Opera Omnia Luigi Einaudi

Osservazioni sui sistemi elettorali nell’ipotesi che la scelta cada

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Osservazioni sui sistemi elettorali nell’ipotesi che la scelta cada

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 20-31

 

 

 

a)    A favore della rappresentanza proporzionale

 

Una osservazione preliminare è quella della necessità di ridurre ad uno solo i voti di preferenza consentiti all’elettore. I parecchi voti preferenziali di cui oggi l’elettore dispone, hanno avuto la conseguenza gravemente dannosa di eccitare la lotta tra i candidati della medesima lista per accaparrarsi il massimo numero di preferenze. Non sempre le attitudini richieste ai procacciatori di voti di preferenza coincidono con quelle che dovrebbero essere proprie di un deputato alla camera. Date le circoscrizioni elettorali spropositatamente ampie, l’elettore non è in grado di fare una buona scelta tra i candidati di ogni lista. Importa perciò ridurre in primo luogo a dimensioni più maneggevoli l’ampiezza delle circoscrizioni elettorali attuali, in modo da consentire a candidati ed a elettori una qualche possibilità di reciproca conoscenza; ed in secondo luogo di ridurre ad uno solo il voto di preferenza che ogni elettore può segnare sulla lista preferita. In tal modo ogni candidato sarà interessato a coltivare una parte soltanto del collegio così da aiutare nel tempo stesso i colleghi di lista e da curare gli interessi propri. In tal modo il sistema della rappresentanza proporzionale parteciperà in qualche misura ai vantaggi del collegio uninominale, di cui il precipuo sembra debba essere quello della possibilità data all’elettore di effettuare la sua scelta fra due o più facce note:

 

 

Dopo la quale premessa:

 

 

a)    dev’essere escluso il sistema del premio dato al gruppo il quale ottenga la maggioranza relativa. Il premio al gruppo di maggioranza relativa sarebbe considerato dall’opinione pubblica come un sopruso. Si dicono per definizione democratici o liberi i metodi i quali consacrano il diritto della maggioranza a governare e quello della minoranza a criticare, ma una maggioranza la quale sia tale soltanto perché una legge l’ha trasformata da minoranza in maggioranza non può non eccitare ira ed avversione nel corpo elettorale. Affermare nelle leggi che il 40% equivale a più del 50% è dire cosa contraria a verità e spinge istintivamente l’elettore a votare per i partiti o gruppi di partiti i quali si siano dichiarati contrari al sistema. Può darsi che l’elettore manifesti il suo sdegno astenendosi dall’andar e alle urne; ma il risultato è identico: rendere più facile la vittoria di coloro che si siano dichiarati contrari al sistema.

 

 

La massima contrarietà sarebbe eccitata da una norma di legge la quale dichiarasse che deve essere attribuito un premio a quella lista o combinazione di liste la quale raggiungesse almeno il 40 o 45 od anche il 48 o 49% dei voti validi. L’elettore sarebbe assai più ancora irritato della sfrontataggine con cui si enuncia un numero inferiore al 50%+1 che non della semplice più vaga dichiarazione di un premio dato ad un gruppo di maggioranza relativa. Gli oppositori non mancherebbero di accusare l’espediente in tutti e due i casi come una truffa, ma nel primo caso la truffa parrebbe più sfacciata.

 

 

b)    Nessuna obiezione può invece in principio essere elevata contro il premio assegnato al partito od al raggruppamento di partiti il quale abbia raggiunto la maggioranza assoluta dei voti validi (50% + 1). Gli elettori, che sono in genere persone di buon senso, si persuadono facilmente che una camera non è un consesso di dotti. Nei consessi di dotti, ovverosia accademie, non si delibera niente, perché i principi scientifici possono essere oggetto di discussione, non mai di deliberazione. Quindi non c’è nessun male che nelle accademie siano rappresentate tutte le opinioni; invece le camere sono fatte per fabbricare governi che governino e nei paesi dell’Europa continentale un governo, il quale disponga esattamente della metà più uno dei deputati, è alla mercé di qualunque impreveduto incidente. Gli elettori di buon senso capiscono subito che ci vuole un certo margine di voti per governare: quindi nessuno può parlare di imbroglio, inganno o truffa quando al gruppo il quale abbia ottenuto la maggioranza assoluta dei voti validi sia concesso il premio sufficiente a consentirgli di governare.

