Opera Omnia Luigi Einaudi

Ancora i siderurgici

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1911

Ancora i siderurgici

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1911, pp. 211-218

 

 

 

L’articolo “Nuovi favori ai siderurgici” pare abbia recato noia agli interessati, almeno se debbo giudicare dal commovente coro di abbaiamenti con cui fu salutato dalla canea siderurgica.

 

 

Sia consentito al “ciarlatano”, “professore di metafisica economica” osservare con umiltà che quelle smentite confermano ciò che egli aveva detto. Non si tratterà dunque di un “trust” né di un “sindacato”.

 

 

Lasciamo pure stare queste parole che danno, non si sa perché, terribilmente ai nervi a tutti coloro che amano di tanto sviscerato amore i consumatori italiani da volerli sottrarre al pericolo gravissimo di comprare merci straniere. È invece un “Consorzio il quale avrà per iscopo il sicuro ed utile impiego di grossi capitali in fede di deposito di grosse partite di ferro” (Vita del 7 marzo); è un “accordo, concentrato in un Ente nuovo, tutto speciale, il quale, rispettando l’individualità di ciascuna società, rappresenti tutti gli stabilimenti ed abbia per compito di provvedere alla sistemazione finanziaria attuale, assicurandone il servizio e regolando razionalmente la quantità e la qualità della produzione in relazione al carattere ed all’efficienza dei singoli stabilimenti” (Popolo Romano del 7 marzo). Questo accordo che è concretato in un Ente nuovo, non è però nuovo, perché dura (Rassegna dei Lavori Pubblici e delle Strade ferrate del 7 marzo) dall’autunno del 1907; e solo accadrà “che l’intesa divenga più intima e che il reparto delle ordinazioni fra i varii stabilimenti, che finora si fece mediante accordi volta per volta, sarà fatto esclusivamente dall’Ilva”.

 

 

Sia che lo si voglia chiamare, in quell’italiano del trecento che il nazionalismo purista dei siderurgici affetta di prediligere, “consorzio” od “accordo” sia che lo si voglia intitolare, in barbara lingua economica internazionale, “trust” o “kartello” o “sindacato” la sostanza non muta. Sarà pan bagnato invece che zuppa; ma della sostituzione i consumatori italiani e specie le industrie meccaniche (le quali stanno a guardare, come se la cosa non le interessasse, ne` sanno organizzarsi per opporre difesa energica ad offesa grave ed imminente) non avranno ad essere gran fatto lieti.

 

 

Nessuno smentì che il consorzio aspirasse ai denari della Banca d’Italia.

 

 

La forma di ottenerli sarà una piuttosto che l’altra. Magari i siderurgici hanno anche immaginato legalissime forme per ottenere quei denari. Secondo il Momento Economico di Milano la forma auspicata sarebbe questa: “che la Banca d’Italia scontasse le cambiali che il Consorzio e per esso l’Ilva avrebbe emesse, e che girate alle Banche private sarebbero da queste state presentate alla Banca d’Italia. L’operazione sarebbe perciò di semplice sconto di cambiali a due firme (l’una dell’Ilva e l’altra della Banca girataria) e quindi ortodossamente legittima”. È evidente che, fosse questa od un’altra la forma prescelta dai siderurgici, non è della legalità apparente che si era voluto discorrere, ma della legalità sostanziale. Nessuno può credere che queste cambiali, sia pure rinnovate, con altre firme, alla scadenza rispondano a quei requisiti di credito a breve termine che sono nell’essenza degli istituti di emissione. Crediti liquidi in apparenza, sarebbero in realtà crediti immobilizzati ed a lunghissima scadenza.

