Opera Omnia Luigi Einaudi

Ammonimenti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/11/1917

Ammonimenti

«Corriere della Sera», novembre 1917

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 309-321

 

 

 

Adesso che è giunta l’ora della prova, bisogna che ciascuno interroghi la sua coscienza e cerchi una risposta alla domanda: ho io fatto tutto il mio dovere? Ufficiale, ho cercato di inspirare fede, disciplina, coraggio nei miei soldati? Cittadino privato, ho intensificato il mio lavoro affinché la vita del paese non venisse turbata ed i soldati alla fronte e le popolazioni dell’interno potessero avere, per quanto stava in me, tutto il bisognevole? Amministratore della cosa pubblica, rappresentante di italiani in consessi alti o modesti, ho dato opera affinché la compagine morale del paese rimanesse salda? Ho recriminato, ho mormorato, ho fatto passare l’ambizione personale dinanzi all’interesse pubblico?

(4 novembre 1917)

 

 

Non dobbiamo addolorarci e deprimerci troppo se in un punto della nostra fronte sono avvenuti fatti dolorosi nell’esercito. Fatti simili sono successi in tutti gli eserciti. Ma dobbiamo chiedere a noi stessi: come abbiamo contribuito noi ad elevare il morale dei nostri soldati? Li abbiamo incoraggiati quando parlavano con compiacenza delle gloriose gesta compiute, abbiamo fatto comprendere loro che noi eravamo profondamente riconoscenti per la grandezza dei sacrifici che essi compievano per noi; ovvero ci siamo compiaciuti principalmente nel fare eco ad espressioni di stanchezza, naturali in chi soffre, ma che noi non dovevamo acuire con la nostra importuna commiserazione?

(5 novembre 1917)

 

 

Perché i soldati siano tenaci, pazienti e risoluti occorre che essi sentano di avere dietro di sé un popolo fiero, paziente ed esemplare. Quale spettacolo abbiamo dato noi ai soldati, i quali tornavano in licenza? Ci siamo lamentati che i viveri erano cari, che la vita era dura? Abbiamo detto che così non si poteva durare innanzi e frattanto abbiamo riempito le sale dei teatri, dei cinematografi, dei ristoranti, abbiamo scialacquato danari che si potevano risparmiare in consumi non assolutamente necessari? Ovvero, ai figli nostri, agli amici che tornavano dai luoghi dove si difendeva la patria abbiamo mostrato che anche noi si era frugali, che anche noi si sopportavano volentieri e con animo sereno privazioni materiali allo scopo di contribuire, ciascuno nella misura dei propri mezzi, alla causa comune?

(6 novembre 1917)

 

 

Oggi si vede anche dai ciechi che la guerra si fa per difendere le nostre case, i nostri focolari, le nostre famiglie. E perciò tutto il popolo è balzato in piedi, risoluto a guardare negli occhi il nemico. Ma, anche prima, lo scopo della guerra era sempre stato di difesa. Avevamo noi adempiuto al dovere di spiegare a chi non sapeva, a chi per le sue condizioni sociali non poteva sapere che noi avevamo preso le armi per difendere l’Italia contro il pericolo di una dominazione universale? Quale paese poteva sentirsi sicuro contro le mire di chi assaliva la Serbia, si impadroniva del Belgio, voleva schiacciare la Francia? Eravamo insorti per non diventare servi senza combattere. Oggi si deve continuare a combattere per serbare la libertà e l’onore nostro, delle nostre famiglie e del nostro paese.

(8 novembre 1917)

 

 

Il suono di certe parole che pareva fioco, di frasi che parevano retoriche per la lunga ripetizione diventa oggi nuovamente vibrante. Si ripercote nell’animo nostro e ci fa balzare il cuore nel petto. Libertà, indipendenza, onore sembrano ricordi di scuola quando i confini sono sicuri. Ma quando il nemico calca col suo piede le nostre terre, quelle parole vogliono dire la possibilità di vivere senza vergogna, di pensare e parlare nella lingua dei nostri padri, di crearci un mondo ed una vita quale piace a noi e non quale piace ai dominatori nostri. Vogliono dire la possibilità di lasciare ai nostri figli intatta l’eredità ricevuta dai padri, non macchiato il retaggio tramandatoci a prezzo di tanti sacrifici.