 

 

Quale sia questo premio si può dire solo per approssimazione: esso dovrebbe all’incirca consentire al gruppo di maggioranza di disporre del 60% dei deputati alla camera; tenendosi il più possibile lontano dai due terzi. Naturalmente ciò si dice supponendo che i voti validi assegnati al gruppo di maggioranza raggiungano a malapena o superino di poco il 50%+1. Naturalmente se i voti validi assegnati al gruppo di maggioranza superassero, per ipotesi, i due terzi, non ci sarebbe niente da obiettare contro la volontà apertamente manifestata dagli elettori.

 

 

Nel caso più probabile che i voti validi assegnati al gruppo di maggioranza non diano alla maggioranza della camera la capacità di governare con una certa sicurezza, occorre un premio.

 

 

Come questo premio debba essere calcolato è problema secondario. Ciò che importa notare è che, se ci dev’essere, esso non dev’essere tale mai da far superare ai deputati del gruppo di maggioranza i due terzi del numero totale dei componenti della camera. Non si sa quale potrebbe essere in materia l’opinione della Corte costituzionale se questa esistesse e se una sua decisione in merito fosse sollecitata; pare certo che un premio così fatto contraddirebbe allo spirito della costituzione. Non contraddice alla costituzione una legge elettorale la quale consenta al governo di maggioranza di governare; vi contraddice però un premio il quale tolga alla minoranza il diritto che essa indiscutibilmente ha di opporsi efficacemente alle riforme della costituzione vigente. Perché, in assenza di referendum, una riforma della costituzione sia approvata, occorre la maggioranza dei due terzi di ognuna delle due camere. Quindi una minoranza la quale conta più di un terzo del numero totale dei membri della camera ha diritto di porre il veto ad una riforma costituzionale che ad essa non sia gradita. Non pare sia lecito di togliere, con un espediente della legge elettorale, questo diritto di veto a favore della minoranza implicitamente contenuto nella costituzione. Una maggioranza parlamentare, la quale non abbia superato in virtù dei voti validi espressi dagli elettori i due terzi del numero totale dei membri della camera, ha bensì diritto di esprimere un governo capace di governare, ma non ha diritto di imporre alla minoranza riforme costituzionali ripudiate dalla minoranza medesima.

 

 

c)    È ovvio che se nessuno dei partiti o dei gruppi avrà raggiunto il 50%+1 dei voti validi, la distribuzione dei seggi dovrà aver luogo secondo il sistema della proporzionale pura. Non perciò il metodo seguito rimarrà senza efficacia. Invero la prospettiva del premio assegnato al gruppo il quale avesse raggiunto il 50% + 1 dei voti validi avrà necessariamente persuaso i partiti affini a raggrupparsi. Gli uni si saranno raggruppati col metodo dell’imparentamento; gli altri si saranno raggruppati fondendosi insieme in una lista unica.

 

 

Il fatto della presentazione agli elettori sia in liste imparentate, sia in una sola lista risultante dalla fusione di parecchie liste non potrà in ogni caso essere obliterato. Nella ipotesi che il gruppo delle liste imparentate abbia ottenuto un numero di voti validi superiore a quello raggiunto da altre liste imparentate o da liste risultanti dalla fusione di candidati di parecchi partiti, la designazione del corpo elettorale al capo dello stato rimarrà.

 

 

Il capo dello stato avrà una chiara indicazione da parte degli elettori, indicazione della quale egli dovrà tenere il dovuto conto.

 

 

Aprile 1953.

 

 

b) A favore del collegio uninominale

 

 

Le seguenti considerazioni non intendono discutere il problema di sostanza: se la scelta di un certo numero di deputati in un collegio più o meno ampio sulla base della proporzionale sia o non preferibile alla scelta di un unico deputato a maggioranza in un collegio piccolo. Esse vertono esclusivamente su un problema subordinato: ove si ritenga consigliabile il ritorno al collegio uninominale, quale metodo di ballottaggio è preferibile?

 

 

Coloro i quali intendono ritornare al collegio uninominale sono evidentemente poco soddisfatti del modo con cui di fatto la proporzionale è stata applicata in Italia.

 

 

Uomini politici appartenenti a partiti di massa ed a partiti piccoli riconoscono che «in principio» ogni partito dovrebbe sperare di ottenere dalla proporzionale quel risultato che meglio risponde alla sua forza nel paese. Ogni candidato giustamente può dire agli elettori che il voto che questi si apprestano a dargli non va mai perduto e che quindi l’elettore non deve avere nessuna esitazione a dare il proprio voto al candidato del suo cuore.

