Opera Omnia Luigi Einaudi

Prestito o fondo per gli sgravi?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 08/01/1907

Prestito o fondo per gli sgravi?

«Corriere della Sera», 8 gennaio 1907

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 456-461

 

 

Il concetto di un «fondo per gli sgravi» che abbiamo ripetutamente esposto e difeso su queste colonne, va facendo la sua strada. L’opinione favorevole ad una riduzione dei tributi, che era rimasta un po’ nell’ombra quando tutti gridavano alla necessità di rinforzare i pubblici servizi, trova un’altra volta seguito. Autorevoli parlamentari hanno espresso alla tribuna della camera il convincimento che un passo si dovesse fare sulla via degli sgravi; e che sovratutto fosse d’uopo restituire ai contribuenti i 20 milioni derivanti dalla conversione della rendita. Il governo – per bocca dell’on. Majorana – ha dichiarato che ad una riforma tributaria si stava pensando; ha preso l’impegno di dedicarvi per l’appunto i noti 20 milioni, che ha affermato salvi dagli impegni di nuove spese; e solo per ragioni di opportunità (trattative commerciali in corso con la Russia, ecc.) ha chiesto tempo a palesare i suoi intendimenti di riforma.

 

 

Senonché un pericolo rimane sempre. Con 20 milioni poco si può fare; od almeno poco si crede di poter fare: tutt’al più, si dice, una piccola riduzione di un tributo sui consumi, che darà ad ogni italiano l’annuo beneficio medio di un 60-70 centesimi. Dinanzi a così tenue cosa, ecco drizzarsi i sostenitori di spese, i quali magnificano l’utilità di migliori, cresciuti, nuovi pubblici servizi, ed additano una via, più facile e tale da procacciare il plauso più intenso, se non più largo, da parte dei gruppi e dei luoghi beneficati. La contesa fra i fautori degli sgravi e i patrocinatori delle spese finirebbe con la sicura vittoria di questi ultimi, se un altro elemento non entrasse in giuoco a tentare di far preponderare la bilancia dal lato degli sgravi. In sostanza, è il medesimo concetto della efficacia riproduttiva delle riduzioni d’imposte che noi abbiamo messo innanzi col nome di «fondo per sgravi»; ma viene espresso in diversa maniera.

 

 

Non è vero – afferma ad esempio il professor Antonio Graziadei in alcuni recenti articoli dell’ «Avanti!» – che 20 milioni siano pochi per una riforma tributaria. Anzi, quando si sappia trarne partito, sono molti, e permettono di ridurre alcuni tributi ed insieme di migliorare i pubblici servizi.

 

 