(10 novembre 1917)

 

 

Nell’autunno del 1792 l’esercito sabaudo abbandonava la Savoja dinnanzi all’invasione delle truppe rivoluzionarie francesi. I soldati del reggimento di Moriana, in seguito ad un ordine equivoco, s’erano sbandati, ritornando ognuno alle sue case, dopo essersi tuttavia dati appuntamento a Susa per l’1 gennaio 1793.

Pochi credevano che la parola sarebbe stata mantenuta. La guerra si annunciava lunga e durò infatti ancora quattro anni. I soldati vivevano in paese occupato dal nemico; e questi prometteva ricompense ai deboli e minacciava dure rappresaglie contro i fedeli alla bandiera sabauda.

 

 

«Tuttavia il colonnello del reggimento l’1 gennaio del 1793 era a Susa, e faceva tracciare sulla neve i confini d’un posto di bivacco, disporre i fuochi e costruire alcuni baraccamenti. Dopo ciò, il colonnello, malgrado il freddo atroce, si diede a passeggiare avanti ed indietro sulla piazza di Susa, come fosse un padrone di casa che attende gli invitati passeggiando nel salone. Non attese a lungo. Alle dieci del mattino un soldato giungeva per il primo; era un certo Grillet e veniva da Lanslevillard, uno dei villaggi più vicini al Moncenisio. Il bravo ragazzo era partito da casa la vigilia ed aveva tutta la notte camminato per sentieri, buoni per rompersi il collo. Dopo di lui, due caporali, che, per sfuggire al nemico, avevano rivoltato le uniformi; e dopo ancora a gruppi di tre o quattro, continuarono a giungere soldati dalle strade più rimote. Come i ruscelli finiscono per formare il fiume, così era meraviglioso vedere le compagnie a poco a poco ricostruirsi. In cinque giorni, il reggimento aveva ritrovato i due terzi dei suoi effettivi».

 

 

Così il marchese Costa de Beauregard, in un libro dove è tutta l’anima del fedele servitore dello Stato piemontese d’un tempo, narra uno dei più meravigliosi episodi di quella storia sabauda, che è il tronco vivo della storia italiana moderna. Il sentimento del dovere, che spingeva i poveri montanari del 1793 ad abbandonare volontariamente, per obbedienza alla parola data, le famiglie e le case in balia del nemico, non è spento nel soldato italiano d’oggi.

(12 novembre 1917).

 

 

«Ben ciechi coloro i quali pretendono di averci distrutti perché essi hanno spezzato i nostri blasoni e disperso i nostri archivi. Finché però non ci avranno strappato il cuore essi non potranno impedirgli di lottare per tutto ciò che è virtuoso e grande, non potranno impedirgli di preferire la verità alla menzogna e l’onore a tutto; finché non ci avranno strappato il cuore, essi non potranno impedirgli di essere riscaldato da un sangue che giammai tremò; finché non ci avranno strappato la lingua, non potranno impedirci di insegnare ai nostri figli che la nobiltà consiste soltanto nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio posto nell’adempierlo e nella fedeltà alle tradizioni di famiglia».

 

 

Così scriveva nell’inverno del 1793 da un ricovero del Piccolo San Bernardo un nobile ufficiale savojardo, mentre difendeva il Piemonte contro le soldatesche nemiche, le quali gli avevano devastato il castello avito e costretto all’esilio la moglie ed i figli. Gli italiani d’oggi sono una razza antica e fine, ed anch’essi dicono fieramente al nemico: finché non ci avrete tolta la vita e strappato la lingua, noi preferiremo l’onore a tutto; perché noi sappiamo che la vera vita consiste nell’adempimento del dovere e nel consegnare intatto ai figli il retaggio di tradizioni nazionali, di libertà e di indipendenza tramandatoci dagli avi a prezzo di tanti sacrifici.

