Opera Omnia Luigi Einaudi

Discutendo con Fasiani e Griziotti di connotati dello Stato e di catasto e imposta fondiaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1943

Discutendo con Fasiani e Griziotti di connotati dello Stato e di catasto e imposta fondiaria

«Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», settembre-dicembre 1943, pp. 178-190

 

 

 

1. Non vedo perché il Fasiani abbia considerato critiche all’elenco da lui posto dei connotati del gruppo pubblico o stato: universalità, coattività, eterogeneità o variabilità indefettibilità le mie osservazioni intorno a questi connotati. Mi pareva di avere escluso ogni intendimento di critica all’elenco ed all’uso da lui e da altri fatto di simili elenchi quando[1], fin dal bel principio della mia nota (Di alcuni connotati detto stato elencato dai trattatisti finanziari, nel quaderno del dicembre 1942 di questa rivista), dichiarai che «scopo delle mie pagine non era di negare la idoneità dei quattro connotati a definire, dal punto di vista finanziario, lo stato e quindi a circoscrivere i bisogni pubblici, ossia quei bisogni ai quali gli uomini provvedono per mezzo dello stato; ma unicamente di chiarire l’indole storicamente contingente di taluno di quei connotati. Del chiarimento aggiungevo non hanno bisogno gli autori i quali hanno elencato quei connotati come caratteristici dello stato, essendo ovvio che la scelta di essi è fatta avendo di mira non tutti i casi possibili di stato, ma i casi più frequenti e comuni, particolarmente nel tempo presente».

 

 

Quindi è perfettamente legittima l’astrazione teorica, per cui gli studiosi definiscono stato quello che è dotato di quei quattro «più rilevanti» connotati o di quell’altro numero che ad ognuno degli indagatori sembri conveniente indicare; tant’è vero che anch’io, ricordavo in quella nota, accolsi, per logica necessità di esposizione, in tutto o in parte quei connotati.

 

 

Ma è altrettanto legittima l’indagine, tutt’affatto diversa, intesa a ricercare se per avventura in qualche momento o luogo qualche stato non abbia posseduto o non possegga tutti quei requisiti. Né il F. nega questa legittimità. Nega che gli scarti o deviazioni od assenze da o di quei connotati siano importanti ai fini dell’indagine finanziaria. Sebbene la mia nota fosse pubblicata in una rivista finanziaria, suo scopo non era quello di discutere qualsiasi teoria finanziaria, ma puramente e semplicemente quello di esaminare il contenuto e gli eventuali limiti temporali e spaziali di quei quattro connotati.

 

 

Mettere in luce che essi od alcuni di essi soffrono nel tempo e nello spazio di qualche assenza significa né più né meno di quel che è detto ossia che essi non sempre esistono. Non significava affatto che i trattatisti di scienza delle finanze – ed io traevo l’elenco dal libro del F. solo per comodità di riferimento come alla più recente e insigne trattazione della materia finanziaria – errino nel porre quei connotati. Poiché essi intendono studiare i casi reputati tipici, non hanno d’uopo attardarsi intorno ai casi che bene il F. chiama di frangia o marginalistici. Ma poiché ci possono essere altri studiosi, i quali si dilettano appunto di richiamare l’attenzione sui casi marginali, su quelli che io segnalavo come appartenenti alla no man’s land, alla terra di nessuno, su casi che marginali oggi potrebbero divenire domani tipici, non vedo perché si debba negare la rilevanza del fatto e dello studio relativo. Né il F. lo nega.

 

 

Esistono o non esistono unioni o leghe o enti aventi per scopo la gestione delle poste, dei canali marittimi, della navigazione fluviale, con diritto di stabilire tasse e imposte? Al F. non piace chiamarli stato o gruppo pubblico, perché non posseggono il carattere della eterogeneità o variabilità dei bisogni. Avevo appunto scritto per dire che non lo posseggono; non ricavavo da ciò la illazione definitoria che essi non fossero gruppi pubblici o stati. Conviene pure dare un nome a questi enti, dotati di coazione, di indefettibilità (per ucciderli è necessario il consenso dell’ente stesso o di tutti gli interessati, ma anche qualunque stato muore, se tutti sono d’accordo nel farlo morire, ad es., per dedizione ad altro stato, ovvero una guerra lo fa scomparire) e di universalità (ed invero quelle unioni hanno potere su tutti gli uomini e le cose le quali cadono sotto la loro giurisdizione, né ci si può sottrarre volontariamente se non abbandonando un dato territorio). Per fermo, non sono enti privati e meritano di essere studiati, essi e la loro finanza, al margine dei gruppi pubblici.

 

 

Esistono o non esistono certe federazioni, che hanno solo i poteri elencati nell’atto fondamentale della loro creazione; e non li possono aumentare se non col consenso degli stati federati e con formalità precise e complicate? Pare di sì; e pare quindi conveniente lo studio di questi fenomeni di margine. Un margine molto rilevante, se è esatta l’impressione che talune controversie finanziarie gravi e lunghe e delicate derivarono appunto dalla limitazione dei poteri federali. Basti ricordare la disputa sulla legittimità dell’imposta federale sul reddito negli Stati Uniti, istituita durante la guerra di secessione, dichiarata allora incostituzionale dalla Corte suprema e ristabilita dopo mezzo secolo solo in seguito ad un formale emendamento alla costituzione. È vero o non è vero che non sempre gli stati godono dell’attributo della indefettibilità? Anche qui il F. non nega; ma limita l’assenza ai tempi di rivolta, governi provvisori e simili. Che cosa affermavo, se non che quei casi erano meritevoli di studio? Studiandoli, il F. ne ha messo in luce alcuni dotati di determinate caratteristiche. Altri aggiungerà altri casi ed altre caratteristiche.

 

 

Non vedo perciò in che cosa consista la divergenza di vedute[2] tra le mie osservazioni e l’assunzione da parte del F. dei quattro connotati come tipici dello stato, se non una diversità di simpatia intellettuale verso i tanti problemi che si presentano alla mente dello studioso. In questo momento ed in questo campo, sembra che il F. sia attratto dai casi che egli definisce tipici e rilevanti per lo studio dei problemi finanziari, laddove pare che io sia attratto più dai casi singolari e marginali. Fa d’uopo confessare che il mio interessamento scientifico nasce, come sempre nel campo delle scienze sociali, da una simpatia morale o politica?

 

 

Dalla speranza di veder moltiplicarsi le unioni, le leghe, le federazioni, i gruppi pubblici e di vedere a poco a poco sgretolarsi il fatto, ed il dogma relativo, della sovranità assoluta dello stato, dello stato leviatano, padrone assoluto della vita dei cittadini, arbitro di emanare qualsiasi norma, salvo quella di mutar l’uomo in donna? Si studia quel che si ama; e l’amore può far studiare qualcosa dinanzi a cui l’impassibile oggettività passa senza fermarsi. L’amore per le leghe, le unioni, le federazioni, i gruppi pubblici intermedi fra lo stato e l’individuo mi fece persuaso fin dal 1918, quando tutti plaudivano, della inconsistenza e del danno, come fautrice di guerre future, della Lega delle nazioni (cfr. il libro ricordato nel mio articolo citato in questa rivista); e quella persuasione era derivata dalla constatazione di una delle uniformità empiriche meglio assodate nella storia.

 

 

La speranza mi spinge ad insistere ancora una volta nell’additare agli studiosi l’importanza somma dello studio dei fenomeni di margine, della terra di nessuno, in finanza, in economia ed in politica. Lo studio oggettivo della finanza degli enti forniti di qualcuno soltanto dei quattro connotati proprii dello stato che diremo tipico sarebbe studio scientificamente rilevante già per se stesso; ma la rilevanza cresciuta a mille doppi da ciò che le sorti dell’umanità pendono nel momento presente dalla scelta che gli uomini stanno a fare fra il tipo dello stato fornito della piena sovranità ed il tipo del frantumamento della stessa sovranità fra tanti stati coesistenti nel medesimo territorio. Può darsi che formalmente nulla sarebbe cambiato nella costruzione della scienza finanziaria qualunque scelta gli uomini fossero per fare. Ma quanto diversi i problemi concreti che dagli uomini di stato sarebbero presentati all’analisi critica dell’economista!

 

 

2. Poiché son sul discutere, muovo all’attacco di Griziotti, il quale mi aveva, tempo addietro, chiesto di rispondere alla benevola recensione da lui qui pubblicata (vedi quaderno del marzo 1943) intorno al mio recente volume La terra e l’imposta (Torino, Giulio Einaudi, 1942). Ho adoperato sopra la parola attacco solo per avere il pretesto di associarmi alla critica che il Fasiani fa contro il malo anzi il turpissimo uso che malauguratamente si va facendo frequente di questa parola. La discussione venuta così inconsueta in tanti campi della vita pubblica che, quando si legge per accidente rarissimo una critica di qualche atto di qualcuno in un foglio quotidiano o altrimenti periodico, si giudica senza altro quella critica sia mossa da chi vuol procurare la morte civile del disgraziato criticato e si definisce attacco quella critica. Se Dio vuole, la libera discussione rimane invece il solo mezzo di avanzamento nel campo scientifico ed ha luogo esclusivamente tra amici ed estimatori reciproci; e si tace invece, come si deve, oltreché delle teorie delle quali non v’è malauguratamente tempo di occuparsi o su cui non si ha nulla da dire, e sono le più, anche delle teorie inconsistenti e degli scritti pubblicati da uomini dei quali non si ha stima morale o scientifica.

 

 

Poiché la recensione del Griziotti risolleva, ad occasione del mio libro, l’antica disputa tra fautori del catasto (fra i quali ci sono io) ed avversari suoi (e tra essi si novera l’amico G.), e di questa disputa è nutrito il suo esame bibliografico, penso che il modo migliore di rispondere all’invito cortese sia quello di contrapporre, le une sotto le altre, le critiche (che non sono critiche al libro mio, ma al sistema del catasto) del G. e le mie difese del catasto medesimo, lasciando poi al G. la replica ad esse.

 

 

I)     Parla Griziotti. – Il sistema del catasto serve solo a scopi geometrici, giuridici statistici e agrari. Agli effetti fiscali esso ha fallito al suo compito.

 

II)    Risponde Einaudi. – Sarebbe certamente vantaggioso che il catasto producesse gli effetti giuridici, che oggi non ha. Ma è perfettamente gratuita l’affermazione che esso abbia fallito ai suoi scopi fiscali. Tutto il mio libro dimostra il contrario.

 

III)   Replica Griziotti. – È presto detto dall’ E. che tutto il suo libro prova non essere il catasto fallito al suo compito fiscale, mentre esso non mi persuade perché l’esperienza comune mette in evidenza gli enormi difetti, che sono da me elencati nella mia stessa recensione e che né il libro né la presente discussione riescono a sminuire, tanto sono innegabili.

 

I)     G. – Le riforme del 1886, del 1923 e del 1939 hanno dato luogo ad accertamenti di cui non si rimase soddisfatti.

 

II)    E. – Gli accertamenti catastali, ordinati in base alle leggi citate e che si stanno ora continuando e perfezionando raffigurano la verità di gran lunga meglio di quanto non accadrebbe con qualunque altro metodo concorrente.

 

III)   G. – Non si comprende, perché la verità non possa meglio risultare, tenendo conto, per esempio, dei contratti d’affitto e là dove non c’è affitto, calcolando il reddito per analogia con quello dei terreni affittati similari. Invece sono da considerare falliti perché insoddisfacenti gli estimi 1886, 1923 e 1939.

 

 

I)     G. – La difesa del catasto che l’E. riporta dal De Viti de Marco lascia vive le critiche delle sperequazioni e delle imperfezioni inerenti al sistema. Le sperequazioni sono interne fra i contribuenti fondiari ed esterne rispetto ad altri contribuenti.

