Opera Omnia Luigi Einaudi

A favore delle azioni privilegiate (ma non a quelle a voto plurimo)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1932

A favore delle azioni privilegiate (ma non a quelle a voto plurimo)

«La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1932, pp. 619-630

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II,pp. 517-530

 

 

 

 

1. – Le borse non hanno, in sul primo momento, accolto in letizia la deliberazione del consiglio dei ministri volta ad autorizzare le società per azioni ad emettere azioni privilegiate. L’emissione delle nuove azioni privilegiate per il dividendo e per il rimborso del capitale non avrebbe precluso alle vecchie azioni ordinarie ogni possibilità di ricevere qualcosa in avvenire? Se il pericolo non esistesse, perché togliere ai vecchi azionisti il diritto di recesso? Perciò i corsi di non pochi e non minimi titoli subirono ragguardevole ribasso.

 

 

2. – L’azione privilegiata può essere mezzo per liquidare un passato ovvero per preparare l’avvenire. Oggi essa è proposta a raggiungere il primo intento. Narra il comunicato ai giornali intorno alle deliberazioni del consiglio dei ministri: «Un equo risanamento finanziario delle società industriali danneggiate dalla crisi è reso più difficile dal fatto che la quotazione di borsa delle azioni non corrisponde assai spesso all’effettivo valore intrinseco dell’azienda e comunque cristallizza, esagerandole, le ripercussioni momentanee della crisi. Conseguentemente la pratica normale per il risanamento finanziario delle società, che consiste nel ridurre il capitale svalutando al corso del mercato le azioni esistenti e nel provvedere a nuovo capitale con l’emissione di nuove azioni non può generalmente venire adottata senza causare ingiustificato danno ai vecchi azionisti attraverso la riduzione del valore delle loro azioni ad un livello che, come già detto spesso, è inferiore anche di molto al valore intrinseco delle azioni stesse. La possibilità da parte delle società di emettere azioni privilegiate senza correre il rischio del recesso darebbe invece modo alle aziende di risanarsi finanziariamente senza compromettere la consistenza intrinseca delle azioni vecchie; limiterebbe il sacrificio dei vecchi azionisti ad una postergazione di remunerazione e di rimborso e manterrebbe per essi la possibilità di partecipare in misura equa ai vantaggi che la ripresa economica può riserbare per la loro società».

 

 

3. – Ove si eccettui l’uso delle parole “effettivo valore intrinseco” le quali hanno virtù di dare sui nervi di ogni ben nato economista, tutto ciò è ben detto. Quanto alle parole citate, rimaniamo intesi che non esiste alcun valore il quale sia diverso da quello di fatto corrente sul mercato. Quelli che nel linguaggio comune si dicono, in contrapposizione al prezzo corrente realizzabile oggi in fatto, valori “effettivi”, “intrinseci”, “reali”, “veri” sono ricordi o speranze. Ricordi del felice tempo che fu, quando i prezzi, erano più alti – per i proprietari, gli azionisti, i venditori – o più bassi – per i consumatori -; ovvero speranze riposte in un avvenire meno fortunoso del presente. Ricordi e speranze sono medesimamente importantissimi motivi di azione e di prezzi presenti e futuri e non devono perciò essere svalutati. Sia ben chiaro però che essi sono motivi o fattori di prezzi o di valori non questi valori medesimi; e che gli aggettivi “effettivo” ed “intrinseco” ad essi applicati non hanno per sé alcun significato.

 

 

4. – Fuor di ciò, che, dopo tutto, è solo uno scrupolo di precisione connaturato in noialtri maniaci di purismo metodologico, il comunicato ministeriale è perfettamente a posto. Sia una società per azioni la situazione del bilancio della quale poteva nel tempo I (ad es., 31 dicembre 1925) riassumersi per sommi capi così:

 

 

 

Attivo

     

Passivo

   
   

Bilancio

pubblico

Bilancio

interno

 

Bilancio

pubblico

Bilancio

interno

 

a

b

 

a

b

Stabili impianti

100

115

Capitale sociale

100

100

Scorte e merci in lavorazione

50

60

Debiti verso banche e fornitori

100

100

Crediti, titoli e partecipazioni

50

55

Riserva occulta

30

 

—–

200

—–

230

 

—–

200

—–

230

 

 

Ambedue i bilanci sono “veri” nel senso che non sono compilati per trarre in inganno né i terzi, né gli azionisti. La finanza ha avuto tutto il suo, avendo avuto modo di tassare per tempo, grazie all’esame dei libri sociali, gli utili mandati a riserva occulta. I creditori hanno nelle attività sociali larga copertura. Gli azionisti sanno che le riserve occulte sono state accumulate per assicurarli contro perdite future.

