti della piccola proprietà. E sono questi piccoli trasferimenti i più numerosi, se si pensa che nel 1905-906 accanto a 239.783 trasferimenti per atto civile e 3625 per atto giudiziario inferiori in valore a L. 400, vi sono stati altri 3568 trasferimenti inferiori a L. 400 che non poterono godere dello sgravio e 90.286 trasferimenti di valore tra L. 400 e 1000. Quanto più cresce il valore, tanto più diminuisce il numero delle trasmissioni: essendo stati 71.844 i trasferimenti fra 1000 e 5000 lire, 11.902 quelli fra 5000 e 10.000 lire, 9276 quelli fra 10.000 e 50.000 lire, 1138 quelli fra 50 e 100 mila lire e finalmente 801 soltanto quelli superiori a 100.000 lire. Dalla relazione si scorge che la Finanza, soddisfatta del buon esito dei primi assaggi, non sarebbe aliena dal concedere riduzioni di aliquote per i trasferimenti sino a 1000 lire e dal rafforzarli con sgravi sui diritti fissi o graduali di bollo, d’ipoteca, catastali o notarili. E sarebbe riforma utilissima che diminuirebbe in parte i gravami eccessivamente elevati che impediscono il movimento dei beni immobili ed incoraggerebbe la formazione della piccola proprietà, senza imporre quegli impacci burocratici soverchi che hanno annullato quasi i benefici della legge a favore delle case popolari. Per la paura di incoraggiare le frodi, si sono talmente circondati di precauzione i favori, che nel 1905-906 in appena 51 casi si applicarono le tasse ridotte di registro per le case economiche e popolari, soli 101 furono gli atti di locazione registrati con la tassa ridotta al quarto ed in soli 8 casi si applicò l’aliquota ridotta pei contratti di prestito stipulati per la costruzione delle case stesse.

 

 

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La trasmissione della ricchezza mobiliare è però quella che maggiormente angustia la Finanza per la facilità delle frodi e la difficoltà di scoprirle. Terre e case sono duramente colpite e tuttavia, poiché tutti le vedono, non riescono a sfuggire all’occhio del fisco; mentre invece il denaro, i titoli mobiliari e le merci possono assai più facilmente essere occultati. L’aumento delle Società per azioni è cagione di letizia pel fisco, perché, se non è possibile di seguire i trasferimenti delle azioni da persona ad un’altra a titolo oneroso o gratuito, si è trovata la maniera di colpire direttamente le Società all’atto della loro costituzione colla tassa di registro sui valori conferiti ed in seguito colla tassa di negoziazione stabilita nella misura dell’1.80 e 2.40 per mille sul valore delle azioni e delle obbligazioni emesse. Ambe le maniere di tasse dovevano dare un reddito crescente, poiché nel 1904-905 si costituirono nientemeno che 222 nuove Società per azioni e di fronte a 145 Società, che aumentarono il loro capitale, solo 37 lo diminuirono, cosicché il capitale complessivo delle Società italiane per azioni crebbe tra creazioni ed aumenti, di lire 582.590.519. Nel 1905-906 le nuove Società costituite furono 349, le Società che aumentarono il capitale furono 164 contro 23 che dovettero diminuirlo: e l’aumento del capitale in complesso fu di L. 613.791.950! Aumenti enormi che sarebbero parsi inverosimili alcuni anni or sono e che, sebbene in parte corrispondano a trasformazioni di vecchie aziende private, misero a ben dura prova la capacità di assorbimento del risparmio italiano.

 

 

