Opera Omnia Luigi Einaudi

Ancora intorno al modo di scrivere la storia del dogma economico

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1932

Ancora intorno al modo di scrivere la storia del dogma economico

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1932, pp. 308-313

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 465-477

 

 

 

 

1. – Nel libro di recente pubblicazione Introduzione della Storia delle dottrine economiche e politiche (Bologna, 1932, Zanichelli, cfr. recensione in «La Riforma Sociale», 1931, fascicolo di marzo-aprile) ho cercato di analizzare e descrivere, in seguito a faticosissime ricerche sulla paternità di alcuni fra i più essenziali concetti economici, l’influenza che l’economia classica italiana ha esercitata sul corpus delle dottrine internazionali. Mentre questa parte del mio lavoro ha incontrato tra altro il plauso lusinghiero di Luigi Einaudi, per il quale io gli sono molto grato, egli mi ha invece mosso alcune interessanti e graziose critiche riguardo ad alcuni elementi direttivi da me abbozzati sul modo di scrivere la storia delle dottrine economiche, e massime su alcuni dubbi da me emessi intorno all’asserto del Say e del Pantaleoni che essa storia debba e possa essere una storia di verità economiche.

 

 

Non torno su questi dubbi che il lettore potrà facilmente rintracciare nel mio libro (pag. 56 a 117). Sennonché mi sembra non privo di interesse ribattere alcuni appunti critici speciali mossimi e che in parte provengono indubbiamente da malintesi, in parte però anche da una diversità di punto di vista metodologico che sarà prezzo dell’opera chiarire.

 

 

Non ho negato l’esistenza, nella nostra scienza, di idee pure, come quasi risulterebbe, a torto, dalle critiche di Einaudi, né l’influenza avuta dall’idea pura sui fatti economici, alla quale anzi ho dedicato alcune pagine (pag. 40 e seg.). Solo mi sembra che sia un dovere di modestia e di scientificità di non isolare, oltre il lecito,[1] queste idee, sia nelle loro origini che nella loro efficacia, dall’assieme della fenomenologia storica e ideologica generale.

 

 

L’economia politica differisce dalle altre scienze, e massime da quelle naturali, in quanto ché i suoi metodi di studio non le consentono di raggiungere quel grado di rigorosità nei propri risultati che a queste è consentito, mentre all’economia politica fa difetto la sperimentalizzazione in corpore vili.

 

 

2. – Citeremo a tal proposito l’opinione di un economista ben visto da questa rivista, il Lederer. Questi inizia lo stesso suo manuale di economia politica con le testuali parole: «Nell’economia politica oggi tutto è ancora dubbio; è dubbio il medesimo quesito del fine delle teorie economiche, e, entro la trattazione economica, è dubbio il suo soggetto. Né sarebbe quindi illecito dire che la nostra scienza è ancora imperfetta (unferting) e soggetta a crisi… Soggetti a controversia sono anche i rapporti tra teoria e pratica, tra teoria e storia. Nessuna delle teorie nuove [segue una breve esemplificazione] ha saputo togliere di mezzo gli antagonismi tra l’indirizzo storico e quello teorico, e tra questi e l’indirizzo economico politico nella nostra scienza. Anche entro la teoria stessa sono rimasti discutibili i metodi, anzi, le stesse leggi (Lehrsätze)».[2]

 

 

E il Marshall, non meno caro, ch’io mi sappia, al cuore di Einaudi, che a quello mio, dice: The science (of political economy) is almost in its infancy.[3] Epperò sarà opportuno che i libri di testo non siano troppo definitivi.[4]

 

 

Non si può davvero sufficientemente insistere sulla necessità, per la dignità della scienza stessa, di non rinunciare mai, neppure per i suoi più sicuri risultati, ad un grano di dubbio. Giacché, una tale rinuncia costituirebbe un permanente pericolo, acuito dalla supposizione di avere trovato un dogma. La trovata teorica non è davvero poca cosa. Eppure chi è che non veda quanto lo schema fisso e definitivo di cui si credono in possesso i discepoli e gli epigoni del maestro li seduce a incasellare senz’altro, nelle stereotipate categorie pronte, qualsiasi fenomeno storico o economico che loro si presenti? La sterilità che contrassegna la scuola marxista, massime in Germania, è dovuta appunto a questo flagello della verità. Perché è proprio così: chi si crede in possesso della verità, acquistata od ereditata poco monta, non sente più alcuno sprone di perfezionamento e cessa di pensare, riputandosene oramai dispensato.[5] Diventa una fissazione.