 

 

5. – Nel tempo II (di crisi, per es., al 31 dicembre 1932) la situazione potrebbe essere riassunta così:

 

 

 

Attivo

     

Passivo

   
   

Bilancio

Pubblico (ricordi e speranze)

Bilancio

Interno (Valori attuali, correnti o di realizzo)

 

Bilancio

Pubblico (ricordi e speranze)

Bilancio

Interno

(Valori attuali, o correnti)

 

m

n

 

m

n

Stabili impianti

100

50

Capitale sociale

100

10

Scorte e merci in lavorazione

50

40

Debiti verso banche e fornitori

100

100

Crediti, titoli e partecipazioni

50

20

Riserva occulta

 

—–

200

—–

110

 

—–

200

—–

110

Nei tempi tristi si vede quanto fossero stati saggi gli amministratori del tempo I quando avevano costituito la riserva occulta di 30 milioni. La società poté sopportare una prima svalutazione degli stabili e degli impianti da 115 a 100 milioni di lire, delle scorte e merci da 60 a 50, dei crediti e titoli da 55 a 50 senza che in pubblico ne trapelasse notizia. Nel tempo II, il bilancio pubblico (m) non è diverso da quello pubblico (a) del tempo I.

 

 

Ma la realtà che poteva essere bene raffigurata così per un momento, si palesa presto ben più grave. Errori commessi in passato durante il tempo di prosperità partoriscono i loro effetti. Nuovi amministratori, od i vecchi medesimi fatti cauti dall’esperienza, sottopongono a spietata analisi i valori scritti all’attivo giungendo alla dolorosa constatazione che le attività non possono stimarsi in tutto a più di 110 milioni di lire. A bilancio, all’attivo non possono perciò essere scritti più di 110 milioni di lire; e poiché i debiti verso le banche ed i debitori non possono essere svalutati per volontà di una sola delle parti, nel bilancio interno è giuocoforza riconoscere che il capitale sociale si è ridotto da 100 a 10 milioni di lire. È fuor di dubbio che gli azionisti hanno perduto nove decimi del capitale versato e che le loro azioni non valgono più di 10 lire. Se, pur astraendo da peggiori sorprese facili in caso di liquidazione, si dovesse liquidare la società ai prezzi correnti, stabili impianti scorte e crediti non potrebbero essere realizzati per una somma maggiore di 110 milioni di lire. Soddisfatti i creditori, agli azionisti non rimarrebbero più di 10 lire.

 

 

È estraneo alla materia della presente nota dire come codesta situazione urti contro ordini precisi del codice di commercio. Essa è certo economicamente pericolosa. Un’impresa economica, la quale viva su un capitale proprio uguale ad una parte così piccola degli impegni, probabilmente liquidi, verso i terzi, non può operare liberamente. Essa è in mano dei creditori, ossia di chi, non avendo le spalle assicurate da una forte riserva di capitale proprio del debitore, ad altro non pensa che a ritirare i remi in barca, incassare i propri crediti ed andarsene. La liquidazione è in vista, con l’ovvia conseguenza che agli azionisti non rimarrebbe nulla in mano.

 

 

6. – Due vie si aprono. La prima è quella solita: deliberazione di riduzione del capitale sociale da parte dell’assemblea degli azionisti, prima stupefatti, poi indignati contro il vecchio consiglio dimissionario, il quale, se ne va tra contumelie e minacce di querele per malversazioni e finalmente rassegnati dinanzi alla fredda dimostrazione data dai nuovi amministratori della necessità di piegarsi all’ingrata opera chirurgica. Ridotto il capitale da 100 a 10 milioni all’attivo e da 100 a 10 lire per azione, lo si reintegra a 100 con l’emissione di 90 milioni di nuove azioni da 10 lire l’una, date in opzione ai vecchi azionisti o se questi non sottoscrivono in tutto, assunte da un gruppo composto da quelli tra i creditori i quali si sono convinti che val meglio salvare la società, diventandone azionisti che mandarla a picco, insistendo sull’esazione dei propri crediti. Si. fa un bel ripulisti all’attivo ed il bilancio assume nel tempo III la seguente forma.

