Opera Omnia Luigi Einaudi

Per lo stato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 04/11/1922

Per lo stato

«Corriere della Sera», 4 novembre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 926-932

 

 

 

Saprà la rivoluzione fascista, per quanto tocca le spese pubbliche, conseguire il vanto di non imitare tutte le altre che la precedettero nella storia? Esempio famosissimo, la rivoluzione francese, sorta anche dallo sdegno del popolo contro l’eccesso dei 400 milioni di lire di imposte dell’antico regime, la quale ingigantì le spese e, nonostante il saccheggio napoleonico dell’Europa, lasciò in eredità alla restaurazione un bilancio raddoppiato. Nessuno degli stati sorti dallo sfacelo degli imperi centrali sfuggì alla norma generale, per cui la nuova classe politica portata al potere è spinta a crescere le spese, poiché non sa disfarsi delle vecchie clientele ed è premuta dalle richieste delle sue clientele proprie, a cui è giuoco forza soddisfare.

 

 

L’on. Mussolini e i suoi seguaci che hanno combattuto la grande guerra hanno imparato alla dura scuola degli anni trascorsi che l’Italia non si salva, che gli entusiasmi fervidi sono destinati a fiaccarsi, che le parole incitatrici sono vane se davvero tutti gli italiani non si sottomettono alla necessità del sacrificio e se, primi fra tutti, i gregari ed i capi della nuova classe dirigente non daranno l’esempio della rinuncia. affinché il programma del capo del governo: «economie fino all’osso» e il pronostico a lui attribuito: «fra due mesi la lira italiana rialzata a 50 centesimi» si attuino, uopo è che una volontà energica si imponga ai servitori dello stato e sovratutto alla nazione.

 

 

Ai servitori dello stato. Chi adoprava nel ’19 e nel ’20 questa parola, riceveva scherni ed ingiurie dai funzionari pubblici, i quali volontieri dimenticavano che il loro titolo di orgoglio massimo era appunto quello di rendere servigio al paese, adempiendo al proprio dovere e che per questo solo titolo avevano ragione di ricevere un compenso a carico del pubblico erario. La prestazione del servigio parve servitù; e l’opera del funzionario si concentrò nelle rivendicazioni di classe. Quegli stessi ferrovieri che avevano compiuto mirabili cose nel tempo di guerra, quei postelegrafonici, i quali avevano serenamente prestato servizio nelle zone di fuoco, divennero rivoltosi nel tempo del bolscevismo imperversante e diedero miserabili rese di lavoro di due o tre ore al giorno per una cosidetta giornata di otto ore. Gli stessi uomini, mutato l’ambiente spirituale che li circonda, potrebbero operare nuovamente miracoli. Forse dovrà essere mutato qualche capo; non più. Bisogna che l’esempio venga dall’alto. Se i ministri sapranno dare ordini che ai dipendenti appaiano informati a competenza precisa ed a volontà ferma, se essi non avranno bisogno, come per lo più accadeva fin qui, di ricevere inspirazione dalla burocrazia permanente, la macchina pigra dello stato ricomincerà a funzionare. I capi dei servizi trasmetteranno la propria volontà di fare agli inferiori; ed i neghittosi e gli incapaci incorreggibili se ne andranno da sé o saranno costretti ad andarsene.

 

 

Non si adducono speranze, sibbene si elencano necessità di vita: ove non siano soddisfatte, la nuova classe politica seguirà il fato della vecchia. Saper far lavorare non basta: bisogna sapere impedire il lavoro inutile. L’esercito e la marina, questi due istituti fondamentali, i quali stanno al sommo degli affetti di ogni italiano, soffrono, con tutti gli altri istituti di stato, della preferenza data alle persone vociferanti in confronto alle cose mute. Fucili, cannoni, apprestamenti bellici, educazione del soldato non parlano, anche quando siano trascurati; ma parlano coloro che vogliono esser promossi, parlano i generali a cui non è possibile sempre affidare un servigio attivo, a causa del gran numero in rapporto alla forza ridotta in pace; ed i ministri deboli od incompetenti tollerano o non vedono che il crescere della spesa totale è mascherato dalla riduzione delle spese mute, e che il bilancio è divorato dai servigi e dai posti creati per dar sfogo al personale esuberante. Ciò che si è detto pei ministeri militari può esser ripetuto anche per gli altri, in cui forse la necessità di scernere il morto dal vivo è anche più grande. Si riuscirà a questo? I governi deboli nati dalla coalizione di partiti variopinti potevano piatire scuse per la incapacità propria ricordando la smodatezza dei desideri dei loro mandanti. Il governo di oggi sa che la sua vita non dipende dall’inchinarsi alle bramosie parlamentari, ma trarrà forza dal suo saper comprimerle e purificarle. Sovratutto sa di dover agire, in un certo senso, contro la nazione. In questo momento sembra, che vibri soltanto l’anima collettiva di questa, che abbiano acquistato voce le moltitudini silenziose, non abituate a chiedere, ma usate a dare.

