Opera Omnia Luigi Einaudi

A proposito della Tripolitania. Ottimismo o pessimismo coloniale?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/12/1911

A proposito della Tripolitania. Ottimismo o pessimismo coloniale?

«La Riforma Sociale», dicembre 1911, pp. 748-763

 

 

 

Il coraggio, col quale l’amico prof. Einaudi ha cercato in questa Rivista ed altrove di far udire una parola severa di verità in mezzo all’infatuazione coloniale dell’opinione pubblica italiana, è degno delle tradizioni da lui così bene seguite e mantenute dei grandi economisti.

 

 

Tanto più merita lode il prof. Einaudi in quanto egli è un antico e convinto fautore dell’espansione economica italiana – come l’ha provato da tempo il suo bel libro “Un principe mercante” (1899) e nel caso presente, a parte i metodi di conquista, che io credo essere d’accordo con lui a deplorare, egli giudica possibile di fare nella Tripolitania una politica di civiltà, dalla quale ridondi onore immediato al nostro paese ed anche un utile per le nostre future generazioni.

 

 

Certamente, se le condizioni, che il prof. Einaudi mette per la riorganizzazione politica ed economica della Tripolitania da parte del Governo italiano, dovessero essere adempiute, noi potremmo dire più tardi di avere, con esempio più unico che raro nella storia, realizzato l’ideale della perfetta politica coloniale, che dovrebbe consistere esclusivamente in un’opera lunga e meritoria di abnegazione altruistica a favore della causa dell’incivilimento dei popoli inferiori ed a benefizio, anche materiale, di posteri molto lontani.

 

 

A questi patti sarebbe pure, sino ad un certo punto, giustificata la moralità della nostra presente impresa coloniale, almeno quale era essa raffigurata nelle prime e fantastiche descrizioni dei suoi fautori, quando si volle far credere al popolo italiano che il nostro intervento era reclamato dagli stessi abitanti indigeni della Tripolitania allo scopo di potersi, mercé il nostro aiuto, liberare dalla oppressione esosa e sfruttatrice dei Turchi.

 

 

Per certo, sarebbe stato un bellissimo e nuovissimo spettacolo quello di un grande e civile paese, il quale, in un impeto commosso e durevole di generale entusiasmo, si sacrifica volontariamente per la redenzione morale ed economica di un popolo meno civile, che a lui tende le braccia, e per preparare la gloria e la fortuna della patria in una età remota!

 

 

Ma è qui precisamente dove il mio scetticismo, per verità non spontaneo, ma cresciuto dolorosamente nella esperienza pratica della vita, non mi consente di sperare nella possibilità che sia realizzata alcuna delle condizioni che l’amico prof. Einaudi giudica essenziali per la condotta felice ed il buon successo della nostra nuova politica coloniale.

 

 

Mi permetta il prof. Einaudi e mi permettano i lettori della Riforma Sociale di accennare brevemente, punto per punto, le ragioni di fatto, sulle quali il mio scetticismo è fondato.

 

 

* * *

 

 

  • 1) Dice il prof. Einaudi: Essere il sin qui fatto bene auspicante, ma purtroppo piccolissima cosa in confronto al tanto di più che ci rimane da fare.

 

 

Su questo punto il dissenso mio non è grande, perché il prof. Einaudi ha messo sopratutto in evidenza il pochissimo incremento dei nostri traffici colla Tripolitania, mentre esisteva colà il regime doganale turco, un vero regime libero-scambista in confronto a quelli che esistono nella maggior parte degli altri Stati.

 

 

Inoltre, il prof. Einaudi fa una critica assai giusta dell’opera esercitata in Tripolitania dal Banco di Roma, opera che, se può essere spiegata con criteri estranei all’economia politica, è certamente in contraddizione coi principii più saldi non meno dell’arte bancaria che della politica coloniale.

 

 

Indubbiamente, nelle sue iniziative tripoline il Banco di Roma non si è mostrato animato da spirito di altruismo, ché non si va a cercare l’altruismo in mezzo ai banchieri, ma neppure da un interesse bene inteso ed a lunga veduta. Tutti coloro che hanno potuto visitare nella recente Esposizione di Torino la mostra speciale delle industrie promosse e sovvenzionate a Tripoli per cura del Banco di Roma non possono essersi fatta un’idea molto lusinghiera di simili iniziative tanto decantate. Da quanto se ne può sapere, pare che, dopo lo sbarco delle truppe italiane a Tripoli, gli affari del Banco prosperino molto meglio. Uno studio molto interessante da fare – ma che difficilmente potrà mai essere fatto – sarebbe quello del bilancio del Banco do Roma al 31 dicembre 1911, nella ipotesi che il Governo italiano avesse definitivamente deciso di non fare la spedizione tripolitana.

 

 

  • 2) Essere necessario bandire ogni idea di lucro per lo Stato.

 

 

Il prof. Einaudi spiega il suo pensiero dicendo che bisogna non solo escludere a priori ogni speranza che la nuova colonia possa mai essere produttrice pel bilancio dello Stato, ma anche acconciarsi all’idea che l’impresa ora iniziata è un’opera di sacrifizio per lo Stato, ossia per i cittadini italiani considerati nella loro qualità di contribuenti, senza alcuna speranza di ritorno prossimo o lontano: Come condizione ideale sta benissimo. Ma crede davvero il professore Einaudi che una tale concezione della politica coloniale intesa come l’adempimento di un alto e severo dovere sia mai per entrare nelle menti della grande maggioranza dei nostri neo-colonialisti, sedotti al miraggio della nuova Terra Promessa italiana, che si sono sentiti venire l’acquolina in bocca al pensiero dei fichi catoniani rimessi in voga dal Bevione e sognano ad occhi aperti le favoleggiate ricchezze minerarie ed agricole della nuova colonia, di cui il fato e la preveggenza del Governo hanno fatto un dono gratuito e provvidenziale all’Italia?

 

 

Ad ogni modo, credo di essere nel vero, pensando che molta gente in Italia continua a cantare gli inni patriottici ai reggimenti che partono per la guerra e ad applaudire le gesta cinematografate di questa, sopratutto perché è fermamente convinta che le spese si fanno cogli, avanzi messi in riserva del bilancio italiano. Io temo forte, ed il prof. Einaudi deve essere su per giù della mia stessa opinione, che l’entusiasmo bellicoso di una gran parte del pubblico italiano sbollirà per incanto il giorno in cui sarà presentata ai contribuenti la nota da pagare per – supponiamo – un mezzo miliardo di lire spese per la conquista coloniale. Ed un mezzo miliardo, se potrà essere, e speriamo che sia, sufficiente per la guerra, sarà un nulla in confronto di quello che a pace avvenuta costerà l’organizzazione della colonia e la sua messa in condizione di poter in un avvenire molto lontano bastare a sé stessa.

 

 

  • 3) Essere necessario limitare il più possibile i lucri gratuiti e privilegiati di particolari gruppi di cittadini italiani.

 

 

Programma splendido ed onesto! Ma bisognerebbe non essere in Italia per credere alla sua attuazione. Dov’è, non dirò il Governo, ma l’uomo di Stato italiano, che abbia insino ad oggi avuto il coraggio d’inalberare un tale programma sulla sua bandiera politica? Che osi farsi il rappresentante degli interessi generali del paese in opposizione agli interessi dei gruppi potenti e privilegiati, che fanno i loro affari dal Parlamento? Se c’è un tale uomo, si faccia avanti, e, da qualunque parte venga, qualunque siano i suoi precedenti, lo saluteremo come il Robert Peel liberatore dell’Italia!

 

 

Ma, per intanto, come possiamo sperare che i nostri siderurgici, i nostri zuccherieri, i nostri trivellatori, dell’erario nazionale in fraterna combutta colla nostra grande aristocrazia fondiaria siano per rinnovare, adesso che avranno il modo di allargare proficuamente il campo della loro attività trivellatrice, l’esempio unico nella storia dell’aristocrazia francese, rinunciando spontaneamente ai loro legali, ma non legittimi privilegi? è vero – suggerisce il mio indurito scetticismo – che nella notte famosa del 4 agosto 1789 gli aristocratici francesi facevano il bel gesto di dare via dei titoli, che oramai nelle loro mani avevano perduto ogni effettivo valore, mentre la cosa va ancora altrimenti per i privilegi di cui godono i gruppi italiani, che il prof. Einaudi vorrebbe escludere assolutamente da ogni influenza nella nostra politica coloniale.