 

 

Io non ho nemmeno nulla in contrario all’istituto delle fedi di deposito del ferro che si è detto, per smentirmi, essere il nuovissimo istituto che si vuole introdurre in Italia. È strano soltanto che da noi si voglia oggi fare, per un’industria la quale, a detta dei suoi difensori, non può reggersi ancora sulle sue gambe, ed avrà, per lunghi anni, bisogno delle stampelle dei dazi, ciò che in Inghilterra fu il portato di una lunghissima e lenta evoluzione industriale. Si, Middlesbrough è il grande mercato regolatore mondiale dei prezzi della ghisa e, perciò, dei prezzi delle diverse qualità di ferro e di acciaio. Le quotazioni di Middlesbrough sono diventate, è vero, il barometro più delicato non solo della siderurgia, ma dell’intiera vita industriale del mondo, perché il ferro, insieme col carbone, è il pane dell’industria. Questa autorità incontrastata la borsa di Middlesbrough l’acquistò perché là si negoziano le fedi di deposito dei grandi magazzini Connal, dove in questo momento sono depositate forse 600.000 tonn. di ghisa; enorme quantità che non preoccupa nessuno, perché al suo finanziamento provvedono case solidissime ed alla ghisa inglese è aperto il mercato del mondo intiero. Nessuno si preoccupa di stocks così colossali: nel 1906 non erano forse giunti a 715 mila tonn. e nel 1908 non caddero a 89 mila? E nessuno se ne preoccupa perché il deposito nei magazzini generali risponde al bisogno economico di uguagliare la produzione ed il consumo nel tempo. Siccome il consumo è irregolare, a zig zag, e la produzione deve invece, per obbedire alla legge del minimo costo, essere quant’è più possibile, continua e regolare, nelle epoche stracche gli alti forni producono più della richiesta e, invece di svendere, depositano la ghisa nei magazzini generali. Ci sono speculatori e capitalisti avveduti, che comprano le fedi di deposito in attesa che ritornino i periodi buoni, il consumo superi la produzione ed i prezzi salgano in guisa da consentire una remunerazione sufficiente a chi ha fatto questa che è una vera sovvenzione alle industrie. Di capitalisti e di speculatori, che facciano l’operazione, se ne trovano sempre, perché sanno che nei magazzini Connal è depositata la ghisa più a buon mercato che vi sia al mondo, la prima che viene comperata appena in Germania, negli Stati Uniti, in Francia, in Belgio, in Italia (anche in Italia) si verifichi una scarsezza di materia prima per le ferriere e le acciaierie. Data la regolarità degli alti e bassi negli stocks, v’è dunque una certa quantità di capitale che si è specializzata nel finanziare la ghisa, impedendo che essa precipiti troppo nei momenti di sosta del consumo e rialzi troppo nei periodi di prosperità. Per ottenere questo mirabile intento (trasporto nel tempo della merce prodotta in un anno e consumata in un altro) non sono stati necessari consorzi, od accordi od interventi.

 

 

Tutta diversa è la situazione in Italia: qui non mercato libero, ma mercato chiuso: la ghisa, il ferro e l’acciaio prodotti in Italia ad alto costo non vanno all’estero a trovare prezzi bassi. Se si è prodotto troppo, al sovrappiù bisogna trovare sfogo in paese. Se i prezzi in paese rialzano, gli stocks nazionali trovano subito una concorrenza formidabile negli stocks stranieri, i quali hanno convenienza ad entrare. Dicesi che la notizia del consorzio italiano abbia recato molta gioia ai siderurgici belgi i quali sperano di poter vendere in Italia, cosa che a loro non era consentita finché i prezzi in Italia erano relativamente bassi.

 

 

Perché il finanziamento degli stocks in Inghilterra possa verificarsi basta che ai capitalisti e speculatori del paese i prezzi della ghisa paiano bassi in confronto di quelli che sono sperabili dappoi. Allora essi comprano “warrants” e li tengono fino al rialzo. Fanno con ciò, se riescono, il beneficio proprio ed insieme il beneficio della società intiera, perché impediscono deprezzamenti eccessivi prima, e rialzi sproporzionati dopo.