 

 

Forse è però eccessivo supporre che, nell’atto di votare, l’elettore compia ragionamenti a lunga portata. La sua psicologia è sostanzialmente semplice. L’elettore medio è come le pecore che, dove l’una va e le altre vanno. Per quanto si spieghi e dimostri che il voto, in qualunque modo dato, non va mai perduto e che perciò si può votare anche per i candidati di partiti piccoli o nuovi, gli elettori sono spinti a credere invece in coloro i quali sostengono che, soltanto attruppandosi con i più, l’elettore può farsi valere o può evitare mali maggiori o conseguire vantaggi migliori. I fautori della proporzionale commetterebbero dunque l’errore psicologico di supporre che una tendenza, un programma, un partito riesca ad affermarsi in proporzione al numero di coloro che seguono quella tendenza e vorrebbero attuare quel programma, veder trionfare quel partito. La esperienza sembra dimostrare che questo è un errore elementare di psicologia. L’elettore vota non per il candidato del suo ideale, ma per il candidato che, negli amplissimi confini di un certo ideale od interesse, si presenta come il più forte. La proporzionale, sia pure la più perfetta, favorisce i forti e trascura i piccoli; segue le masse e lascia indietro le pattuglie.

 

 

La lotta nel sistema proporzionale, epperciò in vasti collegi, è d’altro canto assai costosa. Singoli elettori ed enti forniscono mal volentieri aiuti finanziari a gruppi o partiti di scarsa importanza, e, per la esperienza passata, sospetti di avere sempre minore importanza nell’avvenire. La propaganda in collegi vastissimi è assai difficile per i candidati non appartenenti ad una organizzazione potente. Contrariamente alle speranze dei suoi fautori, la proporzionale in Italia non ha impedito che la lotta tendesse a ridursi ai maggiori partiti; ed in questi tendesse a favorire i candidati appoggiati dalle direzioni centrali. Né si è sicuri che la scelta nel seno dei partiti avvenga nel modo più opportuno. Per il gioco delle preferenze, si osserva che il voto popolare non sempre favorisce i migliori, ma piuttosto i candidati più abili a procacciarsi preferenze.

 

 

Di qui e da altre cause, le aspirazioni al ritorno a collegi uninominali piccoli con un deputato unico; nel quale ogni partito presenta un solo candidato ed è eletto colui il quale ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi.

 

 

Il collegio uninominale offre taluni vantaggi notevoli. Le spese della propaganda diminuiscono; in parte sono assunte dal singolo candidato, con risparmio delle casse centrali dei partiti. L’appello ideologico che il candidato fa agli elettori è rafforzato dalle conoscenze personali che una persona nota e stimata può essersi procacciato in una piccola circoscrizione, dove i grossi programmi hanno una presa modesta e conta assai la dimestichezza che l’elettore ha con la persona del candidato.

 

 

Si osserva tuttavia che la tendenza a ridurre i partiti a due soli, con offesa alla varietà di opinioni che in realtà esiste in ogni paese, è assai e forse più accentuata ancora nei paesi a collegio uninominale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, ambi attaccatissimi al collegio uninominale, i partiti minori tendono a scomparire; e ne è prova evidente la riduzione progressiva dei deputati liberali alla Camera dei comuni inglese. Alla vigilia della prima grande guerra i liberali erano ancora uno dei partiti di governo; ora la loro rappresentanza alla camera è ridotta a sette.

 

 

Le cause della progressiva scomparsa dei liberali in Inghilterra sono in verità parecchie e tra le principali è che il liberalismo ha informato di sé così profondamente tanto i conservatori che i laburisti che gli elettori non ritengono più necessario di dare il voto ad un candidato liberale quando i principi del liberalismo sono comuni a tutti i partiti.

 

 

Ma i liberali inglesi son persuasi che al risultato per essi lagrimevole abbia potentemente contribuito anche il sistema della elezione a maggioranza relativa in un collegio uninominale senza ballottaggio. L’elettore deve decidersi subito in una sola domenica e deve dare il proprio voto a chi, pur rappresentando le sue idee, abbia però maggiori probabilità di vincere.

