Opera Omnia Luigi Einaudi

Rileggendo Ferrara – a proposito di critiche recenti alla proprietà letteraria ed industriale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1940

Rileggendo Ferrara – a proposito di critiche recenti alla proprietà letteraria ed industriale

«Rivista di storia economica», V, n. 4, dicembre 1940, pp. 217-256

 

 

 

1.-Qui non si vuole riprendere la discussione intorno ai beni “immateriali”. Lo Jannaccone ne riassunse lapidariamente le tre fasi così:

 

 

“-nella prima, (i fisiocrati, Adamo Smith) la distinzione fra beni materiali ed immateriali è posta, ed è affermato che soltanto cose materiali possono essere considerate come beni economici;

 

 

– nella seconda, (G. B. Say, Dunoyer) la distinzione è mantenuta, ma viene affermato che anche prestazioni e rapporti, non concretati in cose materiali, debbono comprendersi fra i beni economici;

 

 

– nella terza (Francesco Ferrara), la distinzione è negata e la opposizione fra le tesi della prima fase e l’antitesi della seconda è superata e conciliata col sostenere che non esistono beni soltanto materiali e beni soltanto immateriali, perché tutto ciò che promana dall’uomo ed è diretto all’uomo è necessariamente un misto di materiale e d’immateriale: la sintesi (in “Lezioni di economia politica”, p. 27)”.

 

 

La discussione, chiusa con le due “prefazioni” del Ferrara alle opere dello Storch (“Discussione sulla teoria dei prodotti immateriali”, introduzione del 1853 al quarto vol. della prima serie della “Biblioteca dell’economista”) e del Dunoyer (“Teoria dei prodotti immateriali”, introduzione del 1859 al settimo vol. della seconda serie della stessa “Biblioteca”) è qui ricordata soltanto a cagione del profitto che ne trasse il Ferrara nella battaglia invano sostenuta contro il principio della proprietà letteraria ed industriale (brevetti od attestati di privativa per invenzioni industriali).

 

 

2. La distinzione non esiste, esclama il Ferrara:

 

 

“Ho detto che tutte le produzioni hanno i due stadii, di forma utile e di effetto utile; e che noi siam liberi di riunire queste due fasi in un sol fenomeno complessivo, o separarli. Ma noi non possiamo, senza essere illogici, accorciare in un caso, ed elargare in un altro, i limiti del fenomeno, per inferire da questo modo arbitrario di determinarlo che alcuni prodotti sono materiali ed altri nol sono. Se noi poniamo per termine del fenomeno lo stadio del consumo, ne verrà che tutte indistintamente le produzioni si dovranno considerare come operanti sull’uomo, ed apparterranno perciò alla classe delle immateriali. Se invece ci arrestiamo alla fase della generazione d’una forma utile, nessuna industria si potrà dire operante sull’uomo, tutte si troveranno limitate alla trasformazione della materia; e i prodotti immateriali finiranno di esistere.

 

 

“Il panattiere crea un pane, il professore crea una lezione. Nel sistema di Dunoyer si dirà che il panattiere ha dato un prodotto materiale, il professore ha dato un prodotto immateriale. Può ciò sostenersi? No, se la parola prodotto significa in ambi i casi la stessa cosa; sì, se la si fa significare due cose diverse.

 

 

“Se si vuole che prodotto significhi tutto il fenomeno, la creazione della forma utile e poi il consumo di questa forma; noi troveremo che la lezione modifica il cervello di chi l’ascolta, e il pane modifica le viscere di chi lo mangia: tanto dunque può dirsi che lavora sull’uomo il professore che lo istruisce, quanto ciò dee dirsi del panattiere che lo nutre.

 

 

“Se si vuole che prodotto significhi soltanto la prima parte del fenomeno, la creazione della forma, senza tenersi alcun conto dell’effetto che verrà dal consumo, si dee volerlo per ambi i casi. Allora, il pane, non per anco consumato, non accostato alla bocca d’un uomo, è un prodotto che non opera la modificazione di un essere umano: io lo concedo benissimo a Dunoyer. Ma allora, come mai si dirà che la lezione, finché non fosse comunicata ad alcuno, sia qualche cosa diversa? qual modificazione avrà essa arrecato in alcun essere umano? Evidentemente nessuna. Esiste a sé, come il pane; sarà adunque, come il pane, una produzione, che non agisce ancora sull’uomo, sarà un prodotto materiale.

 

 

“Per introdurre una differenza fra la natura del prodotto pane e quella del prodotto lezione, bisogna ricorrere ad un sofisma; per l’uno si darà alla parola prodotto il senso di mera produzione; per l’altro le si darà il senso di produzione e consumo” (pp. 59-60).

 

 

Che una qualche materia stia alla base dei prodotti immateriali è evidente; la vediamo “appunto là dove si trova per ogni altro prodotto”:

 

 

“Nel momento medesimo in cui un prodotto immateriale si crea, in cui può dirsi creato, è necessità indeclinabile che sorga una forma, alla quale esso si leghi. Non occorre, veramente, cercare ove sia questa forma; io vorrei piuttosto che i sostenitori dei prodotti immateriali ci sappiano indicare dove essa non sia, che ce ne mostrino un solo, l’apparizione del quale sia affatto indipendente da una materia qualunque.

 

 

“Nella maggior parte dei casi, essa palpabilmente si vede. La statua, il quadro, il libro, non sono dunque oggetti corporei quanto il pane, il tessuto, il martello? Talvolta, è vero, la materia si eclissa; ma basta allora un po’ di riflessione per rintracciarla. In tali casi si riduce a dei suoni, a delle parole; sarà dunque un’aria, corpo non men reale di un altro, e che implica un apparecchio tutto corporeo, nelle labbra che profferiscono la parola, nei gesti che l’accompagnano, nelle orecchie che ascoltano, negli organi che la trasmettono, nel cervello che la riceve e l’interpreta. G. B. Say fu molto facile a dire che “il medico vende l’utilità dell’arte sua senza che l’abbia incorporata in alcuna materia”.

 

 

Come mai concepire che il pensiero del medico si riveli, divenga permutabile, si venda, si trasmetta, senza un mezzo di trasmissione, il quale, qualunque esso sia, piccolo o grande, semplice o complicato, sarà sempre materia? Io mi spingo anzi più in là: se anche non ci si parli che del puro pensiero concepito e rimasto dentro di noi, tostoché esso si consideri come un prodotto, sarà pur forza di riconoscere, come ho già detto di sopra, che non si poté formolarlo senza il concorso d’un apparecchio cerebrale e nervoso. Al di qua poi di una tale ipotesi estrema, sarà pur forza di riconoscere che, fra le numerose produzioni a cui il titolo d’immateriale si è tanto profuso, non ve n’ha una sola, la cui esistenza non supponga un insieme di cose sensibili, molto più vasto e complicato di quello che a prima giunta si crederebbe. L’insegnamento, le arti, la commedia, il sermone, la difesa dell’avvocato, la cura del medico, la giustizia del magistrato, il pensiero del filosofo, al momento che prendano la qualità di prodotto e diventano godevoli utilità, bisognerà inevitabilmente che paghino il loro tributo alla materia: e scuole, scene, pulpiti, panche, strumenti, sale, prigioni, carta, inchiostro, torchi, voce, aria, gesto, luce, colori…. tutto ciò è indispensabile condizione senza cui la cosa prodotta non esisterà; ma tutto ciò che cos’è? nient’altro che pretta materia” (pp. 60-61).

 

 

Le due parole “materiale” ed “immateriale” possono essere usate solo quando si sappia che esse segnalano un distacco di mero grado, non di sostanza, un più od un meno di corporeo o di spirituale, ed un più od un meno “empirico e temporaneo, mutabile secondo i punti di vista e le tendenze di chi adoperi quei vocaboli”:

 

 

“Noi non abbiamo né bilancie né metri per paragonare l’importanza dell’elemento materiale a confronto dello spirituale. In certi casi non avvi difficoltà a giudicare fra loro; ma in moltissimi altri sarebbe, in verità, imbarazzante il decidere se l’importanza dell’opera preponderi dalla parte dello spirito o da quella della materia. Chi saprebbe mai dire se la Venere di Canova o il vaso di Benvenuto Cellini appartengano all’una od all’altra categoria? Grande e bello ne è il concetto, è mirabile l’esecuzione. Tutto ciò che l’economista può dirne sarà: Io so che entrambi sono un prodotto; non m’importa il decidere, e niuno più di me saprebbe decidere, se sia materiale o immateriale, nel senso esatto di questi vocaboli, cioè se la forma sovrasti l’idea, o l’idea eclissi la forma” (p. 69).

 

 

3.-Stupende e divinatorie sono le illazioni che il Ferrara trasse dalla sua teoria-sintesi dei beni economici. Gran colpa fu quella di tanti economisti i quali, sostenendo che la loro scienza avesse ad oggetto un qualcosa di materiale, diedero la spinta alle vane discussioni sulla materialità ed immaterialità dei beni economici ed alla esclusione irrazionale dei beni cosidetti immateriali dal campo di studio della scienza economica. Essi diffusero così l’idea che oggetto di questa siano “cose”, laddove invece sono gli atti “coi quali la specie umana intende rivolgere al soddisfacimento dei suoi bisogni l’infinita varietà di materie che la circondano” (pagina 82). Oggi Robbins, con altri, afferma che la scienza economica non coltiva un territorio oggettivamente definito e distinto da altri territori studiati da altre scienze, ma abbraccia tutti i fatti, in quanto possono essere studiati dal punto di vista economico. Ma già il Ferrara nel 1859 aveva scritto:

 

 

“Nella ricchezza, presa in sé, nulla havvi da studiare, nulla su cui un’economia politica possa elevarsi. Il pane, il tessuto, la moneta, sono corpi come tanti altri; e come tali possono offrire materia di osservazioni, analisi, e deduzioni, al chimico o al fisico, ma nulla ha da vedervi l’economista. Per lui, acquistano un’importanza in quanto l’uomo sia intervenuto a creare quelle forme particolari della materia, e sia mosso dallo scopo economico. è la sua determinazione, il metodo da lui seguito nel combinarle, il metodo che seguirà nell’accumularle o distruggerle, ciò che può divenire argomento delle ricerche dell’economista. Che importa allora se l’esercizio dell’umana attività, volta al fine della migliore esistenza, si riveli in cose più o meno materiali? L’economista potrà distinguere i casi in cui la ricchezza si tocchi o si accumuli prima di consumarsi, da quelli in cui si concepisca soltanto, e si consumi nell’atto con cui si produca; ma la distinzione sarà fatta al solo scopo di rilevarne la poca importanza, per concluderne che, ciò nonostante, è sempre una la legge da cui il lavoro produttivo dell’uomo vien governato; e i dotti allora, invece di decretare un embargo sulle ricchezze immateriali, si sentiranno costretti di confessare che egli può e deve, senza offendere punto l’enciclopedia, comprendere, dal suo punto di vista, nella sfera delle sue indagini, enti, fatti, fenomeni, che da altri aspetti rientrino in altri rami dell’umano sapere” (p. 82).

 

 

4.-La riduzione dell’obbietto della scienza economica ad “un particolare punto di vista”, rispetto al quale si debbono considerare le stesse cose e le medesime azioni umane, le quali contemporaneamente possono, da altri punti di vista, essere obbietto di studio di altre scienze, fisiche e morali, consente al Ferrara di illuminare di luce vivissima il carattere spirituale del processo comunemente conosciuto coi nomi di “formazione del capitale”, di “accumulazione”, di “risparmio”. Gli economisti passano agli occhi dell’empio volgo come adoratori del vitello d’oro, idealizzatori del risparmio rivolto alla formazione del capitale materiale, strumento di oppressione dei poveri, siano questi individui o siano popoli. Leggasi come Ferrara chiarisca il vero carattere del processo economico e distrugga le antitesi inesistenti fra capitale e lavoro, fra risparmio e consumo:

 

 

“Certo, il più sorprendente fenomeno che si possa contemplare nella vita economica dell’umanità, è quello che io chiamo capitalizzazione, cioè la concatenazione perpetua con cui i prodotti si succedono, per via di continue trasformazioni, crescendo sempre le utilità ricavabili dall’uomo. Ma ordinariamente noi confondiamo la capitalizzazione, cioè l’aumento continuo dell’utilità, colla immobilizzazione delle forme, cioè coll’aumento del capitale. La capitalizzazione, nel modo in cui io l’intendo, è una serie, nella quale la produzione ottenuta in un primo ciclo dev’essere seguita da una capacità di generare una produzione maggiore. Ciò non si ottiene che per via di successivi consumi, cioè di trasformazioni della materia. Il ferro, sotto forma di minerale, diventa martello; e in questo stato può produrre una maggior somma d’utilità. La pietra e la calce divengono casa; la carta e l’inchiostro divengono libro. Sono tanti atti di consumo quelli che creano il capitale e quelli che dal capitale fan sorgere una nuova e maggiore ricchezza; ed è un malinteso il supporre, come comunemente si fa, che il grande interesse dell’uman genere consista o nel non-consumare (accumulazione, risparmio), o nel non-consumare personalmente (astinenza, nel linguaggio di Senior). Il risparmio non può essere mezzo di capitalizzare, per l’evidente ragione che per capitalizzare si dee produrre, e per produrre si dee consumare. Se la creazione del capitale sostanzialmente consistesse nel non-consumare, noi dovremmo logicamente ridurci alla immobilità; finirebbe la stessa produzione, o produrre sarebbe astenersi dal por mano ad un movimento qualunque, e l’attività umana consisterebbe nel renderci vittime volontarie dei nostri dolori. Ciò che si dice della materia in generale, è ugualmente, e più, applicabile all’uomo. Si è troppo elevato in principio che il capitale esclusivamente si formi da tutto ciò che l’uomo sottragga ai suoi personali consumi. Ciò viene dal non avere riflettuto che una parte delle materie, per le quali il fenomeno della produzione avviene, si trova nell’uomo medesimo, nei suoi organi, nelle sue forze, e perciò nelle sue facoltà. L’uomo, consumando per sé, modifica l’essere proprio, e gli dà un’attitudine produttiva che senza di ciò non avrebbe. è consumando il suo cibo e i suoi vestiti che l’agricoltore può arare la terra; e quel cibo e quegli abiti si sarebbero virtualmente perduti, se invece di nutrirlo e vestirlo, si fossero posti in serbo, abbandonati all’azione della natura, la quale, in tal caso più capitalizzatrice di lui, li avrebbe convertiti in vermi, in sali ed in gas, e fatti entrare nella composizione di altre forme corporee.