 

 

Attivo

   

Passivo

     
Stabili, impianti  

50

Capitale sociale:        
Scorte e merci in lavorazione  

40

Azioni vecchie  

10

   
Crediti, titoli e partecipazioni  

20

Azioni nuove  

90

   
   

110

   

100

100

 
      Debiti verso banche e fornitori    

10

 
           

110

 

 

 

Il bilancio fotografa la situazione risanata. Le cifre iscritte al passivo raffigurano valori veri, ossia correnti sul mercato. La società lavora col proprio capitale. I debiti sono ridotti ad un minimo usualissimo, appena un quarto del valore delle scorte e merci in lavorazione. Più in una botte di ferro di così non si potrebbe vivere.

 

 

La soluzione però ha lasciato dell’amaro in bocca ai vecchi azionisti. Essi si erano bensì convinti che i loro sudati risparmi erano persi per nove decimi; e, sfiduciati, non avevano sottoscritto, in maggioranza, le nuove azioni, abbandonandole al gruppo assuntore. In fondo al loro cuore essi pensavano tuttavia che in quella svalutazione delle attività, prima da 230 (200 pubblici e 30 occulti) a 200 milioni e poi da 200 a 110 c’era dell’esagerazione. Ricordi del passato, speranze dell’avvenire, valore immateriale dell’avviamento, tutto era stato sacrificato sull’altare del risanamento. Se, nell’avvenire, ricordi speranze avviamento riacquisteranno corpo, il frutto sarà per nove decimi goduto dai nuovi azionisti ammessi, senza aver sofferto le ansie e le perdite del passato, a partecipare agli utili ed agli incrementi patrimoniali alla pari, azione per azione, con i vecchi azionisti.

 

 

7. – Il decreto recente sulle azioni preferenziali rende possibile diversa soluzione. Il bilancio “pubblico” non è mutato nella sua parte attiva (rimanendo cioè al tipo II m). È vero che i valori “di realizzo” giungono appena al totale di 110 milioni di lire; ma si possono trovare ottime ragioni per passar sopra al riconoscimento di un fatto brutalmente antipatico. Cui bono? Quale obbligo vi è, ove i diritti dei terzi non siano violati, di tener conto subito di fatti i quali, dopo tutto, hanno l’aria di essere fuggevoli, determinati dal tremendo uragano della crisi mondiale? Passata la tempesta, gli stabili e gli impianti varranno di nuovo 100; le scorte si riprenderanno da 40 a 50, i crediti ridiventeranno esigibili ed i titoli e le partecipazioni andran su di prezzo. Chissà forse, si riesca persino a ricuperare una parte delle riserve nascoste! Basta, in sostanza, riuscire a persuadere i creditori a convertire il loro credito in azioni “privilegiate” perché tutto si accomodi.

 

 

8. – Ambo le parti guadagnano alla transazione. I creditori rinunciano, è vero, a titoli di credito, fruttanti un interesse fisso e provvigioni dell’8% e muniti del diritto del rimborso pieno ad una scadenza data. Ma interesse e provvigioni non possono essere pagati da una società la quale attraversa brutti momenti e probabilmente chiude da qualche anno il conto profitti e perdite senza un saldo netto di utili, paga di tirare innanzi senza perdite. Gli interessi sono semplicemente scritti a credito, rendendo la situazione patrimoniale sempre più precaria. Non è meglio per i creditori rinunciare a quel che di fatto non si può ottenere e contentarsi invece di un privilegio? I cento milioni di crediti convertiti in azioni privilegiate conservano precedenza sul credito degli azionisti ordinari. Se la società otterrà utili, questi fino a concorrenza del 5, del 6 o del 7%, pongasi del 6%, rimarranno acquisiti agli ex creditori. È più sicuro un 6% eventuale, ricevuto quando gli utili esistano, che non un 8%, fisso e garantito, il quale, a pagarlo quando gli utili non bastano, manda in malora la società debitrice. È più certo il diritto delle azioni privilegiate al rimborso “eventuale”, con precedenza sulle azioni ordinarie, di cento lire, che non il diritto assoluto del creditore al rimborso delle stesse cento lire. Quest’ultimo si può esercitare solo provocando una liquidazione disastrosa delle attività sociali; laddove al primo potrà giungersi in tempi migliori, tranquillamente, con prelievi dagli utili o con opportuni realizzi di attività esuberanti. I creditori, del resto hanno convenienza a guardare, più che a rimborsi in blocco, alla possibilità di smobilizzazioni parziali e graduali. I titoli di credito che essi oggi posseggono sono praticamente irrealizzabili. A cagione del loro stato di congelamento, essi non possono formar oggetto di risconto presso altri istituti di credito o presso l’istituto di emissione; né di vendita a privati. Invece, c’è speranza di vendere alla spicciolata il blocco delle azioni privilegiate. Non oggi. Domani, quando, in virtù anche del risanamento avvenuto nella struttura finanziaria della società, la società avrà potuto pagare per due o più anni puntualmente il promesso dividendo del 6%, quando i mercati siano favorevoli, le banche creditrici potranno collocare tra i privati risparmiatori le azioni privilegiate senza sacrificio. Occorrerà, certo, creare a poco a poco per esse un mercato attivo. Non abbandonarle a sé medesime, come è accaduto per le obbligazioni industriali, che pochi acquistano, ben sapendo che a rivenderle si suderebbero sette camicie. I creditori preferirebbero, va da sé, in cambio dei propri crediti ricevere bei biglietti nuovi fiammanti di banca. Ma poiché gli ideali in questo basso mondo non sempre si possono realizzare, e la scelta è esclusivamente fra “crediti in frigorifero” ed “azioni privilegiate”, pare che indubbiamente la preferenza dei creditori debba essere a pro’ delle azioni.