 

 

In Italia le condizioni, perché il finanziamento riesca, sono più complesse. Non basta che i prezzi siano bassi prima ed alti poi perché il capitalista abbia interesse a comprare a prezzi bassi per tenere sino a quando i prezzi si elevino. Quando i prezzi si saranno elevati, i consumatori compreranno da lui o non invece dai produttori nazionali o dagli importatori esteri i quali da soli bastano sempre a soddisfare ai bisogni del consumo? Perché la speculazione di comprare a buon mercato e vendere care fedi di deposito di ferro riesca, bisogna che il detentore dei “warrants” abbia fiducia che arriverà un giorno in cui i produttori interni saranno sovvraccarichi di ordini, in cui gli importatori esteri si saranno squagliati, perché l’estero non ha convenienza ad esportare. Allora il consumo dovrà venire da lui e comprare le sue fedi di deposito, per poter disporre del ferro depositato nei magazzini generali. Io dubito assai che in Italia si abbiano a trovare ora capitalisti e banchieri privati disposti a comprare fedi di deposito di ferro nella speranza del rialzo. Essi temeranno – e non senza ragione – che, il giorno in cui il rialzo sarà venuto, i consumatori possano lasciarlo in asso, lui e le sue fedi di deposito, per approvvigionarsi all’estero – il quale è sempre felice di importare in Italia a prezzi alti, mentre nessuno importa in Inghilterra dove i prezzi si conservano sempre più bassi che altrove, anche nei momenti migliori – o magari dai produttori nazionali, i quali hanno degli impianti maggiori del necessario, avendo avuto anch’essi la mania dei doppioni.

 

 

Poiché – devono aver ragionato i siderurgici – il pubblico non comprerebbe da sé, per la fiducia che abbia nella nostra industria, le fedi di deposito di ferro, facciamole scontare dalla Banca d’Italia. È il ragionamento di tutti coloro che si trovano da noi in imbarazzo: lo Stato e gli istituti d’emissione sono il poppatoio delle industrie a cui i capitalisti non vogliono spontaneamente far da nutrice.

 

 

Tutto sta a vedere se saranno contenti gli azionisti della Banca d’Italia.

 

 

Pare che non lo siano tutti, a quanto leggo in un articolo del Corriere Mercantile di Genova, la città dove dimora il maggior numero di azionisti della Banca. “Se l’unione siderurgica” scrive il giornale genovese “ha proprio dinanzi a sé la lusinghiera prospettiva che si dice e che crediamo, quali difficoltà deve trovare per sistemarsi colle proprie forze feconde, per attirare a sé, colla fiducia, i capitali del pubblico, senza che si ostini ad esigere aiuto da un Istituto che è sorto con mezzi privati, prospera mercé un’oculata, rigida e benemerita Direzione e non ha obbligo alcuno di riparare ai falli ne` tanto meno di soddisfare agli appetiti altrui? La Banca d’Italia ha scopi commerciali ben precisi da seguire: rappresenta un collocamento pacifico del denaro di azionisti nemici d’avventure; non è né sente il bisogno di diventare Banca di Stato, perché teme i pericoli dell’inframmettenza governativa; si è prestata in qualche caso, di supremo interesse, a scongiurare o ad attenuare danni altrimenti troppo gravi pel credito pubblico, ma con questo crede di avere fatto più del suo dovere. Gli azionisti però sentono che si sconfinerebbe da ogni più tollerabile limite se l’Istituto – che è costato loro tanti sacrifici – dovesse preoccuparsi adesso anche dell’unione siderurgica”.

 

 

Parole sensate, queste scritte sul Corriere Mercantile dal suo direttore Pietro Rembado ed alle quali non ho da fare altre riserve se non due: la prima si è che non credo alle lusinghiere prospettive dell’unione siderurgica, perché l’esperienza ha dimostrato in Italia quali sono le conseguenze rovinose dei consorzi (chiamiamoli così, perché la parola trust è posta all’indice) che vivono della protezione doganale. Sfruttare il pubblico è comodo, finché si è in pochi. Ma i guadagni che si ottengono dallo sfruttamento fanno nascere l’invidia nei cuori altrui od almeno la voglia di farsi comperare, col ricatto della minaccia della concorrenza. Quanti Consorzi od Unioni non sono andate colle gambe all’aria perché dovettero gonfiarsi, accettando nel proprio seno i ricattatori, sino a scoppiare? Mi auguro di sbagliarmi; ma ho paura che l’Unione siderurgica si sia messa su una mala via. Essa che, col suo costituirsi, avrebbe dovuto moderare l’azione delle imprese siderurgiche, limitare i dividendi, rafforzare le riserve, crescere gli ammortamenti, è stata invece salutata nel suo nascere, se nuova, nel suo rafforzarsi, se vecchia, da un fatto singolare: l’aumento del dividendo dell’Elba da 10 a 15 lire, e la rinascita del dividendo – in realtà mai distribuito se non col prelievo, nei primi anni, dal capitale – dell’Ilva in 10 lire. Se questa si chiama politica di moderazione, bisognerà cambiare il vocabolario italiano; e cambiare anche le leggi economiche le quali dicono che il crescere dei guadagni o dei dividendi (quantità che non sempre sono identiche) delle intraprese esistenti provocano il sorgere di nuove intraprese pronte a combattere od a farsi comperare.