 

 

Ogni cosa prodotta è destinata a consumarsi. Tra le cose utili, che si possano in un dato momento trovare esistenti nel mondo, la massima parte furon create appena entro l’anno; poche, come le navi e le macchine, contano un’origine che risalga a 10 anni addietro; pochissimi, sotto forma di monumenti, resistono a lungo; e ancora, nel massimo numero dei casi, tutto ciò che sia un po’ permanente non resisterebbe, se continuamente non si lavorasse per impedirne la decadenza e la distruzione. In generale ogni cosa che si produca perisce e spesso assai celeremente. Se si fa un paragone fra le produzioni accumulate e le consumate, si vedrà assai chiaramente che il fenomeno principale della vita umana non è l’accumulazione, ma sì bene il consumo.

 

 

“Il nostro vero interesse sta nel consumare in quel modo, che offra il vantaggio di farci acquistare una maggior capacità produttiva. Fra le tante maniere, in cui si possa far uso del prodotto ottenuto, certamente ve n’ha qualcuna, che più direttamente conduca alla più felice riproduzione possibile, e da quest’una la capitalizzazione dipende, e da ogni altra ci conviene astenerci. In tal senso, l’astinenza e il risparmio divengono una condizione indispensabile; ma lo sono, non in quanto non si consumi la ricchezza prodotta, in quanto bensì si eviti ogni altro consumo men produttivo. è un astenersi dal consumare in un modo, ma per consumare in un altro. Cosicché gli uomini potrebbero non far altro che consumare, potrebbero non accumulare giammai la menoma porzione di ricchezza sensibile; e nondimeno, se lo facessero in modo che ogni forma distrutta dia la massima capacità produttiva che si poteva ottenere, si troverebbero ogni giorno arricchiti d’una attitudine sempre nuova e più fresca, avrebbero, nel vero senso della parola, un capitale sempre crescente. “….. la capitalizzazione dipende non già dal non consumare, non già dall’astenersi dal consumare in beneficio dell’umana persona, non già dal fare sorgere esclusivamente una data specie di forme materiali; ma dal sapere, appena una produzione ottenuta, indovinare immediatamente qual fosse il genere di consumo, da cui la produttività dell’umano lavoro si trovi più rapidamente e costantemente accresciuta” (pp. 90-92 e 94).

 

 

Fra le tante maniere di distribuire il lavoro umano in modo da giungere ai consumi più vantaggiosi all’uomo ha pur luogo, ma luogo razionale, la capitalizzazione:

 

 

“Il capitale e l’atto che lo forma-accumulazione, risparmio-non devono riguardarsi che come un minor male, non come un bene supremo. I vantaggi che esso reca son relativi; ciò che in senso assoluto è più vantaggioso, è il consumo ben fatto…..

 

 

“Se noi potessimo sempre esaurire in un momento tutte le utilità possibili a ricavarsi da una data forma, accumulare, risparmiare, formar capitali, sarebbe pazzia; noi non dovremmo che fare e disfare continuamente le forme utili. Ciò in alcuni casi ci è anche prescritto dalla natura, in tutti quelli nei quali, se il godimento non è sollecito, le leggi della chimica sopravvengono a generare la putrefazione, ad eliminare la forma utile. Non sarebbe egli ridicolo il voler conservare ed accumulare frutta od erbe, per il solo principio dell’astinenza e del risparmio? In moltissimi altri, la natura ci lascia liberi nella scelta tra una forma da distruggersi prontamente, ed un’altra da rendersi durevole. Noi c’inganniamo soventi, ma il principio che ci deve regolare, e che effettivamente ci regola, è uno: esaurire tutte le utilità di cui una data forma è capace. Se è possibile esaurirle prontamente, sarà più utile il pronto consumo; se si richiede del tempo, conviene prolungare l’esistenza della forma utile, ridurla in capitale. Ordinariamente, esaurirle subito riesce difficile, ed in questo senso, tutto ciò che prolunga la durata di un prodotto giova relativamente al consumo rapido della stessa forma; ma molto spesso avviene che riesca invece di nocumento, nel rapporto tra una forma consumabile prontamente ed un’altra durevole. Così, una piramide egiziana, priva di ogni utile scopo, è una grande accumulazione di pietre, calce, mattoni, lavoro d’uomini, ecc. Tutti questi materiali si potevano prontamente consumare in modo anche più sterile gettandoli per esempio nel Nilo, e invece si son conservati; ecco un aspetto, dal quale l’accumulazione fu utile. Ma i medesimi materiali potevano pure convertirsi in strade, opifici, scuole, ecc.; si sarebbero logorati, non esisterebbero più come esistono oggi sotto forma piramidale, ma avrebber prodotto utilità ben maggiori, che, vestendo successivamente mille altre forme, avrebbero ingigantito le capacità produttive: ecco un altro aspetto, dal quale l’accumulazione è molto meno desiderabile che il pronto consumo. Or, questo principio può avere larghe e numerose e cotidiane applicazioni nel mondo. Da un lato, è evidente che sarebbe pazzia in molti casi accumulare, sotto forme durevoli di macchine, di edifizi e cose simili, valori che servano fugacemente come materie grezze, come cibo dell’uomo, come capitale circolante; e ciò dimostra perché, quando si commettono simili errori, quando si convertono in canali, o in strade ferrate, masse di valori che riescono colà infruttiferi, non tarda a manifestarsi il fenomeno della crisi, cioè una calamità dataci in ricompensa d’un grande sforzo produttivo; calamità che non dovrebbe venire se il risparmio e l’accumulazione costituissero tutto il segreto della prosperità umana. Da un altro lato, è evidente che avvi altrettanta pazzia nel dissipare in un giorno quella forma utile che, consumata in un secolo, darebbe il centuplo delle utilità, che ora può dare; quindi l’insania delle spese di lusso e delle guerre; e quindi il motivo di rendere sempre meno distruttibili quei prodotti la cui utilità non può essere esaurita all’istante. Ecco tutta la ragione del capitale. Esso non ha importanza nel mondo se non in quanto la pronta utilizzazione della materia non sia possibile; e noi non tendiamo a crederlo, se non in quanto ci è ignota la via di utilizzarla prontamente” (pp. 95 e 97-98).

 

 

5.-Tutti i beni economici sono dunque materiali ed immateriali insieme. Negli uni prepondera l’elemento materiale o corporeo, negli altri quello immateriale o spirituale.

 

 

La accumulazione dei beni economici, la formazione della ricchezza capitalizzata non è, razionalmente, un fine dell’uomo; bensì semplice mezzo provvisorio e mutabile il quale può giovare a rendere più feconde le azioni degli uomini rivolte al proprio perfezionamento fisico e spirituale. Quali illazioni trae il Ferrara dalla sua negazione del contrasto fra materiale ed immateriale, fra corporeo e spirituale, dalla sintesi da lui affermata dei due elementi in ogni bene economico? Notabilissima è quella relativa alla proprietà letteraria. Tutto ciò che egli osserva in proposito si applica altresì alla proprietà delle invenzioni industriali. Ai suoi occhi gravemente si contraddice Carlo Comte, il quale scrive due capitoli contro i brevetti per le invenzioni industriali e cinque a favore della proprietà letteraria:

 

 

“Tra il diritto di esercitare un’industria che siasi scoperta e quella di impedire che altri l’eserciti, la differenza è ben grande” egli diceva. Ma se lo è quando trattasi di una macchina o di un processo industriale, perché non lo sarà quando si tratti di un libro? Se l’idea trasfusa nel libro appartiene all’autore, perché il pensiero trasfuso nella macchina non apparterrà al suo inventore? Io comprendo coloro che vogliano, non solo i brevetti d’invenzione, ma la perpetuità dei brevetti, e poi la perpetuità della proprietà delle opere di arte o di scienza; ma negare per quella il principio che si deve far prevalere per questa, ecco una logica che non comprendo ed a cui trovo mezzo di non dar la mia adesione”.

 

 

6.-Perché Ferrara, con diritta logica, avversa l’una e l’altra specie di proprietà? Il suo discorso riguarda la proprietà letteraria, ma vale con ugual forza per quella industriale. Chi non voglia confondere concetti distinti, deve, discorrendo di proprietà letteraria, avere l’occhio della mente rivolto a tre proposizioni separate: vuolsi cioè far diventare oggetto di proprietà il puro pensiero, ovvero la cosa in cui il pensiero venne immediatamente incorporato, ovvero ancora le cose in cui poscia sarebbe possibile di esprimerlo.

 

 

7.-Nessuno contesta la proprietà del “puro pensiero”. Ma è privilegio privo di vantaggio economico, se non fosse di mera vanità. Ed è privilegio pericoloso; ché colui il quale “rivendica la proprietà delle idee contenute in qualche suo libro è tenuto a render conto egli stesso di quelle che, prima che fossero da lui annunciate, appartennero ad altri: liquidazione terribile, che farebbe probabilmente venir meno la voglia di insistere sulla proprietà del pensiero” (p. 101).

 

 

Ed è, infine, privilegio inattuabile. Non è concepibile proprietà senza diritto ad occupare esclusivamente la cosa posseduta. Come può essere occupabile il pensiero che “è puramente immateriale”, che “non ha dimensioni ne` parti”, che “non è esauribile”?

 

 

“Dio, creandola impalpabile (l’idea), ha con ciò solo dichiarato che tutti possiamo goderne ed assimilarcela, senza mai esaurirla, senza che l’assimilazione operatane nella mente d’un uomo scemi la sua integrità nella mente di un altro. Il pensiero puro è affatto diverso dal pensiero concretato in un corpo; niuno può attribuirsene il monopolio” (p. 102).

 

 

Niuno, del pari, contesta la proprietà della cosa, nella quale il pensiero immediatamente si concreta:

 

 

“L’autore ha la proprietà del suo libro, lo scultore ha quella della sua statua; e il più grande avversario della proprietà letteraria non ha mai pensato di sostenere, né che tutte le copie di un’opera non appartengano a chi l’abbia fatta, né che un tipografo possa penetrare nel gabinetto di un autore e strappargli di mano il suo manoscritto.

 

 

“….. la legge non ci accorda alcun monopolio sulle nostre cognizioni agrarie, mineralogiche o mercantili; ma dichiara nostro il grano che abbiamo raccolto, il ferro che abbiano scavato, la droga che abbiamo portato dalle Indie” (pp. 102-103).

 

 

9.-Priva di fondamento è invece, la proprietà delle cose nelle quali il pensiero può in seguito essere espresso. Si concederebbe, così facendo, ai cosidetti beni immateriali un privilegio eccezionale negato ai beni materiali:

 

 

“Il pensiero, materializzato sul libro, sulla tela, sul marmo, ecc. si muta in merce, precisamente come le cognizioni agricole quando si sieno già incorporate nel grano raccoltosi. Qualcuno compra il libro e ne diviene padrone; come qualcuno diviene padrone del grano vendutosi da chi lo produsse. Il compratore del grano può convertirlo in semente, e così moltiplicarlo, per farne una più ampia raccolta, da porsi in vendita. Il compratore del libro riflette anch’egli che questa merce, utile e desiderata da tanti altri, potrebbesi riprodurre come del grano si fa; ma mentre niuno contrasta che sia lecito riseminare il grano legittimamente acquistato, ogni ulteriore edizione del libro si vuole che sia vietata a tutti, fuorché all’autore ed ai suoi aventi causa” (p. 103).

 

 

10.-Quale il fondamento razionale del privilegio? Quale caratteristica peculiare dei prodotti del pensiero ha la virtù di spiegare il privilegio? “I prodotti immateriali si distinguono da ciò che in essi il lavoro o l’utilità che offrono, o l’effetto che ne nasce nell’uomo sono sproporzionati colle forme materiali; che, in altri termini, l’elemento spirituale primeggia ed eclissa l’elemento corporeo. A questo titolo, si comprende perché si vogliano eccettuati dall’ordinaria regola della proprietà; l’elemento spirituale costa uno sforzo molto superiore a quello che fa di bisogno per incorporarlo in qualche cosa sensibile; colui che ne ha sostenuto il travaglio, può trovarsi assai facilmente spogliato della ricompensa dovutagli; bisogna dunque che sia eccezionalmente protetto; vuolsi un regime in cui non sia lecito usurpare, colla materiale fatica di pochi giorni, tutto ciò che la società è disposta a pagare come prezzo della spirituale fatica di molti anni” (pp. 103-104). Il Ferrara riconosce che l’argomento risponde a diffusi sentimenti di equità:

 

 

“….. è doloroso il vedere soventi qual meschinissimo frutto coroni i più grandi e benefici lavori della mente umana; così si spiega perché tanto concordemente la proprietà letteraria sia sostenuta e richiesta, e perché la riproduzione delle opere intellettuali si riprovi coi termini acerbi di contraffazione e pirateria” (p. 104).