(12 novembre 1917)

 

 

Dicono i nemici agli italiani, sperando di trovare un’eco in cuori deboli: «Noi veniamo a salvarvi dalla tirannide inglese. Noi non combattiamo contro di voi, ma contro chi vuole asservirvi ad un impero di egoisti e di mercanti, il quale copertamente mira al dominio universale». Il discorso pronunciato da chi dovette essere cacciato a viva forza dalla mala signoria del Lombardo-Veneto, da chi opprime polacchi e francesi, danesi e romeni, czechi e ruteni, da chi ha steso le unghie grifagne sul Belgio e sulla Serbia ha un suono falso. Ma suppone anche che gli italiani siano degli smemorati, i quali non ricordino che da più di quattrocento anni l’Inghilterra si è ritirata dal continente d’Europa e combatte solo per impedire all’Europa di cadere sotto il dominio e la tirannia di uno Stato solo prepotente. Ha combattuto contro la Spagna di Filippo II, contro la Francia di Luigi XIV e di Napoleone, e combatte oggi contro i sogni di monarchia universale di Guglielmo II. E così combattendo salva se stessa e la civiltà del mondo. L’Inghilterra, con la sua flotta, ha serbato la Sardegna alla Casa di Savoja, la Sicilia ai Borboni quando i Borboni rappresentavano un’idea nazionale, ha resa possibile la vittoriosa riscossa della Spagna contro Napoleone. Occupò le Isole Ionie, per restituirle volontariamente alla Grecia. L’Inghilterra vuole avere le mani nette in Europa, perché essa non è un impero. Essa è una società di molte nazioni, libere ed indipendenti, unite da legami morali, sciolte da qualsiasi obbligo di tributi e di servizio militare verso la madrepatria. Ed una nazione siffatta, la quale pone ogni studio nel non imporre alcun obbligo alle consorelle le quali vivono sotto la protezione della sua bandiera, dovrebbe desiderare di asservire noi, italiani e francesi, al suo giogo?

(12 novembre 1917)

 

 

«Guardatevi dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti» – dicono i tedeschi ed i loro amici -; «guardatevi da alleati, i quali mirano ad arricchire colla guerra, a diventare padroni di tutta la flotta mercantile del mondo, creditori vostri, vostri fornitori e padroni». E trovano ascolto in tutti coloro i quali disprezzano gli ideali e ritengono che le lire, i soldi ed i denari sieno le sole cose reali esistenti nel mondo, e che la guerra presente sia in fondo una cosa che non ci riguarda, poiché si tratta di una lotta fra Inghilterra e Germania per il dominio economico del mondo. Se la guerra fosse stata voluta per arricchire uno dei contendenti sarebbe una cosa infame. Ma abbietto è invece il pensiero di chi ad un fatto così solenne dà una causa così bassa. Forse la Germania assalitrice sperava di fare un buon affare con la rapidità della vittoria e la enormità delle taglie sperate dal vinto. Ma gli assaliti, ma coloro che mossero in loro aiuto, quale speranza di arricchimento potevano mai avere? Sapeva l’Inghilterra che avrebbe profuso tesori, che si sarebbe impoverita, che avrebbe dovuto alienare le sue ricchezze investite all’estero; sanno gli Stati Uniti che la guerra costerà loro centinaia di miliardi, di gran lunga più dei più grandi profitti sperabili con le forniture di guerra. Potevano contemplare indifferenti lo schiacciamento del Belgio e della Francia. Non vollero, a prezzo di gravi danni economici, perché i popoli sani sanno che la ricchezza è nulla quando l’onore è perduto.

(12 novembre 1917)

 

 

Italiani! Le generazioni che nei secoli ci precedettero, che a poco a poco fecero riemergere dalla inondazione barbarica del primo medio evo le antiche profonde masse italiche, guardano a noi e ci scongiurano di non perdere in un istante di debolezza il frutto di tanti sforzi, di così lunghe aspirazioni, di martirii così atroci. Guardano a noi i lombardi che sconfissero l’imperatore tedesco che aveva cosparso di sale il suolo della fiera di Milano. Guardano a noi i piemontesi di Pietro Micca che resistettero ai tentativi di dominazione universale di Luigi XIV e di Napoleone. Guardano a noi martiri delle galere borboniche, gli impiccati di Belfiore. Di sotto alla terra recentissima guardano a noi i giovani che sulle Alpi Trentine, sul Carso petroso, nei tanti luoghi santi oramai nelle nostre memorie, hanno dato il loro sangue per compiere il risorgimento nazionale. E tutte queste voci, vecchie di secoli e fresche di ieri dicono: Italiani, tenete fermo, ché l’Italia vivrà solo se i suoi figli oggi avranno un cuore di bronzo!