 

 

9. – Gli azionisti che cosa perdono? Nulla, salvo il diritto astratto al recesso. Dico “astratto”, perché sarebbe grottesco che essi immaginassero di poter recedere portandosi via le 100 lire risultanti dall’ultimo bilancio approvato. Così dice l’art. 158 del codice di commercio. Ma poiché le 100 lire non esistono ed è gran mercé se ne trovino 10, è chiaro che il diritto non può essere esercitato. I creditori farebbero fallire la società prima della fuga, col marsupio, degli azionisti; ed avrebbero mille volte ragione. L’attivo sociale non garantisce forse in primo luogo i diritti dei creditori? Soddisfatti questi, agli azionisti rimangono dieci miserelle lire, non cento. Se si dovesse consentire il recesso, una brava assemblea generale riconoscerebbe il fatto della volatilizzazione delle attività e ridurrebbe il capitale nominale da 100 a 10 lire per azione. A questo punto, nessuno o quasi nessun azionista eserciterebbe il diritto di recesso. Epperciò la esclusione del medesimo diritto dichiarata dal decreto recente, la quale sarebbe grave se esistessero realmente le 100 lire, diventa irrilevante di fronte alla realtà. Contro al danno astratto e di fatto inesistente, il vecchio azionista ordinario ottiene taluni vantaggi rilevantissimi:

 

 

  • ha dietro o contro di sé non più 100 milioni di crediti, ai quali debba soddisfare un interesse fisso e un rimborso inesorabile a data certa; ma 100 milioni di azioni privilegiate a cui pagherà un dividendo del 6%, se e quando utili si otterranno e che rimborserà solo al momento della liquidazione statutaria della società;

 

  • non rinuncia ad alcun ricordo del passato e ad alcuna speranza per l’avvenire. Invece di rendere nuovi azionisti ordinari partecipi per nove decimi deboli utili futuri, come accadeva col metodo usuale delle svalutazioni e conseguenti ricostituzioni di capitale, il capitale vecchio è serbato formalmente intatto e ad esso vanno “tutti” gli utili futuri, “dopo” pagato il dividendo, pattuito ai privilegiati. Nelle borse, dove spesso si ragiona ad intuito ed impressioni momentanee, molti strillarono come se in questo modo agli azionisti ordinari si fosse tolto qualcosa. Non portavano via molto di più e più duramente i creditori? Il guaio sta nell’aver fatto in passato, forse inconsideratamente, debiti, non nel doverli ora pagare ridotti benignamente alla forma di azioni privilegiate. Basta riflettere alla situazione di bilancio conseguente alla emissione (nel tempo III bis) di azioni privilegiate per vedere come i vecchi azionisti se ne trovino bene:

 

 

 

Attivo

   

Passivo

 
Stabili, impianti  

100

Capitale sociale    
Scorte e merci in lavorazione  

50

Azioni vecchie ordinarie  

100

Crediti, titoli e partecipazioni  

50

——

Azioni nuove privilegiate 6%  

100

——-

   

200

   

200

 

 

La situazione, dal punto di vista sociale, è sanissima. Nessun debito: impegno di pagare il 6%, e cioè sei milioni di lire, se utili ci saranno; possibilità per la società di posporre il pagamento del dividendo privilegiato finché non si siano ricostituite, coi primi utili, almeno in parte, le riserve o, meglio, ricondotti i valori di mercato dell’attivo alla loro valutazione nominale di bilancio; e fondata speranza di giungere, col tempo, a poter di nuovo remunerare anche gli azionisti ordinari.