 

 

3. – La purezza ostentata dalla scienza economica abbonda, nei suoi effetti, di fenomeni nocivi, perché provoca delle reazioni che, come sempre avviene, oltrepassano il segno. Tra queste reazioni conteremo certi aspetti del freudismo che intende poter interpretare la fenomenologia umana con l’esclusività, o quasi, del suo metodo detto della libido.

 

 

Non abbiamo visto un noto e colto studioso americano, il Lasswell, affermare, dopo di aver svolto un lungo e faticoso esame analitico della questione, che l’attività politica è un derivato dell’erotismo represso dovuto o a rifiuti amorosi avuti nell’età della crescenza e dell’adolescenza, o ad altre delusioni (e anche da un’educazione troppo affettuosa da parte della mamma)? Regola generale, premesse e conclusione finale di ogni analisi fatta concorrerebbero in questo, che i movimenti politici ricevono la loro vitalità da uno spostamento di affetti da obbiettivi privati ad oggetti pubblici (Verdrängungslehre).[6] E allo stesso risultato giunge uno psicoanalitico svizzero, il Pfister, riguardo alla produzione capitalistica, il cui sviluppo apparirebbe come logicamente legato, esso pure, alla verdrängte libido.[7] Ecco la sostituzione dell’astrazione dell’uomo economico da parte d’un altro uomo, non meno astratto, quello sessuale; come già abbiamo, dal Bodino allo Schmidt di San Gallo, l’uomo geografico.

 

 

4. – Discorrendo del carattere integrale della storia delle dottrine economiche (che non sarà un catechismo), carattere integrale per cui hanno diritto di figurare in essa anche gli errori, abbiamo procurato di stabilire un parallelismo mediante un confronto con la storia politica, i cui errori ed orrori (Sacco di Roma, Notte di S. Bartolomeo a Parigi, ecc.) nessuno storico si sognerebbe mai di tralasciare nei suoi manuali. Non riesco a capire perché l’Einaudi mi tacci di avere con ciò spostato la questione, passando anziché rimanere nel campo delle teorie economiche, alla storia dei fatti economici. Ma i parallelismi non sono spostamenti. E spostamento sarebbe anche, secondo l’Einaudi, la mia osservazione che le teorie economiche non traggono sempre origine dal desiderio di scoprire la verità. Come disse il Pantaleoni, gli uomini si decidono per lo più a favore di una teoria economica non per motivi sillogistici, ma per sentimenti od interesse. L’Einaudi mi obbietta che il Newton aveva sì fatto la scoperta della teoria della gravitazione per una mela cadutagli sulla testa, senza che, naturalmente, l’aneddoto abbia a fare parte della scienza. La qual cosa a me non desta meraviglia, giacché nel puro caso della caduta non entrò proprio né sentimento, né interesse. Non così però si potrebbe dire per quelle correnti psicologiche, filosofiche o politiche, che sono suscettibili di determinare delle teorie economiche che rimangono quindi con esse strettamente e indissolubilmente connesse.

 

 

Faremo ancora un’osservazione riguardo all’utilità, per lo storico delle dottrine economiche, di conoscere e di analizzare, oltre le teorie, anche il teorico. Infatti le teorie saranno pure finché si vuole, ma non possono non destare sospetto se l’indagine storica viene a stabilire che la scoperta dell’idea coincide con l’interesse privato dello scopritore teorico, o con l’interesse della classe sociale o categoria professionale alla quale lo scopritore appartiene (od alla quale, per un motivo qualsiasi, egli abbia aderito). Con ciò naturalmente non intendiamo affermare che l’interesse privato o la passione politica non possano condurre alla scoperta di verità (e ancora meno che alcune teorie nascono per fermo sulle torri d’avorio). Diremo solo che lo storico delle dottrine economiche debba metodologicamente porsi il quesito della provenienza concreta delle varie teorie, e ciò per due motivi: per la più esatta valutazione delle medesime e per non correre il rischio di perdere il contatto con la scienza in generale.