(17 novembre 1917)

 

 

Sempre, ma in special modo in tempo di guerra, lo Stato deve rendere giustizia a tutti; e procurare che le derrate necessarie alla vita siano distribuite imparzialmente ed a chi ne ha più bisogno. Ma abbiamo noi sempre riflettuto abbastanza che la giusta distribuzione non si fa da sé; e che è inutile ed ingiusto accusare il governo, seminare il malcontento, scrivere lettere scoraggianti ai figli, ai parenti, agli amici i quali combattono per noi in campo, se non si è fatto tutto il possibile per ridurre al minimo le nostre pretese e per prestare la più fervida collaborazione affinché i pochi bisogni possano essere soddisfatti? Lo Stato siamo noi; il governo è una nostra creatura; e lamentarsi del governo senza far nulla per renderlo migliore, è segno di animo fiacco.

(18 novembre 1917).

 

 

I contadini i quali scrivevano ai figli sotto le bandiere lamentandosi del governo che loro requisiva il grano, le bestie ed il fieno; i cittadini che si lagnavano con gli stessi soldati per la insufficienza dei 250 o dei 500 grammi di pane al giorno, pensino al triste effetto che le loro lettere e i loro discorsi facevano sull’animo dei combattenti, disanimandoli e facendo loro credere quasi che nell’interno nessuno si curasse dei loro figli, delle loro mogli, dei loro genitori. Si doveva e si deve invece ringraziare i soldati perché il loro braccio ha consentito al contadino di seminare e di mietere, al marinaio e al ferroviere di trasportare i milioni di quintali  di frumento necessari per far vivere la popolazione. Dove il nemico giunge, il contadino deve lavorare per mantenere l’aggressore ed a lui la razione assegnata è di fame vera. Nei territori occupati dal nemico più non giungono derrate dall’estero. Quale spaventosa decimazione di donne, di fanciulli, di vecchi non è avvenuta in Serbia!

(18 novembre 1917)

 

 

Maestro di scuola elementare, insegnante nei ginnasi, nei licei, nelle scuole tecniche e commerciali, nelle università, ho fatto ogni sforzo per fare intendere alle nuove generazioni la missione dell’Italia? Ho fatto comprendere ai ragazzi ed ai giovani quanto sforzo sia costato questa nostra augusta patria, quanto sangue sia stato sparso per essa, e quali doveri noi abbiamo verso il retaggio tramandatoci dai nostri genitori? Abbiamo noi detto ai figli dei ricchi, dei borghesi, degli agiati che essi non vivrebbero sicuri negli agi se i loro avi non avessero condotto una vita dura, e, senza fiatare, non avessero sacrificato la vita per il loro paese?

(19 novembre 1917)

 

 

I profughi delle provincie friulane e venete, che oggi vediamo dintorno a noi, in cerca di asilo nelle nostre città, desiderosi di lavoro nelle campagne ci dicono in modo parlante che cosa significhi l’invasione del territorio nazionale da parte dello straniero. Non più soltanto dal Belgio e dalla Serbia ci vengono le notizie dei giornali sulle sofferenze dei popoli soggetti al dominio straniero. Sono i nostri fratelli, sono italiani fieri e patriotti i quali ci parlano di famiglie disciolte, di vecchi e malati rimasti per l’impossibilità di fuggire, di madri che cercano affannosamente i loro bambini. Volere, alla fronte ed all’interno, che si resista significa volere che queste sciagure abbiano fine e che ai nostri fratelli siano ridate case e famiglie.