 

 

Del resto, il precedente già citato ed a tutti noto del Banco di Roma è là per provare di quale natura sono le forze economiche e commerciali che hanno agito sul Governo e sulla opinione pubblica a mezzo dei giornali per far decidere ed iniziare l’impresa tripolitana.

 

 

Vuole qualche altra prova il prof. Einaudi che questa sua condizione alla politica coloniale è lontanissima dal poter essere realizzata? Legga la corrispondenza da Roma dell’on. Cirmeni nella Stampa del 25 novembre 1911, in cui si spiega, con un meraviglioso semplicismo, come tutta l’opposizione che vien fatta all’estero alla nostra nuova politica coloniale è inspirata e dettata dagli interessi delle grandi Banche internazionali, che temono veder diminuito il loro dominio a favore delle Banche italiane!

 

 

Secondo l’on. Cirmeni “quella bancocrazia che ha sfruttato anche il nostro paese fino a pochi anni addietro, non sarebbe stata contraria a questa guerra, pur preferendo la Turchia, se Giolitti le avesse permesso di sfruttare l’impresa tripolina”.

 

 

E continua l’ufficioso corrispondente dell’ufficioso giornale di Torino: “Ma Giolitti si è intestato nel riservare all’Italia ed agli Italiani il campo vergine della nuova colonia tanto vicina: da un lato ha messo il catenaccio su tutto il territorio della Tripolitania e della Cirenaica col recente decreto-legge e dall’altro lato lascia soltanto a Banche puramente italiane la prospettiva di fare col tempo onesti affari in Tripolitania e in Cirenaica…”.

 

 

Oh! gli onesti affari in regime di protezione e di mercato chiuso il prof. Einaudi ed io li conosciamo molto bene!

 

 

L’unica speranza che a me resta al proposito è che, quando si concluderà la pace colla Turchia per l’intervento e la mediazione delle altre potenze, ci venga imposto di conservare e rispettare in Tripolitania il regime della “porta aperta” come lo ha l’Inghilterra in Egitto e come sarà costretta a mantenerlo la Francia nel Marocco.

 

 

Ma sentiremo allora che sorta di improperi tutti i nostri giornali imperialisti e protezionisti getteranno addosso al Governo che avrà accettata la pace a condizioni così umilianti per i nostri siderurgici ed altri siffatti trivellatori dell’erario nazionale.

 

 

  • 4) Essere lenti e costosi gli eventuali benefici della colonizzazione.

 

 

Le cose già osservate valgono anche per questo punto. La pazienza dei lunghi investimenti non è mai stata la virtù caratteristica dei capitalisti italiani nella madre-patria. Quale probabilità c’è che una tale virtù debba rifulgere nelle nuove imprese coloniali? Quanto a quei nostri concittadini che emigrano in cerca di lavoro e di impieghi è il bisogno più immediato che li spinge. E tutto il fanatismo destato ad esempio in Sicilia dalla impresa tripolina ha per solo motivo ed alimento la furiosa speranza di molti contadini ed operai agricoli di poter immediatamente migliorare la loro misera condizione mediante il prospettato miraggio d’una colonizzazione in terra italiana sussidiata largamente dal Governo italiano. Forse che i 20 mila e più Italiani che hanno – si dice – domandato i passaporti per Tripoli sono gente che possa aspettare i suoi guadagni di qui a dieci o venti anni?

 

 

Del resto, anche l’Eritrea fu al suo tempo rappresentata pittorescamente, e forse con condizioni naturali di clima e di suolo più favorevoli di quelle che offre la Tripolitania, come la futura Italia africana. I risultati li vediamo oggi nei neanche 4000 italiani che si sono stabiliti in quella colonia.

 

 

Sarebbero pure da raccontare sotto questo capitolo i casi delle nostre Società di colonizzazione: dalla Coloniale Italiana a quelle per la coltivazione del cotone e per l’estrazione dell’oro dalle miniere dell’Eritrea, senza dimenticare nel novero la Società del Benadir.

 

 

* * *

 

 

Torna inutile notare che io sono interamente d’accordo coll’amico prof. Einaudi nella parte del suo articolo, nella quale egli analizza acutamente e critica da par suo la stolta tendenza che esiste in Italia a voler ascrivere costantemente all’opera nefasta e malvagia della speculazione ribassista la causa per cui i nostri titoli di Stato e privati non continuano a salire illimitatamente a seconda delle folli speranze degli speculatori aumentisti.

 

 

La difesa delle “bande nere” fatta dal prof. Einaudi è veramente magistrale e meriterebbe essere stampata a parte e distribuita come libro di testo nelle nostre scuole secondarie, dalle quali usciranno i nostri futuri uomini d’affari, acciocché col tempo più non si verifichi quello che, come a me, sarà capitato più volte al prof. Einaudi di interpellare qualche banchiere o qualche amministratore di Società anonime sulle cause che avevano potuto determinare un tracollo delle loro azioni sui listini della borsa e di averne avuto per sola risposta: “Per causa delle bande nere”.

 

 

Ma purtroppo quelli, che avrebbero maggior bisogno di prendere essi stessi e di mandare i loro figliuoli a prendere lezioni di economia politica dal prof. Einaudi, seguono invece e seguiranno i corsi di astrologia bancaria dell’on. Cirmeni e di altrettali dottissimi maestri, i quali sono sempre intenti a spiare le gesta orribili della “bancocrazia europea” ed a svelare periodicamente, coll’almanacco delle borse alla mano, le influenze di quella data misteriosa che è la “fine mese” sulle vicende della guerra italo-turca e sui corsi della rendita italiana.

 

 

È da supporsi che il Governo italiano, del quale fa parte attualmente il prof. Nitti, che in fatto di economia politica non è davvero l’ultimo venuto, non creda affatto a simili panzane degne di sonnambule da fiera rurale.

 

 

Però i ministri sono uomini e quindi soggetti ad errare, e non è certo in tempo di guerra che si può ragionevolmente presumere che i ministri siano maggiormente immuni da questa umana debolezza comune.

 

 

Gioverebbe quindi assai poco ai ministri la diffusione delle verità scientifiche insegnate dal prof. Einaudi e giova invece loro moltissimo la superstizione sistematicamente divulgata e mantenuta da tutti i più o meno disinteressati astrologhi ufficiali ed ufficiosi.

 

 

Figuriamoci se proprio in tempo di guerra contro i Turchi i ministri non hanno interesse a battere sulle teste di Turchi degli speculatori al ribasso ed a scaricarsi delle proprie responsabilità, buttandole addosso alle “bande nere” infami ed antipatriottiche!

 

 

* * *

 

 

Vengo anch’io alla conclusione.

 

 

Il prof. Einaudi non si nasconde i pericoli e gli svantaggi della nuova impresa coloniale, fra i quali non dimentica di collocare la tentazione quasi irresistibile che avranno i ministri ed i deputati di riaprire l’era disastrosa dei disavanzi e di far cadere sui nostri posteri la maggior parte del costo dell’attuale spedizione, ma per intanto egli scorge in questa ottimisticamente il vantaggio di avere dimostrato che in Italia “si respira un’aria diversa da quella di prima e si vive in un ambiente diverso da quando si discuteva intorno al monopolio delle assicurazioni”.

 

 

Un tale ottimismo a me pare non giustificato.

 

 

L’entusiasmo suscitato in molti Italiani dall’impresa tripolina non mi sembra di natura sostanzialmente diverso da quello che infiammava la maggior parte dei fautori del disegno governativo per il monopolio delle assicurazioni. Nell’un caso come nell’altro, a me sembra che l’elemento prevalente sia la cupidigia mal frenata della roba altrui.

 

 

Per prova valga questo resoconto, che tolgo dal Corriere della Sera, del discorso ultrapatriottico pronunciato dal Sindaco di Milano nella adunanza di quel Consiglio comunale del 28 novembre u. s. “La seduta ebbe principio alle ore 21.30. Il Sindaco, terminato l’appello ed aperta la seduta, ha detto: La guerra, che appariva già imminente quando ci siamo separati l’ultima volta, è poi veramente scoppiata e continua tuttora, ostinata, ma vittoriosa.