 

 

La seconda riserva è che gli azionisti della Banca d’Italia non mi pare abbiano ragione di allarmarsi troppo: non sarà certo Bonaldo Stringher, il nuovo fondatore e il salvatore della Banca, quello che vorrà sminuirne menomamente la saldissima compagine. È un assalto che i siderurgici hanno mosso; assalto che certamente sarà stato ributtato.

 

 

* * *

 

 

Ribattendo, i difensori dei siderurgici si sono lasciati andare a confessioni preziose.

 

 

L’Economista d’Italia (8 marzo 1911) dopo aver, evidentemente per ischerzo, affermato che l’Unione siderurgica profitterà anche ai consumatori, permettendo di diminuire il costo di produzione e di perfezionare i prodotti (è la solita solfa dei trustaioli i quali dimenticano però sempre di indicare quali sindacati abbiano di fatto ridotto i prezzi a pro’ dei consumatori), mette subito le mani avanti ed aggiunge: “Del resto, se i dazi vennero istituiti per mettere la produzione nazionale al livello della straniera, non c’è ragione perché quella debba con la concorrenza interna eliderne l’effetto sui prezzi a favore di quest’ultima. I nostri dazi vennero creati per compensare i diversi coefficienti del maggior costo della produzione nostra in confronto di quello della produzione straniera, compensare le differenze affinché questa non si trovasse in una situazione più favorevole: un coefficiente nuovo, perturbatore dei prezzi è sopraggiunto: quello dei premi esteri di esportazione; nulla di più naturale e di più legittimo, quindi, che l’industria nazionale si organizzi per fronteggiarlo”.

 

 

Ecco confessato, da un suo difensore, l’intento vero dell’Unione siderurgica. Ridurre, forse, i costi di produzione; ma, sovratutto, tenere elevati i prezzi in guisa da sfruttare al massimo la protezione doganale concessa dalla tariffa vigente. Nelle scuole, è vero, si insegna dagli economisti ripetendo Stuart Mill, che la protezione dovrebbe servire a difendere, in un primo momento della loro vita, le industrie nuove, finché si siano agguerrite. Si presuppone così che, a mano a mano che esse diventano adulte, le imprese protette riducano i prezzi interni al disotto di quello straniero più il dazio, fino a ridursi al puro prezzo straniero e poter fare a meno del dazio. Insegnano cioè quei buoni uomini di economisti che se il prezzo estero di concorrenza, fuori dogana, è 10 ed il dazio è 5, le industrie nazionali dovrebbero cominciare con un costo ed un prezzo di 15 per ridurre a mano a mano i costi ed i prezzi a 14, a 13, a 12, a 11 e finalmente a 10, nel qual istante si potranno abolire i dazi, perché, l’industria essendo diventata adulta, la protezione saràdivenuta inutile.