 

 

5. – Un particolare: l’Einaudi esplicitamente nega che la teoria “storica” della miseria crescente abbia un alcunché da fare con la storia delle dottrine economiche, ed afferma che tale teoria abbia avuto per autori solo «certi storici, per accidente economisti». Ora, come l’Einaudi non ignora, l’artefice più noto della teoria dell’immiserimento è stato Carlo Marx. Vuole l’Einaudi proprio sostenere la tesi che il Marx sia stato uno storico, solo “per accidente” economista? A noi pare che sia vero piuttosto il contrario. Giacché la teoria del Marx non era storicistica, ma strettamente economica. Secondo il Marx infatti, la concentrazione capitalistica effettua un sempre crescente investimento del capitale produttivo in macchine, stabili, ecc., ed un investimento sempre decrescente in salari. Con altri termini, il capitale costante sempre più si svilupperebbe a scapito del capitale variabile.[8]

 

 

6. – Certo, la verità rimane tale, anche se la verità di oggi è stata l’utopia di ieri o se l’utopia di oggi sarà la verità di domani, ed anche se appunto la verità è misconosciuta.

 

 

La frequenza di tale ultimo fenomeno (da cui proviene poi la necessità dell’esumazione, alla quale però non sempre si addiviene), ci suggerisce un ovvio ammonimento per lo studio della nostra scienza, quello cioè di usare somma prudenza nel proclamare verità ed errori. A proposito delle utopie, diremo che sbaglia chi crede che con la famosa sua ipotesi astratta che la cetra suoni da sé o la spola da sé si muova, Aristotele abbia previsto l’abolizione della schiavitù, il sorgere del lavoro libero e della macchina. Giacché anzi il filosofo greco si appalesò utopista supponendo, a difesa della schiavitù come fenomeno sempiterno, che la cetra da sé non avrebbe mai suonato e che la spola da sé non si sarebbe mai mossa.[9] Ed ancora diremo che quest’altra affermazione con la quale l’Einaudi procura di illustrare l’indole profetica e benefica del detto aristotelico, che cioè qualunque invenzione, la quale scemi la fatica del lavorare, libera l’uomo dalla schiavitù del faticare o dal faticare molto per produrre i beni primi nell’ordine del consumo e concede gli ozi liberi che l’uomo può destinare, e per lo più destina, a procurarsi beni più elevati, trascuri un elemento essenziale, quello demografico. L’ozio che una sproporzionata razionalizzazione e meccanizzazione del processo produttivo impone a milioni di disoccupati, per fermo non li mette punto in grado di procurarsi quei beni elevati che a giusto titolo l’Einaudi augura agli operai. Ne viene che l’invenzione la quale scema la fatica del lavorare non avrebbe effetti buoni che allorquando essa fosse susseguita da uno scemare correlativo, non dico già delle nascite, dello stesso numero complessivo delle popolazioni. Ma sarebbe questa diminuzione possibile e, se possibile, desiderabile?

 

 

7. – Talora può sembrare che l’Einaudi abbia troppa fede nella verità, considerata sotto un aspetto pressoché deterministico (così sembra, per es., più di una volta che egli concepisca la storia dottrinale non vichianamente, ma per mo’ di dire condorcettianamente, come una bella linea diritta.[10] Reca quindi viva consolazione a chi, attraverso i necessari ed utili dissensi procura di scoprire i non meno necessari ed utili accordi con i maestri e colleghi per i quali egli sente affetto e stima, allorquando vede, verso la fine dell’articolo (pag. 214) proporre l’Einaudi per il concetto del dogma un’interpretazione giuridica, per la quale dogma significhi «lo schema logico in base a cui provvisoriamente e successivamente si ordinano i concetti usati nei tentativi di costituire una scienza». Più ancora di questo, mi confortano alcune altre parole dell’Einaudi a pag. 218 in cui egli parla di scrittori, il cervello dei quali sia abbastanza forte per far sì che i loro libri rivivranno e riesporranno «le verità passate al lume delle verità future», e conclude che la storia delle dottrine economiche è la storia, continuamente rifatta e non mai finita, dei germi e precedenti che nei passati scrittori s’incontrano del corpo attuale ricevuto della dottrina. Queste parole spirano un indirizzo evoluzionistico e per cui la verità riacquisti il suo nesso col tempo e con lo spazio, vale a dire con gli altri grandi coefficienti del pensiero e della vita umana. E concluderemo facendo nostro, oltre il concetto nutrito dal Marshall, per il quale l’economia politica «is on the one side a study of wealth, and on the other, and more important side, a part of the study of man»,[11] le parole di un economista tedesco appartenente alla scuola matematica, certamente non sospetto di storicismo o di sociologismo, il Lexis: «La teoria economica non predice, come quella astronomica, l’avvento di certi fenomeni, ma cerca invece di predire delle possibilità realizzabili, nel senso di stabilire che, qualora alcune varie e possibili circostanze si avverassero, si otterrebbero certi effetti. Quali siano le circostanze o condizioni che potrebbero verificarsi, non le è dato però di predire, il suo valore, riguardo alla conoscenza della realtà, non consistendo che nella precisione delle sue ipotesi, che devono derivare da un massimo di casi presi in considerazione. La teoria economica consiste quindi nella conoscenza dei molteplici stadi e processi economici concreti. Certo trova posto in essa anche l’astrazione, purché questa non sia un comodo surrogato per la deficienza della cognizione reale dei fenomeni».[12]