 

 

10. – In difesa del tirar giù, che fecero le borse, i prezzi delle azioni ordinarie, questo solo si può dire: gli uomini amano, come gli struzzi, cacciar il capo nella sabbia, pur di non vedere il nemico. Il nemico non sono le azioni privilegiate o l’abolizione del diritto di recesso. Sono i quattrini persi in passato. Non di rado le borse non si accorgono dei quattrini persi se non quando talun avvenimento clamoroso non attiri la loro attenzione. Le azioni della immaginaria società qui considerata valevano già 10 lire e nulla più; per ignoranza della vera situazione o per dimenticanza, i corsi si mantenevano, illogicamente, sulle 30 lire. Se oggi vanno giù a 10, causa del ribasso non sono le emissioni di azioni privilegiate o il tolto diritto di recesso. Mere occasioni codeste; ché la causa vera sta nel non esserci più i quattrini, ed essa non è rimediabile se non dalla saggezza, dalla prudenza e dal tempo.

 

 

11 – Qui è il vero punto dolente; e qui il problema delle azioni privilegiate si riattacca ai problemi più generali. Il successo del nuovo o rinnovato od allargato istituto, mera forma giuridica data ad una sostanza per ora non sperimentata, dipenderà soprattutto dalla risposta che il tempo darà a due domande:

 

 

  • quale indirizzo daranno gli azionisti privilegiati alla amministrazione della società di cui in effetto diventeranno i padroni, sia perché il capitale privilegiato sarà parte rilevante del capitale totale, sia perché essendo, almeno all’inizio, il suo possesso concentrato nelle mani delle banche creditrici, sempre accade che i grossi pacchetti di azioni prevalgano nelle assemblee? Giova riconoscere che gli ex creditori, divenuti azionisti privilegiati, non sono in tutto liberi nell’agire. Essendo quasi sempre banche, essi devono servire alla loro volta interessi ai depositanti e pagare le proprie spese di amministrazione. Se si vuole che le emissioni di privilegiate risanino veramente i bilanci delle società industriali, fa d’uopo che le banche si astengano e possano astenersi dal far deliberare dividendi su di esse fino al giorno in cui non solo gli utili esistano ma posano essere con sicurezza distribuiti. Non vedrei il vantaggio di una norma coattiva in tal senso. Occorre prevalga la persuasione che dividendi non guadagnati prematuri danneggiano nel tempo stesso creditori ed azionisti, e scemano la consistenza patrimoniale e quindi, in definitiva, il prezzo delle azioni. Non dovrebbero più ripetersi, almeno dalla generazione che ha vissuta la crisi attuale, gli errori del passato. Alle banche non conviene “rifilare” al pubblico azioni purchessia ed al più presto, per liberarsene; non conviene provocare movimenti al rialzo per scaricare pacchetti. Ciò fu fatto, con successo provvisorio, in passato. Furono guadagnati così milioni a centinaia; ma furono riperduti a migliaia. La banca ha sì, fra le sue funzioni più importanti, quella di assumere emissioni e collocarle tra il pubblico. Assumere emissioni sane, solide e curate fino a maturazione; attendere che il mercato si faccia a poco a poco e godere al giusto momento, – col collocamento tra i risparmiatori, a prezzo cresciuto, di quelli fra i titoli acquistati di cui per l’esperienza fatta si potrà moralmente garantire il buon fine, – compenso adeguato allo studio, alle cure ed ai rischi passati;

 

  • supponendo che le banche e gli altri enti creditori possano aspettare, riuscirà il pubblico a mutare la sua perversa mentalità in materia di azioni? Quando esisterà un nucleo crescente di risparmiatori i quali chiedano ai loro agenti di cambio azioni le quali diano un dividendo moderato o, meglio, non ne diano affatto, ma di cui si sappia che sono emesse da società le quali ora, in tempo di crisi, “lavorano” senza perdere; e domani quando ritorneranno a guadagnare, non distribuiranno un soldo di dividendo agli azionisti, fino al giorno in cui potranno dare il tre per cento, accantonando almeno altrettanto e poi il sei, mandando un altro sei a riserva e così via? Quando nelle assemblee gli azionisti chiederanno la parola per lagnarsi di amministratori, i quali hanno repartito dividendi eccessivi e presenteranno ordini del giorno per ridurre i dividendi proposti e costituire col risparmio riserve di garanzia? Quando accadrà che dal far ciò amministratori ed azionisti non saranno più dissuasi dal timore di vedersi denunciati come frodatori di imposte od avari sfruttatori di maestranze? L’esperienza ammonitrice del passato dovrebbe consigliare ai risparmiatori di non essere ingordi di grossi dividendi e di subiti guadagni capitali. “Dovrebbe”; se gli uomini posti di fronte al denaro non si infuriassero come il toro allo sventolio del panno rosso!