 

 

Si insegna anche, dalle cattedre, che le industrie le quali non siano in grado di ridurre dopo un periodo sufficientemente lungo, al più un ventennio, i loro costi a 10 od a meno, ad 8, a 7 o a 5, se questi sono i nuovi costi dell’industria straniera, non meritino di essere ulteriormente protette e debbono, come disadatte al paese, essere lasciate morire. Si vede che coloro che così insegnano sono dei professori e vivono nel mondo della luna; perché i pratici sono riusciti a far trionfare un altro principio: che la protezione non debba essere un’arma temporanea, sibbene una difesa perpetua, uguale alla differenza fra i costi nazionali (stimati sempre altissimi) ed i costi esteri che si dimostrano, con inchieste esaurienti, essere sempre mitissimi e diminuiti, per giunta, da ogni sorta di dumping, di premi di esportazione, ecc. Se per caso una nuova intrapresa nazionale concorrente sorge e fa discendere i prezzi al disotto di 10 più 5, ossia fa precisamente ciò che era intenzione del legislatore, si grida al tradimento e la si costringe ad entrare nel consorzio. Il quale si palesa così nella sua schietta indole: quella di un ricovero di cronici, impotenti a ridurre i costi e deliberati a mantenere i prezzi alti distruggendo ogni concorrenza straniera. I consorzi fra industriali protetti son come la fiera di Dante che dopo il pasto ha più fame che pria. Non grida già la Rassegna di lavori pubblici che la protezione di cui gode l’industria siderurgica è insufficiente; e che perciò “le imprese coalizzate si sono trovate aggravate da scorte di esercizio, che non esisterebbero se la protezione di cui le nostre industrie godono fosse sufficiente, giacché solo nel 1910 abbiamo importato dall’estero per 22 milioni di ghisa da affinazione in oggetti greggi, per 4 milioni di ferro greggio, per 24 milioni di ferro e acciaio in barre, in fili, in lamiere, per 8 milioni di rotaie e tubi?”.

 

 

Il piano dei siderurgici è ora di una evidenza cristallina:

 

 

  • 1) protrarre la liquidazione dell’enorme stock esistente di minerali e di metallo lavorato, mercé una operazione finanziaria che si vorrebbe mettere a carico degli istituti di emissione;
  • 2) creati così sempre più larghi interessi pubblici attorno alla loro industria, agitare lo spauracchio delle perdite che subirebbero Istituti, Casse di risparmio e Banche sovventrici se i 50 milioni di lire di stocks fossero venduti ai prezzi di concorrenza internazionale ed ottenere un aumento dei già enormi dazi protettivi. Al momento opportuno si inscenerà qualche dimostrazione di disoccupati e si chiameranno in aiuto i deputati socialisti;
  • 3) nel frattempo, sul fondamento delle voci di conchiuso accordo e degli annunci di dividendi realmente aumentati, movimentare le azioni in borsa, e scaricarle sul buon pubblico, salvo a riprenderle a prezzi diminuiti quando parrà giunto il momento opportuno di lasciar sgonfiare la montatura.

 

 

Per fortuna a capo della Banca d’Italia e del Governo stanno uomini, i quali sanno che dinanzi all’opinione pubblica sana e consapevole d’Italia nessun nuovo maggior titolo d’onore saprebbero guadagnarsi, in questo campo, della taccia di antinazionalisti e di antiarginatori.

 

 

Di fronte al nazionalismo di coloro che vorrebbero impinguarsi a danno dei compatrioti e dell’erario italiano e che, rialzando il costo della difesa, fanno opera dannosa alla tutela dell’integrità patria, è dovere di patriottismo spalancare le porte al concorrente straniero; come, di fronte alle bande di rialzisti, che vorrebbero scaricare titoli sul capitalista italiano poco colto, è doveroso fare non il ribassista, perché gli uomini di Stato e di scienza non devono impacciarsi né con le bande nere né con le rosse, ma l’antiarginatore. Importa cioè opporsi agli argini che si vogliono elevare contro il ribasso come contro il rialzo. Contro le operazioni che non siano nella lettera e nello spirito conformi alle leggi bancarie, è d’uopo mettere il veto; e come si seppe resistere vittoriosamente – e fu titolo d’onore per il Luzzatti e lo Stringher – alle incomposte domande di aumento della circolazione sorte nell’autunno del 1910, così oggi si resista a tutto ciò che di artificioso vi è nelle domande di aiuti a pro’ dell’industria, nulla concedendo alla siderurgia ed alla seta, ai cotoni ed agli zolfi, agli agrumi ed al vino che non sia la concessione di ciò che ogni industriale ed ogni commerciante ha diritto di avere nei limiti del credito da lui goduto.