 

 

11.-Il ragionamento non suffraga però il consiglio sentimentale dell’equità. Perché questo fosse fondato farebbe d’uopo:

 

 

“1) che nel prodotto misto, nel libro, nel quadro, nella statua, ecc. siavi veramente un gran disquilibrio fra l’elemento incorporeo e l’elemento materiale; che l’opera dell’ingegno sia economicamente molto superiore all’opera della mano; 2) che questa preponderanza sia inestinguibile; che per compensare l’opera creata dall’ingegno non basti una prima vendita dell’oggetto creato, non basti l’avere ricevuto un primo prezzo del manoscritto, della statua, del quadro; ma sia necessario che ogni nuova riproduzione, fatta da altri, senza nuovo travaglio dell’autore, paghi a lui una tassa di monopolio” (pp. 104-105).

 

 

Ferrara dimostra che nessuno dei due assunti è fondato. Naturalmente, egli non vuol dimostrare che non esista una “incommensurabile distanza tra il sapiente e l’artigiano, tra la mente divina di Vico e la mano incallita del falegname”. Non è questo il problema discusso. Non si paragonano meriti ideali; ma ricompense pecuniarie del lavoro compiuto, ricompense valutabili nei modi ordinari coi quali si fanno valutazioni economiche.

 

 

12.-Poiché di ciò si discute, dicasi subito che comunemente dai difensori della proprietà letteraria si sopravaluta il lavoro dello scrittore e si sottovaluta quello dell’esecutore materiale.

 

 

“Che cos’è, per esempio, ciò che noi vediamo in un libro? Vediamo un tipografo che, lavorando con pochi pezzetti di piombo, con qualche oncia d’inchiostro, con alcune risme di carta, ha prodotto in due mesi lo “Spirito delle leggi”, l’opera con cui un Montesquieu rivela al mondo vent’anni di ostinate e penose riflessioni. Se la questione si dovesse porre tra individuo e individuo, sul terreno del lavoro che immediatamente abbia dato origine alle mille copie prodottesi dello “Spirito delle leggi”, sarebbe difficile il sostenere che gli sforzi sostenuti dall’editore, dai tipografi, dai cartai, dal fonditore, dal fabbricante di torchi, sommati insieme, sieno qualche cosa di meno importante della fatica necessaria per rendere in buoni periodi i pensieri di Montesquieu e farne il manoscritto che è servito di guida alla stampa. Che facciamo noi adunque? A costui diamo il merito di tutto il lavoro passato, della sua educazione, della costanza che ha messo nel meditare sul soggetto delle sue ricerche, delle abnegazioni a cui si è condannato, della scoverta ed originalità dei concetti; e così il suo manoscritto diviene miracolo d’un genio e frutto di 20 anni di studio. Quanto all’editore, il suo passato non entra in conto. Anch’egli ha fatto il suo tirocinio, ha concentrato la sua attenzione sull’arte tipografica, ha passato la metà della sua vita stando dieci ore al giorno diritto avanti alla cassa dei suoi tipi; egli forse ha lottato colla povertà, colle crisi, col dispotismo; egli aveva una fortuna godibile, e l’ha convertita in piombi e legnami, in carta ed inchiostro, il cui consumo non gli rende soventi né anco il più meschino degli ordinari interessi del capitale; ma non importa: egli, secondo noi, non ha nella produzione del libro che il meschinissimo titolo di avervi meccanicamente lavorato due mesi” (pp. 105-106).

 

 

13.-Sul primo errore un secondo si innesta:

 

 

“Noi usiamo un altro artificio. Non teniamo alcun conto di tutta la parte, che l’elemento materiale offre gratuitamente al produttore dell’elemento incorporeo; ed all’inverso, accordiamo a quest’ultimo il merito di tutto ciò, che la società gli ha gratuitamente apprestato per rendergli possibile la produzione, in cui sta la sua gloria.

 

 

“Dal lato dei lavori materiali, ordinariamente non si riflette che il segreto, in virtù del quale possiamo riputarli comparativamente di poca importanza, sta nell’avere dimenticato che esso, tal quale trovasi oggi costituito, è l’effetto d’una sterminata massa di utilità, che divennero successivamente gratuite. E quel ch’è più, codeste utilità erano una volta non altro che ricchezze immateriali, né sono oggi gratuite se non in quanto l’umanità ha traversato dei secoli molti, in cui la proprietà letteraria non è stata punto riconosciuta. Tutto, infatti, l’apparecchio, con l’aiuto del quale avviene la creazione della forma utile, strumenti, materie, lavoro, tutto viene da antecedenti produzioni immateriali. Il più meschino fra gli oggetti che oggi ci passano per le mani, racchiude in compendio, dire quasi, tutto lo scibile. L’immaginazione si perde ad analizzare le idee, generatesi nel corso dei secoli, e che ora si vengono a compendiare, per esempio, nella sola manifattura d’un chiodo. In origine, ciascuna di loro non fu che un’invenzione, un prodotto intellettuale.

 

 

L’uman genere l’acquistò, l’applicò, la svolse. Oggi ne fa uso senza saperlo, non la paga; e quando parla di un chiodo, non allude che ad un po’ di ferro meccanicamente modificato, perché non tiene alcun conto di tutta la massa delle idee che già si possiedono e nulla costano. Gli è così, propriamente, che, nella produzione immateriale, l’elemento corporeo a noi par minimo, e ci sembra immensamente maggiore l’immediato lavoro dell’intelletto. Se la proprietà letteraria fosse stata introdotta ab antico, non solamente le proporzioni non resterebbero più quali sono, ma diverrebbero affatto inverse: l’elemento materiale costerebbe tanto, acquisterebbe un’importanza così colossale, riunirebbe in sé tanta massa di ricchezza incorporea, che qualunque attuale lavoro della mente per produrre una nuova ricchezza dell’ugual genere diventerebbe insignificante.

 

 

Immaginiamo infatti, che sin dai tempi di Tubalcain si fosse pensato a stabilire la proprietà delle idee. Spingendola sino ai brevetti di invenzione, che cosa importerebbe oggi la manifattura di un chiodo? Sarebbero tanti diritti esclusivi quelli del preparare l’incudine, il martello, il carbone, il mantice; ognuno di questi mezzi sarebbe tributario di altre famiglie di produttori; e ciascuna di queste lo sarebbe di altre; e da una serie indietreggiando verso di un’altra più antica, andrebbesi sino alla proprietà delle più semplici percezioni dei primi uomini. La formazione odierna di un chiodo non potrebbe aver luogo senza il permesso di tutti coloro, che avrebbero ereditato le cognizioni direttrici che occorrono per battere un po’ di ferro, senza comprare da speciali famiglie tutte le menome parti di questa meschina manifattura, sino alla pietra focaia, da cui sprigionare una scintilla di fuoco. Tubalcain poteva, è vero, non accordare i brevetti di invenzione, limitandosi ad impedire la riproduzione delle identiche forme, con cui un prodotto immateriale si trasferisce; ma l’effetto sarebbe stato indirettamente lo stesso. Le varie cognizioni sarebbero divenute altrettanti monopolii; si sarebber dovute comprare, invece di essere, come fortunatamente lo furono, diffuse, portate dai venti, dalla parola, dal traffico; si sarebbe perduto tutto quel fermento, che esse reciprocamente si fanno e da cui son nate tutte le arti, tutti i progressi, tutte le facilitazioni che oggi le industrie umane ci offrono. Ciò vuol dire che, se in passato la proprietà delle idee fosse esistita, oggi gli elementi corporei della produzione immateriale o costerebbero immensamente più cari, o non esisterebbero affatto, il che è il massimo dell’incarimento. Ma egli è chiaro che ogni cosa, la quale avesse renduto più difficile o più costoso l’elemento corporeo, equivarrebbe a diminuire l’importanza comparativa dell’elemento spirituale. Se a noi, dunque, è oggi possibile il giudicare che l’opera dell’autore primeggia su quella del tipografo, una prima ragione evidentemente si è, perché noi siamo abituati a non considerare in quest’ultima tutta la parte, che più non siamo costretti di comperare a danaro, tutta la ricchezza immateriale, che tacitamente e gratuitamente nell’arte tipografica si è trasfusa: fate che il tipografo debba pagarla, e l’azione meccanica della stampa d’un libro avrà allora un’importanza sterminatamente maggiore che 20 anni di studio consumati dall’autore nell’apparecchiare il suo manoscritto” (pp. 106-108).

 

 

14.-Altro gravissimo errore di calcolo si commette nella valutazione comparativa dell’elemento materiale e di quello spirituale nella creazione del libro, dell’opera d’arte, dell’invenzione:

 

 

“Nessuno certamente dirà, ed io meno di ogni altro, che le opere della mente non costino sacrificii, enormi talvolta; ma immaginare che siano tante creazioni dal nulla, e dare ai loro autori il merito di aver prodotto tutto ciò che ci offrono, è un farsi erronei concetti e sull’uomo che studia, e sulla legge provvidenziale, a cui lo svolgimento dell’umana ragione è soggetto. Ogni libro ordinariamente non è che una nuova espressione d’idee già vecchie e divenute proprietà comune degli uomini. Ogni scrittore usa liberamente di un immenso patrimonio di cognizioni per le quali niuno gli domanda il menomo prezzo, e che pure formano il gran fondo di ciò che egli pensa o scrive. Viaggiatori a migliaia, storici, filosofi, pubblicisti, romanzieri, poeti, matematici, gli hanno apparecchiato una immensa massa di fatti, gli han rivelato la cognizione del mondo e la successione degli avvenimenti, lo hanno abituato ai buoni metodi di osservare, ordinare, ragionare, calcolare, alla esatta maniera di esprimersi. Egli non si è mosso dal suo gabinetto; egli non vive che da pochi anni; egli non ha dedicato che poche ore a riflettere sulle sue facoltà; egli non ha cominciato dall’inventare un sistema di numerazione o dal tirare la prima linea retta; eppure, nel suo libro parla di tutti i paesi, cita avvenimenti di più secoli addietro, ragiona mirabilmente e convince i lettori, calcola le quantità; come mai quest’uomo poté tanto racchiudere nella sua intelligenza? i suoi antecessori, l’umanità anonima, gli han profuso tanti tesori, egli non dovette che stender la mano per prenderne e profittarne…. “Prendete in mano l’opera più originale che esista sul globo; toglietene tutto ciò che evidentemente è attinto dal fondo delle cognizioni comuni; separatene la parte geografica, storica, filosofica, grammaticale; limitatevi pure alla specialità di cui tratti, ed ivi fatevi ad esaminare di uno in uno i pensieri, con cui questo bello edificio si è architettato; voi sarete meravigliati a trovare che tutta la parte, su cui il plagio non riesca evidente e l’originalità resti dubbia, si potrà riassumere in qualche pagina, appena in qualche periodo talvolta” (pp. 108 -109).

 

 

Ferrara inserisce a questo punto una pagina magnifica, che voglio trascrivere ad ammonimento di coloro i quali menano fastidioso vanto di piccolissime novità che essi presumono aver aggiunto al corpo della scienza:

 

 

“Mai un concetto non è uscito intero dalla mente d’un uomo; sempre la formula che oggi assume è in grandissima parte una sintesi di tanti concetti frazionarii, che altri avevano emessi, a cui il nuovo scrittore aggiunse appena una piccola inflessione, un rapporto di più, che basta a conferirgli un’aria di novità. Sono 20 e più anni che io vado in cerca di un’idea originale in economia politica: inutile sforzo! Non conosco finora un sol principio, di cui, se n’avesse la pazienza e ne valesse la pena, non si potesse palpabilmente mostrare con qual successivo lavoro di aggregazioni e di disgregamenti sia venuto alla forma in cui lo presentiamo oggidì; come passando per ogni bocca si sia depurato o impinguato; come non era 20 anni addietro che una metà di quel che è, non era un secolo addietro che un cenno lontano e sfumato, annunziato alle volte in tutt’altro libro che in un’opera economica, gettato a caso nel mondo come osservazione di uno storico, di un pubblicista, o fin d’un geometra. Ho provato io pure-e chi non la provò?-l’aspirazione alla originalità delle idee; ed ho sempre finito col confessare che l’opera dell’intelligenza si va sempre a restringere in troppo minime dimensioni per potere in noi suscitare il più piccolo sentimento di orgoglio. Immaginando, per esempio, che la mia maniera di presentare l’indole dei prodotti immateriali meritasse l’approvazione degli economisti, io domanderei come mai sarebbe ella nata, se la teoria di Dunoyer non l’avesse preceduta di molti anni? e Dunoyer avrebbe mai formolato la sua, senz’essere antivenuto da Say, da Storch, da Malthus? e Say avrebbe egli ideato i prodotti immateriali, se Smith non avesse parlato di lavori non-produttivi? E i lavori non-produttivi di Smith, che altro furono fuorché una semplice inflessione delle industrie sterili di Quesnay?

 

 

E rimontando più in là, non sarebbe grandemente agevole risalire fino a Platone? Io non dico-intendiamolo bene-che i grandi scrittori non siano che impostori e plagiarii; ma son convinto che il merito loro reale sta, come quello d’ogni altro produttore, nella quantità di travaglio che adoprano, con successo più o meno felice. Quand’anche la nuova forma, che essi danno ai materiali gratuiti di cui dispongono, abbia una suprema importanza nell’interesse dell’uman genere, o per la difficoltà del pensiero, sempre riuscirà impercettibile la parte, che a ciascheduno possa dirsi esclusivamente competere: il caso lo aiuta talvolta, il caso di un pomo che cada, di un lampadare che oscilli, di una favilla che si sprigioni, di una ranocchia che si muova; tal’altra il suo gran concetto è dovuto ad una semplice reminiscenza fortuita; talvolta infine la sola presenza dei materiali ecletticamente raccolti sul campo della scienza…, ci basta per iscoprire un nuovo rapporto ed ottenere che il mondo ci chiami inventori o genii. Ma il mondo si inganna. L’edificio dell’umano sapere è tutto costituito a minuto mosaico. A nessun uomo fu dato il poterne d’un sol pezzo formarne una parte di qualche rilievo. Facendo immateriale l’idea, la Provvidenza ha voluto che l’idea mai non fosse occupabile; che niuno potesse mai apparire colla pretesa d’imporla come un titolo, preponderante nell’opera della produzione: si direbbe che la Provvidenza abbia protestato ab aeterno contro la proprietà letteraria” (pp. 109-110).