 

 

12 – A coloro i quali non sono ingordi, ma da tristi esperienze furono fatti peritanti, giova dire le ragioni per le quali l’azione privilegiata dovrebbe essere tenuta in Italia in maggior conto di quanto non sia accaduto finora, non soltanto come mezzo di risanamento di società imbarazzate, ma come strumento ordinario permanente di procacciamento di capitali. Mala è, a priori, la sua fama, per la confusione verbale sorta nella mente di molti tra essa ed un’altra specie di azione, quella privilegiata nel voto od a voto plurimo a cui io non darò più e vorrei più non desse nessuno il titolo di “privilegiata” per non confonderla con le vere privilegiate, che sono quelle preferite nell’interesse o nel rimborso del capitale. L’azione a voto plurimo fu certo una invenzione del diavolo al preciso preordinato scopo di far scappare i risparmiatori a gambe levate dagli investimenti in società per azioni. Chi può avere immaginato per un istante che uomini sani di mente potessero decidersi ad investire 10 milioni dei loro sacrosantamente sudati risparmi in acquisto di azioni ordinarie, sapendo che altri, più astuto, con la spesa di appena un milione in azioni privilegiate a voto plurimo poteva acquistare ugual diritto di voto nelle assemblee, ossia diventare di fatto, uno o pochi azionisti a voto plurimo valendo più di molti ordinari, padrone delle cose sociali? Si usino quante cautele si vogliano, si faccia finta di dar le azioni a voto plurimo agli azionisti ordinari, il succo dell’imbroglio è che coloro che hanno investito dieci sono nelle mani di quelli che avaramente cacciarono fuori uno. Cosa contro natura e che non dura. Chi dà i denari vuole almeno avere l’illusione di essere padrone del negozio. È vero che gli azionisti sono fatti per essere menati per il naso dagli amministratori; è vero che ci sono cento altri modi per condurli, occhi bendati, al macello; è vero, che grazie al sistema della catena, gli azionisti in carne ed ossa fanno la figura dei tirapiedi in confronto agli azionisti di carta; ed è verissimo che i più sono, dappertutto ed anche nelle società per azioni, tirati dai meno. Ma è vero anche che nel condurre gli uomini, e specialmente la sottocategoria di essi detta dei risparmiatori la quale ha sempre imbrogliato gli studiosi per la incertezza se classificarla tra le pecore o le lepri, un po’ di pudore non guasta. Pecore sì, e pronti a fare quel che gli altri fanno; ma anche lepri in fuga al più lieve stormir di fronde. I risparmiatori che sono già caduti nella padella, occorre si lascino friggere quando, con i dovuti sacramenti, un’assemblea si è lasciata persuadere a votare l’emissione di azioni a voto plurimo. Non vale far cause, ché cento avvocati di grido son pronti a dimostrare il loro torto marcio. Friggono; ma, dopo le ripetute esperienze, anche fuggono. Il che vuol dire vendono le azioni ordinarie malavventuratamente possedute e fanno gli scongiuri quando loro se ne offrono delle nuove.

 

 

Poiché questa è veramente una grave sciagura per il paese, occorre far onorevole ammenda dei passati trascorsi, se si vuole che a poco a poco, molto a poco a poco e molto adagio i risparmiatori riprendano coraggio. La fiducia andrà prima verso quelle società, le quali in passato non si sono strette in catena con pretese consorelle, o le quali ora quelle catene hanno rotto, riacquistando la propria indipendenza e rimettendosi a fare quel solo mestiere per cui erano nate. Essa andrà verso quelle società, le quali non hanno mai emesso azioni a voto plurimo o che riusciranno a far sì che i loro possessori rinuncino al malo diritto di contar per dieci o cinque laddove i colleghi ordinari votano per uno.