 

 

Anche se egli desidererebbe votare liberale, l’esperienza passata gli dimostra che nella maggior parte dei collegi a tre candidati – conservatore, laburista e liberale – quello liberale per lo più viene in coda; epperciò egli fa il calcolo delle forze politiche esistenti e, siccome massa fa massa, egli, pur rammaricandosi in cuor suo che nessuno dei due sia quegli che egli preferirebbe, vota ora per il laburista e ora per il conservatore, a seconda che la bilancia penda più verso l’uno o verso l’altro. Siccome il candidato liberale ha minori probabilità, egli, votando per il conservatore o il laburista, in realtà vota contro quegli tra i due che gli è più inviso.

 

 

La colpa della scomparsa progressiva dei partiti minori, a favore di due soli, non sarebbe dunque del collegio uninominale; ma di una caratteristica non necessaria di esso: la vittoria data al candidato che viene primo, anche se esso non ottiene la maggioranza assoluta, il 50%+1, dei voti validi; ma solo il 40, il 45% ecc. Esigiamo la maggioranza assoluta; ed il difetto è tolto. La obbiezione è ovvia: e se nessuno ottiene la maggioranza assoluta?

 

 

Il rimedio, ovvio agli occhi degli italiani, i quali lo hanno applicato per decenni, è il collegio uninominale con votazione di ballottaggio. In questo modo l’elettore, che di solito ama la gara e sa che la partita alla prima può non essere definitivamente persa o vinta, nella prima domenica vota per il candidato suo preferito. Egli sa che in ogni caso, eccetto quello in cui si manifesti una maggioranza chiara assoluta per un dato candidato, egli avrà ancora diritto di farsi valere. Se il suo candidato non riesce, è possibile tuttavia che nessuno riesca e che nella domenica successiva l’elettore sia chiamato a decidersi fra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. Non è escluso che il candidato di un partito minore riesca, sia pure a distanza del primo, a collocarsi secondo; ed in tal caso è possibile che nella seconda domenica gli elettori, che avevano votato per i candidati rimasti al terzo o quarto posto, riversino i loro voti sul candidato numero due, meno alieno alle loro ideologie del candidato numero uno.

 

 

Questa è la filosofia del ballottaggio. L’aspettazione del ballottaggio implica l’ossequio alla varietà delle opinioni. La gara eccita gli elettori a manifestare nella prima domenica liberamente le proprie preferenze. Alla ripresa, nella seconda domenica, se la prima non ha palesato dove stia la maggioranza assoluta, gli elettori si decidono fra i due che essi medesimi hanno classificato primi. Le regole del gioco sono lealmente osservate. Che cosa si vorrebbe di più?

 

 

Fa d’uopo riconoscere che quella filosofia ha funzionato male nel tempo in cui in Italia il metodo del ballottaggio era applicato. Nella seconda domenica gli elettori, i quali avevano votato per il candidato riuscito al terzo o quarto posto, avrebbero dovuto, ragionando, scegliere, tra i due primi riusciti, il candidato più affine alle loro opinioni. La realtà era tutta diversa. Nell’intervallo fra la prima e la seconda domenica i voti erano oggetto di affannoso traffico tra i candidati riusciti agli ultimi posti da una parte e ciascuno dei primi due riusciti dall’altra parte. Accadevano in quella settimana negoziazioni invereconde: candidati che sino alla prima domenica si erano insultati a vicenda come bari, malversatori, concussionari e simiglianti cortesie, non avevano scrupoli a vendersi i voti dei loro elettori, sia in seguito a svariate promesse di favori locali, sia contro cambio di appoggi in collegi vicini, sia persino qualche volta per compensi pecuniari.

 

 

Le negoziazioni di ballottaggio sostanzialmente intaccavano però sovratutto l’onorabilità dei singoli candidati, non quella di interi partiti.

 

 

Oggi il ballottaggio sarebbe di ben più grave danno per la reputazione del parlamento. Le contrattazioni avverrebbero non più tra i singoli candidati, non danneggerebbero più soltanto la loro rispettabilità personale: il sistema medesimo sarebbe gravemente minorato nell’opinione pubblica. Si vedrebbe il candidato del partito missino incitare i propri elettori a votare per il comunista; il candidato del partito socialista pregare i propri elettori a votare democristiano; il liberale a favorire il socialista. Lo scandalo sarebbe così grosso da mettere in pericolo la permanenza del sistema parlamentare.