 

ROBERTO MICHELS

 

 

Alcuni tra i punti, sui quali il Michels richiama l’attenzione, non furono mai causa, nonché di malinteso, neppure di controversia. Che la scienza economica, come tutte le altre scienze, non sia stata in passato, non sia ora e non possa diventare mai definitiva; che i dogmi, ossia gli schemi o strumenti di interpretazione e di investigazione, siano sempre provvisori e destinati ad essere sostituiti da altri più perfetti, è verità che si può ritenere assiomatica. Se una storia di idee deve farsi, essa non può non essere storia del progressivo perfezionarsi del dogma. Appunto perché il dogma scientifico non è verità rivelata da fonte soprannaturale, né imposta da forza esteriore, esso si rinnova perennemente, perfezionandosi per aggiunte piccolissime dei modesti indagatori e per lampi luminosi dei grandi scopritori. Non fu sempre risaputo che l’unica riprova della verità è la possibilità di negarla?

 

 

La vera controversia fra il Michels e me si può ridurre ai seguenti punti:

 

 

  • la storia del dogma economico (altri dica della dottrina economica) non deve essere, secondo il Michels, oggetto di studio isolato, isolato cioè:

 

  • dalla storia dei fatti economici, ossia dell’ambiente o degli avvenimenti in mezzo ai quali fu esposto, combattuto e negato il dogma;

 

  • né dalla storia delle correnti d’idee filosofiche, le quali influirono sulla sua formazione;

 

  • né dalla storia delle idee politiche, le quali parimenti operarono su di esso;

 

  • né dalla ricerca delle eventuali origini o cause determinanti od occasionali (interessi privati, predilezioni individuali e dicasi anche sessuali) del dogma;

 

  • né gli pare si possa escludere dalla storia delle dottrine economiche la investigazione di quelle dottrine le quali si occupano, invece che di problemi astratti, di sequenze empiriche di fatti o di forme di organizzazione economica e sociale.[13]

 

 

Il Michels, nell’ansia di toccare la verità compiuta, non concepisce storia di dottrine economiche che non tenga conto o non tenti di tener conto di tutti questi ed eventualmente di altri punti di vista e non ne studi le vicendevoli interferenze e ripercussioni. Non ho obbiezioni di principio contro la sintesi; ma ritengo prudente tener ognora presente, innanzi di tentar sintesi, che la storia della teoria pura o del dogma economico (A) ha oggetto diverso dalla storia economica (B), o dalla storia dei rapporti fra il dogma economico e le scuole filosofiche (C), o da quella dei rapporti fra il dogma stesso e le idee politiche (D), o dalla storia delle cause delle variazioni scientifiche (E), o da quella delle forme delle società economiche (F), ecc., ecc.

 

 

Sarebbe pedantesco pretendere che lo scrittore di storie avverta continuamente il lettore, con simboli o con rigiri di parole, che egli parla della storia A o di quella B o di un’altra ancora. Pedantesco e noioso. Ma è assolutamente necessario che lo scrittore sappia di quale storia egli di volta in volta discorra; e ne dia discreta dimostrazione usando opportuni differenti metodi di indagine e di esposizione. La confusione delle lingue non ha mai giovato nello scrivere storie ed anzi nello scrivere in generale.