Il contribuente italiano era abituato a pagare ogni anno 20 milioni di lire, che erano trasmessi ai creditori dello stato. Adesso che l’interesse è ridotto dal 4 al 3,75%, lo stato paga gli interessi dovuti con 20 milioni di meno. Supponiamo per un momento che lo stato non voglia saperne di fare questo risparmio annuo, e che intenda di pagare per il debito pubblico la medesima somma di prima. Esso potrà, ad esempio, fare un debito ammortizzabile in 40 anni al 3,50% di circa 427 milioni di lire, al cui servizio (interessi ed ammortamento) applicherà i 20 milioni di utili della conversione. I contribuenti continueranno a pagare come prima, la spesa per il debito nuovo sarà coperta; ma lo stato si troverà nelle casse la bella somma di 7 milioni di lire circa. Supponiamo ora che lo stato, forte di questo presidio monetario, voglia tentare una speculazione industriale simili a quelle che sono condotte tutte a termine con successo da tanti imprenditori privati, e dica: I contribuenti italiani pagano oggi (prendiamo gli esempi del Graziadei) lo zucchero lire 1,50 al kg (comprese lire 0,99 tra imposta e protezione ai fabbricanti); ed il petrolio lire 0,65, 0,70 al litro (comprese lire 0,48 al kg ossia lire 0,38 al litro di imposta); e di pagar tanto si lagnano, magro conforto trovando nel pensare che lo stato esige ogni anno lire 77.600.000 dallo zucchero e lire 32.000.000 dal petrolio. Questi alti redditi oggi li ottengo mettendo imposte fortissime che superano d’assai il valore d’origine della merce tassata. O non si potrebbe tentare di ottenerli egualmente col metodo inverso di mettere imposte miti e di promuovere così un vivace aumento dei consumi? Se, ad esempio, riducesse l’imposta e la protezione sullo zucchero da lire 0,99 a lire 0,55 al kg, il prezzo dello zucchero scemerebbe da lire 1,50 a lire 1,07 il kg, ossia di quasi il 30%; e se riducesse l’imposta sul petrolio da lire 48 a lire 12, il prezzo scenderebbe da lire 0,70 a lire 0,45 al litro, ossia del 35%. Basterebbe che ai nuovi prezzi il consumo dello zucchero raddoppiasse e quello del petrolio quadruplicasse perché l’erario tornasse ad incassare la stessa precisa somma che incassa oggi. Il risultato non si raggiungerebbe in un batter d’occhio; e forse occorrerebbero anni; ma in un certo numero di anni l’aumento si verificherebbe sicuramente. Anche con un consumo doppio dello zucchero noi rimarremmo inferiori assai al consumo dell’Austria, e giungeremmo appena al 40% di quello della Francia o della Germania e ad un settimo di quello dell’Inghilterra. Non parliamo del petrolio, le cui nuove applicazioni rendono modesta la previsione di un consumo quadruplo, di gran lunga superato in paesi esteri. Il punto difficile è di stabilire il numero d’anni entro cui l’aumento del consumo dovrà riportare il reddito fiscale alla cifra odierna. Il Graziadei lo suppone di cinque anni, durante i quali la perdita dell’erario potrà al massimo essere di 62 milioni di lire (38 sullo zucchero e 24 sul petrolio). Il fondo dei 427 milioni di lire del prestito fatto cogli utili della conversione servirà appunto ad indennizzare il fisco delle perdite momentanee. Se anche supponessimo una perdita costante di 62 milioni di lire l’anno, mentre in realtà sarebbe decrescente e tenderebbe a zero nel sesto anno, sarebbero 310 milioni di lire circa da prelevare sul fondo del prestito. Avanzerebbero ancora 117 milioni per tante altre belle cose e sovratutto per il riordinamento dei pubblici servizi.

 

 

Naturalmente, perché l’operazione riesca, bisogna scegliere derrate il cui consumo possa aumentare; ed è per tale motivo che lo zucchero ed il petrolio sono preferibili al sale ed al grano, quantunque questi ultimi, e specialmente il grano, possano raccomandarsi da altri punti di vista. Sale e grano sono derrate a consumo rigido; e quindi una riduzione d’imposta per esse significherebbe una perdita secca per il fisco; mentre quel che occorre è una perdita momentanea, decrescente e tale da poter essere colmata prima che sia esaurito il prodotto del prestito.

 

 

Al progetto del Graziadei noi non faremo l’obiezione di massima che non si debbono far debiti per diminuire le imposte. A questa stregua non bisognerebbe nemmeno diminuire le tariffe ferroviarie, quando lo si creda opportuno per aumentare il traffico ed il reddito netto futuro, perché lo scopo non si può ottenere senza crescere gli impianti ed il materiale rotabile e sono perciò necessari impieghi di capitali presi a prestito. O non è oramai invece passato in giudicato – anche tra coloro che più erano avversi tempo fa a qualunque forma di debito – che i prestiti ferroviari sieno utili invece quando si può presumere che il loro servizio (interessi ed ammortamento) possa farsi col prodotto cresciuto del traffico? Il caso di un prestito per una trasformazione tributaria non è sostanzialmente identico? Invece di dedicare ad un solo e piccolo sgravio 20 milioni di lire all’anno, si consacrano quei 20 milioni a pagare gli interessi e l’ammortamento in 40 anni di un prestito di 427 milioni; e con questo ingente fondo di riserva lo stato affronta i pericoli di momentanee perdite derivanti da una riforma tributaria più vasta e più utile pei contribuenti.