 

 

In Inghilterra i liberali hanno da tempo invocato un rimedio, che essi chiamano del voto alternativo. Il rimedio non ha incontrato obiezioni di principio. Alcuni tra i maggiori uomini politici, sia tra i conservatori come tra i laburisti e basti citare Sir Winston Churchill, ne hanno riconosciuto giusto il fondamento; e solo la massa degli eletti dei due partiti, che teme di perdere qualche posto per la ripresa eventuale dei liberali, vi si è dimostrata ostinatamente contraria.

 

 

Per renderlo più facilmente comprensibile agli italiani, è opportuno denominarlo ballottaggio preventivo. Il sistema è semplice: non c’è più ballottaggio; si vota una sola volta. L’elettore ha a propria disposizione due voti: il primo voto è quello valido in prima linea. Se i candidati sono tre, Tizio, Caio e Sempronio, l’elettore vota in prima linea, suppongasi, Tizio. Se Tizio riesce perché ha raggiunto il 50%+1 dei voti validi, la cosa è finita. Se Tizio non riesce e se non riesce nessun altro dei tre candidati, e l’elettore in seconda linea ha votato per Caio, ed altri hanno votato per Tizio e Sempronio, si fa il conto e si vede quale dei tre candidati ha ottenuto il maggior numero di voti. Tenendo conto dei voti in prima ed insieme di quelli in seconda linea, riesce eletto colui il quale ha ottenuto la maggioranza, almeno relativa, dei voti validi. Sulla maggioranza assoluta non si può tuttavia fare in ogni caso assegnamento, perché il sistema non consente una seconda votazione.

 

 

Facciamo un esempio. Supponiamo che i candidati siano tre e che, per non parlare dei casi nostri, si parli di elettori inglesi. Gli elettori, per semplicità, si supponga votino tutti anche per un secondo nome.

 

 

 

Conservatore

 

Laburista

 

Liberale

Totale

voti validi

 

Voto in prima linea

500

400

300

1200

Voto in seconda linea degli elettori che in prima linea avevano votato:
Conservatore

100

400

500

Laburista

100

300

400

Liberale

200

100

300

800

600

1000

2400

 

 

Nessuno è eletto coi voti dati in prima linea, nessuno avendo raggiunto il traguardo dei 601 voti.

 

 

In seconda linea chi ha votato conservatore, non può votare di nuovo per il conservatore, perché il secondo voto sarebbe nullo; nessuno potendo ricevere dallo stesso elettore più di un voto. Supponiamo, come è probabile, che i 500 voti conservatori si riversino più sul liberale che sul laburista: 400 contro 100. I voti laburisti vadano in preferenza al più affine liberale: 300, contro 200 al conservatore; ed i voti liberali piuttosto al conservatore: 200, contro 100 al laburista. Come si vede dalla tabella, riesce il candidato liberale, invece del conservatore, come accadrebbe oggi in quel paese, dove è eletto colui che in prima votazione ottiene la maggioranza relativa.

 

 

Il caso è estremo; ma non impossibile. In realtà non tutte le schede recheranno il secondo voto; e le combinazioni saranno infinite. Quel che si può dire è che riuscirà il candidato il quale fruirà della somma delle maggiori simpatie positive e delle minori antipatie negative. Ed il risultato sembra rispondere abbastanza bene all’esigenza di rispecchiare quella entità complessa che è la volontà nazionale.

 

 

L’elettore non è obbligato a votare qualcheduno in seconda linea. Egli deve decidere, sia spontaneamente, sia per suggerimento del partito a cui appartiene, se ed a quale dei candidati egli è disposto a dare il suo voto in prima e, se così gli piace, in seconda linea. Se il candidato da lui preferito non riesce subito, non è concepibile che l’elettore, deciso a votare democristiano, abbia dato in seconda linea il proprio voto ad un comunista e viceversa. Né i dirigenti di ogni partito sono disposti a consigliare preventivamente ai propri elettori di votare in seconda linea per un candidato le cui idee siano profondamente repugnanti a quelle del partito.

 

 

Le contrattazioni scandalose proprie del sistema del ballottaggio non sono concepibili.

 

 

Lo scandalo si verificava un tempo perché le contrattazioni avevano luogo a posteriori, dopo che si conosceva l’esito della prima votazione e quando la scelta era limitata ai due primi classificati.