 

 

Dico di più. Solo col distinguere nettamente le diverse specie di ricerche si potranno risolvere i problemi di correlazione fra gli A (teorie pure), i B (fatti economici), i C (correnti filosofiche), i D (correnti politiche) e gli E (determinanti psicologiche ed economiche dell’ideazione).

 

 

Chi pensi quanto poco posto – anzi quasi nullo – tengano i B, i C, i D nella storia delle scienze matematiche e fisiche; che rifletta che il determinante praticamente unico (E) delle scoperte scientifiche in quei campi è la lapalissiana esistenza di teste atte al ragionamento ed alla investigazione matematica o fisica; deve stupire che in economia, ossia in una dottrina avente la medesima indole delle scienze matematiche e fisiche (affermazione questa, si osservi, la quale non ha alcun necessario legame con l’altra che sia necessario od utile nel suo studio l’impiego dello strumento matematico), ci si affatichi tanto nel ricercar nessi, per lo più indimostrabili, con i B, i C, i D e gli E. Come cercare nessi a proposito di quel che non sia stato definito nel suo stato attuale e nel suo divenire storico?

 

 

È interessante notare che i cultori dei B, dei C, dei D e degli E per lo più si ostinano a dare ad A un contenuto che i cultori di A energicamente respingono. Credo che una posizione così paradossale non esista in alcun altro campo dello scibile: di A i quali si affaticano a dire: «noi ci occupiamo di prezzi, di mercati, di moneta, di effetti delle imposte»; e di B, C, D, E, ecc., i quali replicano: «non è concepibile, non è possibile che voi vi occupiate solo di tecnicismi così aridi, di problemi così modesti e materiali. È viltà la vostra. Voi dovete occuparvi dei grandi problemi. Fondandovi sui concetti di utile, di interesse individuale e collettivo, ecc., voi avete implicitamente o dovete avere una filosofia della vita, una concezione del mondo. La negate per pigrizia mentale; ma non vi ci potete sottrarre».

 

 

Gli economisti strabiliano a sentirsi imporre obblighi di studiare problemi che sono fuori della loro scienza; e più a sentirsi tacciare di volersi occupare per amor di pigrizia di facili tecnicismi. Constato il fatto che i teoremi economici più preziosi furono inventati da teste probabilmente negate alla filosofia, alla politica ed alla storia. Non significa forse nulla la circostanza che la storia dei grandi passi compiuti dalla scienza economica pura possa essere stata ricondotta da uno dei suoi pochissimi conoscitori veramente emunctae naris, H.S. Foxwell, a quattro nomi: Petty, Cantillon, Ricardo e Jevons e che di questi quattro, i primi tre siano stati uomini tali a cui il comune, e s’intende volgare, linguaggio d’uso volontieri applicherebbe la qualifica di affaristi, ed il quarto, unico entrato nell’arringo filosofico, abbia trascorso una parte della vita in uffici tecnici, attinenti alla zecca? Se a quella lista altri uomini, puramente contemplativi, possono essere vantaggiosamente aggiunti, essa giova tuttavia a spiegare, colla aridità di talun nome di essa, perché gli economisti puri rimangono impassibili dinanzi agli sforzi della tanta gente la quale vuole loro dimostrare che, poiché hanno usato provvisoriamente tali e tali strumenti di indagine, essi, oltreché economisti, sono e devono necessariamente essere individualisti, liberali, socialisti, corporativisti, statalisti, anarchici, solidaristi, ecc. Il linguaggio di chi li vuole così sforzare è incomprensibile; e quell’essere oggetto di tanti curiosi stiracchiamenti è fonte di stupore e di fastidio. Stupore e fastidio crescono quando, essendo uomini, gli economisti puri o nudi amino anch’essi ferventemente un loro ideale morale, religioso, politico, liberale, socialistico o corporativistico. Sanno invero che il raggiungimento dell’ideale, qualunque esso sia, non è favorito anzi è grandemente frastornato dai ragionamenti sbagliati che essi sarebbero necessariamente tratti a commettere mescolando teoria ed applicazione, dogmi e fatti empirici, indagini su quel che è con ricerche su quel che si suppone essere e, peggio, con quel che si reputa “dover essere”.