 

 

Si è domandato con quale diritto noi l’avevamo dichiarata. La stessa domanda fu fatta a Vittorio Emanuele ed a Cavour quando mossero la guerra al Regno di Napoli, né la stampa europea ci era più benevola allora di adesso.

 

 

In quel tempo la risposta fu che il nostro diritto di guerra si fondava sul diritto nazionale.

 

 

Oggi, al diritto nazionale possiamo aggiungere o sostituire un diritto universale, un diritto umano, il diritto di sfruttare i beni di Dio, di fecondare col nostro lavoro terre squallide e abbandonate.

 

 

Due terre, infatti, si trovano di fronte, l’una sovraccarica di popolazione, l’altra quasi deserta.

 

 

Un uomo barbaro e misero occupa sulle spiaggie di Tripoli altrettanto terreno quanto cento sul lato opposto del mare fecondano coll’opera loro. Il lavoratore italiano, esuberante in patria, disse al padrone della terra vicina: Lasciate che io goda di tanti beni di Dio inutilmente sciupati; vi darò largo indennizzo del poco guadagno che ora ne traete e trasformerò in un giardino la terra, come fecero gli avi degli avi miei, i cui monumenti attestano che cosa l’uomo civile vi possa operare.

 

 

La domanda fu fatta invano per molti anni, finché fu ripetuta con la minaccia e con la forza.

 

 

L’evidenza del bisogno di nuove terre rese subito popolarissima la guerra nelle nostre regioni meridionali, dove l’emigrazione è più necessaria e più facile l’accesso alla spiaggia vicina e dove il popolo meglio conosce il valore del nuovo nostro paese.

 

 

Vi si associò con entusiasmo anche il settentrione, poiché l’unità dell’Italia è ormai così salda che ogni parte di essa sente che tutto ciò che può rendere più grande, più rispettata, più ricca la patria costituisce un unico interesse comune, che è dovere comune di propugnare.

 

 

Tutti vogliamo una Italia potente, tutti siamo orgogliosi che tale essa si mostri.

 

 

Con questi sentimenti l’Italia tutta salutò i baldi soldati che partivano per le terre africane.”

 

 

Se è il primo magistrato conservatore di Milano a professare i principii di un così brutale colonialismo, tra gli applausi della sua maggioranza ed i cori di lode di tutta la stampa moderata italiana, immaginiamoci un po’ se simili sentimenti non sono per buona parte almeno la causa determinante dell’attuale infatuazione tripolina!

 

 

All’entusiasmo succederà, prima o poi, la delusione. Per intanto, a me pare che il prof. Einaudi si illude grandemente supponendo di trovarsi di fronte “ad un’azione solidale di tutti per una impresa di civiltà”.

 

 

Una siffatta illusione non regge dinanzi ai fatti già avvenuti, i quali purtroppo dimostrano una rapida retrocessione dell’Italia dal tipo di civiltà moderna-industriale, a cui andava lentamente, ma progressivamente avviandosi, verso il tipo arretrato di società barbarica-militarista. Lascio da parte le pazzie futuriste della “guerra-igiene del mondo”, ma quello che mi sembra meno dubbio è che la guerra vittoriosa – come oramai bisogna tutti augurarla per evitare un maggiore disastro nazionale – produrrà fatalmente i suoi effetti: oltre agli aumenti inevitabili dei carichi militari e delle spese improduttive, un nuovo sopravvento degli istinti meno nobili del popolo italiano, una recrudescenza dei reati di violenza e di sangue, un diminuito amore per il lavoro tranquillo e produttivo.

 

 

Politicamente possiamo già constatare che la guerra di conquista ha soppresso in Italia non soltanto il funzionamento normale del sistema parlamentare, ma anche la libertà pratica delle minoranze ed il diritto di discussione, di critica e di controllo dell’opera governativa.

 

 

L’on. Luzzatti, ex presidente del Consiglio e, salvo errore, professore di Scienza costituzionale alla R. Università di Roma, ha (Sole dell’1 dicembre 1911) suggerito al Governo di adoperare i pieni poteri, che si è attribuiti per la guerra, altresì per assicurare la “pace economica”, mediante provvedimenti a favore delle industrie italiane sulle quali pubbliche indagini furono fatte.

 

 

Come vede il prof. Einaudi non c’è molto da sperare nella nuova politica coloniale per diminuire e limitare i lucri dei gruppi privilegiati di cittadini Italiani!

 

 

Il Parlamento sta chiuso indefinitamente, senza che alcuno protesti, meno di tutti i deputati, i quali, 99 su 100, sono lietissimi di rimanersene a casa e di non essere obbligati ad esprimere una opinione qualsiasi pro o contro la guerra.

 

 

Nel che, è mortificante il doverlo riconoscere, i nostri nemici ci sono maestri in fatto di libertà e di costituzionalismo.

 

 

Il Parlamento turco è aperto regolarmente, nonostante la guerra, ed i rappresentanti del paese possono discutere ed approvare i bilanci ed i provvedimenti straordinari del Governo.

 

 

Noi siamo ridotti, in Italia, a prestar fede ai bilanci artefatti del ministro Tedesco, coi quali ci si vuol far credere alla esistenza di avanzi che non ci sono.

 

 

Basti il dire che il ministro per fare le sue rosee previsioni non tien computo di quello che costerà la guerra e la conquista della Tripolitania dall’1 dicembre 1911 e conta 40 milioni annui di utili dall’esercizio delle ferrovie di Stato, che sono soltanto il risultato di una manipolazione logismografica.

 

 

Posso augurare di cuore che i fatti ulteriori abbiano a darmi torto e a dare ragione alle speranze dell’amico prof. Einaudi.

 

 

Ma domando a lui stesso se, allo stato attuale delle cose, il mio pessimismo non sia molto più giustificato che non il suo ottimismo coloniale.

 

 

Edoardo Giretti.

 

 

Le osservazioni critiche che l’amico Giretti muove al mio articolo sulla Tripolitania fanno certamente riflettere. Ognuno che abbia pensato, con animo intento al bene generale, al nuovissimo problema coloniale, si sarà trovato in certi momenti in un’ambascia crudele. Certo è che l’impresa potrà essere feconda di bene o partorire acerbissimi disinganni, a seconda che prevarranno le volontà ardimentose e pazienti degli amatori della piccola Italia, ossia dei veri fondatori di colonie, animati da spirito di sacrificio, o gli appetiti voraci dei banditori della grande Italia, ossia dei falsi colonialisti che nella colonia vorranno trovare un nuovo campo di iniziative privilegiate.

 

 

Il problema non può invero essere impostato pro o contro la Tripolitania, la lotta non è, in realtà, tra avversari e fautori delle colonie. Questa mi sembra una concezione unilaterale del fenomeno. Faccio per il momento astrazione dal lato politico del problema, e non mi chiedo quali sarebbero state le conseguenze militari-politiche dell’insediarsi di un altro Stato sulle coste fronteggianti la Sicilia e le Calabrie; perché su questi punti mancano dati per un giudizio preciso, e il giudizio in ogni modo esorbita dai confini strettamente economici che mi sono imposto. Ma anche astraendo dal pericolo della occupazione della Tripolitania da parte di un altro Stato, pericolo che, se reale, avrebbe da solo legittimato ogni maggiore sforzo per evitarlo, molti sono i fattori economici dei quali è d’uopo nella discussione tener conto. Io sono fautore dell’impresa coloniale, purché se ne dichiarino apertamente i costi immediati per la collettività e non si pretenda di renderla vantaggiosa ai colonialisti di oggi: ecco in poche parole il succo della mia tesi.

 

 

Nella qual tesi sostanzialmente io sono convinto di essere d’accordo con Edoardo Giretti, almeno dacché la impresa è stata iniziata. Il dissenso è solo apparente, di angolo visuale. Egli è pessimista e vede le forze malvagie che hanno decisa no, perché la decisione fu dovuta ad esplodere di sentimenti ideali e patriottici, ma vorrebbero sfruttare la guerra: e crede che purtroppo queste forze, convertitesi in propugnatrici di una falsa “più grande Italia” riusciranno a volgere ai loro fini la conquista. Io non nego l’esistenza delle forze malvagie; ma affermo che il compito più urgente ora è quello di praticamente combatterle, agitando i principii di libertà che soli consentirono alla “piccola Italia” di gittare le fondamenta della “più grande Italia” dell’avvenire, e consentiranno alla colonia di prosperare.