 

 

Non s’illuda l’on. Mussolini. La «nazione» con cui i governi italiani debbono trattare, quella che si fa sentire a Roma, quella che riempie delle proprie querele e grida e pretese parlamento e ministeri, non è la nazione che lavora, che pensa, che produce. Purtroppo, i governi sentono agitarsi attorno soltanto quella «nazione», la quale ha qualcosa da chiedere allo stato:

 

 

  • amministratori di banche, le quali hanno immobilizzato i depositi e chieggono risconti grazie a nuove emissioni di moneta falsa di carta;
  • rappresentanti di enti e territori desiderosi di ferrovie, porti, canali, bonifiche, rimboschimenti;
  • proprietari di cantieri navali, a cui gli armatori non fanno costruire navi, e che le vorrebbero perciò ordinate dallo stato o con il sussidio del denaro pubblico;
  • proprietari di solfare, desiderosi di farsi garantire dallo stato la necessaria operazione di assestamento delle rimanenze invendute;
  • siderurgici, chimici, viticultori reclamanti l’uso del braccio secolare dello stato a vietare l’importazione delle rotaie, dei colori, del vino stranieri, allo scopo di vendere più care le proprie merci al consumatore nazionale. E si citano costoro perché gli esempi vistosi corrono in punta di penna; ma il loro nome è legione;
  • cooperatori, i quali adescati dalla gran parte che si sono fatta nella divisione delle spoglie le classi imprenditrici, hanno creduto di giovare alle masse facendo a quelle concorrenza nel partecipare al banchetto del pubblico denaro.

 

 

Chi ha sentito parlar ministri, discorrere parlamentari ha talvolta avuto la sensazione di un mondo irreale, fantastico; ed ha dovuto chiedere a se stesso con terrore se per avventura non gli fosse venuta meno la capacità del ragionare. Poiché soltanto nel mondo della follia sono concepibili ministri i quali reputino seriamente il loro ufficio a salvar banche, dar lavoro a cantieri, alimentare industrie, provvedere a disoccupati, indirizzare per il mondo gli emigranti o costringerli in patria alla servitù della gleba. Questa Roma, a cui vanno deputazioni per chiedere allo stato tutto, dove si forgia una pubblica opinione impaziente di vedere lo stato rimediare a tutti i mali, in cui ogni giorno l’intervento, l’ausilio, il concorso dello stato è invocato a favore o contro qualche classe, questa Roma la quale ogni mattina appresta ai governi un problema la cui soluzione è urgentemente richiesta per la sera stessa, questa Roma è una realtà od un parto funesto della nostra fantasia malata? L’on. Mussolini se l’è già sentita attorno questa falsa nazione. Già egli ha maltrattato qualche deputazione di postulanti. Ma la battaglia sarà dura; né egli potrà dire di aver vinto se non quando avrà distrutto l’incubo che ha aduggiato la vita dello stato italiano negli ultimi trent’anni. Tutta la classe politica ne è stata pervertita. Non perché vecchia, non perché attaccata a morti ideali di stato, la classe politica italiana era caduta in collasso. Ma perché una falsa nazione di postulanti di ponti, di strade, di stazioni, di questioni militari, di preture, di onorificenze, di sussidi, di dazi doganali, di aiuti, di salvataggi, aveva dato ad essa l’impressione di una onnipotenza inesistente, l’aveva resa fatua e vanesia, quando in origine era semplicemente mediocre, l’aveva fatta scordare dei suoi compiti specifici, rendendola immemore del dovere di governare lo stato.

 

 

