Ancora della statizzazione delle fabbriche d’armi
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/09/1915
Ancora della statizzazione delle fabbriche d’armi
«Minerva», 1 settembre 1915, pp. 770-772
In un articolo recente della Minerva io ho cercato di dire le ragioni per le quali, dopo la guerra, la fabbricazione delle armi, dei cannoni e delle navi da guerra dovrebbe in ogni paese ritenersi un affare di Stato, da sottrarsi alla libera iniziativa privata. Su quelle ragioni io non ritornerò, poiché mi sembra di averle esposte in ciò che esse avevano di sostanziale. Mi sia lecito però ritornare su alcune particolarità di applicazione, le quali mi sembrano importanti per la buona riuscita del principio.
La attribuzione allo Stato di ogni sorta di fabbriche d’armi dovrebbe essere una delle clausole del trattato di pace, il quale metterà fine alla guerra europea. Le Potenze le quali combattono per la indipendenza e la libertà dell’Europa dovrebbero essere d’accordo per esigere questa, che è una delle condizioni cardinali per serbare la pace e l’armonia fra i paesi in avvenire.
A tal fine la obbligatorietà della regola per tutti i paesi è indispensabile. Dare l’esempio della statizzazione delle industrie di guerra sarebbe pericoloso per una nazione singola, quando tutti gli altri paesi seguitassero ad affidare la fabbricazione delle armi alla industria privata. In questi ultimi i progressi tecnici potrebbero essere assai più rapidi che nel primo paese; e progressi tecnici vogliono dire maggior copia e perfezione di armi, con conseguenze dannose per quei paesi che da soli si fossero appigliati alla statizzazione. Nella gara degli armamenti non si può rimanere secondi, sebbene sia desiderabile trovare qualche mezzo con cui il passo di tutti gli Stati divenga più lento e più comportabile per i contribuenti.
Un trattato internazionale, per il quale tutti gli Stati aderenti si obbligassero a fabbricare armi e navi da guerra solo in stabilimenti o cantieri pubblici e si interdicessero l’acquisto sia all’interno che all’estero da stabilimenti privati, presenterebbe parecchi vantaggi:
1) la politica degli armamenti diventerebbe un affare pubblico, come deve essere. Dalle somme spese e registrate nei bilanci pubblici potrebbe giudicarsi dall’importanza degli armamenti dei singoli paesi. La fabbricazione delle armi sarebbe soggetta al controllo ed al freno dei contribuenti, i quali sarebbero necessariamente chiamati a fornire i capitali necessari alle imprese pubbliche;
2) ogni Stato sarebbe ridotto alle sue proprie risorse; e nessuno Stato potrebbe far sorgere sul suo territorio stabilimenti strapotenti, perché dotati di impianti bastevoli a soddisfare alle domande non solo dell’interno, ma anche dell’estero.
Gli stabilimenti Krupp di Essen, e in minor misura il Creusot, sono terribili strumenti di guerra, perché in tempo di pace hanno saputo acquistare dimensioni sufficienti per soddisfare le domande anche degli Stati stranieri. Dimensioni dunque più efficaci economicamente per queste imprese; e dimensioni disadatte per gli stabilimenti privati e governativi degli Stati loro clienti. Scoppiata la guerra, i primi stabilimenti sono attrezzati a produrre una massa di armi e di munizioni sufficienti a coprire il fabbisogno del proprio Stato, perché prima, in tempo di pace, soddisfacevano ai bisogni propri ed a quelli di Stati esteri; e gli stabilimenti di questi ultimi devono allargarsi a furia, perché essi avevano dimensioni insufficienti persino ai bisogni di pace del proprio Stato.