 

 

Né il dissenso potrebbe essere profondo, tra due che parlano lo stesso linguaggio e si sono abbeverati alle medesime fonti. Siamo tanto pochi in Italia i liberisti – forse si possono contare sulle dita delle due mani – che una contesa di principio tra noi non è davvero possibile. Possibile e feconda invece è la disputa sui mezzi meglio atti a raggiungere i comuni ideali.

 

 

Infeconda sarebbe al contrario la disputa a cui mi hanno invitato sull’Avanti! e sulla Critica Sociale i capi del socialismo riformista d’Italia. Su taluni punti particolari ho risposto sull’Avanti! e replico qui stesso. Ma sulle linee fondamentali la discussione avverrebbe tra genti che parlano un linguaggio diverso. I socialisti nulla vogliono concepire fuor del momento presente e fuor degli interessi attuali delle classi che essi dicono di rappresentare o di combattere. Essendosi fatti patroni di una delle tante camorre che deliziano l’Italia, essi fanno gli stessi ragionamenti (rovesciati) che potrebbe fare un qualunque agrario, siderurgico, bottegaio e via dicendo. Essi non riescono ad immaginare che ci siano degli uomini, sia pure anacronistici, ma non ancora del tutto scomparsi dalla faccia d’Italia, che han nome economisti (aggiungiamo per chiarezza liberisti), che parlano o son convinti di parlare nell’interesse generale; e che ragionano di sacrifici presenti in rapporto a benefici futuri. Sono tanto abituati a mutare repentinamente atteggiamento nei loro congressi che ritengono tutti capaci di pensare e scrivere bianco per un giornale e nero sulla propria rivista. Sono tanto abituati a fare unicamente i conti della serva, che in perfetta buona fede dicono che la mia è tutta una finta e che ho voluto soltanto scherzare quando ho parlato dei vantaggi prospettivi dell’impresa Tripolitana. Scambiano per un inchino istrionesco all’idolo del giorno quello che era invece una religiosa difesa del tempio contro i filistei che vorrebbero subito sfruttare il sacro fervore nazionale colla vendita delle indulgenze e dei benefici.

 

 

Ragionare per ischerzo non giova. Or dunque discorriamo sul serio tra noi “piccoli italiani” e veraci amatori della più grande Italia.

 

 

* * *

 

 

L’impresa tripolitana non sarà un ostacolo e potrà essere una spinta al progresso della civiltà industriale in Italia, che a ragione sta tanto a cuore a Giretti ed a me pure, se:

 

 

  • 1) noi ci faremo quasi imprenditori della risurrezione economica di quelle contrade, aprendo una regione, finora resa inaccessibile di fatto dal malgoverno turco, al capitale ed al lavoro europeo, e cioè al lavoro italiano e arabo (dei lavoratori di altre nazioni è inutile discorrere, perché non vi andranno, e se ci andassero dovrebbero essere i benvenuti) ed al capitale in genere dei paesi dove il capitale è esuberante.
  • 2) se, per raggiungere tale intento, sguerniremo di capitale e di lavoro taluni impieghi parassitari che si sono venuti sviluppando nella madre patria. Ci sono in Italia gruppi di lavoratori organizzati che riescono con turni di lavoro, con camorre bene congegnate a vivere in molti, poco lavorando, laddove un minor numero potrebbe esuberantemente bastare. Se una parte dei braccianti del Ravennate e dei lavoratori del porto di Genova si potessero mandare a loro rischio in Tripolitania, non ci sarebbe qualcosa di guadagnato per la società intiera, anche se laggiù rendessero dapprima poco? anche se dovessero essere mantenuti, a spese del bilancio coloniale, con salari di concorrenza con gli altri italiani e privilegiati in confronto alle paghe date agli arabi? Tanto, in patria, rendevano ancor meno. C’è in Italia una certa porzione del risparmio nazionale che si ostina ad andare nelle casse postali di risparmio al 2,64%, e da questa abitudine nasce il pericolo che, crescendo queste offerte di denaro allo Stato, i governanti si sentano stimolati a crescere, a loro volta, tutte quelle statizzazioni, municipalizzazioni che sono divenute l’ubbia, l’idea fissa dei politicanti a spasso, in cerca di popolarità. Mandiamolo in Tripolitania questo capitale contento di redditi modesti, a scavare porti, costruire strade, serbatoi d’acqua, ferrovie, ecc. ecc. Lavoreremo per le generazioni venture e otterremo il vantaggio presente che i governi a corto di quattrini e minacciati dal disavanzo, commetteranno in patria meno sciocchezze. Ci sono in Italia degli imprenditori che non ottengono credito dalle banche ed almanaccano schemi grandiosi di credito industriale, secondo cui le Casse di risparmio sarebbero messe a contribuzione semi-forzata per comprare qualche miliardo di obbligazioni industriali. È un proposito pazzesco, – che non può avere seguito, perché i miliardi disponibili non ci sono, e, non esistendo, non possono essere adoperati a provocare delle crisi. Ma se il governo dovrà emettere un prestito per le opere d’impianto nella colonia ed assorbirà perciò i modesti fondi disponibili delle Casse di risparmio, queste contribuiranno ad un’impresa che alla lunga può diventare riproduttiva e si salveranno dal disastro di dovere condiscendere alle richieste di qualche siderurgico, bisognoso di sistemarsi finanziariamente, di qualche progettista, capace colle influenze politiche di ottener quei, denari a cui la sua deficiente abilità tecnica e commerciale non gli dava diritto.

 

 

È vero che di imprese di lunga lena, non remunerative se non a scadenza lontana e adatte a utilizzare quel lavoro e quel capitale che altrimenti avrebbero una funzione parassitaria, se ne potrebbero concepire senza la Tripolitania: rimboschimento, edifici scolastici, serbatoi, prosciugamento di paludi, ecc. ecc. Purtroppo però tutte queste belle cose non si fanno:

 

 

  • 1) perché non è conveniente di farle a scapito di altre imprese più immediatamente e largamente produttive; e questo è un argomento che vale anche per la Tripolitania;
  • 2) perché, mentre sarebbe conveniente sguernire all’uopo gli impieghi parassitari, gli interessati in questi ultimi, ossia i “trivellatori”, i “turnisti”, i “protetti”, sono più forti di coloro che desiderano risanare ed elevare il Mezzogiorno e le isole; epperciò non se ne fa nulla. Per rompere la fitta cerchia delle coalizioni parassitarie occorre un fatto nuovo, grande, che commuova l’anima nazionale, che ci impegni dinanzi all’Europa, che ci renda impossibile di ridurci a far brutta figura. In questo senso l’opera di colonizzazione può essere feconda di bene. Sarà un bene prospettivo remoto, ma sarà un bene. Le imprese coloniali hanno questo di nobile ed alto: che elevano l’animo al disopra delle piccole contingenze presenti, lo fanno pensare al futuro, lo abituano alla nozione delle vicende che compiono il loro ciclo nei secoli, e lo rendono capace di rinuncie.