Di questo aumento si giovò il fisco, perché nel breve periodo di un triennio, dal 1903-904 al 1905-906, il numero degli atti costitutivi di Società presentati alla registrazione crebbe da 2649 a 4113, mentre l’importo del valore tassato aumentava da 314 milioni a 1016 milioni e triplicava l’ammontare della tassa riscossa da 655 mila lire ad 1 milione e 756 mila lire. Malgrado ciò, il fisco trova ragione di lagnanza perché le Società hanno la tendenza a costituirsi o a figurare di costituirsi quasi soltanto con l’apporto di numerario che paga 5 lire pel primo migliaio di lire e 1 lira su ogni migliaio successivo abbandonando le costituzioni con apporti di stabili e di mobili e merci che dovrebbero pagare la tassa del 4.80 e del 2.40 per cento. Da ciò la Finanza conclude che, se le aliquote del 4.80 e del 2.40 per cento sono evidentemente onerose, «appare troppo mite quella graduale per le Società che formano i loro capitali in denaro e che rappresentano il maggior numero». Qui la ossessione di combattere le frodi conduce i finanzieri a conclusioni pericolose. È vero: nel 1905-906 su 1016 milioni di beni conferiti per la costituzione delle Società, 977 milioni erano numerario, ed appena 2.751.300 lire erano apporti, 11.325.934 lire mobili, merci e navi e 4.964.575 immobili. È probabilissimo che la cifra del numerario sia stata artificialmente ingrossata, a scapito degli altri apporti, per pagare la tassa minore. Ma che vuol dir ciò? Che si debba aumentare la tassa per le Società che si costituiscono con apporti di numerario, solo per impedire che si facciano figurare come numerario quelli che invece sono immobili, mobili, merci o navi? Mai più. La tassa medesima graduale di 1 lira per mille è tutt’altro che tenue ove la si confronti con quelle che si pagano nei paesi dove le Società per azioni hanno avuto il maggiore sviluppo. Tutti ricordano il suggestivo confronto, che si legge nelle «Impressioni di uno Yankee in Italia», pubblicate dal Garlanda, fra le somme ridicole che una Società per azioni deve pagare negli Stati Uniti per ottenere la carta di incorporazione e quelle elevatissime che essa dovrebbe pagare in Italia. La frode che ora nuovamente si esercita dovrebbe portare solo a questa riforma: trattare tutti i conferimenti alla stessa stregua più mite, tanto se sono di numerario, quanto se consistono in apporti di immobili o mobili. La riforma gioverebbe alla sincerità delle transazioni, renderebbe più chiari gli inventari ed i bilanci sociali e non nuocerebbe gran fatto al fisco, che oggi si vede costretto dalla frode a concedere ciò che meglio sarebbe consentire volonterosamente. Tanto più che le Società per azioni, oltre a dare cospicuo reddito all’azienda delle imposte dirette, per la maggior facilità di esazione dell’imposta di ricchezza mobile in confronto agli industriali e commercianti privati, danno pure larghissimo contributo all’imposta sulla negoziazione delle azioni e delle obbligazioni. Questa imposta che rendeva L. 3.356.943 nel 1882 crebbe gradualmente, col crescere della fortuna italiana, il suo provento fino a L. 8.188.379 nel 1890-91.

 

 

Venuta la crisi, anche essa diminuì di importanza scendendo sino a L. 6.671.910 nel 1897-98: ma in seguito tornò a salire sinché nel 1905-906 rese ben 12.288.304 lire. Neppure qui l’amministrazione è paga dei magnifici risultati ottenuti; essendovi «fondato motivo, di ritenere che il cespite non renda tutto ciò che sarebbe legittimo sperare, tenuto conto delle migliorate condizioni del mercato di tutti i valori industriali e commerciali, e non possedendo la Finanza, allo stato della legislazione, armi che la pongano in grado di colpire tutto l’imponibile soggetto al tributo». È noto infatti che la imposta di negoziazione viene esatta ogni anno nella misura dell’1.80 per mille per i titoli nominativi e del 2.40 per mille per i titoli al portatore sulla base del valore effettivo, risultante dalle quotazioni di Borsa o da certificati peritali. Ma vi sono molti titoli che, per essere posseduti da poche persone o per essere oramai intieramente e stabilmente collocati, non sono quotati in Borsa e per cui non è possibile ottenere il certificato peritale. La Finanza si lagna di essere costretta a tassare siffatti titoli sul valore nominale, anche quando notoriamente questo è di gran lunga inferiore al valore effettivo.