 

 

* * *

 

 

Né dimentichiamo infine l’incognita che, a guisa dell’ombra di Banco, sovrasta a questa industria siderurgica che lo Stato ha voluto ad ogni costo, con sacrifici suoi gravissimi, far sorgere in Italia. Che i sacrifici siano gravissimi nessuno può dubitare quando si pensi che dai suoi minerali dell’isola dell’Elba lo Stato potrebbe facilmente ricavare un canone di 5 lire almeno la tonnellata; e più ne cavava negli anni in cui permetteva l’esportazione del minerale in Inghilterra. Da quando i clamori dei nazionalisti del ferro consigliarono allo Stato di far lavorare il minerale in patria, il canone fu ridotto a 50 centesimi la tonnellata, con una perdita annua, per una estrazione di 450 mila tonn., di 2 milioni di lire all’anno.

 

 

Se ne mostrassero almeno paghe le Società siderurgiche, a cui l’erario – ossia i contribuenti – fa questo magnifico regalo; e fossero contente le maestranze operaie che alle spoglie pubbliche partecipano! Invece se vi sono operai riottosi, indisciplinati e malcontenti, questi sono gli operai elbani o di Piombino; e se mai vi furono intraprese capitalistiche ansiose di favori governativi, queste sono le imprese siderurgiche.

 

 

A che pro, dunque, tanti sacrifici? Purtroppo, se il presente non è lieto, l’avvenire è buio. Constatazioni ufficiali, non mai smentite, del Corpo reale delle miniere (cfr. lo studio presentato dal Corpo al Congresso internazionale geologico di Stoccolma del 1910 sotto il titolo: Les Ressources en mineral de fer de l’Italie), hanno dimostrato che al 30 settembre 1904 la ricchezza complessiva in minerali di ferro dell’isola dell’Elba era di 7.470.000 tonn.; che la quantità disponibile al 1° gennaio 1908 erasi ridotta a 5.230.000 tonn.; che anche a voler ingrossare la cifra a 6 milioni, i giacimenti esistenti saranno completamente esauriti nel 1922.

 

 

Aggiungeva il Corpo reale delle miniere che i giacimenti conosciuti, all’infuori di quelli sfruttati, hanno, al più, un’importanza meramente scientifica.

 

 

Finché queste cifre non siano autorevolmente smentite, e par difficile lo possano essere, è lecito domandare:

 

 

  • Che cosa avverrà dell’industria siderurgica fra 12 anni? Se si bada al passato ed alle somme irrisorie di ammortizzi compiuti nell’ugual tempo finora decorso, non è avventato richiamare l’attenzione sulla sorte a cui andranno incontro i capitali cospicui a cui lo Stato ha voluto garantire un reddito con rinuncie costose a canoni che a buon diritto spettavano all’erario;
  • Che cosa avverrà dell’isola dell’Elba, dopo che uno sfruttamento oltremodo rapido (450 mila tonn. all’anno) l’avrà privata in breve ora della principale sua ricchezza che, a 200 mila tonn., avrebbe potuto occupare lavoro e capitale per un tempo assai più lungo? Che cosa ne faremo degli impianti dell’Elba, dell’Ilva e di Piombino, quando ad essi verrà a mancare il minerale da lavorare? Che cosa risponderà il Governo ai clamori degli operai disoccupati, a cui il lavoro fu dato ad opera dello Stato, ed i quali pretenderanno di aver diritto a lavorare anche dopo il 1922? Terribili domande a cui i governanti di ieri e di oggi non hanno risposto né rispondono, perché ben sanno che fra 12 anni altri uomini saranno al Governo e ad essi spetterà il carico di inventare nuovi modi di largire favori al parassitismo capitalistico ed operaio. Si abbia almeno il doveroso coraggio di nulla più concedere oggi: perché ogni favore concesso ad un’impresa che fra 12 anni, per sentenza del Real Corpo delle miniere, è destinata a morire di morte naturale, non può che accrescere le difficoltà della non lontana e fatale liquidazione.

Torna su