Opera Omnia Luigi Einaudi

Parole e fatti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/09/1922

Parole e fatti

«Corriere della Sera», 27 settembre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 863-866

 

 

 

Alcune manifestazioni concrete dell’attività economica del fascismo fanno sorgere il problema dei rapporti fra la dottrina posta dai capi del movimento e l’azione praticata dai gregari. Dai fasci del senese, i quali impongono ai proprietari di assumere, anche se essi non ne sentono il bisogno, la mano d’opera disoccupata in ogni comune, ai fasci dei postelegrafonici piemontesi, i quali fanno fare interrogazioni o votano ordini del giorno per ottenere l’esaudimento di postulati di categoria in occasione della riforma burocratica, sono tanti piccoli fatti i quali fanno temere che i fasci, una volta diventati dominatori ed organizzatori di masse, corrano rischio di comportarsi nella stessa maniera delle organizzazioni rosse. L’on. Mussolini afferma esplicitamente che il sindacalismo fascista è una cosa diversa dal sindacalismo rosso, perché non ammette lo sciopero nei servizi pubblici e perché si ispira al concetto della collaborazione di classe, dell’innesto del proletariato sul tronco nazionale, così da formare con le altre classi un tutto organico la cui risultante sia la nazione. Ma quel che conta sono gli atti; e gli atti non sono ancora così anticlassisti, antiegoistici, come le parole ed i programmi dei fascisti responsabili.

 

 

Il programma del fascismo è nettamente quello liberale della tradizione classica. A Udine, domenica, il capo ripeteva:

 

 

«Lo stato non rappresenta un partito, lo stato rappresenta la collettività nazionale, comprende tutti e si mette contro chiunque attenti alla sua imprescrittibile sovranità… Noi vogliamo spogliare lo stato di tutti i suoi attributi economici. Basta con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo stato assicuratore. Basta con lo stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello stato italiano. Resta la polizia che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito che deve garantire la inviolabilità della patria e resta la politica estera».

 

 

Ben detto: ripetere alle immemori generazioni imbevute di mortificanti dottrinette socialistiche e statolatre gli insegnamenti di Adamo Smith, di Giambattista Say, di Francesco Ferrara, ricordare l’esempio dei Peel e dei Cavour è sempre un merito grandissimo. È altrettanto importante creare le dottrine – e questo fecero i liberali classici – quanto il tornare ad attuarle; e questo sarebbe il compito che il fascismo italiano si è proposto in Italia nel momento presente. Ma capi e gregari hanno sempre chiara la percezione del modo con cui si attuano le idee utili al paese? Non è ancora necessaria un’opera tenace di educazione economica affinché tutti abbiano chiara consapevolezza dei risultati reali dei provvedimenti invocati nell’urgenza di provvedere ad un momentaneo malanno?

 

 

Ecco il caso di Siena. Esiste in una data zona agricola una massa disoccupata di braccianti; ed esiste perciò il problema economico sociale di provvedere alla disoccupazione. I socialisti prima ed i fascisti adesso ricorrono al metodo del minimo imponibile di mano d’opera: ogni proprietario sia obbligato ad impiegare tanti braccianti per ogni cento ettari di terreno. Con ciò, si afferma, si abolisce la disoccupazione e si dà incremento alla produzione. Proprietari ignavi ed avari sono obbligati a ritirare i loro fondi che giacevano inerti nelle casse di risparmio e nelle banche e ad impiegarli in opere di bonifica, di scolo, in piantagioni, in rimboschimenti.

 

 

