Opera Omnia Luigi Einaudi

La questione delle otto ore di lavoro

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/06/1894

La questione delle otto ore di lavoro

«Critica Sociale», 16 giugno 1894, pp. 181-183

 

 

 

In occasione dell’1 maggio 1890 vari sodalizi operai presentarono petizione alla Camera dei deputati per ottenere leggi protettrici del lavoro, dalle quali, secondo la relazione fatta dall’on. Caldesi alla Camera il 7 febbraio del 1893, doveva risultare: «la riduzione della giornata di lavoro ad un maximum di otto ore per tutti gli operai che lavorano negli stabilimenti e nelle botteghe, ed un minimum di salario per la retribuzione dei lavoratori di L. 3 al giorno per gli uomini e di L. 1,75 per le donne.» Si osservò che «la riduzione delle ore di lavoro ed il minimum dei salari sono questioni così gravi ed ancora premature forse per l’Italia, che non è proprio oggi il caso di imporre al Ministero l’obbligo di prendere in proposito una risoluzione immediata». Si rimandò quindi la petizione agli uffici!

 

 

Come si vede, la indifferenza dei nostri governanti per tutta la legislazione del lavoro non potrebbe essere più grande; la riduzione legale della giornata di lavoro è una riforma che, sembrando unicamente inspirata a concetti socialisti, è avversata dai nemici del socialismo; ora è invece accertato, afferma il Salvioli, «che il capitale non perde, ma forse guadagna, che la produzione non diminuisce, ma migliora, che l’economia capitalistica non è migliorata, ma segue il suo fatale processo; le otto ore sono riuscite come mezzo per coltivare il fattore personale, quantunque non sieno il segreto della cura della malattia sociale»[1].

 

 

Sono già diversi anni che il prof. Lujo Brentano ha rilevato il fatto paradossale che i concorrenti più pericolosi della Germania non erano i paesi dove i salari erano più bassi e la giornata di lavoro più lunga che in Germania, ma che erano al contrario quelli ove le condizioni dei salari e della giornata di lavoro erano più favorevoli agli operai, come l’Inghilterra e l’America del Nord. La rivendicazione della giornata di otto ore, che in Italia, per la poca estensione della grande industria, è forse alquanto accademica, ha acquistato invece nei paesi economicamente più evoluti una fisionomia del tutto pratica, e della vicina sua attuazione economisti illustri hanno cercato di dimostrare i benefici, tenendosi lontani però dalle esagerate speranze che si nutrono da alcuni riguardo all’efficacia sua nel risolvere il problema dei disoccupati[2].

 

 

Il dott. Luigi Albertini ha voluto occuparsi della questione ed, avvantaggiandosi dei risultati delle esperienze che in questi ultimi anni si sono andate sempre più moltiplicando, ci ha dato un dotto ed utilissimo volume intitolato appunto La questione delle otto ore di lavoro (Torino, Bocca, 1894).

 

 

L’autore, premessa un’accurata introduzione storica, esamina la influenza della riduzione delle otto di lavoro sulla produzione. L’agitazione per ottenere i 3 otto non ebbe da principio altro scopo che quello di sollevare gli operai da fatiche troppo deprimenti e di metterli in grado di istruirsi e di educarsi. Ma in seguito, ed in parte anche per causa dell’ambiente nel quale il movimento delle otto ore si era esplicato, assunse un altro scopo, quello di dare impiego ai disoccupati, fondandosi nella speranza di una diminuzione della produzione e sulla conseguente necessità dell’impiego di un maggior numero di lavoratori. Ora, sebbene il ragionamento appaia a prima vista logico ed abbia potuto dar ragione a quegli imprenditori che alla graduale diminuzione della giornata di lavoro si rifiutavano, in conseguenza appunto dell’aumentato costo della mano d’opera, è stato compiutamente confutato dall’essersi sempre potuto collo stesso numero di persone ottenere la stessa produzione, anzi talvolta una produzione assai maggiore.

 

 

L’autore nota assai bene (ed è questa una delle parti più importanti del libro) che le precedenti riduzioni della durata del lavoro a undici, dieci, nove ed otto ore non hanno in generale causato diminuzione di produzione; la giornata di lavoro vige in numerose fabbriche; l’operaio produce di più dove la durata del lavoro è più breve. Nelle miniere inglesi, ad esempio, la giornata di otto ore od anche meno si riscontra di frequente, ed il prof. Munzo dice che tutto tende a dimostrare che la produzione media per ogni uomo è più alta in quei distretti dove minore è la durata del lavoro. Dal maggio 1893, cioè sino da quando si pubblica la Labour Gazette, oltre a 17.000 operai impiegati negli opifici del Ministero della guerra, hanno ottenuto la giornata di otto ore 40.000 minatori del Lanarkshire, Ayrshire e Stirlingshire con notevole aumento di salario ed altri 4000 uomini impiegati in varie industrie. La produzione individuale è più alta in quelle nazioni ove lo standard of life[3] è più elevato e la giornata di lavoro più corta; i filatori di cotone dell’India hanno calcolato che la produttività dell’operaio inglese sta a quella dell’indiano nel rapporto di 56 a 23; il primo lavora 56 1/2 ore la settimana; il secondo dal sorgere al tramontare del sole. In Inghilterra, dove i minatori hanno la giornata più breve che in ogni altro paese d’Europa, ogni uomo scava annualmente 310 tonnellate di carbone, mentre in Germania ne scava 270, in Belgio 170 ed in Francia 188.