Quando, per trattato internazionale, la fabbricazione delle armi diventasse un affare di Stato e fosse vietata la vendita all’estero, ogni Stato dovrebbe dare ai propri stabilimenti la dimensione economicamente più adatta a soddisfare i propri bisogni. La gara degli armamenti non cesserebbe; ma non avverrebbe più per iniziativa irresponsabile di privati e di stranieri, sibbene dei poteri responsabili e governativi. Vincerebbero in questa gara quei Governi, in cui fosse più vigile il senso della difesa nazionale.
Quando si dice statizzazione delle fabbriche d’armi, non si vuol dire gestione diretta burocratica o gestione a mezzo di una cosidetta azienda autonoma, come quella delle ferrovie di Stato e dell’Istituto nazionale delle assicurazioni.
Altro è la «statizzazione», che vuol dire gestione pubblica di un’impresa, con criteri esclusivamente pubblici; altra è l’applicazione pratica del concetto. Vi sono moltissime maniere di concepire la statizzazione: dalla più semplice e più dannosa con cui semplicemente si attribuisce quel nuovo lavoro ad una branca della burocrazia, a quelle alquanto più snelle delle aziende autonome, in cui si ha almeno la realtà o la parvenza di un bilancio speciale delle entrate e delle spese. L’amministrazione delle ferrovie di Stato e l’Istituto nazionale delle assicurazioni sono già qualcosa di meglio di un ministero dei lavori pubblici o di agricoltura.
La differenza non è grande; poiché tutto si riduce a potere esaminare e criticare un bilancio particolare, per vedere se si sia perso o guadagnato una somma maggiore o minore. Le apparenze della autonomia e di una certa libertà di iniziativa giovano tuttavia pur sempre. Ricorrere a questi metodi antiquati di statizzazione sarebbe enormemente pericoloso in tema di fabbriche d’armi. Ci si può adattare a pagare cari i trasporti ferroviari; si può sopportare di doversi assicurare sulla vita ad un Istituto di Stato.
Sono malanni imposti dalla gelosia democratica; a cui si fa l’abitudine, come alla grandine, alle brinate, al caldo eccessivo ed al troppo freddo. Con la fabbricazione delle armi invece non si scherza. Non sono in gioco alcuni pochi o molti quattrini, un po’ di tempo e molta pazienza; bensì i supremi interessi del paese. Non si può ammettere che, mentre le fabbriche d’armi di un Governo straniero dotato di una burocrazia intelligente e penetrata dall’idea di Stato progrediscono e si rendono sempre più formidabili, la burocrazia amministratrice delle proprie fabbriche sonnecchi e si dia al sollazzevole divertimento degli organici e dei ricatti periodici alla borsa dei contribuenti. Io non so in qual altro modo risolvere il problema, fuorché con il vecchio metodo della Regia cointeressata, attuato con la nuova formula della Società anonima. Maffeo Pantaleoni, con la sua consueta penetrazione, ha già detto che la Società anonima è la forma delle statizzazioni dell’avvenire.
Ricordo che alcuni anni or sono ebbi a far studiare da un distinto allievo della Università commerciale di Milano (il Dott. Mario Luporini) il caso tipico di applicazione di questo concetto, che è quello delle ferrovie nazionali del Messico. Oramai il Messico è un paese rovinato dalle rivoluzioni e dai capi-banda. Ma non bisogna dimenticare che per un trentennio il Messico parve un paese destinato ad un grande progresso economico; miracolo che sarebbe stato dovuto ad un uomo di genio, Porfirio Diaz, coadiuvato negli ultimi tempi da un valorosissimo ministro delle finanze, il Limantour. Questi due uomini avevano tirato su il Messico dal fallimento ad un alto grado di credito nelle grandi piazze europee: essi lo avevano attrezzato di strade, ferrovie, poste e di quant’altri sono gli strumenti della civiltà moderna.