 

 

È fatto storicamente incontrovertibile questo: esiste una schiera di indagatori, rappresentata nei secoli XVII, XVIII e XIX, ad es., dai già ricordati Petty, Cantillon e Ricardo, non venuta mai meno in seguito, diventata abbastanza folta dopo Cournot, Gossen, Jevons, Walras, Pareto, ecc. ed assai cresciuta di numero oggi, la quale, pur indulgendo e talvolta prediligendo altre specie di speculazione, adopera, quando attende all’economia, un certo metodo (astrazione ipotetica), studia certi problemi (prezzi di beni materiali ed immateriali e quindi anche salari, rendite, prezzi di beni capitali, epperciò ancora saggi di capitalizzazione e di interesse, astrazione fatta o tenendo conto della moneta, dell’imposta, ecc., ecc.) e propone schemi per la determinazione dei legami fra quei prezzi (teorie del costo di produzione, dell’utilità finale, dell’equilibrio economico, ecc.). Poiché, bene o male, costoro esistono e studiano e danno fuori teorie, è legittima la storia delle loro elucubrazioni. Se poi siffatta storia sia scritta senza riferirsi a nessun altro concetto o strumento o schema fuori di quelli da essi posti ed elaborati, se da essa risulti perfetta la catena dei ragionamenti attraverso ai quali si riuscì a perfezionare il corpo di dottrine ricevute in seno al cenacolo – chiamiamolo pure così, per distinguerlo dai più vicini studiosi – dai primi grossolani schemi agli odierni assai più complessi, resta col fatto dimostrata la legittimità dello scrivere quella storia.

 

 

Non si vuole chiamarla senz’altro storia delle dottrine economiche? Ciò non ha importanza. La chiameremo – mutando lievemente, per comodo di illustrazione, la classificazione sopra dichiarata – storia delle dottrine economiche alfa. Chiameremo storia beta quella che studia le dottrine economiche esposte dai liberali in quanto liberali; storia gamma, quella che studierà quelle esposte dai socialisti in quanto socialisti; storia delta quella, ad es., della politica economica usata nei successivi tempi (mercantilistica, protezionistica, libero scambistica, ecc.). Ognuno scriva la storia che più gli talenti. Insopportabile è soltanto che agli economisti nudi occupati intorno alla scienza economica alfa ed alla sua storia venga ogni tanto tratta via di mano la penna da che vorrebbe costringerli a rivolgere l’attenzione ad altri tutt’affatto diversi problemi, distraendoli dall’attendere agli ardui studi prediletti, in cui, pur supponendoli liberi da non volontarie distrazioni, la probabilità di riuscire a qualche risultato apprezzabile è già, per sé stessa, infinitamente piccola!

 

 

Quanto lontani, dirà Michels, dall’origine del dibattito: se la storia delle dottrine economiche debba occuparsi solo delle verità o puranco degli errori! Egli è che, riflettendo, mi sono persuaso che la scelta fra la verità e l’errore non è il punto d’origine del dibattito. Prima di risolvere un qualunque problema, bisogna porlo esattamente e chiaramente. Di quale oggetto si discute? Di quale o di quali fra i tanti? Essendo manifesto che nessuno, il quale voglia discutere di uno solo dei possibili oggetti, può essere costretto a discuterne parecchi o ad abbracciarli tutti, la questione secondaria della verità o dell’errore è risoluta. Ognuno discuta di quel che gli piaccia. Purché manifesti il suo intento e dica: io faccio storia di alfa o di beta o di gamma o di tutte insieme le lettere dell’alfabeto. Posto correttamente il problema, è risoluto, insieme con qualunque altro dibattito, anche quello fra verità ed errore. Nella storia alfa l’errore trova ospitalità esclusivamente se per errore noi intendiamo imperfetta la prima formulazione di verità poi meglio chiarita. Molti errori contennero noccioli di verità poscia faticosamente elaborate; e tutta la storia alfa è colorita dalla necessità di estrarre il metallo fine dalla ganga in cui è contenuto. Ho l’impressione, ad esempio, che le innumeri pagine dei fisiocrati, in cui è tanta scoria o tanta materia estranea all’economia, debbano essere ristudiate per riscrivere, nel linguaggio odierno proprio della nostra scienza, le verità essenziali da essi annegate nel “quadro”, nel “prodotto netto”, “nell’imposta unica”. Attraverso alla visione provvidenziale della “natura”, attraverso al mito della libertà economica creata dal sovrano illuminato e simili concezioni tipiche del secolo XVIII, le quali interessano le storie beta, gamma, ecc., lo storico alfa si affaccenderà nell’estrarre posizioni straordinariamente più moderne di quelle classiche, che direi walrasiane e paretiane se in certi punti non le avanzassero. Egli sa che i fisiocrati sono anche gli uomini della provvida natura, del lasciar fare, del prodotto netto e dell’imposta unica; plaudirà agli storici beta, gamma, delta, ecc., ecc., che metteranno in bella luce quelle loro teorie transeunte, che le collegheranno con la filosofia, con il fermento politico, con la costituzione economica e sociale della Francia tra il 1750 ed il 1789. Augurerà che lo storico di genio, lo storico compiuto riannodi le sparse fila delle tante e tutte importanti ricerche e dia la visione intiera di quel che i fisiocrati furono. Sua unica ambizione è di offrire al futuro storico un suo contributo peculiare: che è, per rubare a Benedetto Croce mezzo il titolo di un suo libro famoso, la dimostrazione di quel che oggi è vivo nelle teorie economiche dei fisiocrati. Francesco Ferrara, dettando la prefazione e la nota al primo volume della Biblioteca dell’Economista, dichiarava il gran merito della «setta degli economisti» consistere nell’avere «dall’ordine morale e sociale… staccato qualche principio per formarne un nuovo ramo dello scibile umano». Oggi si dubita fondatamente se il vanto dell’avere astratto dal mondo multiforme dello scibile quel particolare corpo di dottrine che prese il nome di scienza economica spetti ai fisiocrati. Qualunque sia stato il loro contributo specifico, esso tuttavia va cercato lì e non altrove.