 

 

13. – Parmi che, se ci si ragionerà intorno con calma, a lume di buon senso, l’emissione di azioni privilegiate nell’interesse debba invece giovare al ritorno della fiducia. Dico delle emissioni a caso vergine, senza ritornare sullo scioglimento di ghiacciai recenti. Codeste azioni privilegiate, se paiono una novità in Italia, sono familiari altrove, specie nei paesi anglosassoni. Forse non v’ha società la quale non ne abbia emesso. Ve ne sono di ogni sorta: semplici, a cui si promette un dividendo del 7%, ad esempio, se “nell’anno” si sono ottenuti utili sufficienti; cumulative, alle quali, se in un dato anno il dividendo si può pagare soltanto nella misura del 2%, perché il saldo utile non consente di più, il resto fino al 6%, viene riportato; cosicché l’anno dopo, prima di poter dare alcunché agli ordinari bisogna pagare il 4% riportato dall’anno precedente ed il 6% dell’anno. Ho indicato, per le cumulative, il 6%, non perché il 6 od il 7% siano articoli di fede, ma perché, – se si paga il 7% alle privilegiate semplici, alle quali il dividendo è assegnato anno per anno e se non lo pigliano tutto nell’anno, vi devono rinunciar per sempre -, fa d’uopo pagar di meno alle privilegiate cumulative le quali corrono, grazie al riporto dei saldi non pagati, minor rischio.

 

 

14. – L’azione privilegiata risponde a siffatta caratteristica fondamentale della psicologia risparmiatrice che sempre mi meravigliai non sia stata sfruttata prima. È assiomatico che il risparmiatore è pecora, lepre ed anche coniglio; ma non è tanto coniglio da non aver talvolta velleità di coraggio. Il coraggio lo spinge innanzi; ma la paura lo trattiene. L’azione privilegiata risponde a siffatta posizione psicologica. Costui avrebbe il coraggio di “riscuotere” un buon dividendo; ma ha paura di azzardare i suoi giustamente bene amati quattrini. Scrivo scherzosamente solo per attirare l’attenzione sulla serietà delle cose dette. È errore, a parer mio grave errore, chiedere denari al risparmiatore in maniera a lui antipatica. Bisogna incoraggiare agli investimenti industriali con serie assicurazioni di quella massima sicurezza che negli affari è possibile. Non guadagnano nulla, né le società né l’economia nazionale, collo spaventare ed abbandonare a sé medesimi i fornitori di capitali. Tra questi ve ne sono taluni i quali sarebbero disposti a correre qualche rischio, non però tutto il rischio e non in pieno. L’azione privilegiata risponde all’esigenza. Il sottoscrittore corre qualche rischio, perché non gli si promette formalmente né il pagamento di un interesse fisso né il rimborso del capitale ad epoca data. Ma non corre tutto il rischio, perché se utili ci sono e se, all’atto della liquidazione, esiste un attivo netto, egli ha su di essi un privilegio. Prima lui, entro il limite stabilito per l’interesse, e poi l’azionista ordinario.

 

 

15. – Naturalmente, per essere attraente, occorre che il privilegio non sia una turlupinatura.

 

 

Il privilegio è serio, quando, a cagion d’esempio, una società con 20 milioni di lire di capitale ordinario emette 5 milioni di azioni privilegiate. Il capitale che lavora e produce è di 25 milioni. Basta che esso frutti, al netto da prelievi per riserve, assegni ad amministratori e simili, l’1,20% per poter pagare il 6% ossia 300 mila lire ai 5 milioni di capitale privilegiato. Bisognerebbe che le cose del mondo andassero ben male o che gli amministratori malversassero sfacciatamente per non giungere nemmeno a guadagnare l’1,20% sul totale capitale versato.

 

 

Il privilegio è una turlupinatura, se, fermo rimanendo il totale in 25 milioni, la proporzione tra le due qualità di capitale è rovesciata. Con 20 milioni in azioni privilegiate all’8% e 5 in ordinarie, la sicurezza per i privilegiati è evanescente. Essi hanno preteso ed ottenuto, invece del 6%, l’8%, perché sapevano di avere le spalle coperte da un troppo sottile velo di soldati di riserva (capitale ordinario) e chi può dar loro torto? Ma per distribuire l’8% su 20 milioni di capitale privilegiato bisogna aver guadagnato al netto 1.600.000 lire, ossia il 6,40% sul totale capitale versato e funzionante. Impresa non facile in tutti gli anni; impossibile normalmente negli anni di crisi anche non grave.