 

II)    E. – È il pregio massimo dal catasto – e nessuno ha sinora distrutto le argomentazioni altrui riprodotte e integrate nel mio libro – di perequare gli estimi ad una certa data e di lasciarli poi invariati per un certo tempo. Questa è la sola perequazione interna, possibile e vantaggiosa. Alla perequazione esterna il catasto è estraneo. È compito del legislatore determinare di anno in anno il carico rispettivo delle diverse categorie di contribuenti. Se il legislatore non ci riesce quando può adoperare lo strumento del catasto, non vi riuscirà adoperando strumenti di accertamento di gran lunga più imperfetti.

 

III)   G. – Perché questo pregio massimo del catasto – se fosse vero – non si diffonde, applicando il metodo catastale altresì alle banche, al commercio, alle industrie e alle professioni e per tutti non si prende a base imponibile il reddito ordinario? Per distruggere le argomentazioni dell’E. basti considerare che non è pregio ma grave difetto quello delle sperequazioni interne, che rimangono per 30 anni non solo fra i contribuenti A, B, C, ma pure fra la regione X avvantaggiata da opera pubblica e la Z colpita dalla concorrenza straniera. A parte poi queste irrefutabili ingiustizie non stimolatrici di progressi nè punitive di negligenze, sta la considerazione che il catasto, col suo sistema di riferimento a una determinata epoca, suppone un’economia in generale statica oppure uniformemente dinamica; il che non è.

 

 

Perciò in fondo il catasto è erroneo nella sua logica economica, perché a epoche diverse con sistemi di prezzi diversi dal sistema di prezzi dell’epoca di riferimento non si può tentare una perequazione, calcolando il presente col riferimento al passato. Quindi questo è il sicuro mezzo per non avvicinarsi alla perequazione interna. È poi presto detto che il catasto è estraneo alle sperequazioni esterne, mentre l’abnormità o l’eccezionalità del metodo di calcolare il reddito ordinario e di tenerlo fisso per lungo tempo gli è propria. È pure presto detto che è compito del legislatore determinare di anno in anno il carico rispettivo delle diverse categorie di contribuenti, quando ciò riesce praticamente impossibile per la grande complicatezza dei computi e della loro applicazione. Il legislatore non riesce col catasto a ottenere la perequazione esterna rispetto agli altri contribuenti, perché con questi usa diversi metodi di accertamento. Quanto più gli accertamenti saranno similari, tanto meglio riuscirà la perequazione.

 

 

I)     G. – Le sperequazioni interne ed esterne sono di piena evidenza ora tanto che si fa il voto di una perequazione fiscale con la revisione dell’estimo prima che decorrano 10 anni. Invero è un assurdo stridente in piena necessità di guerra e in forte dinamica di prezzi attribuire al reddito dominicale un estimo fisso di 7,4 miliardi quando esso nella stima ufficiosa fatta nel 1938 saliva a 15 miliardi ed ora può dirsi molto più elevato.

 

II)    E. – Non è affatto assurdo fondarsi sugli estimi del 1939. Astraendo dalla valutazione del 1938, di carattere provvisorio e indiziario e non omogenea con le valutazioni catastali, il vero assurdo consiste nel considerare quella cifra di 7,4 miliardi come una quantità concreta in lire e centesimi. Essa è invece un numero astratto, una cifra di conto, che serve al reparto dell’imposta tra i contribuenti. Il legislatore vuole nel 1943 raddoppiare il gettito della fondiaria? Può farlo senz’altro e ripartire il gettito raddoppiato sulla base dei 7,4 miliardi di unità di conto. Questa possibilità e l’errore di considerare gli imponibili catastali come realtà effettiva sono largamente dimostrati nel mio libro. Non si continui a gettare sul catasto la colpa di una eventuale timidezza o incertezza del legislatore nel seguire coll’imposta la variazione del reddito fondiario totale in rapporto alle variazioni delle altre specie di reddito.

 

III)   G. – Innanzi tutto osservo che l’E. non replica all’accusa che si fa all’estimo 1939 di non essere soddisfacente per se stesso, sicché si fa il voto di una revisione di esso. Considerare l’estimo come una «cifra di conto», non serve alla difesa della critica fatta ove si consideri che la forte dinamica attuale di guerra investe i singoli settori (per es. attualmente vino, olio) o le singole aziende. Il rimedio appena sopra indicato dall’E. in queste circostanze non è operante e in realtà non si attua; e così ora lascia aperta la falla delle finanze di guerra corrispondente al metodo catastale. Dal legislatore (l’E. lo sa meglio di me, come più anziano, più esperto e più addentro nella vita politica) non si può attendere troppo e troppo spesso: meglio mettere gli ordinamenti adatti una volta per sempre, anziché conservare gli imperfetti come quello del catasto e dire che la colpa è del legislatore.

 

 

a)    G. – Né può accettarsi per i nostri tempi l’elogio che il catasto meritò per i benefici effetti esercitati sull’agricoltura nella prima metà del XVIII secolo; allora vi erano ordinamenti tributari e condizioni generali e particolari completamente diverse dalle nostre.

 

b)    E. – Queste sono parole prive di contenuto, simili a quelle di «tempi nuovi» e «sistemi antiquati» che si leggono appresso. In buona logica, non è il nuovo o l’antico che conta; è il vero. Oggi, come ieri, come nella seconda metà del secolo XVIII, è vero che una stima fissa per x anni (io preferisco i 30 anni della legge del 1886, redatta da uomini di primissimo ordine e discussa in sedute che faranno mai sempre grande onore al Parlamento italiano e dimostrarono la attitudine dei parlamenti composti di non tecnici a legiferare incomparabilmente meglio delle assemblee cosidette tecniche; ma altri preferire 20 o 10 anni; ed è materia, come tutte, disputabile) produce l’effetto che il proprietario (il proprietario, dico, e non il conduttore) è indotto a compiere migliorie permanenti per goderne i frutti liberi da imposta per gli anni ancora a decorrere sul massimo di x (restando oggetto di discussione i modi diversi di calcolare x, di cui nel mio libro si esaminano diffusamente le ragioni pro e contro). In tal modo l’erario pubblico è avvantaggiato, perché trascorsi gli x anni, le nuove stime aumenteranno il reddito ordinario al disopra del livello al quale sarebbe giunto se il sistema non fosse stato adottato.

 

 

Questi sono effetti logici oggi 1943, come nella seconda metà del secolo XVIII quando li osservarono i Carli, i Verri ed i Neri e come nella prima metà del secolo XIX quando li osservò Cattaneo. Basta avere gli occhi per guardarsi attorno, interrogare proprietari e fittaioli per persuadersi, anche se gli interessati non sempre dimostrano di averne chiara cognizione, che così precisamente stanno le cose oggi come ieri. Non esistono condizioni generali e particolari del tempo nostro che scrollino questa verità lapalissiana. In ogni caso, se esistessero, sarebbe necessario enunciarle ad una ad una e dimostrarne il legame logico con la proposizione (la fissità degli estimi per un numero x di anni favorisce le migliorie e innalza i redditi imponibili) di cui si discute.

 

 

c)    G. – «Prive di contenuto» sono parole polemiche gratuite perché i tempi nostri sono contrassegnati dalle diversità di condizioni subito dopo indicate come influenti a far preferire metodi diversi. (Potrei scrivere molto di più per svolgere ciò che è detto in una riga di recensione necessariamente breve per mancanza di spazio: ma proprio l’E. ne ha bisogno?) Non mi impressionano poi gli elogi agli economisti, statisti e parlamentari del tempo che fu, perché mi associo anch’io ad essi, e poi propongo di far di meglio. [Riscattando le imposte, vorrei (V. in Alta finanza in questa Rivista, 1942, I, 181/2) non colpire il reddito quando si produce, anno per anno, ma saltuariamente nella sintesi di lunghe gestioni quale risulta negli incrementi patrimoniali.

 

 

Questo sarebbe un procedimento non particolare alla proprietà fondiaria e perciò residuo storico di tempi diversi e divenuto privilegio, ma generale a tutti i contribuenti]. Le migliorie permanenti del resto non sono oggi favorite molto dal catasto:

 

 

a)     perché in parte avvengono prima della revisione trentennale e sono quindi gravate;

 

b)    perché oggi molti proprietari sono assenteisti e non le sanno fare;

 

c)    perché oggi – a differenza di due secoli fa – la disponibilità di grandi capitali, lo spirito di iniziativa, le nuove tecniche costituiscono forze cospicue per operare migliorie permanenti all’infuori dall’interesse fiscale;

 

d)    perché la variabilità delle sovrimposte elide il vantaggio della fissità dell’imposta fondiaria.

 

 

Rimane poi sempre la domanda: perché la proprietà fondiaria oggi, che non è più la principale fonte della ricchezza nazionale, dovrebbe continuare a godere questo specialissimo metodo del vecchio catasto, mentre non si pensa di beneficare con lo stesso metodo d’imposizione pure le altre fonti della ricchezza imponibile?

 

 

I)     – Inoltre è da mettere in rilievo che l’imposta fondiaria colpisce il proprietario della terra e non l’agricoltore e quindi l’imposizione sul reddito ordinario, anziché su quello effettivo, solo parzialmente e in alcuni casi benefica l’agricoltura.

 

II)    E. – Accanto all’imposta fondiaria, oggi l’imposta sui redditi agrari (pagata dal conduttore del fondo) è accertata con il medesimo sistema catastale e quindi sul reddito ordinario. La prima imposta (fondiaria) incoraggia le migliorie permanenti, la seconda (industriale) le migliorie temporanee. Non c’è ragione al mondo di passar sopra alle lodi che Carlo Cattaneo dava a questo metodo di accertamento in confronto ai barbari (è Cattaneo che parla) sistemi di tassazione immediata del reddito effettivo accolti in Inghilterra e che oggi il mio contraddittore vorrebbe importare anche nell’Italia agricola.

 

III)   G. – La nuova riforma raddoppia i privilegi dei proprietari. Perché invece gli agricoltori devono sottostare alla r.m. come tutti gli altri contribuenti? Eppure nessuno fa dipendere i progressi dell’agricoltura dall’abolizione della r.m. per gli agricoltori. Lasciamo poi da parte l’ottimo Carlo Cattaneo, perché io non intendo applicare i metodi inglesi del tempo di Cattaneo. Sarebbe stato desiderabile che nella risposta l’E. si riferisse ai metodi d’imposizione che io sostengo.

 

 

I)     – Si abbandoni, per aver fatto il suo tempo, l’imposta fondiaria mediante il suo riscatto eliminando un tributo difettoso, perché ammortizzabile e inapplicabile sia con catasto sia con denunzie rispetto a milioni di contribuenti.

 

II)    E. – Le proposizioni: 1) l’imposta fondiaria ha fatto il suo tempo; 2) l’imposta fondiaria è inapplicabile con ogni sistema, sono perfettamente gratuite. Essa fu sempre inapplicabile col metodo delle denunzie, che sarebbero una bruttissima e imperfettissima copia del catasto; epperciò fu e rimane preferibile quest’ultimo. Non discuto la tesi dell’ammortamento e del riscatto, perché occorrerebbe all’uopo un volume, nel quale, per dar ragione della mia avversione al riscatto, si dovrebbe dar fondo a tutta la materia dell’ordinamento tributario del nostro paese.