 

 

15.-Non è quindi lecito adoperare due pesi e due misure nella valutazione dei due elementi, spirituale e corporeo, i quali concorsero alla produzione del libro, dell’opera d’arte, della invenzione industriale.

 

 

“Se del passato dobbiamo tener conto, esso fu oneroso del pari ad entrambi; e non si può assegnare un colossale valore in vantaggio del sapiente, senza porre in bilancio con esso tutto ciò che è costato all’individuo o alla società presa in massa, l’aver condotto l’artefice manuale al punto in cui possa, a basso prezzo, offerire il soccorso della sua industria a servizio del produttore d’idee. Se dobbiamo resecare dal calcolo tutto ciò che non entri nel ciclo dello sforzo immediato e personale dei due produttori, la differenza, che pareva enorme, si attenua; e sarà forse difficile il sostenere che l’opera della mano non sia le tante volte più penosa e più meritoria di quella dell’intelletto” (p. 110).

 

 

16.-V’ha di più. Se anche si voglia ammettere, contrariamente alla osservazione del vero, che in sull’inizio prevalga nel prodotto “libro” l’elemento spirituale su quello corporeo, la preponderanza scompare ben presto. Troppo effimera è la prevalenza dell’elemento spirituale per potervi fondar sopra un diritto di monopolio:

 

 

“I due elementi del prodotto sono di loro natura costituiti in condizioni affatto diverse. L’uno, la parte dell’intelletto, una volta creato, non ha più bisogno di rinnovarsi; è un fondo costante; è come una forma pronta a modellare una sembianza medesima con quante porzioni di metallo fuso vi si gettino. Ma l’altro esige un nuovo sforzo, impiega nuovi valori, ad ogni riproduzione. Montesquieu fece il suo “Spirito delle leggi” una volta, e bastò perché poi si potesse ristampare le mille volte in cento parti del mondo incivilito; ma ogni nuova edizione è costata uno sforzo nuovo di arte tipografica, senza che di alcun altro lavoro intellettuale siasi avuto bisogno. Inoltre, l’elemento materiale, ogni volta che si rinnovi, costituisce la creazione di una nuova utilità sociale; è un nuovo prodotto che la società non possedeva; è perciò un nuovo servigio che le si rende, ed ha in ciò un titolo per essere pagato. Ma l’elemento intellettuale è già esistente, è sparso fra gli uomini, la società lo ha acquistato, ciascuno ha la fisica possibilità di rinnovarlo; e se si rinnova, vi ha bene un sociale servigio reso dal riproduttore, che crea nuovi mezzi di propagare l’utilità ma non havvene alcuno dalla parte di colui, che fornì in origine l’elemento intellettuale” (p. 111).

 

 

17.-Quel che Ferrara aggiunge al blocco granitico di argomentazioni ora riassunte è di secondaria importanza. L’analisi serrata della inscindibilità degli elementi spirituale e corporeo della produzione economica, la dimostrazione della continuità della produzione, per cui il prodotto attuale, sia spirituale che materiale, è il frutto in piccola parte di azioni presenti ed in parte di gran lunga maggiore di azioni passate; la riduzione dell’orgoglioso apporto individuale alle giuste dimensioni di piccola aggiunta all’apporto dei mille e mille ignoti collaboratori morti e viventi: ecco i caposaldi ai quali dovettero o avrebbero dovuto riferirsi gli scrittori, i quali affrontarono ieri e affrontano nuovamente oggi il problema della proprietà letteraria e industriale. Se ci rifacciamo, come si deve, ai principii, bisogna risalire a Ferrara. Altri, forse, disse meglio di lui che il privilegio degli autori o dei loro aventi causa consacra l’ignoranza ed impedisce, senza frutto per gli autori, la divulgazione delle idee fra schiere di lettori, ai quali le edizioni privilegiate riescono inaccessibili. Esponendo, senza indugiarvisi e senza rimarcarne l’importanza, la teoria della rendita del consumatore, egli dichiara che “gli autori hanno fatto male il loro conto, allorché dubitarono che i lettori delle ristampe a basso prezzo siano altrettanti consumatori sottratti all’edizione primitiva; costoro non sono che una schiera di consumatori tardivi, i quali sorgono dal buon mercato, e spariscono quando i libri sono cari” (p. 116).

 

 

Il monopolio è caro non agli scienziati, non ai filosofi, non agli studiosi i quali rivelano nuovi veri; ma ai romanzieri ed ai facitori di libri leggeri. La proprietà letteraria arricchisce Dumas; ma la “Scienza nuova” di Vico abbisogna di due secoli per essere intesa e comprata.

 

 

Il monopolio, rincarendo i libri, vieta ai disagiati di istruirsi; “per troppo occuparsi dei sapienti già fatti, trascura quelli da farsi”. Col consacrare il monopolio dei primi editori, la proprietà letteraria rende costoro ignavi e fa che essi attendano “dal beneficio della legge ciò che l’ordine sociale unicamente concede all’attività del produttore”. A torto, per lo più, gli scrittori si lagnano di non essere remunerati abbastanza. Perché non mettono essi in conto il rispetto, la reputazione guadagnata, gli onori ricevuti, le cattedre universitarie conquistate, i lucri degli articoli inviati ai giornali, le pensioni godute, l’asilo ad essi largito in contrade straniere? Ricordando certo la propria esperienza di patriotta esule dalla Sicilia borbonica ed onorato di cattedra a Torino, Francesco Ferrara scrive:

 

 

“L’uomo di lettere non vende il suo libro, è vero; ma se viene il momento difficile per la sua patria, è sul frontespizio del libro che gli occhi dei suoi concittadini si volgono. A lui talora non toccano che persecuzioni e miserie; ma spesso altresì, cacciato dalla sua patria, è il frontespizio di un libro che gli fa di guida e lo salva: va dove tant’altri più produttori di lui stentan la vita, ed egli in grazia d’un libro, trova asilo, soccorso e rispetto, trova una nuova società pronta a pagare in danaro le sue parole” (p. 122).

 

 

Ferrara non nega, tuttavia, all’autore del libro ogni diritto:

 

 

“Una proprietà, egli l’ha certamente: la cosa che ha prodotta è sua; la statua, il quadro, le copie d’un libro appartengono a lui. La società in molti casi s’incarica di custodire ai privati ciò che loro appartiene, e difendere le loro proprietà dalle usurpazioni, cui possano andar soggette. Non come rigoroso principio di giustizia, ma come misura amministrativa, io non troverei gran fatto riprovevole che, per taluni prodotti immateriali, per esempio i libri, il diritto di riproduzione possa essere sospeso nel pubblico per quel tempo discreto, che sia necessario onde porre il produttore in grado di vendere la totalità del suo prodotto. In ciò si potrebbe anche scorgere una ragione di pubblico interesse. Se l’autore dovesse trovarsi esposto a vedere ripubblicato il suo libro appena lo ponga in vendita, la pubblicazione delle opere di qualche importanza sarebbe così economicamente rischiosa, di divenire impossibile. Io dunque non troverei così illogico che, mentre si rigetta il principio di una proprietà rigorosa e perpetua, si accordi un limitatissimo termine, di cinque o dieci anni per esempio, durante il quale la ristampa fosse ad altri vietata. Ma la riflessione medesima che a ciò m’induce mi costringerebbe a volere che, se avanti di spirare quel termine, la prima edizione sia già esaurita, se l’autore abbia già ricevuto il prezzo intero del suo prodotto, se si accinge a rinnovarlo, il diritto di riproduzione non più appartenga a lui solo, ma, in concorrenza con lui, a chiunque altro amasse di esercitarlo” (pp. 124-125).

 

 

18.-L’analisi di Francesco Ferrara non ebbe eco nella dottrina economica intorno alla proprietà letteraria ed industriale. I più degli italiani accennarono di sfuggita alla logica ferrea del liberista, il quale, fondando la proprietà in genere sul diritto di disporre del frutto del proprio lavoro, negava perciò la proprietà letteraria come quella che era invece fondata sul privilegio esclusivo dell’uso della invenzione già comunicata al pubblico o della ristampa dell’opera già pubblicata. Il Ferrara non negava cioè il diritto di proprietà dell’inventore sull’invenzione o dello scrittore sul libro, ma non lo voleva esteso, con particolare privilegio, a conseguenze ignote alle altre specie del diritto di proprietà.

 

 

Gli scrittori stranieri ignorarono semplicemente Ferrara, non ricordandolo mai tra i preclari, seppure non numerosi scrittori (Carey, Farrer, Thorold Rogers, Chevalier, Mallet), i quali si elevarono contro il riconoscimento della proprietà letteraria ed industriale. La difficoltà della lingua, la collocazione insolita delle idee ferrariane nelle introduzioni ai grossi volumi della “Biblioteca degli economisti”, la scarsissima divulgazione fattane dagli economisti italiani spiegano il ritardo col quale i cultori della scienza economica conobbero, fuor del nostro paese, le teorie maggiori del Ferrara, ed a maggior ragione spiegano la mancata conoscenza della battaglia da lui vigorosamente sostenuta, or son ottant’anni e più, contro il riconoscimento di questa particolare forma di proprietà.

 

 

19.-La battaglia non era stata da lui combattuta in nome di quello che oggi viene descritto come la premessa od il preconcetto liberistico. I brani essenziali dianzi citati consentono di ricostruire altrimenti il pensiero ferrariano. Partendo dalla sintesi fra l’aspetto corporeo o materiale e quello spirituale od immateriale dei beni economici, Ferrara giunge alla conseguenza che il libro è un prodotto misto di materia e di spirito, inscindibili l’una da l’altro, sicché non è possibile assegnare ad uno solo dei collaboratori, il tipografo e l’autore, un merito particolare e maggiore che all’altro. Amendue hanno tratta dall’eredità delle generazioni passate, dal cumulo di esperienze e di insegnamenti venuti sino a noi i mezzi per produrre il bene economico, da essi offerto al pubblico. Perché all’uno debbono essere concessi maggiori diritti che all’altro? Perché il compratore di un libro, di una macchina, di un preparato chimico non dovrebbe avere diritto di riprodurre la cosa comperata, così come il compratore di un sacco di grano ha il diritto di seminarlo nel suo campo e di moltiplicare la semente le dieci o le venti volte? Perché il privilegio negato all’uno si dovrebbe concedere all’altro? A Ferrara parve che nessuno avesse spiegato il perché di una risposta affermativa.

 

 

20.-Dopo tanti anni, voci recenti hanno riproposto la domanda e nuovamente veggono la difficoltà di una risposta affermativa[1]. Oggi, come allora, i difensori della proprietà letteraria e industriale si trovano dinanzi al quesito: se il “monopolio” è una situazione d’eccezione, se esso è dannoso a quello che si considera l’interesse collettivo o, per parlare un po’ meno vagamente, se esso è contrario alla migliore utilizzazione degli scarsi mezzi economici posti a disposizione degli uomini, se perciò i legislatori di tutti i tempi e di tutti i paesi hanno iscritto nelle raccolte delle loro leggi norme intese a combatterlo, perché nel caso particolare delle opere dell’ingegno e delle invenzioni industriali si vuole consacrare quel medesimo monopolio?

 

 

21.-Che il monopolio concesso agli autori ed agli inventori significhi “limitazione” è contraddetto dalla opinione corrente, secondo la quale le privative per le invenzioni industriali ed il diritto esclusivo alla ripubblicazione dei libri sarebbero invece spedienti opportuni ad incoraggiare inventori e scrittori. Il monopolio, dicesi, è in questo campo innocuo. Esso incoraggia la produzione di beni economici-invenzioni e libri-che senza di esso non sarebbero prodotti. Il monopolio del fabbricante di scarpe è dannoso al pubblico, perché, se in regime di piena concorrenza si produrrebbero dai parecchi calzolai concorrenti, in una data unità di tempo e in un dato luogo, 100 paia di scarpe al prezzo di 80 lire bastevoli a coprire il costo di produzione ed a soddisfare la domanda attiva al prezzo di 80 lire, ove un solo calzolaio sia monopolista, questi produrrà solo 80 paia di scarpe e le venderà al prezzo di 100 lire, se 100 lire sia il prezzo di massimo utile per lui. Nel caso delle invenzioni industriali, e dei libri, nulla di ciò: l’invenzione non sarebbe esistita ed il libro non sarebbe stato scritto se inventori e scrittori non fossero stati incoraggiati ad inventare ed a scrivere dalla promessa di avere per un più o meno lungo periodo di tempo la proprietà esclusiva della utilizzazione dell’invenzione o della divulgazione del libro. Il privilegio legale ha messo semplicemente il favore del pubblico al luogo del favore dei potenti. Invece di mendicare sussidi ed ospitalità nelle corti dei sovrani a nelle anticamere dei ricchi, inventori e scrittori possono oggi guardare con sicurezza, come ogni altro lavoratore, all’avvenire. Se la loro invenzione è veramente utile, se il libro si fa leggere, il pubblico, coll’acquistare il libro o col chiedere i prodotti dell’invenzione, rimunererà il merito, consentendo ad inventori e scrittori i mezzi di una vita indipendente e largendo ad essi talvolta ricchezza non mendicata. Il pubblico nulla perde ad assicurare i mezzi di vita a coloro i quali gli offrono beni altrimenti non disponibili.