 

 

Se in Italia si osasse dagli uomini politici non diciamo fare in grande, ma fare con lo sguardo fisso ad un programma d’insieme, questo del Graziadei od un altro consimile progetto potrebbe formare la base di una utile discussione. Tecnicamente esso ci sembra presentare il difetto di un apparecchio troppo grandioso per un fine troppo modesto. Con un fondo di riserva di 427 milioni di lire si dovrebbe poter osare qualche altra riforma oltre gli sgravi sul petrolio e sullo zucchero. Non si corre però il pericolo di suscitare troppi desideri e di mettere in forse quella parte del fondo che deve essere riservata agli sgravi? Temiamo poi molto che l’idea di dover perdere 62 milioni di lire di entrata annua, sia pure colla speranza di prossimi ricuperi, e coll’appoggio del prestito dei 427 milioni, sembri terrificante alla gran maggioranza dei parlamentari; e faccia perdere un tempo prezioso. In politica si scelgono non i piani più belli ma quelli che si raccomandano meglio per semplicità e pronta applicazione. Il nostro vecchio concetto del fondo degli sgravi, ci sembra perciò preferibile a quello del prestito per gli sgravi, tanto più che può condurre a risultati non molto diversi.

 

 

Noi diciamo: l’opinione che con i 20 milioni della conversione si possa far poco deriva sovratutto dall’erronea credenza che, una volta impiegati in un qualunque sgravio, essi siano perduti per sempre. Se invece si costituisse, con quei 20 milioni (che il ministro Majorana afferma integri e salvi dalla marea montante delle spese), e con gli altri 20 che verranno nel 1912, un «fondo per gli sgravi» destinato esclusivamente a colmare i deficit derivanti dalle riduzioni di tributi, subito si vedrebbe che quel fondo ha la virtù di rinascere dalle sue ceneri. Supponiamo ad esempio che si riduca nel 1907-908 da 48 a 12 lire il dazio sul petrolio. Per quell’anno forse la perdita dello stato sarebbe di 20 milioni e il fondo sarebbe tutto assorbito. Ma nel 1908-909 la perdita probabilmente, per il crescere del consumo, sarà solo di 16 milioni; ed al fondo rimarrebbero 4 milioni. E così via si può supporre che nel 1909-10 rimangano al fondo 8 milioni, nel 1910-11, 12 milioni, nel 1911-12, 16 milioni. Nel 1912-13 la perdita dello stato a causa della riduzione del dazio sul petrolio è di soli 4 milioni; e viceversa il fondo degli sgravi è salito per il contributo dell’anno a 40 milioni, per la riduzione automatica della rendita dal 3,75 al 3,50%, con i quali si può tentare la riforma del regime degli zuccheri. Dopo la quale nulla vieta, che, sempre col medesimo presidio, si tenti il passaggio delle imposte reali ai comuni e l’istituzione di un’imposta personale di stato sul reddito. Altri preferirà invertire l’ordine e far precedere gli zuccheri al petrolio, o magari a tutti due una più radicale riforma tributaria. Sono problemi importantissimi, che si debbono discutere a parte. Quel che importa affermare e sostenere è la necessità di cominciare una qualche riforma tributaria, che abbia effetto continuativo e sia feconda di risultati importanti. A raggiungere lo scopo è indispensabile il presidio di una riserva monetaria capace a sorreggere lo stato attraverso i periodi momentanei di trasformazione. Il sistema di riserva più semplice ed agevole noi l’avremmo indicato nel «fondo degli sgravi». Non ci dorremmo affatto che venisse adottato un altro qualsiasi metodo, che si chiarisse più adatto. Ci dorremmo invece assai se nulla si facesse, o se si facessero gli sgravi o le riforme tributarie a spizzico, senza spirito di continuità. Poiché grande sarebbe allora il nostro timore che la riforma avesse a riuscire una misera cosa infeconda.

 

 

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