Posti fra l’incudine e il martello, fra la povertà di capitali del loro paese, la quale rendeva necessario ricorrere al capitale straniero, e il pericolo di abdicare la propria indipendenza in mano dei capitalisti americani ed inglesi sovventori, i quali si precipitavano sulle migliori risorse del paese per ottenere concessioni perpetue o a lunga scadenza, essi inventarono la forma genialissima della Società anonima, con partecipazione dello Stato. La rete principale delle ferrovie messicane è proprietà di una Società anonima; la quale ha emesso obbligazioni, azioni privilegiate ed azioni ordinarie. Le obbligazioni tutte e la maggior parte delle azioni privilegiate sono in mano di privati. Non c’è nessun pericolo in ciò.
Gli obbligazionisti non hanno voce nelle cose sociali; e gli azionisti privilegiati, ai quali viene assicurato, sull’utile eventuale, il diritto a godere per i primi di un dividendo minimo, hanno una partecipazione modesta nell’azienda sociale. Essi corrono una parte sola dei rischi e quindi è corretto che non siano chiamati, se non in piccola parte, a deliberare ed amministrare. Invece la maggior parte delle azioni ordinarie è in mano del Governo; il quale nomina quindi la maggioranza dei consiglieri d’amministrazione. È giusto che l’amministrazione spetti agli azionisti ordinari, poiché essi corrono i rischi maggiori dell’impresa e sono remunerati solo quando si sieno pagati gli interessi agli obbligazionisti ed il dividendo assicurato agli azionisti privilegiati. E il Governo, serbando a sé la maggioranza delle azioni ordinarie, in fondo è il padrone dell’impresa.
Sia una impresa con 5 milioni di obbligazioni, 10 milioni di azioni privilegiate e 5 milioni di azioni ordinarie. Il Governo, sottoscrivendo a 4 milioni soli di azioni ordinarie, nomina 9 sui 13 amministratori, il presidente e 8 consiglieri. Gli altri consiglieri siano nominati: 2 dai portatori del residuo milione di azioni ordinarie, e 2 dagli azionisti privilegiati. Si serba così il carattere pubblico all’intrapresa; nulla può farsi che non piaccia al Governo e non risponda ai suoi fini. Ma non si perdono i benefici dell’iniziativa privata.
Vi sono 4 consiglieri d’amministrazione, i quali non vogliono che l’impresa lavori in perdita, i quali hanno interesse a distribuire dividendi, a non addormentarsi, a compiere progressi tecnici. Bastano questi 4 – e potrebbero senza pericolo essere 6 su 13 – amministratori a dare al consiglio ed a tutta l’amministrazione un tono diverso da quello di una amministrazione burocratica. Lo Stato ha d’altro canto interesse a controllare un’azienda che in parte non è sua. I risultati, buoni o cattivi, dell’impresa si misurano dall’altezza del dividendo distribuito alle azioni ordinarie. Non è gran male che il dividendo guadagnato sia alto, perché i quattro quinti di esso finiscono nelle casse dello Stato.
Gli obbligazionisti e gli azionisti privilegiati possono essere messi alla porzione congrua. I capitalisti vanno matti per una impresa, la quale ha l’aria di essere garantita dallo Stato, e si decidono ad investire i loro risparmi al minimo tasso corrente sul mercato. In Svizzera, il Governo federale riuscì a trovare, per la sua Banca di emissione di Stato, azionisti i quali si contentarono di un dividendo massimo del 4 per cento.
Questa sembra a me la forma più snella, più pratica, meno pericolosa per i contribuenti, più profittevole per l’erario, delle future statizzazioni e municipalizzazioni. Contro di essa si possono muovere obbiezioni solo da coloro che sono imbevuti di pregiudizi ridicoli. Grazie a questa forma, trovata bell’e fatta, l’Inghilterra, che ne è la maggiore azionista, percepisce fior di dividendi dall’esercizio del Canale di Suez e ne è politicamente ed economicamente la padrona. Se si avesse il coraggio e il buon senso di farvi ricorso, la statizzazione delle fabbriche d’armi potrebbe essere attuata senza pericolo di vedersi distanziati dagli altri Stati nella gara degli armamenti.