 

 

Il monopolio è nel caso specifico, non uno strumento di limitazione, sì invece di moltiplicazione dei beni economici.

 

 

22.- È il monopolio davvero condizione necessaria alla produzione delle invenzioni industriali e dei libri?

 

 

In molti casi, certamente no. Esistono inventori e scrittori nati, i quali inventano o scrivono per soddisfare ad una esigenza propria della loro personalità spirituale. Dotato dell’istinto di costruzione, l’inventore nato non può a meno di fantasticare intorno a nuovi mezzi tecnici di compiere un certo lavoro, di provare e riprovare nuove combinazioni chimiche. Egli soddisfa ad un suo demone interno che lo spinge sulla via di inventare qualcosa di nuovo. Così, per necessità della propria natura, canta il poeta nato, narra lo storico, scrive il romanziere o l’articolista, politico o letterario. Costoro poetano o narrano o combattono, perché tale è la loro missione. Essi non temono la divulgazione e la riproduzione delle loro idee; ché anzi lavorano e scrivono per ottenere fama e consenso, l’una e l’altro e spesso più questo che quella. A codesti uomini eccezionalmente dotati dobbiamo i capolavori della letteratura e le invenzioni rivoluzionarie. A sua volta il creatore di nuovi veri scientifici, dai quali derivarono infinite applicazioni pratiche industriali, queste sole brevettate, non sognò privilegi; e si stette pago di inserire, con data certa, la breve nota la quale rendeva conto della sua scoperta negli atti di qualche accademia. A Galileo Ferraris premeva unicamente il riconoscimento della paternità spirituale dell’idea nuova e si meravigliò grandemente che qualcuno venuto di lontano gli offerisse denaro per trarne partito. Quanto più l’idea è divulgata, quanto più il libro è riprodotto e tradotto, tanto più costui gioisce. Il procacciamento dei mezzi di vita fu fattore tutt’affatto secondario dell’opera creativa. Gli onori, le cariche, le cattedre furono stimolo e mezzo per nuove indagini, per nuovi ozi letterari, non sempre così fecondi come i primi. Il privilegio legale non ha dunque alcuna parte nella produzione di questa prima e più alta categoria di invenzioni e di libri. Scrittori di capolavori letterari o di memorie scientifiche memorande non pensano per lo più a vendere le produzioni del loro ingegno. Lo scienziato tipico è ansioso invece di collocare, senza spesa, la sua memoria in qualche raccolta accademica o in qualche rivista speciale. Egli chiede ed insiste per avere un certo numero, il massimo possibile, di “estratti”; non per farne commercio, ma per divulgarli a sue spese in omaggio e ricordo ai cultori della sua medesima disciplina. Spesso è disposto a pagare qualche cosa per vedersi stampato; e gran parte della produzione letteraria, in mezzo alla quale si scopre talvolta anche il capolavoro, viene alla luce a spese dell’autore, senza speranza veruna di recupero.

 

 

23.-Altre invenzioni sono dovute al caso fortuito. Un ragazzo, stanco di star fermo tutto il giorno attorno ad una macchina, la quale senza un suo intervento periodico non funzionerebbe e desideroso di giocare coi coetanei, inventa lo spediente necessario a che la macchina lavori da sola, senza uopo della sua cooperazione. Che cosa ha che fare la speranza del guadagno derivante dal privilegio quindicennale con questo secondo tipo di invenzioni?

 

 

24.-Ma vi sono le invenzioni cercate con fatica, perseguite per lunghi anni nei laboratori; ma ci sono i libri scritti dai professionisti della penna; i quali debbono trovare nel compenso pecuniario i mezzi di sostentamento proprio e della famiglia. Nel mondo moderno, data la minuta divisione del lavoro, dato il progresso continuo delle cognizioni scientifiche, data la moltiplicazione delle invenzioni, ogni nuova invenzione è sempre meno il frutto del lampo di genio dell’inventore isolato e sempre più il risultato del lavoro combinato di parecchi e molti ricercatori, che nei laboratori sperimentali industriali, perseguono indagini lunghe e costose rivolte a determinati fini concreti. Data la domanda crescente di libri istruttivi o divertenti, le case editrici assoldano scrittori, talvolta valorosi, i quali si impegnano a fornire manoscritti, a tal prezzo ed in tal tempo. Come potrebbero gli editori remunerare convenientemente gli scrittori, se un concorrente qualsiasi potesse immediatamente riprodurre quello tra i libri da essi pagati, e con grande dispendio stampati, se essi non possedessero il diritto di esclusività sul libro stesso? Come potrebbero le imprese industriali erigere e mantenere laboratori sperimentali costosissimi, guidati da tecnici specializzati e da assistenti peritissimi, se essi non godessero del privilegio esclusivo dell’utilizzazione per un certo tempo delle invenzioni, pochissime fra le molte tentate ed abbandonate, atte a dare un risultato economico profittevole?

 

 

25.-L’osservazione, notabile, non dimostra la necessità del monopolio. Fatta l’ipotesi della piena concorrenza, gli imprenditori sarebbero interessati a remunerare ricercatori stipendiati nei loro laboratori sperimentali od a compensare invenzioni offerte da inventori isolati entro i limiti consentiti dal vantaggio di usare per i primi le invenzioni così acquistate, innanzi che i concorrenti le abbiano conosciute e, conosciutele, abbiano ritenuto opportuno di imitarle. Vi sono campi, nei quali non sono concesse privative per invenzioni industriali, nei quali perciò la “pirateria” è legalmente consentita; e nei quali tuttavia lo spirito inventivo opera con successo. Le grandi case di moda lanciano ad ogni stagione modelli nuovi di vestiti, di cappelli, di scarpe, di guanti, sopportano per inventarli disegnarli e lanciarli spese cospicue e traggono compenso sufficiente dal mero giungere prime sul mercato. I contraffattori ed i copisti sono numerosi; le copie sono più numerose degli originali; ma i modelli originali venduti dalle case produttrici spuntano sul mercato prezzi più alti, i quali remunerano a bastanza l’organizzazione inventiva.

 

 

Forseché i medicinali sono tutelati da privative? Ma il buon nome e il marchio di fabbrica delle case originali produttrici basta ad accreditarne i prodotti ed a consentire compensi sufficienti agli inventori di specialità sin troppo moltiplicantisi sul mercato. Nessun privilegio protegge le semenze elette di frumento, le nuove varietà di fiori, gli incroci di volatili; eppure rari ingegni applicano lavoro non piccolo e non ordinario alla invenzione di nuovi prodotti agricoli o di nuovi sistemi di coltivazione, con vantaggio grande della produzione della terra.

 

 

La produzione di libri da parte di scrittori bisognosi o desiderosi di ottenere compenso diretto dalla vendita di prodotti del loro ingegno troverebbe, ove non esistesse la proprietà letteraria, un limite nella convenienza degli editori di buttare sul mercato il libro e di godere l’esclusività della vendita per quel tempo durante il quale non ne fosse accertato il successo e il rivale non ritenesse conveniente di lanciare l’edizione “piratesca” a buon mercato.

 

 

26.-Sottoponendosi al pericolo della concorrenza da parte di contraffattori e di imitatori, gli inventori e gli scrittori correrebbero sorte non diversa da quella di tutti gli altri produttori di beni economici. Il calzolaio, il tessitore, il sarto, l’agricoltore non è forse soggetto al rischio di non poter vendere le scarpe o i tessuti o l’abito od il vino se altri offre al pubblico merce uguale a prezzo inferiore o migliore a prezzo uguale? Non perciò il mercato difetta di scarpe, di tessuti, d’abiti e di vino; e sempre ne è provvisto sino al limite della convenienza di produrre quei beni ad un prezzo tale che la quantità domandata uguagli quella offerta. Così accadrebbe delle invenzioni industriali e dei libri in mancanza di privilegio. Continuerebbero ad essere compiute tante invenzioni, ad essere pubblicati tanti libri quanti potessero essere rimunerati entro i limiti della convenienza degli imprenditori di utilizzarli, arrivando primi sul mercato, innanzi che la concorrenza dei ripetitori riduca i prezzi così da abolire il margine atto a dare un compenso ad inventori e scrittori. Costoro cioè vedrebbero, in teoria pura, limitato il loro compenso a quello uguale al profitto della “novità”-e la novità durerebbe quell’intervallo di tempo in cui ogni iniziativa gode del privilegio naturale di non essere conosciuta od apprezzata dai concorrenti-e della “priorità”; e questa durerebbe più a lungo, perché, posta fra il prodotto originale e quello imitato, il consumatore, a parità di prezzo, preferisce sempre il prodotto originale e non di rado lo preferisce persino a prezzo superiore.

 

 

27.-Se il compenso così fissato sia x, inventori e scrittori si potrebbero distinguere in alcuni gruppi:

 

 

  • di coloro i quali inventerebbero e scriverebbero per il piacere di ragionare combinare e scrivere, per lo stimolo a fare ciò a che sono dalla propria indole recati. Per essi il compenso x è tutta “rendita” o guadagno da essi non chiesto ed economicamente non necessario a promuovere produzione di libri e di invenzioni;
  • di coloro, per i quali basterebbe, per indurli a lavorare una remunerazione (y) non monetaria, consistente nella fama, negli onori, nella carriera accademica agevolata, nei guadagni professionali resi più abbondanti dall’aureola dell’invenzione ammirata o del libro divulgato. Sia che y sia maggiore o minore di x, sia che essi ottengano nel primo caso una rendita positiva, ovvero soffrano nel secondo caso, per il conseguimento dei beni “fama”, “onori”, “carriera”, “professione”, una rendita negativa, la quantità di beni “invenzioni” o “libri” messa sul mercato da questa seconda, come dalla prima, categoria di produttori è una quantità pressoché costante, indipendente dal compenso o prezzo x ottenuta dalla vendita dell’invenzione o del libro. Se la massa così offerta fosse sufficiente a saturare il mercato al prezzo zero, invenzioni e scritture di libri sarebbero un bene gratuito. Fortunatamente per inventori e scrittori la domanda di invenzioni e di libri nuovi è siffatta che l’offerta proveniente dalle due fonti ora detta non è sufficiente a saturarla al prezzo zero. Se si vuol che la quantità offerta uguagli quella domandata uopo è si paghi un prezzo in moneta x per l’ultima dose di invenzioni o di libri necessaria a far la quantità domandata uguale all’offerta.

 

 

Nell’ipotesi di piena concorrenza, ove si supponga inesistente ogni monopolio, x è il prezzo di equilibrio, il prezzo di mercato. A questo prezzo, inventori e scrittori “marginali”, coloro cioè i quali non applicherebbero il loro ingegno ad inventare o la loro penna a scrivere se non ottenessero il compenso x, ottengono un mero salario. Gli altri, che si contenterebbero di un compenso pecuniario x-h, ottenendo per la legge jevonsiana della indifferenza il prezzo di mercato x, godono di una “rendita” uguale a h.

 

 

Nessuna tra le categorie di produttori intellettuali sinora descritte, dai primi i quali inventano o scrivono per il piacere di così obbedire al demone che li agita e muove il loro spirito, a quelli i quali sono intenti a conseguire compensi di fama, di onori, di carriera diversi da quello pecuniario diretto, a coloro infine i quali attenderebbero ad altri uffici se non ottenessero un compenso pecuniario più o meno approssimato ad x, nessuna ha d’uopo di invocare alcun privilegio legale per raggiungere lo scopo che vuole raggiungere.

 

 

28.-A chi giova dunque il monopolio legale? A coloro soltanto, i quali, per indursi ad inventare ed a scrivere hanno bisogno di una remunerazione superiore a quella x, corrente per lavori della medesima importanza economica del fare invenzioni o dello scrivere libri.

 

 

Badisi, perché non vi siano equivoci, che x è compenso netto dall’indennizzo per i rischi generali del lavorare e per quelli particolari proprii del lavoro dell’inventare e dello scrivere. Se l’imprenditore di libri od editore corre mediamente il rischio di veder cader fiaccamente nel pubblico quattro su cinque libri nuovi da lui messi sul mercato, la vendita del quinto libro deve essere in media bastevole a coprire i costi di produzione di tutti i cinque libri, incluso nel costo il compenso necessario per far vivere tutti cinque gli scrittori di cui egli ha assoldato l’opera. Se l’imprenditore di industria, il quale acquista dieci invenzioni vede accolto con successo dalla clientela i frutti di una sola di quelle invenzioni, il profitto della decima invenzione deve essere sufficiente a compensare i dieci ricercatori da lui impiegati nel suo laboratorio sperimentale per fornirgli in un anno dieci invenzioni, delle quali una sola fruttifera. Se, al luogo di imprenditori assuntori di rischi, i cinque scrittori od i dieci inventori si indirizzano direttamente al pubblico, la regola non muta. I guadagni dell’uno scrittore su cinque, dell’un inventore su dieci devono essere sufficienti ad attirare all’arduo cimento dello scrivere o dell’inventare cinque o dieci aspiranti, tra i quali uno solo sarà il chiamato. Che cosa vi è in ciò di diverso dalla sorte che attende avvocati medici architetti cantanti, dei quali ben meno di uno su dieci diventa avvocato principe, medico o chirurgo famoso, architetto acclamato, cantante idolatrato dalla folla? I non chiamati si rassegnano ad uffici di secondaria importanza, a parti di coro; e non perciò cade in mente ad alcuno di chiudere i ruoli e di consacrare il privilegio del patrocinare litiganti, del curare malati, del cantare a favore di coloro i quali abbiano superato un concorso a numero limitato di posti. O se tal pensamento si attua, non è senza grave danno della collettività, niente affatto sicura che tra i vincitori del concorso siano noverati quelli che sarebbero, per virtù propria, divenuti avvocati principi, chirurghi famosi o cantanti portati in trionfo dalle folle acclamanti.