 

 

L’uomo di Stato, che sa di dover profondere nelle colonie i miliardi dei piccoli risparmiatori e sa di dover mettere nuove imposte sui contribuenti per il bene delle posterità, parmi sia posto in una situazione elevata e capace di resistere alle sollecitazioni dei falsi lavoratori e dei falsi capitalisti che vogliono vivere alle greppia dello Stato. Può essere un male che questa esaltazione dello spirito pubblico contro le imprese dei “trivellatori del pubblico bilancio” non sia cagionata dal desiderio di giovare alla resurrezione delle regioni abbandonate dalla madrepatria; ma per ora questo è un dato di fatto. Se questa esaltazione si ottiene invece per un’impresa coloniale, sia essa la benvenuta. Tanto più che parmi questa nuova tendenza dello spirito pubblico non debba alla lunga nuocere alla causa della cultura e del Mezzogiorno. I governanti d’Italia, costretti dalle promesse solenni odierne e dal controllo dell’opinione pubblica internazionale, che abbiamo preso a testimonio dei nostri propositi civilizzatori, non potranno non dedicare sforzi diuturni per compiere le grandi opere materiali della civiltà in Tripolitania. Come potranno essi sottrarsi allora alla pressione dell’opinione pubblica italiana la quale pretenderà nelle regioni meridionali, liguri-appenniniche, sarde, aride e sitibonde di acqua, di scuole, di strade, di bonifiche, almeno gli stessi lavori che verranno compiuti nella Tripolitania? Questa sarà una perpetua pietra di paragone per noi. Nulla potrà farsi laggiù, che non si faccia eziandio nella madrepatria. Sarà spesso, importa avvertirlo, una perdita economica; perché quel capitale e quel lavoro avrebbe probabilmente fruttato di più se lasciato ai privati imprenditori. Ma poiché vi son dei risparmiatori che vogliono affidare i loro quattrini allo Stato, in somme superiori a quelle che esso può utilmente (ossia col frutto corrente) impiegare; poiché lo Stato ed i comuni sarebbero indotti spessissimo ad impiegare quei risparmi malamente, spegnendo in patria le iniziative private feconde e fecondando invece le intraprese degli industriali politicanti e trivellatori; poiché questi sono dati di fatto, che possiamo deplorare ma non mutare di nostra volontà; meglio è che lo Stato li impieghi all’uno, allo zero per cento in una grande opera di risurrezione economica di una colonia, che potrà essere una preziosa riserva pei nostri nepoti.

 

 

Anche se il tentativo non riuscisse, sarebbe pur sempre un tentativo degno di essere compiuto. Se i nostri vecchi non si fossero ostinati per secoli e secoli a profondere capitali e lavoro, economicamente malissimo remunerati, forse in gran parte perduti, la grande pianura padana sarebbe ancor oggi l’immenso pantano in cui affondavano i soldati di Annibale ed i colli vitiferi del Monferrato sarebbero ancora oggi foreste corse da cervi e cinghiali[i].

 

 

L’agricoltura meravigliosa dell’Alta Italia è frutto di secoli di impieghi anti-economici di capitale, è il risultato primo dell’amor irragionevole della terra nel contadino, del l’orgoglio dominicale dei mercanti milanesi. Perché non si ragionò allora a punta di soldi e denari, vorremmo dire che l’opera dei vecchi nostri sia stata infeconda?

 

 

* * *

 

 

 

Purtroppo questo è un lato solo del problema. Vi è il lato pericoloso, che ha sovratutto impressionato Giretti. Io dico che dobbiamo aprire il paese al capitale internazionale; e Giretti mi denuncia i propositi, già latenti nel decreto Caneva sulle vendite dei terreni, e sfacciatamente annunciati dall’on. Benedetto Cirmeni sulla Stampa, di mettere un catenaccio nel territorio tripolitano contro gli stranieri.

 

 

Ora potrebbe aggiungere che la Tribuna – giornale reputato ufficioso governativo – nel suo numero del 17 dicembre 1911 propone di estendere alla colonia il regime doganale italiano contro le provenienze straniere, a protezione delle importazioni dalla madrepatria, allo scopo di indurre la colonia a vendere i suoi prodotti in Italia e ad assorbire i prodotti della madre patria, a preferenza di quelli di altri paesi. E Giretti avrebbe mille ragioni di dirmi che le mie possono essere belle aspirazioni, ma che la realtà invece si annuncia assai diversa e consiste nel risuscitare i più rancidi pregiudizi mercantilisti e colonialisti dei secoli morti. Bastasse, almeno, risuscitare il sistema coloniale! La conquista, dice Giretti, finirà per inasprire il regime protettivo nella stessa madrepatria; e cita autorevoli dichiarazioni in favore di un rincrudimento della protezione doganale in patria col favore dei pieni poteri in tempo di guerra consentiti al governo.

 

 

Purtroppo, il fervore patriottico fa germinare idee di guerra economica contro gli stranieri anche in uomini insigni per conclusi trattati di pace commerciale.

 

 

Purtroppo, se si avessero a seguire i consigli che i diversi Cirmeni d’Italia vanno moltiplicando sulle gazzette, i peggiori pronostici sull’avvenire della colonia sarebbero legittimi. Se noi avessimo dovuto spargere tanto fiorente sangue giovanile e tanti sudati denari dei contribuenti soltanto per creare un campo chiuso a prò delle diverse combriccole d’imprenditori privilegiati che già deliziano l’Italia, sicuramente l’impresa tripolitana si risolverebbe in un delitto di lesa patria. Se i lavori del porto di Tripoli e di Tobruck, e le imprese di costruzioni ferroviarie dovessero darsi a impresari italiani, col privilegio del 5-6-10 per cento sui concorrenti stranieri, se i terreni vacanti dovessero concedersi a colonie di contadini elettori di De Felice, perché si mangino il capitale d’impianto imprestato dal Governo, per poi andarsene via, come successe quasi sempre nelle colonizzazioni governative, se si dovessero creare dei dazi differenziali contro le importazioni estere nella colonia a favore dei cotonieri, dei siderurgici, degli zuccherieri (a quando una modificazione della convenzione di Bruxelles, che permetta agli industriali di esportare in Tripolitania il loro sovrappiù di prodotto senza rinunciare al tributo percepito sui docili consumatori italiani?) e dei varii trivellatori d’Italia, certamente la conquista della colonia segnerebbe una data infausta nella storia italiana.

 

 

Se si lasciassero correre tra contadini meridionali e capitalisti settentrionali le illusioni di più lauti redditi a breve scadenza della nuova terra promessa, illusioni contro cui ho combattuto nel mio articolo, e contro cui ho aggiunto nuovi argomenti nel Corriere della Sera del 2 dicembre, si fornirebbe alimento allo scatenarsi di una furibonda campagna al rialzo, di cui avemmo un primo saggio nelle volate dei titoli in borsa durante i due mesi scorsi. Di queste volate molti si rallegrarono, perché vi videro una prova della forza dell’economia italiana durante un periodo pericoloso come è sempre una guerra. Altri disse che il rialzo era veduto di buon occhio dal governo, perché se i valori bancari e industriali saranno cari nel 1912, quando si effettuerà per la rendita il passaggio dal reddito del 3 e 3/4 a quello del 3 e 1/2 per cento, i detentori di rendita la venderanno meno volentieri perché non avranno altra alternativa che quella di comprare valori azionari saliti troppo di prezzo, onde, tenendosela, i prezzi della rendita rimarranno sostenuti. Io non credo che questo ragionamento sia mai stato pensato nelle sfere dirigenti finanziarie e sia piuttosto una escogitazione di rialzisti a corto di buoni argomenti e desiderosi di far credere che il governo è dalla loro. Non lo credo, perché: 1) i capitalisti tanto più volentieri vendono rendita per comprare valori azionari, quanto più questi sono cari e stanno rincarando; mentre per converso vendono azioni per comprare rendita quando le azioni sono a buon mercato e deprezzano. Sarà questa una insigne stortura dei capitalisti, ma non vi è rimedio. Onde si potrebbe affermare che il governo, se la cosa fosse fattibile, dovrebbe essere ribassista sui valori azionari per far rialzare la rendita; 2) un sostegno di prezzi ottenuto artificialmente non è destinato a durare, anzi provoca tracolli peggiori in seguito. A nessun governo è possibile, alla lunga, di riuscire a mutare l’ordine e i rapporti di valutazione dei titoli mobiliari. Perciò io credo o, meglio, non sapendo nulla di quanto accade nell’alta finanza governativa, io spero, nell’interesse generale del paese, che il Governo non si preoccupi di sostenere le borse (le quali furono sovratutto sostenute dallo scoperto formatosi durante settembre ed ottobre, come dimostrai in anticipazione nell’articolo mio passato); e sono anzi lieto abbia veduto i pericoli di una campagna speculativa tripolitana, dichiarando nulle le compravendite durante il periodo della guerra guerreggiata e negando i passaporti a contadini, operai, imprenditori, promotori di imprese ottime, mediocri e sballate. Questo pericolo è in realtà gravissimo.