[1] Scrivere una storia delle teorie economiche in se stesse considerate è cosa possibile e meritoria. Saranno tuttavia sempre poche le teorie suscettibili di essere trattate con questo metodo, e non mai il corpus legum

economicarum preso nel suo assieme. E qui ci toccherebbe parlare del metodo matematico.

[2] EMIL LEDERER, Grundzuge der okonomischen Theorie. (Tubinga, 1922, Mohr. pag. 2-3).

[3] ALFRED MARSHALL, Principles of Economics. (Londra, 1898, Macmillan, pag. 4).

[4] Ricordiamo il giudizio dato da Umberto Ricci sul Cours del Pareto: «Il Cours è un libro che fa onore a una letteratura. – Pure osiamo dire che non è adatto alla moltitudine degli studiosi: reca una impronta troppo personale, è opera definitiva, come tutte le opere classiche, le quali si collocano in un punto determinato e immobile della storia». (UMBERTO RICCI, Politica ed Economia, Roma, 1919, «La Voce», pag. 75).

[5] È incredibile, per es., con quanto accanimento i fautori del materialismo storico persistano nello spacciare le origini della guerra mondiale, dovute ai terribili scontri nazionali tra il germanesimo con i suoi alleati magiari e lo slavismo, per fenomeni della lotta di classe.

[6] HAROLD D. LASSWELL, Psychopathology and Politics. (Chicago, 1930; The University of Chicago Press). Cfr. la mia confutazione del libro nell’art. Psico analisi, capitalismo e partito politico, pubbl. in «Politica Sociale» (anno III, n. 7-9, luglio-sett. 1931).

[7] OTTO PFISTER, Der seelische Aufbau des klassischen Kapitalismus und des Geldgeistes. (Berna, 1923, Bircher).

[8] KARL MARX, Das Kapital, «Kritik der politischen Oekonomie». (II ed., Amburgo, 1872, Meissner, vol. I, parte I, pag. 220 e seg., pag. 652).

[9] La Politique d’Aristote, trad. e annotata da J. Barthelemy Saint Hilaire. III ed., Parigi 1874, Lavray, pag. 13; AUGUST ONCKEN, Geschichte der Nationaloekonomie, Parte Prima: Die Zeit vor Adam Smith. (Lipsia, 1902, Hirschfeld, pag. 44); F. DOMELA NIEUWENHUIS, De Geschiedenis van het Socialisme. (Amsterdam, 1901, Van Looy, vol. I, pag. 50).