 

 

Questi fatti, che stanno in perfetta contraddizione colle pessimiste previsioni di alcuni, derivano dalla più forte intensità che l’operaio può spiegare e dall’attenzione svoltasi in lui appunto per l’accresciuto riposo e la diminuita fatica. Le diminuzioni fino ad ora avvenute hanno arrecato immenso sollievo alla classe lavoratrice e l’hanno migliorata fisicamente, intellettualmente e moralmente. Sembra che «l’uomo possa in qualche modo ribellarsi alla tirannia della macchina, che questa non sia capace di annullare del tutto la personalità umana, e che la creatura che la alimenta, la sorveglia nei suoi vertiginosi movimenti, debba pur sempre essere una creatura vivente, intelligente e vigorosa».

 

 

Alla diminuzione di prodotto, che si verifica specie nelle industrie, in cui la parte principale è riservata alle macchine, l’industriale cerca reagire, prima con molteplici modificazioni, come il sistema delle due o tre mute, l’aumento di velocità nelle macchine, costringendo l’operaio a sorvegliare un numero più grande di congegni meccanici, e poi sostituendo il lavoro della macchina a quello dell’uomo e cangiando le macchine vecchie con altre nuove e più perfette. Onde la riduzione della giornata di lavoro è stata la causa necessaria e principale di molti fra i più grandi progressi e trionfi dell’industria moderna. «Le brevi giornate di lavoro rendono l’operaio capace di lavorare intensamente; ad ottenere questo risultato concorrono anche gli elevati salari; brevi giornate ed elevati salari rendono possibile e necessario un grande impiego di macchine per economizzare il lavoro dell’uomo; il vasto impiego di macchine rende possibile e necessario pagare alti salari e fare lavorare gli operai per poche ore al giorno».

 

 

Ma se queste considerazioni hanno un valore assoluto per quei paesi ove l’industria è maggiormente in fiore, devono ricevere qualche temperamento per quelle nazioni ove l’industria è ancora giovane ed è mantenuta artificialmente da dazi protettori. Qui per la mancanza di capitali ed anche di operai abili, la riduzione non può farsi che a gradi e, perché l’operaio possa diventare capace di produrre in otto ore quanto prima produceva in dieci o dodici, fa d’uopo: 1. che egli voglia e si sforzi di lavorare intensamente; 2. che il suo salario sia elevato; 3. che trascorra un certo periodo di tempo, necessario perché egli possa risentire i buoni effetti dell’accresciuto riposo e della diminuita fatica e per acquistare l’abilità di lavorare più velocemente; 4. che egli faccia buon uso del tempo che gli rimane libero. Ed il minore desiderio in questi casi delle classi operaie di ottenere una forte diminuzione delle ore di lavoro è dimostrato dal fatto che in Italia, paese industriale poco progredito, gli scioperi per la giornata di lavoro hanno minore importanza di quelli per i salari, contrariamente a quanto avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti.

 

 

Ma nella giornata di otto ore si avrà forse la soluzione del problema sociale o, più specialmente, del problema dei disoccupati? L’autore risponde negativamente e conforta la sua tesi di numerose ragioni; ed alle serrate e convincenti sue argomentazioni rimando il lettore, anche per la difficoltà di riassumerle convenientemente e con la brevità necessaria a questo articolo.

 

 

Potranno gli operai conquistare d’un tratto le otto ore o dovranno accontentarsi d’una riduzione graduale? Emilio Vandervelde scrisse, alla vigilia dell’1 maggio 1893, essere vano sperare che l’operaio, abituato a lunghe giornate di dodici o sedici ore, possa d’un tratto arrivare a produrre la stessa copia di merci in otto ore, e che perciò fa d’uopo ridurre gradualmente la durata del lavoro. I deputati socialisti tedeschi, i quali nel maggio 1890 aveano presentato al Reichstag un progetto di legge con cui si sarebbe giunti a stabilire la giornata di otto ore in tre tappe successive; rinnovarono la proposta nell’aprile 1891 chiedendo subito la giornata di dieci ore, che nel 1894 si sarebbe ridotta a nove ore, e nel 1898 a otto ore. E le riduzioni finora avvenute, e che ottennero felice riuscita, conservarono sempre questo carattere di progressiva e continua gradualità; dove si volle imporre una riduzione più forte, come in Isvizzera nel 1878 ed in Inghilterra nel 1847, gli industriali reagirono alla legge non osservandola; numerose leggi occorsero in Inghilterra nel 1847, gli industriali reagirono alla legge non osservandola; numerose leggi occorsero in Inghilterra per ridurre la durata settimanale del lavoro da novanta e cento ore, come era al principio del secolo, a 56 1/2. Nella colonia di Vittoria, dove più dei tre quarti degli operai non lavorano più di otto ore al giorno, la riduzione effettiva fu non già da 10 ad 8, ma da 8 3/4 ad 8, essendosi abolito l’intervallo di 1 ora e 1/4 pel pasto del mezzodì.