 

III)   G. – Perché qualificare «gratuite» le proposizioni che sono subito giustificate dalle critiche? Anche la critica al metodo delle denunce non è valida come risposta alla mia recensione, perché non tiene conto della proposta abolizione dell’imposizione per i milioni di piccoli contribuenti, secondo la tesi indicata più avanti. Credo che l’E. esageri che per spiegare l’avversione al riscatto occorrerebbe un volume, perché basterebbe che, come insegna Pareto, l’E. spiegasse i sentimenti e gli interessi (Myrdal direbbe che sono di soppiatto nel suo sistema) che preferisco per il reparto delle imposte fra le varie categorie e classi di contribuenti con particolare riguardo delle spese di guerra per vedere se sia il catasto oppure il mio sistema quello più adatto a soddisfare tali sentimenti e interessi. Ad ogni modo le mie controcritiche (in Appunti sul riscatto delle imposte ammortizzate apparsi nei Festgabe fur Alexander Hoffmann, Darmstadt, Buske, 1939, p. 53/77) alle critiche già mosse dall’E. alla tesi dell’ammortamento e del riscatto rimasero finora senza risposta.

 

 

I)     G. – I piccoli contribuenti sono i più numerosi e sono colpiti con la stessa aliquota tanto per l’imposta quanto per le sovrimposte che gravano sui maggiori contribuenti, i quali poi sottraggono all’imposta complementare la maggior parte delle loro effettive entrate essendo esse calcolate sul reddito ordinario. Quindi questo metodo di tassazione reale sul reddito ordinario è sfavorevole ai piccoli contribuenti, pei quali è eccessiva la imposizione, che risulta invece inadeguata alla capacità contributiva dei maggiori contribuenti.

 

II)    E. – Il problema dell’aliquota dell’imposta – se a base costante od a base crescente – indipendente da quello di cui soltanto si discute in materia di catasto, che è problema di accertamento. Lo sono per la conservazione della tassazione a base costante, che non vieta l’uso di una complementare progressiva. Ma il sistema opposto è, se così si preferisca, perfettamente compatibile col metodo catastale. Se taluno metterà innanzi un sistema di progressività generale, che sia compatibile con le esigenze dell’erario e con quelle, forse anche più importanti, della necessità di dare a tutti i cittadini la sensazione di appartenere allo Stato (perciò sovratutto io sono decisamente contrario all’abbandono delle imposte con aliquote a base costante e senza esenzione di minimo) quel sistema sarà perfettamente applicabile col catasto. E, come fu detto sopra, il legislatore perfettamente in grado di applicare anno per anno quel coefficiente di moltiplico (un tempo era 3, poi 4, oggi, mutati gli estimi, è di nuovo 1, ma potrebbe crescere a 2 o 3, se così richiedessero le mutate situazioni monetarie) che fosse più conforme al vero. Il grosso proprietario, il cui reddito accertato per L. 50 mila del 1939, sarebbe chiamato a pagare su 75 o su 100 mila o più lire nel 1943, a seconda delle variazioni del livello dei prezzi o di quell’altro indice che si ritenesse opportuno di assumere.

 

 

Errore fondamentale quello di credere che il catasto fossilizzi i redditi assoluti; esso fissa invece solo per x anni il rapporto tra i redditi di Tizio e quelli di Caio. Se ambi avevano nel 1939 lo stesso reddito di L. 50 mila, ambi pagheranno nel 1943 e seguenti su 50 o su 75 o su 100 mila (o, il che fa lo stesso, ambi pagheranno 5 mila o 7,5 o 10 mila lire d’imposta), facendo astrazione dalla circostanza se nel frattempo le 50 mila lire base di Tizio siano divenute per migliorie apportate, 80 mila e le 50 mila lire base di Caio siano divenute, per inerzia o incapacità, 40 o 30 mila. Ambi costoro, se ricchi, saranno trattati come ricchi nel modo che il legislatore riterrà opportuno, ma Tizio godrà per qualche anno dei frutti della sua diligenza e Caio sarà punito per la sua negligenza. Il trascorrere del tempo non muta affatto la verità di queste considerazioni; anzi le cresce, perché non mai, come oggi, è necessario crescere la produzione ed è necessario levare di mezzo la gente pigra, incapace a utilizzare bene la terra. Il catasto è un metodo automatico per eliminare i detentori di terre incolte o male coltivate ed è il metodo più efficace che si sia inventato all’uopo.

 

 

III)   G. – Il problema dell’aliquota e del blocco dell’aliquota in tutto il sistema delle imposte personali, il fatto dell’elisione dell’imposta per ammortamento non sono indifferenti nella scelta del metodo di accertamento, perché tale metodo ha influenza sull’ordinamento del reparto. Rimangono intatte le critiche mosse al catasto per le sperequazioni interne ed esterne e con esse quelle ora fatte e sorvolate dall’E. che il catasto, così come è, è sfavorevole ai piccoli contribuenti. Ponendo il catasto su altra base, diventa complicato ancor più e fallisce sempre al suo compito, mentre il fossilizzare per x anni il rapporto tra i redditi di Tizio e quelli di Caio, per premiare la diligenza di Tizio e punire la negligenza di Caio, può essere opera vana, perché il maggior reddito di Tizio e il minor reddito di Caio per lo più sono attinenti a molteplici fattori di natura diversa della diligenza e negligenza. La sensazione di appartenere allo Stato è data anche dalle imposte indirette, ma in ogni caso risulta da un’imposizione fissa e lieve per i redditi minimi, com’io propongo.

 

 

È importante con le imposte progressive (moderate) personali seguire gli effettivi redditi fondiari e agrari individuali, il che non può avvenire, come l’E. vorrebbe dimostrare con l’esempio numerico. Il trascorrere del tempo rende anacronistico colle esigenze della giustizia tributaria (dall’E. beffata nel suo libro Miti e paradossi eppure generalmente sentita) e della perequazione fra i contribuenti possessori dello stesso reddito anche di diversa origine, in corrispondenza a un fondamentale principio giuridico e politico dell’uguaglianza a parità di capacità contributiva.

 

 

Oggi molti proprietari sono assenti dal fondo e non sono competenti o appassionati a fare miglioramenti fondiarii o li fanno perché hanno grandi capacità organizzatrici esperimentate nelle industrie ora più fiorenti che un tempo e dispongono di ingenti capitali guadagnati nelle guerre o in tempo di pace. Oggi la legislazione interviene più che nel secolo scorso e nel precedente a bonificare, espropriare terre incolte e male coltivate in modo più drastico ed efficace del sistema automatico del catasto. Invece i piccoli contribuenti sollevati dalle gravose imposte e sovrimposte saranno stimolati ad amare la terra.

 

 

I)     G. – I piccoli contribuenti liberati dall’imposta e sovrimposta fondiaria potranno, se mai, essere sottoposti a piccoli tributi (come sarebbe l’imposta di licenza) a favore della finanza locale.

 

II)    E. – Attendo la dimostrazione del modo miracoloso con cui, con piccoli tributi, si possa risolvere il problema della finanza dei comuni e delle provincie, di cui la fondiaria è pilastro robustissimo. Sono sicuro poi che i piccoli proprietari preferiscono di gran lunga l’attuale fondiaria, con relative sovrimposte, a qualunque cosidetta piccola licenza che li metta a contatto con gli uffici erariali o comunali delle imposte dirette.

 

III)   G. – In Alta finanza (Rivista, 1942, I, 188/9) è brevemente indicato che col riscatto delle sovrimposte si deve compiere il trapasso allo Stato di molte spese comunali e provinciali, che sono di interesse nazionale, in modo da minimizzare le finanze locali. Così non occorrerebbe «il pilastro robustissimo» assai criticato. Se le finanze locali abbisognassero di altre entrate, quante se ne possono trovare! Non si comprende poi perché i piccoli proprietari dovrebbero provare difficoltà a pagare una piccola imposta agli uffici comunali piuttosto che una maggiore a quelli dello Stato; criteri obbiettivi d’accertamento potrebbero essere adottati per queste piccole imposte, senza incorrere nel grosso lavoro dell’estimo catastale.

 

 

I)     G. – D’altra parte, una tale riforma potrebbe concordarsi efficacemente con la politica antiurbanistica, per riallacciare i contadini alla montagna ed alla campagna.

 

II)    E. – Non parlo della montagna, i cui problemi attengono, per infinitesima parte, al regime della fondiaria. Quanto alla campagna, la fondiaria, con la sua certezza, è uno dei fattori che, a parità di altre circostanze la fanno preferire alla città. Coloro che si inurbano poco pensano alle imposte, come ad elemento di decisione. Se vi pensano, preferiscono di pagare l’imposta di ricchezza mobile solo perché sperano di farla al fisco. Se ciò non sperassero, sempre a parità di altre circostanze, si terrebbero alla fondiaria, che sanno regolata in modo oggettivo ed imparziale per tutti. Poiché lo stato non deve spingere a pensieri di frode, la fondiaria par preferibile sia per gli agricoltori che per l’erario pubblico.

 

III)   G. – La risposta dell’E. evade alla considerazione del mio pensiero, che tale riforma favorendo i piccoli proprietari agricoltori col sollievo dell’imposta li vincolerebbe alla terra. Poiché non v’è dubbio che fra le cause che fanno abbandonare la terra in tempi normali è da considerare quella della oppressione fiscale. Che l’imposta di r.m. sia orribile campione del nostro scandaloso ordinamento tributario, non c’è dubbio e per questo è da sopprimere; ma essa non giustifica la permanenza della fondiaria, che è pure un vecchio arnese da liquidare come rottame.

 

I)     G. – Insomma, minor numero d’imposte e minor numero di contribuenti in un risanato ambiente morale, politico e fiscale è ciò che si deve accuratamente ricercare per progredire, come è necessario secondo le esigenze dei tempi nuovi, ben diversi da quelli della prima metà del secolo XVIII e sovratutto secondo le necessità del nostro paese che deve innovare e non conservare antiquati sistemi per avanzare rapidamente.

 

II)    E. – Dei tempi nuovi e di quelli antichi ho già detto sopra. Quanto all’ambiente morale, giova non guastarlo, sostituendo al catasto, che è metodo tecnico oggettivo, che non importa rapporti diretti tra la finanza e il singolo contribuente, un qualunque altro metodo, il quale, implicando quei rapporti, genererebbe inevitabilmente se non la realtà il sospetto di favoritismi e di corruzione. Chi abbia contatti con la gente rurale sa come essa consideri l’autorità, qualunque autorità, cosa atta ad essere comprata con denari. Guai se si potesse addivenire a discussioni individuali in materia di imposte agricole. Oggi l’agricoltore non teme la fondiaria, e non temerà dal 1943 in poi l’imposta sui redditi agrari, perché la vede trapassare invariata da venditore a compratore. Quando la veda discussa nei suoi confronti individuali, la giudicherà ingiustamente distribuita a suo danno. Giova aumentare i sospetti di corruzione? I sospetti nuocciono spesso più della realtà. Il rapido avanzamento non si ottiene esentando milioni di proprietari che oggi pagano e sanno di dover pagare e tanto meno facendo finta di esentarli a costo di un versamento capitale immediato (riscatto). Non si ottiene sostituendo per la minoranza che dovrebbe seguitare a pagare – e dovrebbe essere una minoranza grossa, se non si vogliono mandare a gambe all’aria le finanze statali e locali – al catasto che cosa? Poiché il catasto è solo un metodo di accertamento, ed un metodo occorre adottarlo; quale si adotterà? Quello delle denunzie, che il Griziotti considera inaccettabile per milioni di contribuenti? Se anche il metodo delle denunzie paresse invece accettabile per le sole centinaia di migliaia di contribuenti, dico di avere dimostrato nel mio libro che le denunzie sono puramente e semplicemente un catasto mal fatto. Dico che occorrerà perfezionarle e controllarle per mezzo di un corpo tecnico istituito all’uopo. Potremo prenderci il gusto innocente di chiamare gli ufficiali a ciò addetti procuratori alle imposte, ma se vorranno procurar sul serio entrate allo stato perequatamente, costoro dovranno essere ingegneri, geometri, agronomi e seguire né più né meno le regole catastali. A che pro dunque tanto baccano contro il povero catasto?