 

 

Siamo già a quattro anni di distanza dalla crisi del 1907; breve spazio di tempo per sé stesso, ma sufficientemente lungo per rendere possibile una campagna di lanciamenti di società per azioni tripolitane, di valorizzazioni dei terreni delle oasi, di cui le vittime sarebbero i minuti capitalisti del Nord e i contadini del Sud. Sovratutto se si darà ad intendere che la colonia è un territorio di sfruttamento privilegiato per il capitale e il lavoro nazionali c’è gran pericolo che i risparmiatori e i lavoratori nazionali cadano preda di certi valentuomini, che amano più assai i risparmi dei connazionali che non le feconde opere della colonizzazione.

 

 

* * *

 

 

Tutti questi pericoli sono reali, realissimi. Né io voglio chiudere gli occhi alla luce evidente della verità.

 

 

Dirò di più. Vi è una certa probabilità che il governo sospenda i lavori pubblici veramente utili perché i terreni malarici, le alte montagne nude, i paesi senza acqua e senza scuole fanno da sé fuggire gli abitatori; onde, mancando gli elettori, non possono più esercitare nessuna efficace pressione sui deputati e, per rimbalzo, sul governo. Voci, ed autorevoli voci, di sospensione di tutte le spese non assolutamente urgenti, si odono frequentemente e devono contenere qualcosa di vero. Per la metà, e forse più della metà di queste spese sarebbe un grandissimo vantaggio se la sospensione durasse in perpetuo trattandosi di spese inutili. Il guaio si è che, se l’opinione pubblica non vigila attenta, la sospensione durerà a lungo specialmente per le opere utili a tutti, epperciò non domandate da nessuno in particolare. Invece v’e` pericolo che si proseguano le ferrovie elettorali, si aumentino i sussidi ai cantieri navali e ai carbonieri, si inizino magari, per far star zitti i socialisti, nuove bonifiche, non in quanto bonifiche, bensì in quanto siano concesse a cooperative di braccianti caparbi nel non volersene andare, ecc. ecc. V’è pericolo – sebbene a questo riguardo il pericolo sia meno grave per il maggior interessamento dell’opinione pubblica in cose militari – che non si pensi abbastanza alla necessità di costituire un saldo esercito coloniale, impresa certamente ardua e costosa, ma necessaria ed utile anche a scopi di polizia e di garanzia di sicura vita economica nella colonia; ma si tragga argomento dalla guerra odierna per aggiungere, invece di sostituire soltanto, il che è cosa ragionevole, nuovi corpi d’armata a quelli metropolitani conservati intatti in numero.

 

 

Ed altri pericoli ancora sono nell’aria, evidentissimi. Ma quale conclusione cavarne? Forse di ritrarsi dall’impresa? Mai no. Oggi sarebbe un’onta senza nome. Forse non far nulla e contentarsi della presa di possesso militare? Sarebbe la dimostrazione che noi non meritavamo di andare in Tripolitania.

 

 

L’unica via aperta dinanzi a noi è lottare con tutte le nostre forze perché il male non abbia il sopravvento. Noi – e quando dico noi, voglio comprendere sia coloro che concepirono, come le concepisco io le colonie come un’opera di sacrificio a prò della posterità, sia coloro che avversarono, come il Giretti, l’impresa per motivi ideali di giustizia e per la convinzione delle perdite economiche a cui avrebbe dato occasione – dobbiamo dire apertamente che la colonia non è fatta per concedere nuovi lucri privilegiati agli industriali della madrepatria, non deve essere riservata a piccoli gruppi di capitalisti italiani, non deve essere chiusa con una muraglia di dazi contro la concorrenza straniera, non deve insomma essere considerata come un buon affare destinato ad arricchire i fortunati italiani che per primi sapranno mettere le mani sulle sue ricchezze potenziali. Noi dobbiamo consentire, anche se perciò dovremo pagare nuove imposte, alla costituzione di un esercito coloniale, atto a difendere la colonia. Dobbiamo opporci a che prevalgano le correnti alle quali ci farebbero indurre ad apprestare nuove armi per combattere con tutto il mondo e specialmente con l’Austria. Al peso finanziario di un esercito coloniale possiamo, sebbene con costo non lieve, sottostare; sotto il pondo di una guerra incruenta a colpi di aumenti di corpi d’armata noi soccomberemmo.

 

 

Forse soccomberebbe prima l’Austria per il dissesto delle sue finanze; ma sarebbe magra consolazione, ché ben presto anche le finanze italiane seguirebbero la stessa sorte.

 

 

Dico di più. L’impresa tripolitana dovrebbe essere un altro motivo per rinsaldare i nostri vincoli d’alleanza cogli Imperi centrali. L’Italia economica ha tutto l’interesse a prestar man forte alla Germania ed all’Austria, piuttostoché passare dalla parte francese. I francesi hanno dei capitali; ed è l’unica loro grande virtù, che noi procureremo di utilizzare offrendo loro patti larghi. Ma adottano metodi pessimi di esclusivismo nelle loro colonie, tali che, se fossero adottati dappertutto, riuscirebbero a noi perniciosi. Invece la Germania è costretta a lottare, come fece pel Marocco, per la politica della porta aperta nelle colonie; ed in ciò i suoi interessi si identificano coi nostri. Coll’Austria – neutralizzata che sia l’Albania – abbiamo mille mezzi di andar d’accordo, a spese dei turchi. Col quale accordo Italia ed Austria potrebbero raggiungere fini politici rilevanti, e porre un freno all’incremento dei bilanci militari, che già rovina l’Austria e in avvenire minaccerebbe anche la solidità del bilancio italiano. Germania ed Austria hanno ancora una forte classe politica dirigente, atta a comprendere i veri e grandi interessi permanenti del paese. La Francia, che pure ha una borghesia lavoratrice, sana e forte ed un sottostrato veramente democratico di contadini agiati ed indipendenti, geme sotto il giogo di un ceto di saltimbanchi radico-socialisti, politicanti di infimo ordine, jingoisti e leggeri insieme, che disonorano il loro grande paese e dei quali assolutamente non ci si può fidare. Costoro sono capaci di far molte dimostrazioni di amicizia, di profferire la loro alleanza per la conquista del Trentino e di Trieste, per staccarci dalla Triplice; ed intanto spingerci a rovinare il nostro bilancio e portarci via le oasi dell’interno della Tripolitania. Coi capitalisti francesi sono indispensabili intese; coi politicanti parigini è inutile perdere tempo.

 

 

Certo la nostra predicazione di cavalieri erranti a prò dell’umanità e delle generazioni venture, liberi da vincoli con i gruppi sociali prevalenti in paese, non sarà gradita e non sarà facile, ma nemmeno è da disperare troppo della vittoria.

 

 

Abbiamo due circostanze per noi. In primo luogo sarebbe oggi inopportuno per l’Italia complicare il groviglio delle questioni internazionali sorto attorno alla nostra impresa con l’asserzione di diritti di esclusivo sfruttamento della colonia a danno degli stranieri. Giretti parla di un’imposizione che egli spera verrà fatta a noi dalle potenze straniere, al momento della pace, di conservare il regime della porta aperta, come lo ha l’Inghilterra in Egitto, come per utilissima (ai tedeschi, agli inglesi, agli italiani ed a tutti i popoli) imposizione della Germania dovrà la Francia mantenere nel Marocco. Io preferisco esporre la stessa speranza in altri termini: spero cioè che il Governo italiano, non dando ascolto alle indecenti sfuriate xenofobe di tutti i Cirmeni d’Italia, veda che l’interesse generale del popolo nostro collima perfettamente con l’interesse dei popoli stranieri: essere possibile cioè all’Italia iniziare vigorosamente l’impresa romana della colonizzazione, senza danno dell’economia della madrepatria e senza prosciugare del tutto le fonti di risparmio use a fecondare il suolo italiano, solo a patto di spalancare le porte al capitale straniero. Lavoro italiano e capitale internazionale (italiano e straniero insieme), ecco la formula che si dovrà imporre ad ogni uomo politico e chiaroveggente: a dispetto degli analfabeti improvvisatisi economisti in occasione della guerra[ii].

 

 

È una formola che non si concepisce in un regime di privilegi e favori. Per il suo trionfo dobbiamo lottare.