Il ragionamento è erroneo ed è probabile che alla lunga gli effetti siano ben diversi da quelli immaginati. Esso parte dal concetto stranissimo che esistano in qualche luogo, presso i cosidetti milionari avari, dei fondi inerti e disponibili per dar lavoro ai disoccupati. Pura fantasia. Ai giorni nostri non esistono più, salvo trascurabili eccezioni, che non hanno luogo tra i cosidetti ricchi avari, i tesaurizzatori d’un tempo, che nascondevano le monete d’oro nelle pignatte. I risparmi sono depositati presso le banche o le casse di risparmio, dove essi non giacciono inerti. Ben lungi da ciò, essi sono impiegati in acquisti di titoli, sconti di cambiali, anticipazioni, ossia giovano ad impieghi produttivi. Obbligare l’avaro a ritirare i depositi dalla banca per impiegarli a dar lavoro ai disoccupati locali in opere di miglioria, significa togliere capitali ad impieghi probabilmente fruttiferi del 10% – se la banca paga il 3 o il 4% al depositante dovrà farsi pagare il 6 od il 7% dall’industriale od agricoltore a cui fa prestiti, e questi dovrà, per avere convenienza a mutuar denaro, ricavare dalla sua impresa il 10% – per darli a lavori fruttiferi del 2 o del 3 per cento. Gli agrari di Siena dicono che i lavori compiuti per ordine dei fascisti rendono solo lo 0,80%; e se anche la cifra è un po’ esagerata, rende bene la vicenda dei fatti. Sostituire un lavoro meno ad uno più fruttifero, vuol dire scemare la produzione; vuol dire dar lavoro a 300 disoccupati in quel di Siena, ma creare 1.000 disoccupati in qualche altra parte d’Italia; vuol dire fare opera grettamente localistica e classistica.

 

 

Gli scioperi della fine del secolo scorso e del principio del secolo presente, di cui tanto si vanta l’on. Giolitti, come se fossero una peculiarità italiana e come se in tutti i paesi del mondo in quel torno di tempo le medesime cause non avessero prodotto suppergiù i medesimi effetti, ebbero appunto un effetto benefico nelle campagne, in quanto costrinsero i proprietari a scuotersi di dosso l’inerzia tradizionale. Costretti a pagare 5 o 6 lire al giorno invece delle 2 lire consuete ai braccianti agricoli, ma liberi d’impiegare un numero maggiore o minore di braccianti, i proprietari furono costretti a risparmiare mano d’opera, perché divenuta troppo cara, a sostituirla con macchinari perfezionati, a far lavori profondi, ad importare concimi chimici. Gli effetti di quell’agitazione agraria furono buoni, perché costrinsero, sotto pena di rovina, i proprietari agricoli a muoversi lungo la linea del minimo mezzo: economizzare al massimo la mano d’opera, introdurre macchine, ridurre il costo del lavoro. La disoccupazione scemò, perché, dove si lavora a costi bassi, di solito i salari sono alti ed il lavoro intenso.

 

 

Con il sistema degli imponibili minimi di mano d’opera si batte la strada opposta: si costringono i proprietari ad impiegare due braccianti dove la legge del tornaconto insegnerebbe ad impiegarne uno. Che differenza v’è tra questa condotta antieconomica e l’opposizione egoistica contro l’introduzione degli elevatori elettrici nel porto di Genova? In un primo momento, si dà sollievo alla disoccupazione; alla lunga si cresce invece il costo del lavoro e dei prodotti, si limita la possibilità di produrre e di vendere in concorrenza; si immiserisce la economia generale che si vorrebbe arricchire e rendere forte ed espansiva.

 

 

Dopo tutto, i capi del fascismo sono forse pronti a darci ragione. Le dottrine poco contano, ha detto Mussolini, dopo avere però accolte quelle del liberalismo classico. Ciò che importa è creare una nuova classe politica. Quella attuale, che Mussolini correttamente definisce giolittiana, perché nella sua maggioranza si è formata sotto l’influenza spirituale del vecchio capo piemontese, è stracca, sciupata, vinta. Essa negli ultimi tempi «ha condotto sempre una politica di abdicazione di fronte a quel fantoccio gonfio di vento che era il social-pussismo italiano». Giusto. Bisogna creare una nuova classe politica, forte, consapevole dei bisogni e delle energie del paese, risoluta a condurre l’Italia di Vittorio Veneto verso i suoi alti destini. Nella creazione di questa nuova classe politica l’on. Mussolini fa consistere il compito del fascismo. Non nella elaborazione di nuove dottrine, di nuovi regimi politici. Probabilmente i fascisti non hanno nulla da insegnare in materia di idee e di sistemi; ma possono rendersi benemeriti se concorreranno a formare uomini migliori di quelli appartenenti alla generazione politica ancora dominante. Per riuscire però nell’intento, occorre che essi ripudino risolutamente la lamentevole usanza della generazione che tramonta di predicare il liberalismo e di attenersi al socialismo, di distinguere tra la teoria e la pratica, di proclamare l’impero degli interessi collettivi e di rendere ubbidienza alle prepotenti esigenze locali. Così si va verso il trasformismo depretis-giolittiano, non verso la rinnovazione.

 

 

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