 

III)   G. – Speriamo che in avvenire, con la pace, si rifacciano l’ambiente morale e l’educazione nazionale, a cui dobbiamo contribuire anche modificando un vecchio ordinamento di tributi che ricorda quello esistente alla vigilia della rivoluzione francese. La piccola gente rurale non paghi allo Stato o l’altra sia avviata colle e come le altre a pagare quanto deve. Per la difesa del riscatto, rimando anche alle ragioni esposte da altri che trova giusta e opportuna tale operazione[3]. Il riscatto dà luogo a un versamento capitale immediato e così favorisce la contribuzione, assorbendo nelle campagne l’eccesso di guadagni per numerosi profitti di guerra leciti ed illeciti e l’eccesso di circolante ora ivi tesoreggiato, mentre contribuisce efficacemente a superare la presente crisi finanziaria.

 

 

Estinta parte del debito di guerra col riscatto, i piccoli proprietari si troveranno con minore capitale liquido, ma con un patrimonio che avrà guadagnato di valore più che proporzionalmente per l’imposta soppressa, come già dimostra con calcoli precisi (Rivista, 1943, I, 4/5) e con un reddito espresso in una moneta più sana. Dopo questa operazione, che procura un reale beneficio patrimoniale, rimane l’effettivo (non finto) vantaggio dell’esecuzione dei piccoli proprietarii in un sistema di imposte personali, anziché reali.

 

 

Quali esse siano ho già scritto in Alta finanza; una seria imposta sul reddito, che ora è un aborto anche per le eccessive sottostanti imposte reali; imposte sulle società e sugli enti collettivi; imposte saltuarie sui patrimoni; alcuni monopoli. Il catasto rimane e si completa per avere tutte le conoscenze necessarie; si abolisce l’imposta fondiaria insieme ai suoi difetti inerenti al suo metodo caratteristico e all’ammortamento, cui dà luogo. Le denunzie del reddito effettivo non possono corrispondere a un catasto mal fatto, per la diversità dell’oggetto da accertare. I sovraprofitti di guerra agrari, i redditi agricoli di r.m. sono accertati «per mezzo di un corpo tecnico istituito all’uopo»? I contratti, dove ci sono, sono una buona base per l’accertamento, perché di tanto è gravato il proprietario di altrettanto è sgravato a titolo di spesa l’affittuario, e perciò c’è ragione di sperarne la veridicità. E dove mancano gli affitti, come nei luoghi di mezzadria, gli accertamenti si faranno tenuto conto dei prezzi correnti e delle valutazioni delle commissioni di accertamento, oltre che dei funzionari. Le imperfezioni saranno quelle delle altre imposte e costituiranno tema di un problema generale da risolvere seriamente con buona volontà.

 

 

Luigi Einaudi

 

 

POSTILLA

 

L’Einaudi precisa che il suo articolo non aveva scopi critici; e sono molto dolente dell’equivoco in cui sono caduto. Vi sono scrittori che si sentono mortalmente offesi se chi disserta della stessa loro scienza, non ne cita gli scritti, e che per contro vanno in bestia se qualcuno pensa diversamente da loro o si occupa di cose diverse da quelle che li interessano. E sarei veramente desolato se risultasse che, mio malgrado, appartengo appunto a tale detestabile classe di pensatori.

 

 

Va da sé che qualunque definizione è arbitraria, e serve solo a precisare i confini entro cui l’autore vuol mantenere la propria indagine. Vi sono al certo infiniti fenomeni e problemi al di qua e al di là di quei confini arbitrariamente posti. Scegliere la definizione di uno scrittore allo scopo di indicare con maggior chiarezza i fenomeni e i problemi che con essa si escludono dall’analisi, e appunto al fine di occuparsene, non è certo un criticare la definizione stessa, ma un renderle il massimo onore. E tale era l’intendimento dell’Einaudi, ora chiarito nella sua nota.

 

 

A me sembrò invece che l’Einaudi volesse affermare che i connotati dell’universalità, coattività, indefettibilità, eterogeneità e variabilità dei bisogni soddisfatti, hanno carattere storicamente contingente, sono il frutto di costruzioni giuridiche, proprie soltanto di quel particolare tipo di stato che trovò la sua miglior espressione con Napoleone primo. Se ciò fosse vero, ne deriverebbe la conseguenza che una teoria svolta nell’ambito dell’ipotesi di uno stato dotato di quelle caratteristiche, avrebbe una portata limitatissima, poiché i suoi risultati non sarebbero validi, neppure in una primissima approssimazione, in tutti quei casi in cui lo stato si allontana dal tipo Napoleonico; e cioè per la maggior parte del tempo. Da ciò il mio tentativo di dimostrare che, rispetto all’attività economica, della quale soltanto mi interesso, quelle quattro caratteristiche non vengono meno per il ricorrere delle condizioni di cui l’Einaudi porta interessanti e numerosi esempi; e che solo mancano, invece, in casi marginali.

 

 

L’equivoco in cui ora apprendo di essere caduto, dipende probabilmente dal diverso modo di impostare i problemi e di «fare la scienza», che l’Einaudi insegna, e che io invece mi sforzo di seguire. Nel suo studio egli incita infatti alla ricerca dei compiti che conviene attribuire allo stato del momento; al qual fine è certamente insufficiente una teoria la quale non tenga conto di tutte le sfumature con cui si manifestano tutte le caratteristiche (e non soltanto le quattro da me indicate) dello stato che è, di quello che tende a divenire, e di quello che si desidererebbe che fosse. Laddove nei miei Principii io perseguo scopi molto più modesti, sforzandomi di indagare quel pochissimo che mi riesce, di quello che è. Sicché devo eliminare volutamente tutte le variabili che non so ponderare, e che contraddistinguono lo stato storico di un dato momento. Chi si pone dal punto di vista dell’Einaudi, e persegue i suoi scopi, non può certamente trovare critica l’osservazione che la teoria non tiene conto delle variabili eliminate. Chi si pone dal mio punto di vista, e non riesce a liberarsene, è indotto a pensare che l’osservazione si riferisca alla validità della teoria rispetto al tempo. I chiarimenti dell’Einaudi sembrano dimostrare che io ho attribuito alla sua analisi un’estensione che non aveva.

 

 

Ma ciò prova l’utilità della discussione, la quale, nel campo della scienza, non ha per lo più lo scopo di convincere altrui, ma di precisare i limiti del proprio pensiero. Resterebbe a discutere della mia ripugnanza, nello stadio attuale delle nostre conoscenze, ad attribuire valore di scienza a ricerche le quali esigerebbero la conoscenza di variabili e di rapporti di interdipendenza, che ci sono ignoti, e alla cui ignoranza si vorrebbe supplire mediante l’intuizione o l’incerto processo di sintesi che contraddistinguono gli storici. Ma l’andare a fondo su tal tema porterebbe a ragionare dei problemi di metodo che si trovano, consciamente o inconsciamente, alla base di molte discussioni, e dei quali non è il caso di occuparci in questa sede.

 

 

Mauro Fasiani



[1] Questa mia particolare dichiarazione che i quattro connotati definiscono lo stato, elimina, parmi, una minore disputa intorno ad una differenza fra una proposizione A relativa allo stato o gruppo pubblico in genere ed una proposizione B relativa soltanto a quello stato, che rende servigi pubblici, diverso da stati di altro genere che si occuperebbero di servigi non pubblici. Non ho nessuna idea neppure io di quel che potrebbero essere questi altri tipi di stato; ed è chiaro dal brano riprodotto nel testo che io riferivo i quattro connotati allo stato in genere.

[2] In verità il F. nella sua nota continua discutendo altri argomenti, tipi di stato studiati al limite, dei quali non farò cenno perché non si riferiscono, se non in virtù di una interpretazione ipotetica ed estensiva, di cui non sono responsabile, al problema trattato nell’articolo mio in questa rivista. Fa d’uopo soltanto dissipare un equivoco derivato dall’uso che io feci della parola convenienza, affermando che, «l’interesse della discussione intorno ai bisogni pubblici verte principalmente su quali bisogni si debbano – parla il filosofo – o convenga – parla l’economista – o si usi – parla il sociologo – soddisfare». Con questa contrapposizione intendevo evidentemente definire i diversi compiti delle tre categorie di studiosi. Il filosofo studia quel che gli uomini debbono fare, per ubbidire ai comandamenti del dovere, del buono, dell’onesto, del giusto. Il sociologo tenta di studiare le uniformità delle azioni di fatto compiute dagli uomini; nel caso presente delle azioni finanziarie. Che cosa studia l’economista? Non quel che, a parere dell’economista medesimo, conviene di fare, le imposte, ad esempio, che, secondo i criteri personali dell’economista, conviene di stabilire. L’indagine non avrebbe alcun interesse scientifico. L’economista non si limita però, come il sociologo, a studiare le uniformità empiriche di quel che gli uomini fanno, ma sottopone ad esame critico le scelte fra le varie azioni possibili. Egli non dice all’uomo: ti conviene comportarti in questo o in quel modo, che egli si comporterebbe come un doppione, peggiorato perché inspirato a grossolano utilitarismo, del filosofo; ma parte da certe premesse, osservate nella condotta umana o possibili a porsi, se si tratta di cose finanziarie, da chi rappresenta lo stato. Forse l’elenco delle possibili premess

Discutendo con Fasiani e Griziotti di connotati dello Stato e di catasto e imposta fondiaria

«Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze», settembre-dicembre 1943, pp. 178-190

 

 

 

 

1. Non vedo perché il Fasiani abbia considerato critiche all’elenco da lui posto dei connotati del gruppo pubblico o stato: universalità, coattività, eterogeneità o variabilità indefettibilità le mie osservazioni intorno a questi connotati. Mi pareva di avere escluso ogni intendimento di critica all’elenco ed all’uso da lui e da altri fatto di simili elenchi quando[1], fin dal bel principio della mia nota (Di alcuni connotati detto stato elencato dai trattatisti finanziari, nel quaderno del dicembre 1942 di questa rivista), dichiarai che «scopo delle mie pagine non era di negare la idoneità dei quattro connotati a definire, dal punto di vista finanziario, lo stato e quindi a circoscrivere i bisogni pubblici, ossia quei bisogni ai quali gli uomini provvedono per mezzo dello stato; ma unicamente di chiarire l’indole storicamente contingente di taluno di quei connotati. Del chiarimento aggiungevo non hanno bisogno gli autori i quali hanno elencato quei connotati come caratteristici dello stato, essendo ovvio che la scelta di essi è fatta avendo di mira non tutti i casi possibili di stato, ma i casi più frequenti e comuni, particolarmente nel tempo presente».

 

 

Quindi è perfettamente legittima l’astrazione teorica, per cui gli studiosi definiscono stato quello che è dotato di quei quattro «più rilevanti» connotati o di quell’altro numero che ad ognuno degli indagatori sembri conveniente indicare; tant’è vero che anch’io, ricordavo in quella nota, accolsi, per logica necessità di esposizione, in tutto o in parte quei connotati.

 

 

Ma è altrettanto legittima l’indagine, tutt’affatto diversa, intesa a ricercare se per avventura in qualche momento o luogo qualche stato non abbia posseduto o non possegga tutti quei requisiti. Né il F. nega questa legittimità. Nega che gli scarti o deviazioni od assenze da o di quei connotati siano importanti ai fini dell’indagine finanziaria. Sebbene la mia nota fosse pubblicata in una rivista finanziaria, suo scopo non era quello di discutere qualsiasi teoria finanziaria, ma puramente e semplicemente quello di esaminare il contenuto e gli eventuali limiti temporali e spaziali di quei quattro connotati.