 

 

16. – Come di tutti gli istituti giuridici, si può dire dell’azione privilegiata che essa non funziona con successo di per sé. Occorre, come sempre, prudenza nell’uso, occhio attento in primissimo luogo all’interesse dell’impresa e alla sicurezza dei risparmiatori. L’azionista ordinario deve riflettere che il suo vantaggio coincide col massimo di sicurezza per l’azionista privilegiato. Quanto più questi si sente le spalle coperte da un forte capitale ordinario realmente esistente, tanto minori sono le sue pretese rispetto al dividendo. Se questo è cumulativo, può darsi che l’azionista privilegiato si contenti persino di meno di quanto pretenderebbe l’obbligazionista ipotecario. È più seria la promessa di pagare il 5% di dividendo cumulativo (più, eventualmente, ma l’aggiunta non è necessaria, uno 0,25% in più per ogni, ad es., 2% pagato all’azionista ordinario oltre il 10%) all’azione privilegiata che non quella di garantire il 6% all’obbligazionista ipotecario. Poiché le garanzie valgono in quanto l’impresa è florida, un carico minimo certo di interessi del 6% può in annate cattive essere oneroso e costringere a contrarre mali debiti; laddove invece il dividendo del 5% nelle annate sfavorevoli non si paga; e la società si rafforza, ponendosi in grado di rifarsi negli anni seguenti e di pagare l’arretrato.

 

 

17. – L’azionista ordinario, il quale tratti bene il privilegiato, ha il vantaggio di ottenere a buon mercato i servigi di una parte del capitale necessario all’impresa; e di tenersi per sé tutto l’utile di risulta. Pagato il 6% promesso al privilegiato, il resto, anche se fosse del 20 o del 30% spetta tutto all’ordinario. Il che è ben naturale correndo egli i primi e più incisivi rischi. I colpi delle crisi e delle disgrazie cadendo tutti sull’ordinario, bene è che egli goda l’intiero frutto della prosperità. Tutt’al più, si può concedere al privilegiato un piccolo contentino di partecipazione moderata agli utili eccedenti una data misura, che conviene fissare ad un relativamente alto livello a favore dell’ordinario. Trattasi di vendere la pelle dell’orso ed è meglio tenersi su.

 

 

18. – Uno zuccherino di alea favorevole, direi, convenga concederlo ai privilegiati, allo scopo di interessarli al progresso dell’impresa. Soprattutto prevalesse l’opinione, la quale parmi accettata tacitamente e pacificamente nella breve letteratura giornalistica venuta fuori negli ultimi giorni, che l’azionista privilegiato abbia, a parità di versato, gli stessi diritti dell’azionista ordinario. Suppongo naturalmente che il privilegio sia una cosa seria, nel senso definito sopra; ed in tal caso dico che il problema è meritevole di essere discusso a fondo. Può un azionista, il quale non corre quasi alcun rischio, i cui rischi sono in ogni caso di gran lunga minori di quelli dell’azionista ordinario, godere del medesimo diritto di voto, concorrere ugualmente nella scelta degli amministratori? Li gode forse l’obbligazionista al quale l’azionista privilegiato rassomiglia per parecchi rispetti? Da quel che ne so, per la lettura dei rendiconti di società inglesi pubblicati settimanalmente nell’«Economist», la pratica ha risposto di no. Regole generali sarebbero pericolose; le norme statutarie dovendosi inspirare al principio che ai privilegiati deve essere attribuita quella ingerenza negli affari sociali la quale sia necessaria a salvaguardare i loro interessi, non quella diversa ingerenza la quale recherebbe nella amministrazione i criteri ultraprudenti peculiari a creditori pavidi di vedere le garanzie proprie messe in forse da una politica di audaci iniziative. A costo di passare per codino, la teoria del giusto mezzo mi pare la ottima. Espedienti di assemblee separate a taluni effetti e riunite ad altri effetti potranno essere consigliati dall’esperienza. Per ora, importa soprattutto dare prudente inizio alla nuova esperienza. L’idea che le azioni privilegiate possono essere un conveniente mezzo di investimento dei risparmi deve penetrare spontaneamente nella testa dei risparmiatori, senza baccano di pubblicità. Ma perché l’idea prenda posto tra gli assiomi comunemente accettati senza discussione, occorre che i dirigenti la applichino con discrezione, con prudenza, con abborrimento da tutto ciò che possa favorire azionisti ordinari a danno dei privilegiati o viceversa, od avvantaggiare banche creditrici a danno di società debitrici. Solo ciò che è concepito ed attuato seriamente dura e prospera.

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