 

 

La seconda circostanza che milita a favore della tesi nostra è questa: che la conquista della colonia ogni giorno più dimostra di non poter essere compiuta con facilità. Guai a noi se l’impresa fosse stata facile o se avessimo potuto essere vittoriosi così da potere imporre al nemico il pagamento di un’indennità! Le facili vittorie esaltano lo spirito imperialista, fanno nascere chimeriche speranze di altri ingrandimenti; fanno venir la fregola di menar le mani coi vicini, rendono i ministri del tesoro incapaci di resistere alle domande dei colleghi della guerra e della marina, anche quando si tratta di domande assolutamente sproporzionate alla capacità economica del paese. La guerra anglo-boera non ebbe certo risultati brillanti, anzi li ebbe disastrosi, per l’Inghilterra, ma sarebbero stati disastrosissimi se il partito conservatore-unionista avesse potuto, circondato dall’aureola della facile conquista del vello d’oro delle miniere transvaaliane, rimanere al potere ed attuare i suoi progetti di unione doganale anglosassone, di lotta con la Germania, di esaltazione dello spirito di supremazia britannica. La vittoria fu invece costosissima; richiese 2 e 1/4 miliardi di imposte e 4 miliardi di debiti; rese perciò impopolare il Governo in carica e provocò il ritorno dei Campbell-Bannermann, degli Asquith, dei Lloyd George, ossia degli avversari della guerra.

 

 

I liberali commisero anch’essi la loro buona parte di spropositi: non seppero resistere alla mania delle Dreadnoughts, aumentarono a colpi di centinaia di milioni all’anno il bilancio della marina; per fare dimenticare le spese di guerra si diedero allo sport delle spese sociali, ingrossando il bilancio delle pensioni ai vecchi e architettando un piano mal studiato di complesse assicurazioni contro le malattie, l’invalidità, la disoccupazione, ecc. Distrussero, aiutati in questa e nelle altre loro imprese, è d’uopo riconoscerlo, dai conservatori, la Camera dei Lordi. Ma, tutto sommato, commisero assai meno sciocchezze di quelle che sarebbero state il vanto degli unionisti: salvarono il libero scambio e la pagnotta grossa del povero. Di ciò gli inglesi debbono essere grati all’alto costo della guerra boera ed alla prudenza che l’alto costo inculcò negli animi, allo spirito d’economia che prevalse – in misura eccessivamente limitata, purtroppo – nell’opinione pubblica e la resero ripugnante ai debiti di miliardi che le gazzette gialle tuttodì invocano per la moltiplicazione della flotta. Asquith e Lloyd George aumentarono bensì la flotta in proporzioni esagerate e provocatrici, non si limitarono agli aumenti richiesti dalle esigenze supreme della difesa nazionale e condiscesero troppo alle richieste dell’ammiragliato; ma tennero saldo il principio classico e rigido: alle spese della difesa si provveda con le imposte. E le imposte crebbero tanto per il mantenimento della pace, dopo che tanto erano cresciute per la condotta della guerra, che gli inglesi cominciano a rinsavire, e i fautori dell’economia hanno di nuovo una certa probabilità di farsi sentire.

 

 

Avrebbe la politica delle imposte avuto il sopravvento su quella dei debiti, se la conquista del Transvaal fosse stata una passeggiata militare e avesse incoraggiato l’Inghilterra a litigare col Belgio e con la Germania per ottenere la ferrovia panafricana da Alessandria d’Egitto a Città del Capo? Dobbiamo perciò essere lieti che la Turchia non sia in grado di pagarci nessuna indennità di guerra. Può sembrare un paradosso, ma è una verità ben certa che se la Turchia – per ipotesi assurda – potesse pagarci un miliardo d’indennità, noi avremmo convenienza a buttare il malaugurato miliardo in fondo al mare. Le indennità giovano al paese che le paga, non a quello che le riceve. Bismarck non sapeva capacitarsi del perché, otto o dieci anni dopo la guerra, la Francia fosse economicamente tanto prospera e la Germania tanto depressa (ricordiamo che la prosperità attuale della Germania venne dopo e non ebbe alcun nesso con la guerra, essendo il risultato delle qualità di organizzazione, di tecnicismo, di tenacia dei tedeschi che li condussero ora alla vittoria economica come trent’anni prima li avevano condotti alla vittoria bellica). La spiegazione era facile. Il pagamento dell’indennità aveva costretta la Francia ad uno sforzo: le migliori qualità di risparmio, di lavoro, di iniziativa accorta dei francesi erano state esaltate da quella sferzata, sicché industrie e commerci fiorirono in Francia. La riscossione dei cinque miliardi aveva, d’altro canto, persuasi i tedeschi di essere divenuti dei signori. Progetti chimerici trovarono favore; un’attività febbrile provocata dall’inondazione dell’oro si manifestò in sul principio. Ma fu di breve durata: la farina del diavolo va in tanta crusca; finito, sperperato l’oro francese, sopravvenuta la crisi del 1873, la nazione si trovò più povera di prima; e poté riprendere il cammino dell’ascesa economica solo quando ebbe dimenticati i fumi della grandezza e nuovamente applicate le virtù pazienti per cui aveva vinto la guerra.

 

 

Non rammarichiamoci troppo dunque se i turchi non ci rimborseranno né in tutto né in parte le spese della guerra; e, se sarà necessario, per finirla con loro scorno, non litighiamo troppo sulla cifra dei compensi che, con qualsiasi pretesto, il governo italiano troverà opportuno di dar loro.

 

 

Ne faranno certamente malo uso; i milioni italiani daranno alla testa ai giovani turchi e li persuaderanno di essere divenuti ricchi, come un po’ se ne persuasero già quando vendettero la Bosnia Erzegovina; talché più rapidamente manderanno in malora il loro impero.

 



[i] Poiché espressi in una polemica coll’Avanti! (numero del 12 dicembre 1911) lo stesso concetto, che i nostri antenati hanno, con fatica di secoli, conquistata e fabbricata la terra della grande pianura padana, il prof. Edoardo Bonardi mi obbietta che ai tempi di Annibale la grande pianura padana era il residuo di un antico mare, il quale s’e` andato lentamente ritirando, fino a raggiungere a poco a poco gli attuali confini dell’Adriatico, per un graduale sollevamento della crosta terrestre lungo la sponda adriatica della penisola. Pertanto, secondo il Bonardi, il prosciugamento della palude e la formazione dell’attuale valle del Po furono determinati principalmente dalle forze naturali.

 

 

Sarà certissimamente molto interessante uno studio il quale ci dica in quali proporzioni il graduale sollevamento della crosta terrestre abbia contribuito negli ultimi duemila anni circa alla scomparsa delle paludi padane. Dico negli ultimi duemila anni perché il sollevamento che può essere accaduto negli evi precedenti, di fronte a cui l’evo storico rappresenta una quantità di tempo infima, non interessa menomamente me, che parlo dell’opera dell’uomo dai Romani in poi. Quanto all’importanza di quest’opera nella fabbricazione della terra padana mi sia consentito di citare, con sopportazione dei critici socialisti, il seguente classico brano dal classico libro, che bisognerebbe riprodurre in gran parte, di Stefano Iacini, il maggiore scrittore italiano di economia agraria, su “La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia”: “In origine, le attuali provincie lombarde presentavano a settentrione l’aspetto di un labirinto di valli intercette da monti inospiti e da laghi; a mezzogiorno quello di una pianura, dove si avvicendavano acque stagnanti, banchi di puddinga, dorsi arenosi e strati di terreno alluvionale di variata e saltuaria qualità. Era un paese, insomma, in cui gli elementi di una grande prosperità esistevano bensì, ma sparsi, confusi, e tali che, per essere utilizzati e coordinati, richiedessero gli sforzi illuminati e la secolare perseveranza di un popolo intraprendente. Infatti, a che avrebbero giovato la felice latitudine, l’esposizione sul versante meridionale delle Alpi, baluardi contro gli aquiloni, le estati lunghe e serene, la lenta uniforme inclinazione della pianura, l’abbondanza delle acque fluviali in quella stagione appunto in cui esse mancano ad altri paesi; se i fiumi principali non fossero stati contenuti o respinti nei letti loro; ed i pendii dei colli in gran parte coperti di terra trasportata da lungi e disposta in terrazzi; e gli sterili scopeti dell’alta pianura fecondati ed illustrati coi sudori di cento generazioni; e le paludi prosciugate per mezzo di opportuni scolatori; e le acque sotterranee raccolte in fontanili e congiunte a quelle che, per mezzo di canali dispendiosissimi, si derivarono dai fiumi; e tutta la superficie di terreno che si voleva irrigare, smossa onde si adattasse agli infiniti giri dei condotti idraulici? Questi s’incontrano, s’intrecciano, si sorpassano, si sottopassano, per recare ad ogni più remota zolla il refrigerio di cui manca, e per convertire un territorio naturalmente improduttivo in una serie di ubertosi campi e di verdeggianti prati, dove l’azione combinata del caldo, delle irrigazioni e dei concimi suscita dalla terra un’abbondanza prodigiosa di prodotti.