 

 

Mettere in luce che essi od alcuni di essi soffrono nel tempo e nello spazio di qualche assenza significa né più né meno di quel che è detto ossia che essi non sempre esistono. Non significava affatto che i trattatisti di scienza delle finanze – ed io traevo l’elenco dal libro del F. solo per comodità di riferimento come alla più recente e insigne trattazione della materia finanziaria – errino nel porre quei connotati. Poiché essi intendono studiare i casi reputati tipici, non hanno d’uopo attardarsi intorno ai casi che bene il F. chiama di frangia o marginalistici. Ma poiché ci possono essere altri studiosi, i quali si dilettano appunto di richiamare l’attenzione sui casi marginali, su quelli che io segnalavo come appartenenti alla no man’s land, alla terra di nessuno, su casi che marginali oggi potrebbero divenire domani tipici, non vedo perché si debba negare la rilevanza del fatto e dello studio relativo. Né il F. lo nega.

 

 

Esistono o non esistono unioni o leghe o enti aventi per scopo la gestione delle poste, dei canali marittimi, della navigazione fluviale, con diritto di stabilire tasse e imposte? Al F. non piace chiamarli stato o gruppo pubblico, perché non posseggono il carattere della eterogeneità o variabilità dei bisogni. Avevo appunto scritto per dire che non lo posseggono; non ricavavo da ciò la illazione definitoria che essi non fossero gruppi pubblici o stati. Conviene pure dare un nome a questi enti, dotati di coazione, di indefettibilità (per ucciderli è necessario il consenso dell’ente stesso o di tutti gli interessati, ma anche qualunque stato muore, se tutti sono d’accordo nel farlo morire, ad es., per dedizione ad altro stato, ovvero una guerra lo fa scomparire) e di universalità (ed invero quelle unioni hanno potere su tutti gli uomini e le cose le quali cadono sotto la loro giurisdizione, né ci si può sottrarre volontariamente se non abbandonando un dato territorio). Per fermo, non sono enti privati e meritano di essere studiati, essi e la loro finanza, al margine dei gruppi pubblici.

 

 

Esistono o non esistono certe federazioni, che hanno solo i poteri elencati nell’atto fondamentale della loro creazione; e non li possono aumentare se non col consenso degli stati federati e con formalità precise e complicate? Pare di sì; e pare quindi conveniente lo studio di questi fenomeni di margine. Un margine molto rilevante, se è esatta l’impressione che talune controversie finanziarie gravi e lunghe e delicate derivarono appunto dalla limitazione dei poteri federali. Basti ricordare la disputa sulla legittimità dell’imposta federale sul reddito negli Stati Uniti, istituita durante la guerra di secessione, dichiarata allora incostituzionale dalla Corte suprema e ristabilita dopo mezzo secolo solo in seguito ad un formale emendamento alla costituzione. È vero o non è vero che non sempre gli stati godono dell’attributo della indefettibilità? Anche qui il F. non nega; ma limita l’assenza ai tempi di rivolta, governi provvisori e simili. Che cosa affermavo, se non che quei casi erano meritevoli di studio? Studiandoli, il F. ne ha messo in luce alcuni dotati di determinate caratteristiche. Altri aggiungerà altri casi ed altre caratteristiche.

 

 

Non vedo perciò in che cosa consista la divergenza di vedute[2] tra le mie osservazioni e l’assunzione da parte del F. dei quattro connotati come tipici dello stato, se non una diversità di simpatia intellettuale verso i tanti problemi che si presentano alla mente dello studioso. In questo momento ed in questo campo, sembra che il F. sia attratto dai casi che egli definisce tipici e rilevanti per lo studio dei problemi finanziari, laddove pare che io sia attratto più dai casi singolari e marginali. Fa d’uopo confessare che il mio interessamento scientifico nasce, come sempre nel campo delle scienze sociali, da una simpatia morale o politica?

 

 

Dalla speranza di veder moltiplicarsi le unioni, le leghe, le federazioni, i gruppi pubblici e di vedere a poco a poco sgretolarsi il fatto, ed il dogma relativo, della sovranità assoluta dello stato, dello stato leviatano, padrone assoluto della vita dei cittadini, arbitro di emanare qualsiasi norma, salvo quella di mutar l’uomo in donna? Si studia quel che si ama; e l’amore può far studiare qualcosa dinanzi a cui l’impassibile oggettività passa senza fermarsi. L’amore per le leghe, le unioni, le federazioni, i gruppi pubblici intermedi fra lo stato e l’individuo mi fece persuaso fin dal 1918, quando tutti plaudivano, della inconsistenza e del danno, come fautrice di guerre future, della Lega delle nazioni (cfr. il libro ricordato nel mio articolo citato in questa rivista); e quella persuasione era derivata dalla constatazione di una delle uniformità empiriche meglio assodate nella storia.

 

 

La speranza mi spinge ad insistere ancora una volta nell’additare agli studiosi l’importanza somma dello studio dei fenomeni di margine, della terra di nessuno, in finanza, in economia ed in politica. Lo studio oggettivo della finanza degli enti forniti di qualcuno soltanto dei quattro connotati proprii dello stato che diremo tipico sarebbe studio scientificamente rilevante già per se stesso; ma la rilevanza cresciuta a mille doppi da ciò che le sorti dell’umanità pendono nel momento presente dalla scelta che gli uomini stanno a fare fra il tipo dello stato fornito della piena sovranità ed il tipo del frantumamento della stessa sovranità fra tanti stati coesistenti nel medesimo territorio. Può darsi che formalmente nulla sarebbe cambiato nella costruzione della scienza finanziaria qualunque scelta gli uomini fossero per fare. Ma quanto diversi i problemi concreti che dagli uomini di stato sarebbero presentati all’analisi critica dell’economista!

 

 

2. Poiché son sul discutere, muovo all’attacco di Griziotti, il quale mi aveva, tempo addietro, chiesto di rispondere alla benevola recensione da lui qui pubblicata (vedi quaderno del marzo 1943) intorno al mio recente volume La terra e l’imposta (Torino, Giulio Einaudi, 1942). Ho adoperato sopra la parola attacco solo per avere il pretesto di associarmi alla critica che il Fasiani fa contro il malo anzi il turpissimo uso che malauguratamente si va facendo frequente di questa parola. La discussione venuta così inconsueta in tanti campi della vita pubblica che, quando si legge per accidente rarissimo una critica di qualche atto di qualcuno in un foglio quotidiano o altrimenti periodico, si giudica senza altro quella critica sia mossa da chi vuol procurare la morte civile del disgraziato criticato e si definisce attacco quella critica. Se Dio vuole, la libera discussione rimane invece il solo mezzo di avanzamento nel campo scientifico ed ha luogo esclusivamente tra amici ed estimatori reciproci; e si tace invece, come si deve, oltreché delle teorie delle quali non v’è malauguratamente tempo di occuparsi o su cui non si ha nulla da dire, e sono le più, anche delle teorie inconsistenti e degli scritti pubblicati da uomini dei quali non si ha stima morale o scientifica.

 

 

Poiché la recensione del Griziotti risolleva, ad occasione del mio libro, l’antica disputa tra fautori del catasto (fra i quali ci sono io) ed avversari suoi (e tra essi si novera l’amico G.), e di questa disputa è nutrito il suo esame bibliografico, penso che il modo migliore di rispondere all’invito cortese sia quello di contrapporre, le une sotto le altre, le critiche (che non sono critiche al libro mio, ma al sistema del catasto) del G. e le mie difese del catasto medesimo, lasciando poi al G. la replica ad esse.

 

 

I)     Parla Griziotti. – Il sistema del catasto serve solo a scopi geometrici, giuridici statistici e agrari. Agli effetti fiscali esso ha fallito al suo compito.

 

II)    Risponde Einaudi. – Sarebbe certamente vantaggioso che il catasto producesse gli effetti giuridici, che oggi non ha. Ma è perfettamente gratuita l’affermazione che esso abbia fallito ai suoi scopi fiscali. Tutto il mio libro dimostra il contrario.

 

III)   Replica Griziotti. – È presto detto dall’ E. che tutto il suo libro prova non essere il catasto fallito al suo compito fiscale, mentre esso non mi persuade perché l’esperienza comune mette in evidenza gli enormi difetti, che sono da me elencati nella mia stessa recensione e che né il libro né la presente discussione riescono a sminuire, tanto sono innegabili.

 

I)     G. – Le riforme del 1886, del 1923 e del 1939 hanno dato luogo ad accertamenti di cui non si rimase soddisfatti.

 

II)    E. – Gli accertamenti catastali, ordinati in base alle leggi citate e che si stanno ora continuando e perfezionando raffigurano la verità di gran lunga meglio di quanto non accadrebbe con qualunque altro metodo concorrente.

 

III)   G. – Non si comprende, perché la verità non possa meglio risultare, tenendo conto, per esempio, dei contratti d’affitto e là dove non c’è affitto, calcolando il reddito per analogia con quello dei terreni affittati similari. Invece sono da considerare falliti perché insoddisfacenti gli estimi 1886, 1923 e 1939.

 

 

I)     G. – La difesa del catasto che l’E. riporta dal De Viti de Marco lascia vive le critiche delle sperequazioni e delle imperfezioni inerenti al sistema. Le sperequazioni sono interne fra i contribuenti fondiari ed esterne rispetto ad altri contribuenti.

 

II)    E. – È il pregio massimo dal catasto – e nessuno ha sinora distrutto le argomentazioni altrui riprodotte e integrate nel mio libro – di perequare gli estimi ad una certa data e di lasciarli poi invariati per un certo tempo. Questa è la sola perequazione interna, possibile e vantaggiosa. Alla perequazione esterna il catasto è estraneo. È compito del legislatore determinare di anno in anno il carico rispettivo delle diverse categorie di contribuenti. Se il legislatore non ci riesce quando può adoperare lo strumento del catasto, non vi riuscirà adoperando strumenti di accertamento di gran lunga più imperfetti.

 

III)   G. – Perché questo pregio massimo del catasto – se fosse vero – non si diffonde, applicando il metodo catastale altresì alle banche, al commercio, alle industrie e alle professioni e per tutti non si prende a base imponibile il reddito ordinario? Per distruggere le argomentazioni dell’E. basti considerare che non è pregio ma grave difetto quello delle sperequazioni interne, che rimangono per 30 anni non solo fra i contribuenti A, B, C, ma pure fra la regione X avvantaggiata da opera pubblica e la Z colpita dalla concorrenza straniera. A parte poi queste irrefutabili ingiustizie non stimolatrici di progressi nè punitive di negligenze, sta la considerazione che il catasto, col suo sistema di riferimento a una determinata epoca, suppone un’economia in generale statica oppure uniformemente dinamica; il che non è.

 

 

Perciò in fondo il catasto è erroneo nella sua logica economica, perché a epoche diverse con sistemi di prezzi diversi dal sistema di prezzi dell’epoca di riferimento non si può tentare una perequazione, calcolando il presente col riferimento al passato. Quindi questo è il sicuro mezzo per non avvicinarsi alla perequazione interna. È poi presto detto che il catasto è estraneo alle sperequazioni esterne, mentre l’abnormità o l’eccezionalità del metodo di calcolare il reddito ordinario e di tenerlo fisso per lungo tempo gli è propria. È pure presto detto che è compito del legislatore determinare di anno in anno il carico rispettivo delle diverse categorie di contribuenti, quando ciò riesce praticamente impossibile per la grande complicatezza dei computi e della loro applicazione. Il legislatore non riesce col catasto a ottenere la perequazione esterna rispetto agli altri contribuenti, perché con questi usa diversi metodi di accertamento. Quanto più gli accertamenti saranno similari, tanto meglio riuscirà la perequazione.