I primi atti ed i primi propositi del nuovo governo fanno sperare che si voglia iniziare la liberazione della nazione vera dai ceppi che la vincolavano. Cade la nominatività dei titoli e con essa cade uno strumento di indagine fiscale che, dolorosamente avevano dovuto accettare anche coloro che l’avevano sempre oppugnato, quando parve che nessun altro mezzo esistesse per costringere i cittadini a fare il loro dovere tributario; ma cade sovratutto un mezzo che la fatuità burocratica aveva inventato allo scopo di disciplinare, moralizzare e burocratizzare i mercati finanziari. È promessa la soppressione degli uffici e dei ministeri inutili ed è annunciato il ritorno dei servizi pubblici deficitari all’industria privata. Ed è proclamata l’urgenza di liberare il servizio dell’emigrazione dalle pastoie burocratiche che oggi impediscono l’afflusso nei mercati di lavoro esteri dei nostri lavoratori disoccupati. Chi da vent’anni ha predicato invano lo stesso verbo, chi ha sentito salirgli al volto le vampe della vergogna al pensiero che in un ufficio di Roma si fosse giunti a tanta aberrazione da volere scritti su schede i nomi di tutti gli italiani desiderosi di muoversi, di uscire dal paese o di ritornarvi e fossero tollerati tiranni in veste di burocrati i quali avevano la pretesa di costringere liberi uomini alla miseria ed alla turbolenza col negare loro il diritto di muoversi o col far tardare i passaporti mesi e anni o col negarli verso paesi messi arbitrariamente all’indice, quando milioni di nostri connazionali, andati arditamente alla ventura, vi avevano trovato ospitalità e ricchezza; chi si è sentito incapace persino di desiderare e di augurare il bene e già diventava scettico dinanzi al prevalere di un vile demagogismo e di un oltracotante spirito di inframmettenza, non può non elevare i più fervidi voti perché gli antichi ideali diventino realtà. Sia lecito a chi vuole serbare in fondo al cuore l’illusione di aver contribuito a diffondere il culto dell’indipendenza di spirito, della libertà di lavoro e di organizzazione, del rispetto reciproco fra l’individuo e lo stato – vecchie idee e vecchie fedi che oggi, sia pure sotto altro nome risorgono – sia lecito continuare anche ora l’opera ammonitrice. Il pericolo massimo al quale va incontro la nuova classe politica è l’illusione della onnipotenza. Fu tanto rapido e facile il crollo del vecchio mondo, che sarebbero perdonabili i nuovi governanti se anche cedessero a quella illusione. Si ricordi l’on. Mussolini che di quella illusione morirono i suoi predecessori. Essi scordarono a poco a poco che dovevano adempiere solo a quegli uffici per cui lo stato è il più grande istituto di elevazione morale che esista in un paese. Esercito, giustizia, sicurezza, istruzione, grandi opere pubbliche costrutte non per i viventi ma per i posteri, tutela delle nuove generazioni ricevettero omaggio di parole; ma i governanti preferirono farsi ferrovieri, assicuratori, armatori e costruttori di navi, approvvigionatori, regolatori supremi di mercati, di banche, di borse, incitatori di industrie con dazi e con premi. Così fu creato lo stato immorale, lo stato che non compie i suoi doveri primordiali e si fa centro di intrighi, di favori, di trasporti, di ricchezza. Lo stato immorale è stato debole, è stato corrotto. Quando l’uomo non è più libero di correre la ventura a suo rischio, ma deve o spera ottenere da Roma, il dazio che lo protegga contro il rivale più capace; quando non può uscire dal paese o mandar fuori liberamente i suoi prodotti, ma deve chiedere licenza di far ciò a qualcuno che sta nella capitale, è fatale la degenerazione del costume politico e la corruttela dello stato. Che cosa contano i sistemi elettorali quando i rappresentanti non sono chiamati a tutelare gli interessi generali del paese, ma sono i sollecitatori degli interessi privati dei servi da cui hanno ricevuto il mandato; e quando ad essi non è lecito rifiutarsi di essere mezzani perché la vita e gli averi dei loro mandanti dipendono dalle decisioni che si prendono a Roma? Questa è la camicia di Nesso da cui sono stati soffocati i passati governi, questa è la ragione per cui lo stato, avendo dimenticato i suoi uffici proprii, divenne una parvenza che sembrava persona ed era il nulla, perché l’immoralità intima lo consumava.

 

 

Badi l’on. Mussolini che i postulanti i quali hanno corrotto lo stato sono sempre intorno a lui; sono intorno a lui gli industriali e gli agricoltori che vogliono obbligare altri ad acquistare i loro prodotti ad un prezzo più alto di quello della concorrenza; sono intorno a lui coloro i quali sperano lucri e comodità di vita da favori, da sussidi, da posti bene retribuiti; sono intorno a lui i proprietari di cantieri e gli iniziatori di nuove industrie e di linee di navigazione. Useranno, ne sia certo il governo, il linguaggio dei tempi nuovi; e proclameranno il fascismo salvezza d’Italia e vorranno anch’essi dargli mano per innalzare la nazione ai suoi alti destini. Qualche seguace del fascismo, nel tumulto dell’ora, si è già fatto loro paladino e già importuna e proclama nemici della patria quelli che osteggiano l’assalto al pubblico erario. Si guardi l’on. Mussolini dalle sirene che hanno ammaliato uomini deboli e che hanno tratto lo stato in basso tra le brutture delle contrattazioni di favori. Sia fermo nello scopo supremo di ritornare lo stato alla sua vera potenza che è di compiere gli uffici suoi proprii. Quando i deputati non dovranno più chiedere favori a nome di servi, quando il cittadino, ridivenuto uomo libero, nulla temendo e nulla sperando, volgerà nei rispetti dello stato il pensiero ai grandi interessi nazionali, soltanto allora si sarà creato lo stato che un tempo dicevasi liberale ed oggi ha nome di fascista; ma a cui un unico semplice titolo veramente spetta: stato.

 

 

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