 

 

29.-Quale spiegazione si può dunque dare della richiesta di un compenso superiore a quello x? Questa, e non altra, è infatti la sostanza della pretesa insita nel privilegio legale della proprietà letteraria od industriale. Perché questa sia ammissibile con ragionamento economico corretto, farebbe d’uopo dimostrare che vi è un interesse pubblico, abbastanza chiaramente definito, a remunerare nel loro insieme inventori e scrittori di più di quello che sarebbe il compenso corrente per lavori ugualmente apprezzati dal mercato.

 

 

Di nuovo sbarazziamo il terreno da una argomentazione non pertinente, simile a quella di cui si è parlato sopra, della copertura del rischio, sia pure specialissimo, della produzione di invenzioni o di libri. Non esiste cioè nessun interesse pubblico a produrre un numero di invenzioni o di libri maggiore di quello che sia il frutto della distribuzione naturale delle attitudini e delle inclinazioni umane tra le varie specie di lavori, intellettuali e manuali. La collettività non ha alcun interesse a che gli uomini si addicano al lavoro inventivo od allo scrivere libri a preferenza che a coltivar campi, ad allevare fiori od a tessere panni. Sovrana è la domanda dei consumatori. Se questi difettano di libri, essi dovranno pagarli quel prezzo, il quale sia bastevole a remunerare, colla vendita tempestiva da parte del primo editore, un numero sufficiente di scrittori di quel tipo di libri. Se i libri non hanno mercato, ciò può derivare da mancanza del bisogno di leggere del pubblico; ma il gusto del leggere non si promuove per fermo coi prezzi alti, che sono la conseguenza del privilegio, bensì coi prezzi bassi, i quali seguono alla rivalità degli stampatori.

 

 

30.-Il privilegio legale, creando il monopolio degli imprenditori i quali utilizzano invenzioni o stampano libri, ha un solo effetto: rendere massimo il lucro netto ricavato dalla utilizzazione delle invenzioni, utili o disutili, o dalla vendita dei libri nuovi, buoni indifferenti o cattivi.

 

 

L’imprenditore di invenzioni, il quale lucrerebbe cento, è messo in grado di guadagnare duecento. Ma poiché tutti, ove non si limiti legalmente il numero degli imprenditori, possono farsi assuntori di imprese industriali od editoriali, il guadagno monopolistico, consentito dal privilegio legale, finisce, nell’ipotesi di concorrenza, ad essere trasferito ad inventori e scrittori. Economicamente dunque, il privilegio legale si riduce a trasferire dalla proprietà dei consumatori di prodotti ottenuti nuovamente o più a buon mercato grazie alle invenzioni industriali o dei libri nuovi a quella degli inventori e degli scrittori una certa quantità di numerario superiore a quella della quale essi si sarebbero altrimenti contentati. Il compenso cresciuto sarebbe repartito, non a quote individuali più vistose fra lo stesso numero di inventori e scrittori, ma, sempre per l’agire della concorrenza, in quote individuali normali, fra un numero maggiore di inventori e di scrittori. La necessità di ricorrere ad un numero maggiore di inventori o di scrittori rialzerà la remunerazione marginale da x a z; ma z sarà la remunerazione di tutti gli inventori e scrittori aventi uguali attitudini; o, se così voglia parlarsi, z sarà la remunerazione unitaria di quelle attitudini delle quali Tizio possiede 100 unità, Caio 10, Sempronio 5 e Mevio, ultimo chiamato, appena 1.

 

 

31.-Ecco il risultato del privilegio: spostare un certo numero di lavoratori dal lavoro dei campi o delle officine o delle professioni a quello dell’inventare o dello scrivere. Ed ecco l’errore di coloro, i quali asseverano che il privilegio insito nel riconoscimento della proprietà letteraria ed industriale non importa alcun onere per la collettività. Costoro dimenticano la legge economica, unica legge economica degna del titolo di fondamentale, della limitazione dei mezzi posti a disposizione degli uomini per raggiungere i fini che essi si propongono. Chi inventa o scrive libri non zappa campi e non tesse panni. Ognuno può avere opinioni proprie, sempre rispettabili, sulla dignità rispettiva dello scriver libri o dello zappar campi. Per lo più, il contadino, pur non considerandolo lavoratore, rispetta chi scrive libri e “fa stampare nel ferro” i suoi pensamenti. In compenso lo scrittore anela al giorno, che mai non viene, nel quale, divenuto vecchio, coltiverà con amore i fiori del suo giardino, vicino alla casetta costrutta col frutto dei suoi libri. Ma perché lo scrittore dovrebbe essere giudice della dignità dell’opera propria e chiedere per se` un privilegio negato da lui all’altro?

 

 

Certo è che il costo per la collettività del privilegio concesso ad inventori e scrittori è il campo non zappato, è il panno non tessuto dai lavoratori che il privilegio ha spostato dalle occupazioni libere a quelle privilegiate. Non esistono privilegi o monopoli i quali non creino un costo per la collettività. Inducendo gli uomini a fare una scelta diversa da quella che essi avrebbero fatto spontaneamente la collettività non ottiene, come immaginano i difensori delle privative letterarie ed industriali, un risultato nuovo, gratuito. Sostituisce un prodotto ad un altro. In teoria pura, poiché gli uomini hanno dovuto essere stornati artificialmente, coll’allettativa del privilegio, dall’uno all’altro lavoro, dobbiamo affermare che il lavoro surrogato vale di meno di quello abbandonato. Vi è una perdita netta per la collettività.

 

 

32.-Esiste una qualche ragione per accollare la perdita alla collettività? Non pare. Se questa è sicura di fruire di tutte le invenzioni e di tutte le produzioni letterarie uscite dalla mente: 1) di coloro i quali sono posseduti dal demone dell’inventare e dello scrivere; 2) di coloro i quali son forniti della dote divina della curiosità e la applicano ai fatti ed ai casi che ad essi casualmente cadono sotto gli occhi; e 3) di coloro i quali, in laboratori sperimentali o per commessa di editori, attendono a ricerche industriali o allo scrivere su temi prefissi in corrispettivo della remunerazione ordinariamente consentita a lavoro della medesima dignità, qual vantaggio vi può essere a fornire alla collettività altre invenzioni ed altri libri? L’ultima dose di beni d’invenzione o di scrittura potrebbe essere fornita solo da lavoratori ultramarginali, ai quali -creando al tempo stesso sovrarendite non chieste per le tre categorie di inventori e scrittori – fa d’uopo fornire, per attirarli all’opera dell’inventare o dello scrivere, un compenso più alto di quello che otterrebbero attendendo ad altre opere tecniche o professionali o manuali. Non basta che la nuova scelta sia conveniente per il lavoratore ultra-marginale; fa d’uopo esista un vantaggio collettivo, comunque definito, sul quale si fondi lo spostamento forzato operato dal legislatore. A Tizio può essere conveniente guadagnare z collo studiare invenzioni o scrivere trattati, invece di x che altrimenti guadagnerebbe in altre occupazioni. Ma poiché x non è solo il prezzo corrente per la remunerazione di inventori e scrittori, ma è anche il prezzo corrente per la remunerazione di lavoratori intellettuali o manuali dotati della medesima capacità e produttività economica appartenente all’inventore o scrittore marginale – se così non fosse la distribuzione degli uomini fra le varie specie di lavoro non sarebbe quella che è o si violerebbe la regola della uguaglianza di prezzo per beni e servigi della medesima specie, nel medesimo istante di tempo e nel medesimo mercato, il che in teoria pura è assurdo, – il maggior compenso z – x è un reddito di monopolio di cui il legislatore deve dare ragione a se stesso prima di crearlo col fiat della legge.

 

 

La sola motivazione possibile pare sia: L’inventare e lo scrivere sono lavori peculiari, per i quali non è possibile ai pochi eletti emergere, se il pubblico, se gli imprenditori di uso di invenzioni o di edizioni di libri non abbiamo un larghissimo campo su cui mietere. Fa d’uopo, cioè, che il compenso totale disponibile in questi campi cresca, grazie al monopolio legale, da X a Z, affinché invece di M concorrenti accorrano M + N, e così, tra la moltitudine di coloro che reputano se stessi capaci ad inventare od a scrivere, il pubblico possa meglio scegliere i pochissimi eletti.

 

 

Quali siano le caratteristiche peculiari dell’inventare o dello scrivere atte a spiegare un allargamento siffattamente eccezionale del campo di scelta non è facile intuire. Parrebbe anzi che il campo di scelta sia fin troppo vasto, pur senza d’uopo di incoraggiamenti speciali. L’inventare e lo scrivere, come il sentenziare di cose economiche o politiche o internazionali o belliche pare sia un’inclinazione tanto diffusa tra gli uomini da dar luogo quasi ad un pericolo sociale. Corrono per il mondo e danno noia non pochi ma troppi inventori e scrittori; e la loro moltitudine ingombrante produce quell’effetto che Adamo Smith aveva notato ai tempi suoi per le facoltà teologiche scozzesi. Allettati dalle numerosissime borse di studio, troppi giovani si addicevano agli studi teologici invece che a tirar di spago nelle botteghe di calzolaio od a pungere buoi pigri a tirar l’aratro nei campi. Ed era naturalmente accaduto che i membri del clero scozzese fossero peggio pagati dei calzolai e dei contadini. Non è verosimile che il monopolio legale concesso alle opere di invenzione o di penna abbia avuto la sua parte nell’imperversare odierno di inventori e scrittori ultra-marginali, facile pretesto in mano ad imprenditori e ad editori per abbassare, additando ai buoni lo spettro della moltitudine famelica degli aspiranti, il compenso del lavoro intellettuale e trattenere per sé una parte del guadagno monopolistico creato dal privilegio legale.

 

 

33.-Il solo istituto, il quale abbia fondamento in ragione e in esperienza è quello additato già dal Ferrara; ed a cui meglio che quella di privativa letteraria o industriale si addirebbe la denominazione di norma di salvaguardia contro i furti. L’inventore ha diritto di essere tutelato contro il pericolo che il suo ritrovato sia riprodotto da altri prima che egli abbia potuto utilizzarlo. Il contraffatore od imitatore non riproduce in tal caso un’invenzione già nota al pubblico; sì invece si appropria un ritrovato quasi ancora in potenza, il quale non aveva ancor fatto la sua strada fino al pubblico. Lo scrittore ha diritto di tentare di vendere le copie da lui o da altri per incarico suo stampate del suo libro. Il pirata, il quale riproduce il libro innanzi tempo, turba lo scrittore nell’esercizio del diritto di vender la cosa sua.

 

 

Ma il periodo di tempo al quale deve estendersi la norma di salvaguardia è quello assai limitato entro il quale si deve supporre che il ritrovato o il libro possano normalmente trovare un bastevole mercato; o, nel caso del libro, quello nel quale il numero di copie reputato all’inizio sufficiente allo scrittore sia stato esitato. Ferrara indicava in cinque od al più dieci anni quell’intervallo di tempo e difficilmente si potrebbe, argomentando dal concetto della salvaguardia, andare più in là.

 

 

34.-Forse, se ancora vivesse e se, piegando alquanto la dirittura della sua spada logica, il Ferrara consentisse ad un compromesso consigliato dalla difficoltà di battere in breccia un istituto il quale se non al suffragio della ragione si raccomanda a quello della tradizione oramai vetusta, si potrebbe dar risalto maggiore e più immediato alla regola, che parecchie legislazioni ed anche quella italiana hanno accolto, rinviandola tuttavia ad epoche lontanissime nel tempo o limitandole a scopi peculiarissimi, della libertà di riproduzione subordinata all’obbligo di pagamento di una percentuale all’inventore od allo scrittore. Il concetto, che in moderni scrittori vedesi discusso con simpatia, è di agevole applicazione per i libri; e trova un addentellato in una osservazione assai pertinente e già ricordata (cfr. sopra par. 17) del Ferrara medesimo. Osservando la differenza spiccata tra i prezzi inglesi in regime di privativa legale e quelli nordamericani in regime di libertà di riproduzione (la “Storia d’Inghilterra” del Macaulay venduta là a dollari 4.50 e qui a 0.40, la “Storia della guerra peninsulare” del Napier venduta rispettivamente a 12 e 3.25 dollari) egli vide che i prezzi bassi americani avevano giovato agli scrittori inglesi, scoprendo strati nuovi e vasti ansiosi di leggere, inutilizzati ai prezzi alti di monopolio. Altri aggiunse che in quel tempo gli scrittori inglesi riuscivano ad ottenere da editori americani, ai quali mandavano, senza garanzia di privilegio, le bozze di stampa dei libri di prossima pubblicazione nella madrepatria, compensi più vistosi di quelli riscossi dai privilegiati editori britannici.