 

 

I)     G. – Le sperequazioni interne ed esterne sono di piena evidenza ora tanto che si fa il voto di una perequazione fiscale con la revisione dell’estimo prima che decorrano 10 anni. Invero è un assurdo stridente in piena necessità di guerra e in forte dinamica di prezzi attribuire al reddito dominicale un estimo fisso di 7,4 miliardi quando esso nella stima ufficiosa fatta nel 1938 saliva a 15 miliardi ed ora può dirsi molto più elevato.

 

II)    E. – Non è affatto assurdo fondarsi sugli estimi del 1939. Astraendo dalla valutazione del 1938, di carattere provvisorio e indiziario e non omogenea con le valutazioni catastali, il vero assurdo consiste nel considerare quella cifra di 7,4 miliardi come una quantità concreta in lire e centesimi. Essa è invece un numero astratto, una cifra di conto, che serve al reparto dell’imposta tra i contribuenti. Il legislatore vuole nel 1943 raddoppiare il gettito della fondiaria? Può farlo senz’altro e ripartire il gettito raddoppiato sulla base dei 7,4 miliardi di unità di conto. Questa possibilità e l’errore di considerare gli imponibili catastali come realtà effettiva sono largamente dimostrati nel mio libro. Non si continui a gettare sul catasto la colpa di una eventuale timidezza o incertezza del legislatore nel seguire coll’imposta la variazione del reddito fondiario totale in rapporto alle variazioni delle altre specie di reddito.

 

III)   G. – Innanzi tutto osservo che l’E. non replica all’accusa che si fa all’estimo 1939 di non essere soddisfacente per se stesso, sicché si fa il voto di una revisione di esso. Considerare l’estimo come una «cifra di conto», non serve alla difesa della critica fatta ove si consideri che la forte dinamica attuale di guerra investe i singoli settori (per es. attualmente vino, olio) o le singole aziende. Il rimedio appena sopra indicato dall’E. in queste circostanze non è operante e in realtà non si attua; e così ora lascia aperta la falla delle finanze di guerra corrispondente al metodo catastale. Dal legislatore (l’E. lo sa meglio di me, come più anziano, più esperto e più addentro nella vita politica) non si può attendere troppo e troppo spesso: meglio mettere gli ordinamenti adatti una volta per sempre, anziché conservare gli imperfetti come quello del catasto e dire che la colpa è del legislatore.

 

 

a)    G. – Né può accettarsi per i nostri tempi l’elogio che il catasto meritò per i benefici effetti esercitati sull’agricoltura nella prima metà del XVIII secolo; allora vi erano ordinamenti tributari e condizioni generali e particolari completamente diverse dalle nostre.

 

b)    E. – Queste sono parole prive di contenuto, simili a quelle di «tempi nuovi» e «sistemi antiquati» che si leggono appresso. In buona logica, non è il nuovo o l’antico che conta; è il vero. Oggi, come ieri, come nella seconda metà del secolo XVIII, è vero che una stima fissa per x anni (io preferisco i 30 anni della legge del 1886, redatta da uomini di primissimo ordine e discussa in sedute che faranno mai sempre grande onore al Parlamento italiano e dimostrarono la attitudine dei parlamenti composti di non tecnici a legiferare incomparabilmente meglio delle assemblee cosidette tecniche; ma altri preferire 20 o 10 anni; ed è materia, come tutte, disputabile) produce l’effetto che il proprietario (il proprietario, dico, e non il conduttore) è indotto a compiere migliorie permanenti per goderne i frutti liberi da imposta per gli anni ancora a decorrere sul massimo di x (restando oggetto di discussione i modi diversi di calcolare x, di cui nel mio libro si esaminano diffusamente le ragioni pro e contro). In tal modo l’erario pubblico è avvantaggiato, perché trascorsi gli x anni, le nuove stime aumenteranno il reddito ordinario al disopra del livello al quale sarebbe giunto se il sistema non fosse stato adottato.

 

 

Questi sono effetti logici oggi 1943, come nella seconda metà del secolo XVIII quando li osservarono i Carli, i Verri ed i Neri e come nella prima metà del secolo XIX quando li osservò Cattaneo. Basta avere gli occhi per guardarsi attorno, interrogare proprietari e fittaioli per persuadersi, anche se gli interessati non sempre dimostrano di averne chiara cognizione, che così precisamente stanno le cose oggi come ieri. Non esistono condizioni generali e particolari del tempo nostro che scrollino questa verità lapalissiana. In ogni caso, se esistessero, sarebbe necessario enunciarle ad una ad una e dimostrarne il legame logico con la proposizione (la fissità degli estimi per un numero x di anni favorisce le migliorie e innalza i redditi imponibili) di cui si discute.

 

 

c)    G. – «Prive di contenuto» sono parole polemiche gratuite perché i tempi nostri sono contrassegnati dalle diversità di condizioni subito dopo indicate come influenti a far preferire metodi diversi. (Potrei scrivere molto di più per svolgere ciò che è detto in una riga di recensione necessariamente breve per mancanza di spazio: ma proprio l’E. ne ha bisogno?) Non mi impressionano poi gli elogi agli economisti, statisti e parlamentari del tempo che fu, perché mi associo anch’io ad essi, e poi propongo di far di meglio. [Riscattando le imposte, vorrei (V. in Alta finanza in questa Rivista, 1942, I, 181/2) non colpire il reddito quando si produce, anno per anno, ma saltuariamente nella sintesi di lunghe gestioni quale risulta negli incrementi patrimoniali.

 

 

Questo sarebbe un procedimento non particolare alla proprietà fondiaria e perciò residuo storico di tempi diversi e divenuto privilegio, ma generale a tutti i contribuenti]. Le migliorie permanenti del resto non sono oggi favorite molto dal catasto:

 

 

a)     perché in parte avvengono prima della revisione trentennale e sono quindi gravate;

 

b)    perché oggi molti proprietari sono assenteisti e non le sanno fare;

 

c)    perché oggi – a differenza di due secoli fa – la disponibilità di grandi capitali, lo spirito di iniziativa, le nuove tecniche costituiscono forze cospicue per operare migliorie permanenti all’infuori dall’interesse fiscale;

 

d)    perché la variabilità delle sovrimposte elide il vantaggio della fissità dell’imposta fondiaria.

 

 

Rimane poi sempre la domanda: perché la proprietà fondiaria oggi, che non è più la principale fonte della ricchezza nazionale, dovrebbe continuare a godere questo specialissimo metodo del vecchio catasto, mentre non si pensa di beneficare con lo stesso metodo d’imposizione pure le altre fonti della ricchezza imponibile?

 

 

I)     – Inoltre è da mettere in rilievo che l’imposta fondiaria colpisce il proprietario della terra e non l’agricoltore e quindi l’imposizione sul reddito ordinario, anziché su quello effettivo, solo parzialmente e in alcuni casi benefica l’agricoltura.

 

II)    E. – Accanto all’imposta fondiaria, oggi l’imposta sui redditi agrari (pagata dal conduttore del fondo) è accertata con il medesimo sistema catastale e quindi sul reddito ordinario. La prima imposta (fondiaria) incoraggia le migliorie permanenti, la seconda (industriale) le migliorie temporanee. Non c’è ragione al mondo di passar sopra alle lodi che Carlo Cattaneo dava a questo metodo di accertamento in confronto ai barbari (è Cattaneo che parla) sistemi di tassazione immediata del reddito effettivo accolti in Inghilterra e che oggi il mio contraddittore vorrebbe importare anche nell’Italia agricola.

 

III)   G. – La nuova riforma raddoppia i privilegi dei proprietari. Perché invece gli agricoltori devono sottostare alla r.m. come tutti gli altri contribuenti? Eppure nessuno fa dipendere i progressi dell’agricoltura dall’abolizione della r.m. per gli agricoltori. Lasciamo poi da parte l’ottimo Carlo Cattaneo, perché io non intendo applicare i metodi inglesi del tempo di Cattaneo. Sarebbe stato desiderabile che nella risposta l’E. si riferisse ai metodi d’imposizione che io sostengo.

 

 

I)     – Si abbandoni, per aver fatto il suo tempo, l’imposta fondiaria mediante il suo riscatto eliminando un tributo difettoso, perché ammortizzabile e inapplicabile sia con catasto sia con denunzie rispetto a milioni di contribuenti.

 

II)    E. – Le proposizioni: 1) l’imposta fondiaria ha fatto il suo tempo; 2) l’imposta fondiaria è inapplicabile con ogni sistema, sono perfettamente gratuite. Essa fu sempre inapplicabile col metodo delle denunzie, che sarebbero una bruttissima e imperfettissima copia del catasto; epperciò fu e rimane preferibile quest’ultimo. Non discuto la tesi dell’ammortamento e del riscatto, perché occorrerebbe all’uopo un volume, nel quale, per dar ragione della mia avversione al riscatto, si dovrebbe dar fondo a tutta la materia dell’ordinamento tributario del nostro paese.

 

III)   G. – Perché qualificare «gratuite» le proposizioni che sono subito giustificate dalle critiche? Anche la critica al metodo delle denunce non è valida come risposta alla mia recensione, perché non tiene conto della proposta abolizione dell’imposizione per i milioni di piccoli contribuenti, secondo la tesi indicata più avanti. Credo che l’E. esageri che per spiegare l’avversione al riscatto occorrerebbe un volume, perché basterebbe che, come insegna Pareto, l’E. spiegasse i sentimenti e gli interessi (Myrdal direbbe che sono di soppiatto nel suo sistema) che preferisco per il reparto delle imposte fra le varie categorie e classi di contribuenti con particolare riguardo delle spese di guerra per vedere se sia il catasto oppure il mio sistema quello più adatto a soddisfare tali sentimenti e interessi. Ad ogni modo le mie controcritiche (in Appunti sul riscatto delle imposte ammortizzate apparsi nei Festgabe fur Alexander Hoffmann, Darmstadt, Buske, 1939, p. 53/77) alle critiche già mosse dall’E. alla tesi dell’ammortamento e del riscatto rimasero finora senza risposta.

 

 

I)     G. – I piccoli contribuenti sono i più numerosi e sono colpiti con la stessa aliquota tanto per l’imposta quanto per le sovrimposte che gravano sui maggiori contribuenti, i quali poi sottraggono all’imposta complementare la maggior parte delle loro effettive entrate essendo esse calcolate sul reddito ordinario. Quindi questo metodo di tassazione reale sul reddito ordinario è sfavorevole ai piccoli contribuenti, pei quali è eccessiva la imposizione, che risulta invece inadeguata alla capacità contributiva dei maggiori contribuenti.

 

II)    E. – Il problema dell’aliquota dell’imposta – se a base costante od a base crescente – indipendente da quello di cui soltanto si discute in materia di catasto, che è problema di accertamento. Lo sono per la conservazione della tassazione a base costante, che non vieta l’uso di una complementare progressiva. Ma il sistema opposto è, se così si preferisca, perfettamente compatibile col metodo catastale. Se taluno metterà innanzi un sistema di progressività generale, che sia compatibile con le esigenze dell’erario e con quelle, forse anche più importanti, della necessità di dare a tutti i cittadini la sensazione di appartenere allo Stato (perciò sovratutto io sono decisamente contrario all’abbandono delle imposte con aliquote a base costante e senza esenzione di minimo) quel sistema sarà perfettamente applicabile col catasto. E, come fu detto sopra, il legislatore perfettamente in grado di applicare anno per anno quel coefficiente di moltiplico (un tempo era 3, poi 4, oggi, mutati gli estimi, è di nuovo 1, ma potrebbe crescere a 2 o 3, se così richiedessero le mutate situazioni monetarie) che fosse più conforme al vero. Il grosso proprietario, il cui reddito accertato per L. 50 mila del 1939, sarebbe chiamato a pagare su 75 o su 100 mila o più lire nel 1943, a seconda delle variazioni del livello dei prezzi o di quell’altro indice che si ritenesse opportuno di assumere.