(22 novembre 1917)

 

 

Il nemico fa dire sui suoi giornali e tenta di dire a noi in libelli e fogli gittati nelle nostre trincee e diffusi di nascosto: «Voi italiani combattete per gli altri. Che deve importare a voi dell’indipendenza del Belgio, della questione dell’Alsazia Lorena, delle colonie inglesi, del dominio del mare, della lotta fra Serbi e Bulgari?». Ma gli italiani non combattono per gli altri. Unendo la loro causa a quella dei popoli alleati, essi hanno veduto il pericolo di una dominazione universale ed hanno voluto difendere la loro indipendenza e la loro nazionalità. Come i loro avi l’hanno difesa contro Carlo VIII, contro Luigi XIV, contro Napoleone, così oggi la difendono contro chi si proclama erede di Roma e vagheggia di averci servi umili e soddisfatti. Che cosa vale essere grandi, quando si è imbelli? Meglio liberi e poveri che ricchi e vassalli.

(24 novembre 1917)

 

 

Alcuni territori intorno al Piave furono inondati di acque per difendersi meglio contro la pressione nemica. Così gli italiani ripetono quanto gli inglesi ed i belgi hanno compiuto attorno all’Yser, quanto i piemontesi nel 1859 fecero nelle risaie del Vercellese e del Novarese, quanto gli olandesi su vasta scala seppero fare per difendersi contro le soldatesche del Duca d’Alba e di Filippo II: sommergere il proprio paese pur di non vederlo soggetto allo straniero. Segno di animo forte. Ma difendendo a passo a passo il territorio nazionale, che i nostri padri con lavoro di migliaia d’anni fecero emergere dalla grande palude che copriva tutta la valle padana, limitando al minimo la sommersione delle terre d’Italia, i nostri valorosi soldati sanno di impedire la distruzione di una delle più meravigliose opere della mano dell’uomo: la terra nostra, che dopo di essere stata creata dai nostri antenati ci è ora madre benigna.

(25 novembre 1917)

 

 

«Per il lavoratore, l’impiegato, il commerciante, pacifico ed inoffensivo, è indifferente vivere sotto un governo che si dica ‘italiano’ ovvero porti un altro nome». Contro questo ragionamento, che ci viene da fonte nemica e che pretende di essere pratico, bisogna ribattere: No, questa non è soltanto un’offesa atroce al sentimento patrio, alle idealità per cui gli uomini si distinguono dalle bestie; ma è anche una pessima pratica. Se i nostri avi avessero ragionato così, se non avessero combattuto contro i tiranni interni e stranieri, se non avessero sostenuto sforzi indicibili per costituire l’Italia unita, il nostro paese sarebbe ancora diviso in tanti staterelli piccoli, invidi e poveri, sarebbe ancora immiserito dalle dominazioni straniere; e la nostra vita sarebbe assai più miserabile di quella che oggi conduciamo. La miseria è il retaggio di coloro che hanno l’anima del servo. La prosperità tocca solo a quei popoli  che se ne sono dimostrati degni, offrendo il sacrificio della vita e degli averi per una causa ideale.

(27 novembre 1917)

 

 

«L’erede del più grande impero del mondo» è accorso alla fronte italiana, insieme con i valorosi soldati inglesi, i quali, fronteggiando il medesimo nemico, danno pegno della solidarietà che insieme stringe tutte le nazioni dell’Intesa. Ma chi è venuto fra noi è qualche cosa di più dell’erede di un grande “impero”. Se fosse soltanto questo, male potrebbe distinguersi dai principi imperiali, i quali da anni minacciano ai confini francesi ed italiani di sostituire il diritto brutale della forza alla legge della giustizia. Il principe di Galles è invece il figlio di chi rappresenta la più grande confederazione di nazioni libere che vi sia al mondo. Mentre i boemi, gli slavi meridionali gli italiani, i romeni, i polacchi, i francesi soggetti al dominio austro-tedesco furono costretti dalla forza a brandire le armi in difesa di una causa odiata, i francesi del Canadà, i boeri dell’Africa del Sud, gli indiani, i maori della Nuova Zelanda accorsero volontariamente sotto le bandiere britanniche. Nelle cosidette colonie inglesi, che sono in realtà nazioni indipendenti, non vi è coscrizione, né si pagano imposte per ordine della madrepatria. I soldati vennero volontari a difendere l’Inghilterra minacciata; l’India votò spontaneamente contributi di uomini e di sangue. Questi sono i nostri alleati: uomini liberi, i quali insieme con noi vogliono impedire l’asservimento del mondo ad un impero militare.

(30 novembre 1917)

 

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