[10] Così alla mia osservazione che occorra tanta maggiore cautela nell’accogliere le verità economiche, in quanto che la storia delle dottrine abbonda di casi in cui gli autori, anche più celebri, nel corso della loro vita scientifica, si rinnegano, emettendo così due verità contraddittorie, l’Einaudi risponde: «Così tutti facessero e seguitassero a macerare l’intelletto in uno sforzo continuo di autocritica! Quanto sarebbe più veloce il cammino su per l’ardua via della verità!». Come se la seconda verità emessa non potesse significare, di fronte alla prima, una inferiorità od un regresso scientifico!

[11] MARSHALL, loc. cit., pag. 1.

[12] WILHELM LEXIS, Allgemeine Volkswirtschaftslehre. (Lipsia, 1910, Teubner, pag. 21).

[13] Il Michels mi chiede se io sostenga sul serio la tesi che il Marx sia stato uno storico solo “per accidente” economista. La risposta è ovvia: Marx non fu né storico né economista. Marx “fece” storia, la narrò per “farne” ancora, ed allo stesso scopo espose i cosidetti “teoremi economici”. Non vi è alcuno storico di dottrine economiche (le alfa del testo, per intenderci), il quale dia qualsiasi importanza a quei teoremi come a qualcosa che abbia avuto peso nel cammino della ricerca della verità; né v’è storico dei fatti economici il quale si attenti ad utilizzare i libri di Marx come fonte di studio, senza sottoporne i dati e le notizie a sospettosa critica. Invece gli storici dei fatti economici e sociali, delle correnti d’idee capaci di muovere i popoli saranno sempre costretti a dare ai libri, alle lettere, agli articoli, ai discorsi ed alla vita di Marx una straordinariamente grande importanza. Quanto alla sua dottrina della “miseria crescente” può darsi essa possa essere formulata in termini propri della scienza economica. Esiste una côte alla quale possiamo saggiare la pretesa di una proposizione ad entrare nel nostro sacrario: è dessa atta ad essere formulata in maniera ipotetica? L’economista parte sempre, espressamente o tacitamente, dal supponiamo che… se premettiamo che… e simili. È elementare che i teoremi così dimostrati hanno valore solo entro i limiti delle poste premesse. Gli effetti seguono solo se si verificano di fatto le premesse e solo quelle premesse. Dunque non seguono mai o non seguono mai compiutamente, perché, se è vero che le premesse supposte possono verificarsi, è vero anche che esse non si verificano né si possono verificare mai da sole.

Come fu formulata da Marx, la teoria della “miseria crescente” è una legge storica o di fatto o, come si suol dire, empirica; non una legge astratta. Marx assevera, come del resto bene riferisce il Michels, che esiste un fatto: concentrazione capitalistica, che da tal fatto segue un investimento crescente in macchine e decrescente in salari; e di qui derivano alla loro volta miseria crescente ed altri malanni. Michels, il quale ha così dottamente narrata la storia di quella teoria (cfr. di lui La teoria di C. Marx sulla miseria crescente e le sue origini, Torino, 1922) da Gianmaria Ortes e da Sismondi, anzi dai loro precursori, ad oggi, ponga quella teoria sotto forma ipotetica. La discuteremo; vedremo se le premesse sono ben definite, se stiano da sole, se non suppongano necessariamente altre ipotesi; e riconosciutane la legittimità logica, vedremo quali conseguenze se ne deducano.

Qualunque siano le conclusioni, né esse, né le premesse poste saranno in grado di dirci molto intorno ai problemi di cui si preoccupava Marx, e di cui parmi preoccuparsi Michels; è vero o non è vero che nel secolo XIX e nel XX esiste un processo detto di concentrazione capitalistica? è vero o non è vero che siffatto processo conduca i capitalisti ad investire capitali in un modo piuttosto che in un altro o via dicendo? Domande storiche su quel che è accaduto o sta accadendo; domande alle quali sarebbe per fermo interessantissimo dare risposta. Storia e non teoria. È utile che lo storico conosca la teoria, per averne lume a muoversi tra i molti e complicati fatti storici. È utile che il teorico viva nella storia e non nel mondo della luna per scegliere tra le tante ipotesi o premesse possibili quelle che diano affidamento di maggior fecondità. Fatta la scelta, il teorico deve usare suoi strumenti propri, esporre leggi astratte e guardarsi bene dall’asseverare o profetizzare fatti concreti. Ne sutor ultra crepidam.

 

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