 

 

Errore fondamentale quello di credere che il catasto fossilizzi i redditi assoluti; esso fissa invece solo per x anni il rapporto tra i redditi di Tizio e quelli di Caio. Se ambi avevano nel 1939 lo stesso reddito di L. 50 mila, ambi pagheranno nel 1943 e seguenti su 50 o su 75 o su 100 mila (o, il che fa lo stesso, ambi pagheranno 5 mila o 7,5 o 10 mila lire d’imposta), facendo astrazione dalla circostanza se nel frattempo le 50 mila lire base di Tizio siano divenute per migliorie apportate, 80 mila e le 50 mila lire base di Caio siano divenute, per inerzia o incapacità, 40 o 30 mila. Ambi costoro, se ricchi, saranno trattati come ricchi nel modo che il legislatore riterrà opportuno, ma Tizio godrà per qualche anno dei frutti della sua diligenza e Caio sarà punito per la sua negligenza. Il trascorrere del tempo non muta affatto la verità di queste considerazioni; anzi le cresce, perché non mai, come oggi, è necessario crescere la produzione ed è necessario levare di mezzo la gente pigra, incapace a utilizzare bene la terra. Il catasto è un metodo automatico per eliminare i detentori di terre incolte o male coltivate ed è il metodo più efficace che si sia inventato all’uopo.

 

 

III)   G. – Il problema dell’aliquota e del blocco dell’aliquota in tutto il sistema delle imposte personali, il fatto dell’elisione dell’imposta per ammortamento non sono indifferenti nella scelta del metodo di accertamento, perché tale metodo ha influenza sull’ordinamento del reparto. Rimangono intatte le critiche mosse al catasto per le sperequazioni interne ed esterne e con esse quelle ora fatte e sorvolate dall’E. che il catasto, così come è, è sfavorevole ai piccoli contribuenti. Ponendo il catasto su altra base, diventa complicato ancor più e fallisce sempre al suo compito, mentre il fossilizzare per x anni il rapporto tra i redditi di Tizio e quelli di Caio, per premiare la diligenza di Tizio e punire la negligenza di Caio, può essere opera vana, perché il maggior reddito di Tizio e il minor reddito di Caio per lo più sono attinenti a molteplici fattori di natura diversa della diligenza e negligenza. La sensazione di appartenere allo Stato è data anche dalle imposte indirette, ma in ogni caso risulta da un’imposizione fissa e lieve per i redditi minimi, com’io propongo.

 

 

È importante con le imposte progressive (moderate) personali seguire gli effettivi redditi fondiari e agrari individuali, il che non può avvenire, come l’E. vorrebbe dimostrare con l’esempio numerico. Il trascorrere del tempo rende anacronistico colle esigenze della giustizia tributaria (dall’E. beffata nel suo libro Miti e paradossi eppure generalmente sentita) e della perequazione fra i contribuenti possessori dello stesso reddito anche di diversa origine, in corrispondenza a un fondamentale principio giuridico e politico dell’uguaglianza a parità di capacità contributiva.

 

 

Oggi molti proprietari sono assenti dal fondo e non sono competenti o appassionati a fare miglioramenti fondiarii o li fanno perché hanno grandi capacità organizzatrici esperimentate nelle industrie ora più fiorenti che un tempo e dispongono di ingenti capitali guadagnati nelle guerre o in tempo di pace. Oggi la legislazione interviene più che nel secolo scorso e nel precedente a bonificare, espropriare terre incolte e male coltivate in modo più drastico ed efficace del sistema automatico del catasto. Invece i piccoli contribuenti sollevati dalle gravose imposte e sovrimposte saranno stimolati ad amare la terra.

 

 

I)     G. – I piccoli contribuenti liberati dall’imposta e sovrimposta fondiaria potranno, se mai, essere sottoposti a piccoli tributi (come sarebbe l’imposta di licenza) a favore della finanza locale.

 

II)    E. – Attendo la dimostrazione del modo miracoloso con cui, con piccoli tributi, si possa risolvere il problema della finanza dei comuni e delle provincie, di cui la fondiaria è pilastro robustissimo. Sono sicuro poi che i piccoli proprietari preferiscono di gran lunga l’attuale fondiaria, con relative sovrimposte, a qualunque cosidetta piccola licenza che li metta a contatto con gli uffici erariali o comunali delle imposte dirette.

 

III)   G. – In Alta finanza (Rivista, 1942, I, 188/9) è brevemente indicato che col riscatto delle sovrimposte si deve compiere il trapasso allo Stato di molte spese comunali e provinciali, che sono di interesse nazionale, in modo da minimizzare le finanze locali. Così non occorrerebbe «il pilastro robustissimo» assai criticato. Se le finanze locali abbisognassero di altre entrate, quante se ne possono trovare! Non si comprende poi perché i piccoli proprietari dovrebbero provare difficoltà a pagare una piccola imposta agli uffici comunali piuttosto che una maggiore a quelli dello Stato; criteri obbiettivi d’accertamento potrebbero essere adottati per queste piccole imposte, senza incorrere nel grosso lavoro dell’estimo catastale.

 

 

I)     G. – D’altra parte, una tale riforma potrebbe concordarsi efficacemente con la politica antiurbanistica, per riallacciare i contadini alla montagna ed alla campagna.

 

II)    E. – Non parlo della montagna, i cui problemi attengono, per infinitesima parte, al regime della fondiaria. Quanto alla campagna, la fondiaria, con la sua certezza, è uno dei fattori che, a parità di altre circostanze la fanno preferire alla città. Coloro che si inurbano poco pensano alle imposte, come ad elemento di decisione. Se vi pensano, preferiscono di pagare l’imposta di ricchezza mobile solo perché sperano di farla al fisco. Se ciò non sperassero, sempre a parità di altre circostanze, si terrebbero alla fondiaria, che sanno regolata in modo oggettivo ed imparziale per tutti. Poiché lo stato non deve spingere a pensieri di frode, la fondiaria par preferibile sia per gli agricoltori che per l’erario pubblico.

 

III)   G. – La risposta dell’E. evade alla considerazione del mio pensiero, che tale riforma favorendo i piccoli proprietari agricoltori col sollievo dell’imposta li vincolerebbe alla terra. Poiché non v’è dubbio che fra le cause che fanno abbandonare la terra in tempi normali è da considerare quella della oppressione fiscale. Che l’imposta di r.m. sia orribile campione del nostro scandaloso ordinamento tributario, non c’è dubbio e per questo è da sopprimere; ma essa non giustifica la permanenza della fondiaria, che è pure un vecchio arnese da liquidare come rottame.

 

I)     G. – Insomma, minor numero d’imposte e minor numero di contribuenti in un risanato ambiente morale, politico e fiscale è ciò che si deve accuratamente ricercare per progredire, come è necessario secondo le esigenze dei tempi nuovi, ben diversi da quelli della prima metà del secolo XVIII e sovratutto secondo le necessità del nostro paese che deve innovare e non conservare antiquati sistemi per avanzare rapidamente.

 

II)    E. – Dei tempi nuovi e di quelli antichi ho già detto sopra. Quanto all’ambiente morale, giova non guastarlo, sostituendo al catasto, che è metodo tecnico oggettivo, che non importa rapporti diretti tra la finanza e il singolo contribuente, un qualunque altro metodo, il quale, implicando quei rapporti, genererebbe inevitabilmente se non la realtà il sospetto di favoritismi e di corruzione. Chi abbia contatti con la gente rurale sa come essa consideri l’autorità, qualunque autorità, cosa atta ad essere comprata con denari. Guai se si potesse addivenire a discussioni individuali in materia di imposte agricole. Oggi l’agricoltore non teme la fondiaria, e non temerà dal 1943 in poi l’imposta sui redditi agrari, perché la vede trapassare invariata da venditore a compratore. Quando la veda discussa nei suoi confronti individuali, la giudicherà ingiustamente distribuita a suo danno. Giova aumentare i sospetti di corruzione? I sospetti nuocciono spesso più della realtà. Il rapido avanzamento non si ottiene esentando milioni di proprietari che oggi pagano e sanno di dover pagare e tanto meno facendo finta di esentarli a costo di un versamento capitale immediato (riscatto). Non si ottiene sostituendo per la minoranza che dovrebbe seguitare a pagare – e dovrebbe essere una minoranza grossa, se non si vogliono mandare a gambe all’aria le finanze statali e locali – al catasto che cosa? Poiché il catasto è solo un metodo di accertamento, ed un metodo occorre adottarlo; quale si adotterà? Quello delle denunzie, che il Griziotti considera inaccettabile per milioni di contribuenti? Se anche il metodo delle denunzie paresse invece accettabile per le sole centinaia di migliaia di contribuenti, dico di avere dimostrato nel mio libro che le denunzie sono puramente e semplicemente un catasto mal fatto. Dico che occorrerà perfezionarle e controllarle per mezzo di un corpo tecnico istituito all’uopo. Potremo prenderci il gusto innocente di chiamare gli ufficiali a ciò addetti procuratori alle imposte, ma se vorranno procurar sul serio entrate allo stato perequatamente, costoro dovranno essere ingegneri, geometri, agronomi e seguire né più né meno le regole catastali. A che pro dunque tanto baccano contro il povero catasto?

 

III)   G. – Speriamo che in avvenire, con la pace, si rifacciano l’ambiente morale e l’educazione nazionale, a cui dobbiamo contribuire anche modificando un vecchio ordinamento di tributi che ricorda quello esistente alla vigilia della rivoluzione francese. La piccola gente rurale non paghi allo Stato o l’altra sia avviata colle e come le altre a pagare quanto deve. Per la difesa del riscatto, rimando anche alle ragioni esposte da altri che trova giusta e opportuna tale operazione[3]. Il riscatto dà luogo a un versamento capitale immediato e così favorisce la contribuzione, assorbendo nelle campagne l’eccesso di guadagni per numerosi profitti di guerra leciti ed illeciti e l’eccesso di circolante ora ivi tesoreggiato, mentre contribuisce efficacemente a superare la presente crisi finanziaria.

 

 

Estinta parte del debito di guerra col riscatto, i piccoli proprietari si troveranno con minore capitale liquido, ma con un patrimonio che avrà guadagnato di valore più che proporzionalmente per l’imposta soppressa, come già dimostra con calcoli precisi (Rivista, 1943, I, 4/5) e con un reddito espresso in una moneta più sana. Dopo questa operazione, che procura un reale beneficio patrimoniale, rimane l’effettivo (non finto) vantaggio dell’esecuzione dei piccoli proprietarii in un sistema di imposte personali, anziché reali.

 

 

Quali esse siano ho già scritto in Alta finanza; una seria imposta sul reddito, che ora è un aborto anche per le eccessive sottostanti imposte reali; imposte sulle società e sugli enti collettivi; imposte saltuarie sui patrimoni; alcuni monopoli. Il catasto rimane e si completa per avere tutte le conoscenze necessarie; si abolisce l’imposta fondiaria insieme ai suoi difetti inerenti al suo metodo caratteristico e all’ammortamento, cui dà luogo. Le denunzie del reddito effettivo non possono corrispondere a un catasto mal fatto, per la diversità dell’oggetto da accertare. I sovraprofitti di guerra agrari, i redditi agricoli di r.m. sono accertati «per mezzo di un corpo tecnico istituito all’uopo»? I contratti, dove ci sono, sono una buona base per l’accertamento, perché di tanto è gravato il proprietario di altrettanto è sgravato a titolo di spesa l’affittuario, e perciò c’è ragione di sperarne la veridicità. E dove mancano gli affitti, come nei luoghi di mezzadria, gli accertamenti si faranno tenuto conto dei prezzi correnti e delle valutazioni delle commissioni di accertamento, oltre che dei funzionari. Le imperfezioni saranno quelle delle altre imposte e costituiranno tema di un problema generale da risolvere seriamente con buona volontà.