 

 

35.-L’editore originario, del resto, pur in assenza di qualsiasi privilegio, è in grado di sfruttare il mercato meglio dei concorrenti. Egli solo conosce il successo effettivo dei suoi libri; e quando si approssima la scadenza del tempo di salvaguardia, suppongasi i cinque anni, può, se vegga la convenienza, preparare un’edizione a buon mercato ed a forte tiratura, con qualche piccola variante nel testo facilmente apprestata dall’autore, la quale non pregiudicherà affatto la vendita della prima edizione ad alto prezzo, preferita sempre dai buongustai del libro e dagli amatori delle prime edizioni, e praticamente troncherà ogni velleità dei pirati del libro. A che prò ristampare, allo stesso prezzo di concorrenza, il libro che il primo editore offre “riveduto e corretto” al pubblico? L’autore, in cuor suo, non è malcontento; ché, spirato il tempo di salvaguardia, quanti più editori si gitteranno sul suo libro, tanto meglio per lui. Il suo diritto percentuale del cinque per cento, duraturo quanto la sua vita, si appresta infatti a dargli rendite crescenti in ragione della pubblicità che i diversi editori dovranno organizzare attorno all’opera sua. Se il timor dell’ignoto non li trattenesse, il metodo della libertà di riproduzione, con diritto vitalizio fissato per legge in percentuale modesta-la quale non dovrebbe superare un massimo, dicasi, del cinque per cento, sotto pena di mancare al fine dell’istituto, che è quello di non impacciare la divulgazione del libro-dovrebbe apparire simpatico agli scrittori, più del sistema odierno del privilegio legale. Già ora, se remunerati in somma fissa, essi non hanno interesse alle basse tirature; se in percentuale sul prezzo di copertina, essi sono interessati alle forti tirature alle quali invece gli editori repugnano, volendo essi scegliere il prezzo di massimo profitto netto, che non coincide col prezzo normalmente remunerativo di massima vendita. Ma raramente gli scrittori di grido – e sono i soli a cui la faccenda interessa, gli studiosi puri ben sapendo che gran merce è per essi riuscire a trovare il mecenate disposto a correre l’alea lenta della vendita delle loro opere-hanno meditato sulla teoria del prezzo di monopolio e di quello di concorrenza!

 

 

36.-Meno agevole è la soluzione del problema della percentuale per le invenzioni industriali; ma più urgente altresì la soluzione del problema, del quale il Ferrara aveva antiveduto l’importanza, messa ognora più in luce dalle moderne profonde trasformazioni nella tecnica delle invenzioni e della loro utilizzazione. La dottrina più recente[2] ha bene chiarito come il privilegio dell’inventore stia diventando sempre più incompatibile con la mutata tecnica delle invenzioni e come esso sia oggi uno dei più temibili strumenti di concentramento della industria nelle mani di pochi giganteschi monopolisti.

 

 

Il genio solitario il quale scopre nuovi congegni o processi o metodi industriali è stato in primo luogo, come il Ferrara aveva già dimostrato, preceduto da innumerevoli ricercatori, i quali gli hanno apparecchiato la ricchissima suppellettile scientifica e tecnica, che egli crescerà con una piccola o grande aggiunta. Sovratutto egli ben raramente può inventare da solo, per tratto di illuminazione geniale. Le invenzioni industriali sono, quasi sempre, il frutto di ricerche sistematiche pazienti condotte da gruppi di ricercatori, i quali studiano e sperimentano, secondo un programma predisposto e coordinato in laboratori forniti dell’apparato necessario, eretti e mantenuti con grave dispendio da enti pubblici, o da grandi imprese industriali private. All’inventore isolato, il quale scopre la novità grazie all’illuminazione geniale od all’osservazione fortuita afferrata dalla mente volta alle combinazioni tecniche, si è sostituito il lavoro salariato di decine e talvolta centinaia di studiosi, ad ognuno dei quali è affidato il compito di condurre esperimenti in campo limitatissimo, coordinati con diversi sperimenti che altri contemporaneamente conduce nel tavolo o nel gabinetto vicino. L’inventore singolo dove e`? L’invenzione diventa opera collettiva, alla quale hanno collaborato scienziati d’ogni parte del mondo con note di teoria pura sparse in atti accademici e in riviste scientifiche, periti i quali traducono i nuovi veri in quesiti di applicazione e tracciano le linee delle ricerche sperimentali, sperimentatori i quali eseguono le ricerche e le ripetono, variando i dati, sino a che la ricerca giunga ad una conclusione o si dimostri infeconda, tecnici che coordinano le conclusioni e giungono forse a qualche risultato pratico. La teoria pura, la scuola, il laboratorio, la fabbrica hanno dato ciascuno un proprio contributo alla nuova scoperta. Nessuno in particolare è l’inventore; e proprietario dell’invenzione è l’ente o l’impresa che ha eretto e mantiene il laboratorio sperimentale. Ma questo non si erige e non si mantiene se non con spesa gravissima, che solo i giganti possono sostenere. Ogni giorno più, le privative per invenzioni industriali sono attribuite alle maggiori imprese. Non il piccolo o medio industriale è il titolare di privative. Fa d’uopo che l’impresa abbia raggiunto date dimensioni perché essa possa produrre invenzioni e farsene attribuire la privativa. Invece di promuovere la concorrenza del povero fornito d’ingegno contro l’industriale colosso, come stava scritto nei libri del tempo nel quale nella prima metà del secolo scorso i legislatori andarono a gara nel codificare la proprietà industriale, la privativa oggi è divenuta mezzo per affermare la potenza dei grandi.

 

 

37.-A che giova che l’inventore abbia innovato un congegno od inventato una macchina nuova? Ma la innovazione si fonda necessariamente su qualche principio noto, perfeziona un congegno esistente; ed il principio è già, in quanto abbia dato luogo ad applicazione industriale, parte di congegno brevettato a favore altrui, ed il perfezionamento si riferisce ad una macchina, di cui la privativa spetta ad altri. Finché i brevetti antichi non siano scaduti, l’inventore non può applicare la sua invenzione senza il consenso del proprietario del brevetto originario. Se egli non si affretta, la invenzione, da lui resa nota per il fatto stesso di averne ottenuta la privativa, stimolerà altri ricercatori, promuoverà ricerche ed invenzioni indipendenti. Non è forse ufficio quotidiano essenziale di ogni laboratorio sperimentale quello di sottoporre a scrutinio attentissimo tutte le nuove privative attinenti ad un dato campo industriale, per scoprire gli addentellati con invenzioni precedenti, ed intuire la possibilità di invenzioni affini, le quali consentano di giungere allo stesso risultato, camminando sul filo di rasoio della violazione del diritto altrui?

 

 

All’inventore singolo si presenta l’alternativa: cedere la privativa alla grande impresa alle condizioni che piaccia a questa di stabilire o sostenere l’immancabile lite per affermare la priorità propria. Le grandi e sovratutto le massime imprese-così raccontano particolarmente gli scrittori americani-hanno sempre in serbo una dotazione di brevetti sparafucile, atti a minacciare liti ai concorrenti, i quali pretendano di applicare una invenzione simile a quella che essi usano, o di brevetti spaventapasseri, redatti così da estendersi in apparenza ad un dato campo industriale, ma in verità indirizzati all’unico scopo di scoraggiare i concorrenti; od ancora di domande di nuove privative, presentate allo scopo di farsi vivi in ogni campo, mantenute pendenti con lungaggini procedurali: ritardi nel dare le spiegazioni chieste dall’ufficio governativo dei brevetti, aggiunte continue di piccole modificazioni, così da consentire al titolare delle domande di rivolgere al momento opportuno le proprie batterie contro quelle domande concorrenti, le quali minaccino il suo monopolio. L’American Telephone and Telegraph Company, proprietaria di privative sviluppate nei laboratori Bell, non riuscì così a monopolizzare il 90 per cento delle invenzioni relative alla riproduzione dei films parlanti? I produttori di films si rivolgono alla Electrical Research Products, Inc., società sussidiaria intieramente posseduta dalla Western Electric, non perché ritenga che le migliori privative siano le sue, ma perché essi sanno che, qualora tentino usare altri diversi sistemi tecnici, la A. T. T., la quale sta dietro alle società citate, ha i mezzi di rovinarli a furia di liti e sanno altresì che essa sola è capace di proteggerli nei giudizi eventualmente iniziati da altri proprietari di brevetti.

 

 

38.-Di fatto, in materia di invenzioni industriali, due sono le soluzioni le quali ognora più si affermano, principalmente negli Stati Uniti: od una sola impresa riesce ad acquistare tutte le invenzioni le quali si offrono sul mercato, mantenendo nel tempo stesso un proprio laboratorio, così da “liberare” l’industria, il che vuol dire il monopolista, dal pericolo del sorger di concorrenti; ovvero i pochi giganti, persuasi di non potersi abbattere l’un l’altro, mettono in monte, ad uso comune, le rispettive privative, coll’intesa di non contestarsele a vicenda e di spartirsi, secondo una regola convenuta, il ricavo delle licenze di uso delle privative concesse ad altri. Le licenze a lor volta sono concesse solo a quelli tra gli industriali i quali sottostanno a certi obblighi od i quali appartengono ai gruppi detentori delle privative.

 

 

“Il risultato è di solito-così il Kahn per gli Stati Uniti-quello di mutare la privativa da un monopolio limitato a diciassette anni per una determinata invenzione ad un controllo perpetuo su un’intera industria. Il gruppo, detentore del monte (pool) delle privative rende perpetuo il monopolio della privativa ordinaria, perché nel frattempo il detentore del brevetto originario ha acquistato i perfezionamenti successivi, grazie alla sua posizione dominante nell’industria. L’industria delle lampadine incandescenti è in tal modo rimasta privilegio della General Electric per i cinquanta anni passati e pare destinata a rimaner tale per un altro mezzo secolo. Grazie al possesso dell’originario brevetto Edison essa acquistò tutti i brevetti successivi, buoni e cattivi; col tener segreti i mezzi migliori di usare i sistemi brevettati, col chiedere privative di miglioramento quando la privativa originaria stava per scadere, col minacciar liti ai concorrenti, la General Electric è riuscita a mantenere intatto il suo monopolio. Essa usa privative nuove in campi che in verità non è interessata a sviluppare (fabbricazione delle lampade, manifattura di bulbi) allo scopo esclusivo di rafforzare il proprio monopolio delle lampadine ad incandescenza, che in realtà da decenni dovrebbero essere liberamente sfruttabili dalla concorrenza. La General Electric offre a concessionari licenze gratuite di fabbricare lampade o bulbi alla condizione che essi li vendano a quei soli negozianti che siano anche concessionari delle sue lampadine ad incandescenza. In siffatto modo il monopolio dell’invenzione Edison praticamente è diventato perpetuo (pag. 488)”.

 

 

39.-Non cade dubbio che il legislatore debba intervenire per regolare la materia della proprietà industriale. Non esiste in questo, come in ogni altro campo di attività economica, un contrasto fra una tendenza dottrinale liberistica ed una tendenza regolatrice. L’equivoco del contrasto nella interpretazione delle teorie e delle vicende passate non è particolare al problema che qui ci interessa; e la dimostrazione delle sue origini e della sua indole sarebbe curiosa ed illuminante. Qui basti esaminarlo rispetto al problema della proprietà industriale. Questa, sia premesso innanzi tutto, non esisterebbe, se lo stato non la dichiarasse. Gli scrittori, i quali presentarono e fecero trionfare il concetto della proprietà temporanea delle invenzioni industriali non vollero che lo stato non intervenisse.

 

 

Vollero invece che esso intervenisse in un modo diverso da quello sino a quel momento usato. La loro non fu una negazione, sì una affermazione.

 

 

Essi non dissero allo stato: laissez faire, laissez passer. Se così fosse stato, la proprietà industriale e quella letteraria non esisterebbero.

 

 

Essi vollero una legislazione positiva, contraria ad un’altra legislazione, fino ad allora dominante.

 

 

40.-Rispetto alla proprietà letteraria, essi negarono che a promuovere le buone lettere, ad incoraggiare gli scrittori giovasse il patronato del re, dei grandi signori, della chiesa, dei corpi universitari ed accademici. I premi pubblici fomentano, essi dissero, una letteratura ufficiale; non incoraggiano la libera creazione della mente. Non la incoraggiano neppure i privilegi speciali di esclusività di stampare certe opere di volta in volta concessi a talun stampatore; ché il privilegio speciale è concesso per favore e nuoce a chi voglia ripubblicare lo stesso libro anche classico. V’era chi aveva il privilegio di stampare la Bibbia intera e querelavasi che altri avesse la privativa di stamparne alcune parti soltanto, quelle usate per l’appunto dal popolo e perciò più diffuse. Né il privilegio della stampa concedevasi a libri i quali criticassero i principi stabiliti riguardanti il trono o l’altare o toccassero interessi potenti. Né i premi accademici era certo fossero attribuiti ad opere innovatrici, o non piuttosto a libri conformi alle correnti prevalenti nel momento e alle idee degli uomini già famosi, ai quali davasi il carico di proclamare la eccellenza dei libri nuovi.

 

 

41.-Nel campo delle invenzioni industriali, essi negarono che ad incoraggiare l’industria giovassero le franchigie da imposte ed i sussidi concessi a coloro che introducessero un’industria nuova o un nuovo sistema di lavorazione nel paese; la liberazione della regalia d’ubena, ossia di devoluzione al principe dei beni dello straniero in caso di morte o di guerra, quando lo straniero fosse l’ugonotto profugo dalla Francia ed introduttore di nuovi artifici nel paese di asilo. Negarono che fosse vero incoraggiamento all’industria il privilegio di esercitarla essi soli per dieci, venti o trent’anni concesso a coloro che in un paese si dedicassero per i primi ad una industria ivi dianzi sconosciuta. Dissero che cosiffatte specie di intervento consacravano il monopolio dei privilegiati, gravavano i contribuenti di onere ingiustificato, ostacolavano la concorrenza da parte di altri artigiani, di altri ugonotti, di altri rifugiati, di altri innovatori paesani.