 

 

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Altro argomento di lagnanze è l’imposta di successione. Non che la riforma del 1902 la quale rese l’imposta, già progressiva quanto ai gradi di parentela, progressiva altresì rispetto alle somme ereditate, abbia dato cattivi risultati. Anzi gli accertamenti furono nel 1905-906 di 41.546.008 lire e quindi superiori del 10,45 per cento a quelli del quinquennio dal 1896-97 al 1900-1901 che si erano tenuti a lire 37.613.756, ecc. Il malanno più grave di cui si lagna la Finanza è la difficoltà di colpire i beni mobili. Nel 1905-906 infatti su un valore lordo ereditario di lire 1.097.088.044 ben lire 720.720.889 furono date dai terreni (486 milioni) e dai fabbricati (234 milioni), mentre i beni mobili davano appena 376.367.154 lire, ossia il 52.22 per cento dei primi. Gli occultamenti precipui avvengono per i titoli al portatore, che in troppo esigua misura vengono denunciati: rendita di Stato al portatore 20 milioni contro 57 di rendita nominativa, altri titoli al portatore 21 milioni contro 30 nominativi, che pur circolano in minor copia, depositi di denaro al portatore 7 milioni contro 23 milioni nominativi. Ma la Finanza non ha qui ragione di dolersi in tutto dopoché colla legge del 1902 la tassa di negoziazione è stata portata pei titoli al portatore al 2.40%, mentre per i titoli nominativi rimaneva all’1,80% appunto per compensare la facilità maggiore con cui i titoli al portatore si sottraggono alla tassa di successione. È contraddittorio aumentare una tassa per compensare le frodi che avvengono in un’altra; e poi continuare a lagnarsi delle frodi, quando queste furono quasi legalizzate e compensate coll’avvenuto aumento della tassa di negoziazione!

 

 

Di adire frodi ancora si lagna l’amministrazione in materia di tasse di successione. Così si vuole che nella sola provincia di Genova sfuggano ogni anno alla tassa 15 milioni di lire di merci, cadute nelle eredità dei commercianti, con una perdita media per l’erario di 600.000 lire, a causa della impossibilità di trovare l’inventario o altro documento che ne provi la consistenza ed il valore. E si turba al pensiero del «pericolo, che sempre più si avanza, di vedere diminuire i proventi per tasse di successione col diffondersi dell’uso delle cassette forti di sicurezza presso istituti o banche, le quali cassette si prestano assai bene alle frodi, con l’offrire a persone facoltose il mezzo di tenere al sicuro valori ingenti, che poi non vengono denunciati né dagli eredi, né dai depositari, o di fare apparire tali valori come di altrui proprietà ed anche di creare passività fittizie, coprendo vere e proprie liberalità con dichiarazioni di pertinenza a persone che si vogliono beneficare. Tali dichiarazioni racchiuse nelle cassette, mentre sono conservate in modo da non costituire alcun pericolo pel dichiarante, finché rimane in vita, sono poi valide, come è stato risoluto, per l’esclusione delle presunte attività». Ancora si rammarica la Finanza perché, nelle eredità lasciate da un proprietario di navi aventi un valore di molti milioni, gli eredi, ove per loro fortuna manchino gli inventari con stima e le contrattazioni anteriori di non più di sei mesi, abbiano facoltà di denunciare le navi per poche migliaia di lire e la Finanza debba limitarsi a riscuotere la tassa di successione sopra l’inverosimile valore dichiarato.

 

 

Non è qui il luogo di seguire la esposizione delle maniere più acconce per combattere queste ed altre frodi. Alla vigile cura della Finanza si contrappone la sottigliezza dei privati; e come quella scopre il mezzo di impedire le frodi antiche, questi ne inventano delle nuove più accorte. Il che non è in tutto male; due essendo le preoccupazioni della Finanza, nobilissima l’una, meno utile l’altra, in questa lotta contro la frode fiscale. È nobile intendimento per fermo quello di impedire che alcuno si sottragga al suo debito tributario, in quanto la frode degli uni, immiserendo l’erario, lo costringe a gravare la mano su quelli che frodare non possono. Ma d’altro canto non è male che il tentativo della Finanza di costringere tutti a pagare le altissime aliquote italiane incontri una vivace resistenza nei privati. Se questi si acquetassero, e pagassero senza fiatare, anche la Finanza si adagerebbe sulle alte quote, paga dei guadagnati allori. La frode persistente la costringe a riflettere se non le convenga di ridurre le aliquote per indurre i contribuenti a miglior consiglio o per scemare il premio della frode. Il reato fiscale non è quindi sempre senza frutti: poiché ad esso si deve se qualcosa si ottenne in materia di minorazioni di aliquote: e più si otterrà quando tutti si convincano della necessità di semplificare ed attenuare le asprezze e le complicazioni delle nostre leggi di registro e bollo. A tal fine lavora una zelante Commissione istituita presso il Ministero delle finanze. A quando i risultati?

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