 

 

Luigi Einaudi

 

 

POSTILLA

 

L’Einaudi precisa che il suo articolo non aveva scopi critici; e sono molto dolente dell’equivoco in cui sono caduto. Vi sono scrittori che si sentono mortalmente offesi se chi disserta della stessa loro scienza, non ne cita gli scritti, e che per contro vanno in bestia se qualcuno pensa diversamente da loro o si occupa di cose diverse da quelle che li interessano. E sarei veramente desolato se risultasse che, mio malgrado, appartengo appunto a tale detestabile classe di pensatori.

 

 

Va da sé che qualunque definizione è arbitraria, e serve solo a precisare i confini entro cui l’autore vuol mantenere la propria indagine. Vi sono al certo infiniti fenomeni e problemi al di qua e al di là di quei confini arbitrariamente posti. Scegliere la definizione di uno scrittore allo scopo di indicare con maggior chiarezza i fenomeni e i problemi che con essa si escludono dall’analisi, e appunto al fine di occuparsene, non è certo un criticare la definizione stessa, ma un renderle il massimo onore. E tale era l’intendimento dell’Einaudi, ora chiarito nella sua nota.

 

 

A me sembrò invece che l’Einaudi volesse affermare che i connotati dell’universalità, coattività, indefettibilità, eterogeneità e variabilità dei bisogni soddisfatti, hanno carattere storicamente contingente, sono il frutto di costruzioni giuridiche, proprie soltanto di quel particolare tipo di stato che trovò la sua miglior espressione con Napoleone primo. Se ciò fosse vero, ne deriverebbe la conseguenza che una teoria svolta nell’ambito dell’ipotesi di uno stato dotato di quelle caratteristiche, avrebbe una portata limitatissima, poiché i suoi risultati non sarebbero validi, neppure in una primissima approssimazione, in tutti quei casi in cui lo stato si allontana dal tipo Napoleonico; e cioè per la maggior parte del tempo. Da ciò il mio tentativo di dimostrare che, rispetto all’attività economica, della quale soltanto mi interesso, quelle quattro caratteristiche non vengono meno per il ricorrere delle condizioni di cui l’Einaudi porta interessanti e numerosi esempi; e che solo mancano, invece, in casi marginali.

 

 

L’equivoco in cui ora apprendo di essere caduto, dipende probabilmente dal diverso modo di impostare i problemi e di «fare la scienza», che l’Einaudi insegna, e che io invece mi sforzo di seguire. Nel suo studio egli incita infatti alla ricerca dei compiti che conviene attribuire allo stato del momento; al qual fine è certamente insufficiente una teoria la quale non tenga conto di tutte le sfumature con cui si manifestano tutte le caratteristiche (e non soltanto le quattro da me indicate) dello stato che è, di quello che tende a divenire, e di quello che si desidererebbe che fosse. Laddove nei miei Principii io perseguo scopi molto più modesti, sforzandomi di indagare quel pochissimo che mi riesce, di quello che è. Sicché devo eliminare volutamente tutte le variabili che non so ponderare, e che contraddistinguono lo stato storico di un dato momento. Chi si pone dal punto di vista dell’Einaudi, e persegue i suoi scopi, non può certamente trovare critica l’osservazione che la teoria non tiene conto delle variabili eliminate. Chi si pone dal mio punto di vista, e non riesce a liberarsene, è indotto a pensare che l’osservazione si riferisca alla validità della teoria rispetto al tempo. I chiarimenti dell’Einaudi sembrano dimostrare che io ho attribuito alla sua analisi un’estensione che non aveva.

 

 

Ma ciò prova l’utilità della discussione, la quale, nel campo della scienza, non ha per lo più lo scopo di convincere altrui, ma di precisare i limiti del proprio pensiero. Resterebbe a discutere della mia ripugnanza, nello stadio attuale delle nostre conoscenze, ad attribuire valore di scienza a ricerche le quali esigerebbero la conoscenza di variabili e di rapporti di interdipendenza, che ci sono ignoti, e alla cui ignoranza si vorrebbe supplire mediante l’intuizione o l’incerto processo di sintesi che contraddistinguono gli storici. Ma l’andare a fondo su tal tema porterebbe a ragionare dei problemi di metodo che si trovano, consciamente o inconsciamente, alla base di molte discussioni, e dei quali non è il caso di occuparci in questa sede.

 

 

Mauro Fasiani



[1] Questa mia particolare dichiarazione che i quattro connotati definiscono lo stato, elimina, parmi, una minore disputa intorno ad una differenza fra una proposizione A relativa allo stato o gruppo pubblico in genere ed una proposizione B relativa soltanto a quello stato, che rende servigi pubblici, diverso da stati di altro genere che si occuperebbero di servigi non pubblici. Non ho nessuna idea neppure io di quel che potrebbero essere questi altri tipi di stato; ed è chiaro dal brano riprodotto nel testo che io riferivo i quattro connotati allo stato in genere.

[2] In verità il F. nella sua nota continua discutendo altri argomenti, tipi di stato studiati al limite, dei quali non farò cenno perché non si riferiscono, se non in virtù di una interpretazione ipotetica ed estensiva, di cui non sono responsabile, al problema trattato nell’articolo mio in questa rivista. Fa d’uopo soltanto dissipare un equivoco derivato dall’uso che io feci della parola convenienza, affermando che, «l’interesse della discussione intorno ai bisogni pubblici verte principalmente su quali bisogni si debbano – parla il filosofo – o convenga – parla l’economista – o si usi – parla il sociologo – soddisfare». Con questa contrapposizione intendevo evidentemente definire i diversi compiti delle tre categorie di studiosi. Il filosofo studia quel che gli uomini debbono fare, per ubbidire ai comandamenti del dovere, del buono, dell’onesto, del giusto. Il sociologo tenta di studiare le uniformità delle azioni di fatto compiute dagli uomini; nel caso presente delle azioni finanziarie. Che cosa studia l’economista? Non quel che, a parere dell’economista medesimo, conviene di fare, le imposte, ad esempio, che, secondo i criteri personali dell’economista, conviene di stabilire. L’indagine non avrebbe alcun interesse scientifico. L’economista non si limita però, come il sociologo, a studiare le uniformità empiriche di quel che gli uomini fanno, ma sottopone ad esame critico le scelte fra le varie azioni possibili. Egli non dice all’uomo: ti conviene comportarti in questo o in quel modo, che egli si comporterebbe come un doppione, peggiorato perché inspirato a grossolano utilitarismo, del filosofo; ma parte da certe premesse, osservate nella condotta umana o possibili a porsi, se si tratta di cose finanziarie, da chi rappresenta lo stato. Forse l’elenco delle possibili premesse gli sarà fornito dal sociologo o dallo psicologo, edotto negli usi umani. Parte, ad esempio, dalla premessa di un dato fabbisogno statale da coprire con una imposta nuova, ad ipotesi 1 miliardo di dinari. Ed egli studia le x imposte atte a procacciare quel provento; ne indaga gli effetti sui contribuenti, sui non contribuenti, la traslazione e la incidenza, le ripercussioni sull’economia del paese e sul rendimento delle altre imposte ecc. ecc. Studia gli strumenti amministrativi che occorrerebbe creare o modificare per applicare i diversi metodi alternativi; e le reazioni che l’applicazione dell’un metodo o l’altro esercitano sulle diverse classi sociali e sulle loro relazioni reciproche. Studia gli effetti dell’uso o dei diversi usi possibili del miliardo di denari così procacciato al pubblico erario; paragona questi effetti con quelli che deriverebbero dal procacciamento od uso di una somma maggiore o minore. Queste e simili indagini sono quelle che io ho sintetizzato nella parola convenienza, mera stenografia utile per risparmiare un subisso di parole. Chiuse le sue indagini, l’economista le presenta all’uomo politico, al quale spetta la decisione. Salvo all’economista il diritto di riprendere la parola e studiare di nuovo i risultati di fatto della definitiva decisione del legislatore, senza obbligo di fermarsi ad un qualunque anello nella catena degli effetti. Naturalmente, l’economista si fermerà quasi sempre ben presto, ché gli mancano per lo più gli strumenti di studio ed i dati per spingersi innanzi nella catena dei ragionamenti. Se strumenti e dati non facessero difetto, gli anelli della catena son tanti da non vederne la fine.

[3] Si è osservato infatti che non si può più pensare la finanza nelle sue categorie ordinarie e tradizionali, fatte di pizzichi di imposte e di manate di prestiti. Si può fare dell’altro, superandosi ed evadendo dalla servitù delle idee imparate e vissute. Si è giustamente parlato di uno sperpero della capacità contributiva e proposta un’operazione di riscatto delle imposte e delle sovrimposte fondiarie ed edilizie. Non c’è nessuna ragione per cui non si possa ricorrervi, sacrificando un modesto gettito attuale e avvenire per un grande risultato presente che darebbe al Tesoro messi notevoli favorendo anche la stabilità del potere d’acquisto della lira. Per mio conto aggiungo, poi, che mi riservo di dimostrare prossimamente che le condizioni attuali più che sconsigliare suggeriscono e favoriscono l’urgente applicazione del riscatto.

e gli sarà fornito dal sociologo o dallo psicologo, edotto negli usi umani. Parte, ad esempio, dalla premessa di un dato fabbisogno statale da coprire con una imposta nuova, ad ipotesi 1 miliardo di dinari. Ed egli studia le x imposte atte a procacciare quel provento; ne indaga gli effetti sui contribuenti, sui non contribuenti, la traslazione e la incidenza, le ripercussioni sull’economia del paese e sul rendimento delle altre imposte ecc. ecc. Studia gli strumenti amministrativi che occorrerebbe creare o modificare per applicare i diversi metodi alternativi; e le reazioni che l’applicazione dell’un metodo o l’altro esercitano sulle diverse classi sociali e sulle loro relazioni reciproche. Studia gli effetti dell’uso o dei diversi usi possibili del miliardo di denari così procacciato al pubblico erario; paragona questi effetti con quelli che deriverebbero dal procacciamento od uso di una somma maggiore o minore. Queste e simili indagini sono quelle che io ho sintetizzato nella parola convenienza, mera stenografia utile per risparmiare un subisso di parole. Chiuse le sue indagini, l’economista le presenta all’uomo politico, al quale spetta la decisione. Salvo all’economista il diritto di riprendere la parola e studiare di nuovo i risultati di fatto della definitiva decisione del legislatore, senza obbligo di fermarsi ad un qualunque anello nella catena degli effetti. Naturalmente, l’economista si fermerà quasi sempre ben presto, ché gli mancano per lo più gli strumenti di studio ed i dati per spingersi innanzi nella catena dei ragionamenti. Se strumenti e dati non facessero difetto, gli anelli della catena son tanti da non vederne la fine.

[3] Si è osservato infatti che non si può più pensare la finanza nelle sue categorie ordinarie e tradizionali, fatte di pizzichi di imposte e di manate di prestiti. Si può fare dell’altro, superandosi ed evadendo dalla servitù delle idee imparate e vissute. Si è giustamente parlato di uno sperpero della capacità contributiva e proposta un’operazione di riscatto delle imposte e delle sovrimposte fondiarie ed edilizie. Non c’è nessuna ragione per cui non si possa ricorrervi, sacrificando un modesto gettito attuale e avvenire per un grande risultato presente che darebbe al Tesoro messi notevoli favorendo anche la stabilità del potere d’acquisto della lira. Per mio conto aggiungo, poi, che mi riservo di dimostrare prossimamente che le condizioni attuali più che sconsigliare suggeriscono e favoriscono l’urgente applicazione del riscatto.

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