 

 

42.-In ambi i campi, gli scrittori della seconda metà del settecento e della prima metà dell’ottocento non dissero che lo stato non dovesse intervenire; bensì chiesero che altro fosse il suo intervento. Chiesero fosse consacrato il diritto di tutti, osservate certe formalità esteriori, a sfruttare in modo esclusivo e per un tempo limitato il proprio libro e la propria invenzione. Dissero che in siffatto modo il pubblico sarebbe stato giudice sovrano dei buoni libri e delle invenzioni feconde. Nessuna maniera migliore di incoraggiamento potersi immaginare. Ferrara li rimproverò di essersi illusi e l’esperienza di un secolo sembra provare la fondatezza del rimprovero. L’illusione, in cui caddero, non stava però nell’aver creduto che lo stato dovesse astenersi dal fare alcunché, sì bene nell’aver creduto che la maniera di intervento da essi proposta e fatta trionfare fosse la più adatta a promuovere le buone lettere e ad incoraggiare il progresso dell’industria. Lo stato sarebbe rimasto assente quando avesse abbandonato inventori e scrittori a se stessi, senza alcuna tutela, neppure nel primo istante in che l’invenzione o il libro vengono alla luce. L’inventore avrebbe potuto difendersi unicamente col mantenere il segreto più assoluto intorno al nuovo congegno o processo. Il che si faceva nel tempo dei privilegi, quando l’inventore ignoto o debole disperava di richiamare su di sé la benevolenza del principe; e torna a farsi, da chi può, oggi che il debole singolo è sopraffatto dai potenti monopolizzatori di privative. Lo scrittore non avrebbe neppur goduto di un primo periodo di salvaguardia, nel quale tentare di spacciare le copie del proprio libro da lui o dal suo editore prodotte.

 

 

Che lo scopo voluto dai propugnatori del metodo della privativa “generalizzata” a tutti gli inventori e gli scrittori sia stato o non raggiunto è altro discorso. I fautori della privativa estesa a tutti possono affermare che, se anche i risultati del loro sistema furono mediocri, sono tuttavia eccellenti in confronto al metodo antico del “privilegio” concesso ai favoriti del principe.

 

 

43.-Oggi, il dibattito si riapre su premesse sorprendentemente analoghe a quelle di un secolo fa. è variato alquanto il punto di partenza. Si è più scettici intorno alla probabilità che la garanzia concessa agli scrittori ed inventori dello sfruttamento esclusivo temporaneo del libro e dell’invenzione conduca al desiderato scopo. Si teme l’incoraggiamento inutile delle cattive lettere in materia di proprietà letteraria e il monopolio dei grossi potenti accaparratori e fabbricanti di invenzioni in materia di proprietà industriale.

 

 

La scelta quale è? Sott’altre forme, di nuovo l’antica. Le vie che si aprono non sono quelle dell’intervento e del non intervento. Il legislatore deve intervenire in ogni caso. Ma il suo regolamento può essere amministrativo o giuridico. Come un secolo fa, lo stato può intervenire incoraggiando direttamente le “buone” lettere, scegliendo e incoraggiando con privilegi e premi le invenzioni “feconde”; e questo si può chiamare regolamento amministrativo. Ovvero può mutare la durata e il contenuto del diritto di proprietà letteraria e industriale, dal suo fiat creato; e questo dicesi regolamento “giuridico”.

 

 

44.-I pericoli proprii del sistema odierno sono così gravi, particolarmente per la proprietà industriale, che una revisione dei principii della legislazione oggi invalsa in quasi tutti i paesi appare urgente. Ove prevalga il metodo del regolamento “giuridico” questo dovrebbe essere informato ai seguenti principii:

 

 

  • la durata del tempo di esclusività ridotta al minimo necessario alla “salvaguardia” del diritto dello scrittore a disporre delle copie del libro da lui o dal suo editore prodotte, fatta l’ipotesi di un successo ordinario e del diritto dell’inventore a sfruttare la propria invenzione innanzi che essa divenga siffattamente conosciuta che l’applicazione sia desiderata non solo dagli imprenditori d’industria innovatori, ma anche da quelli i quali vanno dietro a ciò che già è universalmente noto ed applicato. Ferrara riteneva che il tempo dai cinque ai dieci anni fosse bastevole, e sembra che quello dei dieci sia un massimo non superabile, massimo da ridursi in ogni caso a quello nel quale la prima edizione del libro fu esaurita;
  • la determinazione di un secondo tempo, il quale potrebbe, per non innovare troppo profondamente le norme vigenti, essere uguale al resto della vita dello scrittore per i libri e ad altri dieci anni per le invenzioni industriali, durante il quale chiunque possa ristampare libri od usare invenzioni altrui, pagando un diritto di licenza;
  • il diritto di licenza potrebbe senza inconvenienti essere fissato dalla legge in una percentuale uniforme e tenue, al più del 5 per cento, del prezzo di copertina del libro. L’autore riscuoterebbe somme assai diverse, minime per le edizioni popolari a due lire e massime per le edizioni di lusso a duecento lire la copia; ne` la disparità pare scorretta, trattandosi di pubblico volontariamente incline a pagare prezzi diversi;
  • più ardua impresa sarebbe la determinazione del diritto di licenza per le invenzioni industriali, a causa della diversità grandissima di merito delle invenzioni e della variabilità del profitto netto consentito dall’uso delle invenzioni stesse agli industriali che ne facessero uso. Se il diritto di licenza fosse stabilito in una somma una tantum e questa fosse fatta uguale ad un multiplo costante del costo di riproduzione di un esemplare del congegno o meccanismo brevettato, il margine di discussione fra le parti non parrebbe notabile. In caso di disaccordo, il giudice, assistito, come nei tribunali del lavoro, da colleghi di volta in volta scelti per la loro perizia in liste preordinate, potrebbe, senza grave difficoltà, risolvere la controversia; rimanendo, nelle more del giudizio, autorizzato l’uso dell’invenzione da parte degli industriali che la volessero applicare;
  • i tempi sopra indicati dovrebbero essere ridotti assai, ad un terzo, ad es., per la privativa dei meri miglioramenti di invenzioni fondamentali, sì da evitare, quanto è possibile, il perpetuarsi del monopolio da parte delle case proprietarie dell’invenzione originaria;
  • la eliminazione delle privative sparafucile, e spaventapasseri od altrimenti intese a impedire l’uso delle invenzioni altrui dovrebbe essere compito di altre norme, quelle antimonopolistiche, che lo sviluppo dell’economia moderna rende improrogabili.

 

 

45.-Per fermo, il regolamento “giuridico” della proprietà letteraria non è di agevole applicazione. Quale norma giuridica è del resto di applicazione univoca od immune da litigi? Ne` il metodo opposto del regolamento “amministrativo” è esente da inconvenienti, i quali appaiono anzi di gran lunga soverchianti.

 

 

Scartato invero il metodo della privativa, che facendo dipendere l’incoraggiamento alle “buone” lettere dal favore del pubblico, implica logicamente la concessione di essa a “tutti” i libri, buoni mediocri e cattivi, che è regolamento “giuridico”, il regolamento “amministrativo” significa attribuzione ad un ente pubblico (ufficio ministeriale, accademie, facoltà universitarie ed istituti scientifici o tecnici o letterari in genere) del compito di scegliere, tra le molte, le pubblicazioni meritevoli di lode pecuniaria, attinta ad un fondo comune alimentato dall’imposta. Ognun vede il pericolo di errori, di partigianeria, di censura delle scuole letterarie o scientifiche dominanti a danno degli avversari e degli innovatori, la sequela delle diatribe e contumelie, il trascinarsi della maestà dello stato nel fango dei vilipendi rimbalzati a vicenda dagli esclusi ai premiati e da questi a quelli.

 

 

Se il premio non si volesse attingere al fondo generale delle imposte, l’alternativa sarebbe quella accolta in passato e poi abbandonata in pro del metodo vigente della proprietà letteraria aperta a tutti: la concessione del privilegio della proprietà letteraria a quelle sole pubblicazioni che ne fossero dichiarate degne dalle accademie facoltà istituti ed uffici sopra-menzionati. L’effetto forse non sarebbe contennendo; ché, data la probabilità non piccola di giudizio errato da parte dei sullodati corpi scientifici e letterari, il favore del pubblico per lo più andrebbe verso i libri non privilegiati e quindi legalmente pirateggiabili; sicché gli scrittori, per le cose già dette e in passato accadute, lucrerebbero meglio quando i lor libri non fossero segnalati tra i meritevoli di premio ed indirizzerebbero all’uopo petizioni alle autorità incaricate della segnalazione.

 

 

46.-Suppergiù le stesse considerazioni si possono ripetere per quant’è al regolamento “amministrativo” delle invenzioni industriali. Ma di gran lunga aggravate; ché il compito di distribuir premi adeguati alle invenzioni ogni anno più meritevoli, che senz’altro diverrebbero da tutti sfruttabili, appare superiore alle attitudini di qualsivoglia corpo scientifico o tecnico. Col sistema odierno, pur tanto imperfetto, il pubblico non distribuisce né lode né biasimo; acquista e paga un prodotto che per buone o male ragioni reputa a se stesso utile. Col metodo del premio, come distribuire questo equamente fra i molti, vivi e trapassati, i quali hanno contribuito alla creazione di quella cosa straordinariamente complessa che è l’invenzione? Come risolvere le controversie furibonde di priorità, sovratutto quando la passione scientifica sia rinfocolata da rivalità di scuole, di classe e particolarmente di nazione? Pericolosissimo sarebbe, dal punto di vista economico e sociale, l’alternativa, pur essa di carattere amministrativo, intesa ad evitare sacrificio di denaro al pubblico erario, dell’attribuzione singolare, in luogo del premio, della privativa alle sole invenzioni reputate meritevoli da un corpo pubblico all’uopo designato. Qui non sarebbe in gioco solo un premio di qualche centinaia di migliaia o di qualche milione di lire; ma il premio assai più vistoso prelevabile, mercé la manovra dei prezzi di monopolio, sul pubblico dai pochi concessionari del privilegio. Son già tanti gli incentivi, di protezione doganale, di ordinazioni statali, di contingentamenti, di attribuzione di valuta ecc. ecc. che gli industriali hanno a premere sui poteri pubblici, già così potente è la inettitudine degli artigiani e dei piccoli e medi industriali a richiamare su di sé la benevolenza dei largitori di concessioni, già siffattamente incontrastata e` la artificiosa vittoria delle grandi imprese monopolistiche, che davvero non pare sia conforme all’interesse pubblico, comunque definito, aggiungere esca alla tendenza, che altri proclama fatale, ed è invece in gran parte prodotto artificiale di norme legislative, verso la scomparsa delle piccole e medie imprese sopraffatte dai giganti dell’industria e del commercio.

 

 

47.-Con la discussione del problema della proprietà letteraria ed industriale non ho voluto affrontare un problema particolare. Ho voluto invece esporre come si debba porre e discutere un caso particolare tipico di un problema generale. Il modo col quale si pone dai più il problema della ingerenza dello stato nelle faccende economiche, quasi si trattasse di un contrasto fra coloro i quali vogliono lo stato assente e quelli che lo invocano regolatore, disciplinatore o direttamente operante è viziato alla radice. Non esistono oggi e probabilmente non sono mai esistiti, se non fra epigoni di terz’ordine, fautori della “assenza” dello stato. La premessa è sempre la “presenza” di esso. Si contende solo sulla maniera del suo comportarsi; e le maniere, se ben si guardi, si riducono da ultimo a due sole. Secondo la prima, lo stato pone le norme giuridiche, le quali vincolano l’uomo privato nel suo operare economico; ma entro i limiti di quelle norme, sempre modificabili, con bastevole mora di tempo per gli opportuni adattamenti, l’uomo è libero di operare a sua guisa. Il giudice, indipendente e inamovibile, lo punisce ove egli trasgredisca la legge.

 

 

Il regolamento “giuridico” non è mai stato di agevole costruzione ed applicazione; e queste divengono ogni giorno più ardue a causa del complicarsi della vita economica. Ma i giureconsulti romani acquistarono fama imperitura perché seppero porre le norme regolatrici dei rapporti privati tra uomo e uomo; ed altissimo è il compito di coloro che ogni giorno debbono seguitarne e perfezionarne l’opera immortale. L’aspro cammino verso una meta che sempre si dilunga deve essere stimolo alla ascesa.

 

 

Più agevole si presenta la scorciatoia del regolamento “amministrativo”. Il problema, che gli uomini sono stati incapaci di regolare con norma generale limpidamente vincolatrice dell’azione umana, viene affidato alla decisione discrezionale dell’amministratore pubblico. Caso per caso, giorno per giorno i complessi rapporti economici sono disciplinati da autorità scelte per la loro singolare perizia in materia. Il legislatore, non riuscendo ad astrarre le caratteristiche fondamentali dei casi singoli che si presentano quotidianamente ed a porre la norma risolutrice dei problemi relativi, manda i contendenti od i desiderosi di operare dinanzi ad altri uomini i quali pronunzieranno sentenze di equità o indicheranno ai singoli che cosa essi debbono fare, che cosa debbono produrre, a quali prezzi debbono vendere, come e in quale quantità debbono acquistare materie prime, quanti operai debbono assoldare ed a quali condizioni di salario e di tempo di lavoro. Il regolamento “amministrativo” ha diversi gradi e parte da tipi attenuati per giungere sino al regolamento totale, che prende il nome di collettivistico.

 

 

48.-Questa e non altra è la scelta: più aspra e soggetta a rifacimenti faticosi la prima via; più piana e agevolmente mutabile, a norma delle contingenze quotidiane, la seconda. Ma la prima ci ha dato il codice civile, il quale sopravvive, masso granitico, a due millenni di storia; la seconda ha lasciato dietro di sé innumeri imitazioni caduche dell’editto dioclezianeo sui prezzi.

 



[1] Ricordo, per il singolare rilievo in essi dato alla teoria economica, i due saggi di ARNOLD PLANT: “The Economic Theory concerning Patents for Inventions” e “The Economic Aspects of Copyright in Books” pubblicati rispettivamente nei quaderni del febbraio e del maggio 1934 della rivista “Economica” di Londra. In essi è ricordata la bibliografia essenziale.

[2] Cfr. la bibliografia ricordata da ALFRED E. KAHN, “Fundamental Deficiencies of the American Patent Laws”, in “The American Economic Review” del settembre 1940, pp. 475 e seg.

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