 

 

Nel sistema del voto alternativo o ballottaggio preventivo la indicazione del secondo candidato dev’essere fatta invece a priori. Non è possibile che un partito perda la faccia di fronte agli elettori raccomandando ad essi, prima del voto, di mettere in seconda linea il nome di un candidato che esso dichiara, in quel momento stesso, essere il nemico della patria o dei lavoratori o di quell’altro gruppo o tendenza sociale che il partito medesimo intende rappresentare. Ogni elettore sarà consigliato o a non scrivere nessun nome al secondo posto od a scrivere come secondo nome quello del candidato che reputa essere più affine o meno lontano dalle proprie idee; e poiché il candidato di ogni partito non può essere che uno solo, né un qualsiasi partito ha interesse a disperdere le proprie forze tra due candidati, le probabilità sono perché l’alternativa vada a favore dei candidati dei partiti ideologicamente più vicini o meno lontani.

 

 

Il sistema del ballottaggio preventivo nei collegi uninominali piccoli ha qualche tratto apparente in comune col metodo degli imparentamenti nei collegi grossi con proporzionale.

 

 

In verità si tratta di cosa assai diversa. Nella proporzionale gli imparentamenti devono essere dichiarati ufficialmente qualche tempo prima delle elezioni; implicano una intesa fra i partiti, ed i partiti minori ne riescono sempre più o meno screditati. L’elettore dice: «Perché votare per un liberale o per un repubblicano quando costoro mi dicono di essere parenti del democristiano? Siccome noi sappiamo che essi sono i parenti poveri, tanto vale votare per il parente ricco».

 

 

Col ballottaggio preventivo gli imparentamenti non sono formalmente dichiarati secondo una norma di legge: gli elettori scelgono, se vogliono, secondo i loro gusti. I partiti fanno raccomandazioni le quali, nel segreto delle urne, possono essere o non seguite. Può darsi che qualche volta il secondo voto del democristiano faccia riuscire un liberale, ma può darsi anche che il secondo voto del liberale faccia riuscire il democristiano. Non c’è un do ut des contrattato pubblicamente ed in blocco. Esistono consigli di preferire per il secondo voto l’uno o l’altro candidato; preferenze le quali non hanno niente a che fare con quelle del sistema proporzionale, le quali creano la lotta tra i candidati dello stesso partito a tutto vantaggio di quei partiti nei quali, per la severa disciplina, non esistono lotte di preferenze.

 

 

La sola obiezione ragguardevole contro il metodo del ballottaggio preventivo fu quella venuta fuori da una conversazione. Un membro illustre di un partito osservò: «Nel mio collegio gli elettori darebbero certamente in maggioranza il primo voto ad un candidato democristiano, persona stimata e ben nota alla popolazione; ma il secondo voto quegli stessi elettori, che votano in prima linea per il candidato democristiano, lo darebbero al candidato comunista, non perché comunista, ma perché anch’egli persona degna e rispettata». Può darsi che il caso si verifichi, ma sembra che debba rimanere nel novero delle possibilità rare; limitato a quei non numerosi collegi in cui la lotta politica si confonde ancora quasi interamente con la gara di tradizioni famigliari o con l’ossequio alle persone.

 

 

Taluno potrebbe concludere che il sistema del collegio uninominale con ballottaggio preventivo favorirebbe la riuscita di persone di rilievo che non siano i rappresentanti di gruppi sociali organizzati a masse. Sarebbe cioè assicurata la presenza in parlamento di un nucleo, forse non dominante, ma influente, di deputati poco inclini a diventare un numero in un grande gregge. S’intende che il sistema produrrebbe i risultati auspicati e probabili solo quando ci siano sul serio idee da contrapporre a idee, uomini credenti in queste idee e perciò rispettabili.

 

 

In verità, questa, più che una previsione, è una speranza di chi è favorevole, per altre ragioni, al collegio uninominale. Le osservazioni fatte sopra consentono soltanto le seguenti conclusioni:

 

 

a)    Il collegio uninominale a maggioranza assoluta e con ballottaggio successivo porta probabilmente allo schiacciamento dei piccoli partiti;

 

b)    il collegio uninominale a maggioranza relativa e senza ballottaggio accentua siffatta tendenza;

 

c)    il collegio grande con proporzionale non sembra aver avuto per i piccoli partiti risultati sensibilmente migliori di quelli ottenuti col sistema a);

 

d)    Il collegio uninominale a maggioranza assoluta e con voto alternativo (sinonimo di ballottaggio preventivo) apre uno spiraglio alla sopravvivenza dei piccoli partiti, i quali si raccomandino per i loro programmi agli elettori.

 

 

22 dicembre 1953.

Torna su