 

 

Gli effetti di questa riduzione sarebbero altamente benefici per le condizioni fisiche e morali delle classi lavoratrici; per non ripetere cose già dette, riporterò dal libro le parole del Plener che riguardano l’Inghilterra: «… il dominio più che trentenne della legislazione protettrice mostra come le disposizioni, che alzavano l’età di ammissione e scorciavano la giornata, fossero oltremodo benefiche; la cosidetta gamba di fabbrica (storcimento delle gambe dei lavoratori) è affatto sparita; e tutti i rapporti ripetono ad una voce che la presente generazione di tesserandoli è un fiore rispetto all’antica». La limitazione della durata del lavoro, quantunque non efficace a rimoverne del tutto le cause, è necessaria ad impedire il deperimento continuo delle classi operaie, dovuto ai vizi, di cui massimo l’alcoolismo (che le otto ore hanno reso minore in Australia), le malattie derivanti da mancanza d’aria, di luce, da lavori compiuti in ambienti a temperatura elevatissima, dal ripetersi continuo di certi movimenti, dall’abitudine di tenere il corpo in posizioni anormali.

 

 

In qual modo potranno gli operai ottenere la riduzione graduale della giornata di lavoro? Non coi loro soli sforzi, che riescirebbero inefficaci contro la potenza dei capitalisti risoluti a non cedere alle pretese dei loro operai, ma mercé una legislazione nazionale. Inefficace sarebbe, secondo l’Albertini, una conforme legislazione internazionale, in quanto peggiorerebbe le sorti delle fabbriche e delle nazioni più deboli; e quegli Stati, che vedessero diminuita la loro produzione, si troverebbero costretti a trasgredirla.

 

 

Una legislazione nazionale sulle fabbriche non torna dannosa alle industrie, anzi le rende più forti e vigorose e, sollecitando perfezionamenti tecnici, le rende atte a sopportare la concorrenza estera. Disse il Macaulay nel discorso in difesa del bill delle dieci ore che «se il popolo inglese dovrà un giorno essere privato della supremazia industriale, non lo sarà da un popolo di nani degenerati, ma da un popolo che per energia fisica ed intellettuale superi l’inglese». E testé un ministro inglese, il Mundella: «Sono le lunghe ore di lavoro degli altri paesi che ci salvano dalla concorrenza».

 

 

La legislazione sulla giornata di lavoro dovrebbe imporre un limite massimo, senza le scappatoie sapienti della trade option e della trade exemption, accompagnando questo limite massimo colla proibizione assoluta del lavoro supplementare. Lo Stato che, per ora, almeno quello italiano, è un imprenditore molto poco favorevole ai suoi operai, dovrebbe cominciare ad applicare queste norme per le sue officine ed i suoi arsenali ed imporle ai Comuni, alle provincie ed agli appaltatori di opere pubbliche.

 

 

Questo il riassunto (pel quale, ad ottenere maggiore esattezza, mi sono spesso servito delle parole dell’autore) della bella monografia dell’Albertini, condotta con metodo severamente scientifico e sperimentale e che vorrei fosse letta da quanti si occupano di studi economici e sociali.

 

 

Il libro si chiude con un augurio: «… la classe dirigente, che è la classe dei possidenti, farebbe opera accorta se mostrasse che, come nei codici suoi tutela con migliaia di articoli il diritto di proprietà, così in altre leggi tutela l’unica proprietà del lavoratore, le sue braccia, che egli, spinto dalla concorrenza, è costretto a locare a vil prezzo e per un parte troppo lunga della giornata». Io non ho questa speranza, od almeno di fronte alle recenti manifestazioni dei più ciechi sentimenti egoistici di classe, di cui Governo e Parlamento diedero prova inacerbendo le imposte sui consumi popolari, credo che allora soltanto una legislazione sul lavoro, quale è quella vagheggiata dall’Albertini, sarà possibile, quando le classi lavoratrici eserciteranno una pressione più forte sugli organi legislativi e saranno rappresentate più largamente nel Parlamento da deputati decisi a reclamare con insistenza quelle riforme che possano tornare utili agli operai.

 

 



[1] Giuseppe Salvioli, La questione delle otto ore in Europa nel 1893-94 (Riforma sociale, n. 5).

[2] Ricordo solo l’ultimo libro uscito in Inghilterra, su questo argomento di John Rae, Eight hours for work. London, Macmillan 1894.

[3] Tenore di vita.

Torna su