 

 

«Pertanto non v’ha calunnia più grossolana e più ingiuriosa per le ceneri degli avi nostri e per la vita operosa delle popolazioni agricole viventi, di quella di alcuni stranieri che ci descrivono oziosi possessori dei benefizi largiti immeritatamente con prodiga mano dalla natura; la quale invece tanto dovette essere tormentata fra noi, come forse in nessun altro paese, da coloro che per i primi lo sottomisero; e cesserebbe poi dal prestare la sua cooperazione dal primo giorno in cui le abitudini di perseveranza, di economia, di attività si rallentassero nelle nuove generazioni. Il pingue retaggio tramandatoci dagli scorsi secoli è doppiamente prezioso, perché, oltre al solido benessere che ci procura, creato sulle basi del lavoro e dei capitali, non può essere conservato ed accresciuto che col lavoro e coi capitali. Perciò si trovano continuamente stimolate le buone qualità del carattere della nazione, onde non vengano a mancare i requisiti indispensabili di una prosperità artificiale, senza i quali vedremmo in breve ricomparire e le lande e le paludi e gli scopeti» (in Biblioteca dell’Economista, seconda serie, vol. 2, pag. 348). Al qual brano voglio aggiungere una brevissima citazione tolta da uno scritto del moderno Iacini redivivo, Ghino Valenti, il quale, a proposito dei conflitti agrari del Ravennate, così discorreva l’anno scorso: “Non si dimentichi che le migliori terre d’Italia sono state create artificialmente dall’industria dell’uomo, che i sistemi d’agricoltura più produttivi sono il risultato di un accumulamento secolare di lavoro e di capitale, che non sempre ha domandato la sua remunerazione in denaro e un tanto per cento. Nell’agricoltura il capitale cerca spesso null’altro che un quieto riposo. L’amore della terra, della proprietà permette di accontentarsi anche d’impieghi capitalisticamente non fruttiferi. Se così non fosse una gran parte delle nostre terre non sarebbero state bonificate. Il che significa che, se oggi con la mira del solo guadagno si volessero ripetere certe trasformazioni, date in specie le remunerazioni che il lavoro esige al presente, si andrebbe incontro inevitabilmente ad un disastro” (Notizie periodiche di statistica agraria 1910, pag. 94). S’intende che Stefano Iacini, Ghino Valenti, ed io sulle loro traccie, parlando di creazione o di fabbricazione della terra, intendiamo riferirci alla creazione della terra economica, ossia produttiva. Ma forse i socialisti, e con essi il prof. Bonardi, vogliono invece parlare della terra naturale, che sarebbe benigna nutrice degli umani, se il capitalismo iniquo non se la fosse appropriata! Nella quale ipotesi, discorrendo noi ed essi di due cose diverse, è alquanto difficile poterci intendere. Duolmi di non poter riprodurre integralmente, per averlo visto quando già il presente articolo era compaginato, un’interessante lettera diretta all’Avanti! del 19 dicembre, in cui l’ing. G. F., con profonda competenza tecnica e con la citazione di classici brani di Strabone, Leonardo e Carlo Cattaneo, riesce a dimostrare la tesi dell’edificazione (come, con parola forse più propria di fabbricazione, si esprimeva Cattaneo, grande tecnico non meno che grande economista) del suolo lombardo ed a dare per “almeno nove decimi” ragione a me.

[ii] Dell’analfabetismo imperversante tra gli improvvisati economisti della guerra italo-turca mi basti citare un esempio classico. Dopo gli inutili e sbagliati comunicati governativi che durante il mese di ottobre denunciarono le manovre della speculazione filoturca per fare rialzare i valori turchi e ribassare gli italiani al 31 d’ottobre, ci fu sui giornali un’epidemia di pronostici per fine mese. Chi si distinse di più fu il solito Cirmeni sulla Stampa, a cui tennero dietro, sebbene più temperatamente, anche l’ufficiosa Tribuna ed altri giornali. Cirmeni inventò la “bancocrazia internazionale”, motto che fece fortuna perché tutti i senza quattrini che giuocano stupidamente in borsa su vaghe dicerie e notizie false amano credere che i banchieri si arricchiscano nell’unico modo che essi nella loro ignoranza suppongono essere la maniera di guadagnar denaro da parte di chi esercita l’industria bancaria. Dopo il 20 di novembre non passò giorno che Cirmeni e i suoi accoliti non denunciassero le mene della “bancocrazia internazionale” per far ribassare i valori italiani e rialzare quelli turchi per la data fatidica del 30, cosidetta (per loro) fine mese. Passò il 24, passò il 25, trascorse il 26 e costoro seguitarono a predicare lo sterminio per il 30 in seguito alle sovrabiasimate mene della bancocrazia. Al 30 invece non capitò nulla: 1) perché sulle notizie false, da tempo ponzate e preannunciate, non si possono provocare movimenti di borsa, come dimostrai l’altra volta; 2) perché la fine del mese, che gli articolisti ancora al 26, 27 aspettavano per il 30, era già passata fin dal 24-25 di novembre. Un giorno, e fu argomento di riso comicissimo, nello stesso giornale, anzi nel testo di due giornali, mi accadde di leggere in prima pagina l’articolo dell’economista guerresco ma analfabeta, che si preoccupava grandemente del 30 di novembre e in sesta pagina la cronaca dell’umile resocontista di borsa, ma uomo del mestiere, che parlava della liquidazione di novembre come già avvenuta e indicava i prezzi correnti, come prezzi già di fine prossimo, ossia di fine dicembre. È una nozione risaputa perfino dai paracarri delle strade poste vicino alle borse, ma ignorata dai denunciatori di quella ridicola invenzione che è la “bancocrazia internazionale”, che la liquidazione di fine mese si fa in giorni variabili dal 24 al 26 del mese. È in questi giorni che si fissano i prezzi di compenso per i riporti; è in questi giorni che si liquidano le differenze; è in questi giorni che si fanno le risposte dei premi. Al 30 del mese la liquidazione ha soltanto il suo termine logico, che consiste nel materiale passaggio delle differenze da un conto all’altro, nel materiale pagamento e nell’effettiva riscossione di somme già liquidate alla vera fine mese che si verifica dal 24 al 26.

 

 

Restando perciò ferme tutte le cose dette nell’articolo precedente intorno alla scarsa importanza del giorno di liquidazione, come elemento formatore dei prezzi per sé medesimo, è da aggiungere che il giorno di liquidazione, vera fine mese, da cui cominciano le contrattazioni per fine prossimo, capita non al 30, ma da quattro a sei giorni prima della fine cronologica del mese. Onde è naturale che invano i Cirmeni aspettassero al 30 lo scompiglio in quella liquidazione, che già s’era effettuata, a loro insaputa, fino dal 25! è fare un’ipotesi azzardata supporre che tutti questi giornalisti, di cui è lamentevole la improntitudine messa nel discorrere di argomenti che non conoscono, ma sono indubbie la buona fede e l’ansia patriottica di combattere contro immaginari nemici d’Italia, siano stati tratti in inganno da qualche impenitente giuocatore di borsa, il quale seguita a scambiare il giorno 30 o 31, in cui è abituato a riscuotere o pagare le differenze, col vero e proprio giorno di fine mese o di liquidazione? E non è deplorevole che l’opinione pubblica – prima quella dei giornalisti, e poi quella degli elettori e infine del Parlamento e del Governo – sia tratta in inganno da simili gaglioffi?

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