Opera Omnia Luigi Einaudi

Ancora le sperequazioni e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1929

Ancora le sperequazioni e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1929, pp. 1-21

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 153-175

 

 

 

1. – La «Riforma Sociale» pubblica, con lo stesso titolo del presente fascicolo e in questo stesso numero, uno studio di Antonio Deni, chiaro funzionario degli uffici delle imposte dirette, che è un contributo importante allo studio dei mezzi atti a rendere più perequata e perciò feconda di cresciuti gettiti l’imposta di ricchezza mobile. Una delle conclusioni a cui, nel saggio comunicato alla rivista sino dal mese di settembre 1928, era giunto l’A., ossia la riaffermazione dell’art. 14 della legge organica sull’imposta di ricchezza mobile, circa l’obbligatorietà della dichiarazione dei redditi mobiliari, con pene severe ed efficaci per le omesse o infedeli denuncie, ha già formato oggetto del disegno di legge presentato dal ministro delle finanze al Senato nella tornata del 6 novembre 1928 (stampato n. 1647 della legislatura XXVII), il quale regola ampiamente tutta la materia. Bene osserva il ministro, nella relazione premessa al disegno di legge, che la lotta contro la evasione non ha tanto scopi fiscali «quanto e più ancora fini di giustizia, di preparazione del terreno necessario per ulteriori graduali diminuzioni di aliquote, non appena sia possibile».

 

 

2. – Affinché l’alto scopo sia pienamente raggiunto, importa non solo che i contribuenti assolvano il loro dovere, ma abbiano anche la sensazione netta dell’equità comparativa dell’onere tributario a cui le varie categorie di redditi sono soggetti. La legge d’imposta di ricchezza mobile, sorta nel 1864 secondo un disegno semplice e logico, subì, per le vicissitudini dei tempi,trasformazioni siffatte da ridurla ad essere un conglomerato di differenti imposte, non aventi tra di loro quasi alcun rapporto sostanziale. In uno studio pubblicato nelle pagine di questa rivista nella state scorsa (L’evasione all’imposta, ecc., a p. 305 e seg., dell’annata 1928) io avevo cercato di mettere in luce l’eterogeneità profonda esistente tra la categoria D (redditi degli impiegati pubblici), e quelle B (degli industriali e commercianti) e C (dei professionisti ed impiegati privati). La conclusione era che, ferma rimanendo l’aliquota dell’8 per cento sul reddito degli impiegati pubblici, quella sul reddito degli impiegati privati avrebbe dovuto essere soltanto del 6% e quella sul reddito dei professionisti del 4 per cento.

 

 

Alla tesi ed alle conclusioni dell’articolo mio si oppone con rilevanti argomentazioni il prof. Salvatore Scoca in un altro articolo, che pure è pubblicato sotto lo stesso titolo, nel presente fascicolo.

 

 

Lo Scoca dimostra che non ha fondamento nella legge scritta vigente l’eventuale pretesa dei professionisti e degli industriali – commercianti alla franchigia dall’imposta di una parte del loro reddito. Nella quale proposizione per fermo tutti devono convenire; la mia tesi essendo invece che la legge debba essere modificata affinché meglio si renda ossequio al suo spirito informatore. Fa d’uopo che la legge tributaria, come tutte le altre, sia osservata finché essa è vigente; ma l’osservazione degli effetti dell’osservanza medesima è il punto di partenza per il perfezionamento progressivo della norma legislativa. Dal legislatore passato, il quale attuò imperfettamente nel 1866, nel 1867 e nel 1870 un suo concetto, si può far appello al legislatore futuro, il quale traduca lo stesso concetto, il cui contenuto logico cercai di delineare nell’articolo discusso, in una norma più perfetta.

 

 

Abolita dal De Stefani la distinzione fra A1 e A2, rimane, unica nota estranea al concetto originario della diversificazione (in A, redditi di capitale puro, B, redditi misti di capitale e lavoro e C, redditi di lavoro puro) inspirata esclusivamente alla diversa indole del reddito, la distinzione della C in C e D, la quale ha origini tutto diverse, relative alle facilità dell’accertamento. La mia tesi era che si dovesse eliminare questo elemento estraneo e riportare la struttura dell’imposta a quella originaria. Giovò tuttavia che il problema fosse posto; e forse, anche dopo il contributo dello Scoca e di altri, che verranno poi ricordati, qualche aggiunta alla discussione può farsi ancora. Esporrò ora soltanto alcune riflessioni, forse non inutili a chi voglia andare a fondo della questione.

 

 

3. – Alla tesi fu mossa una prima censura di indole storica. L’aumento dell’imposta per i contribuenti privati della C (professionisti ed impiegati privati) al di là di quanto proporzionatamente alla D essi dovrebbero pagare, se assolvessero il loro debito sul vero reddito, come fanno quelli della D, o, il che fa lo stesso, la riduzione dell’aliquota della D al disotto di quella che dovrebbe essere se anche in C l’accertamento fosse integrale, fu sostanzialmente deciso, avevo detto, nel 1870 appunto per tenere conto della minore occultabilità dei redditi degli impiegati privati. Fu obiettato[1] non essere vero fosse stato, durante la discussione della legge 11 agosto 1870, n. 8784, motivato l’aumento dai 3/8 ai 4/8 del coefficiente di riduzione del reddito degli impiegati, e cioè la collocazione di quest’ultimo in una particolare categoria D trattata più mitemente, con la minore capacità degli impiegati a frodare.

 

 

Se invece di «unica ragione non contingente addotta durante la discussione fu per l’appunto che gli impiegati non potevano ma gli altri riuscivano a frodare il fisco» io avessi scritto che «l’unica ragione non contingente addotta durante le discussioni, le quali furono la logica premessa della istituzione della categoria D, fu per l’appunto che gli stipendi dei pubblici funzionari sono accertati assai più rigorosamente dei guadagni dei professionisti e dei commercianti ed industriali privati», il giro della frase sarebbe stato meno espressivo, ma il concetto espresso non sarebbe stato diverso. E la frase avrebbe sunteggiato concisamente quel che è il contenuto delle parole pronunciate dal Pescatore nella tornata dell’8 maggio 1867[2]: «La tassazione per ritenuta[3] non è che una operazione che colpisce con precisione matematica il reddito nella sua totalità. La tassazione per denunzia invece istituisce un procedimento che presuppone il concorso volonteroso del contribuente, dipende da certe qualità morali dei contribuenti, dipende ancora sempre da un giudizio poco meno che arbitrario del contribuente stesso. E valga il vero: i redditi industriali che si tassano per sola denunzia presentano queste tre caratteristiche. Essi sono: primo indeterminati; secondo eventuali; in terzo luogo questi redditi portano frammisto a ciò che è vero reddito un altro elemento che in apparenza è provento, ma che nella realtà è premio di assicurazione, cioè a dire vera parte di capitale. Dati questi tre elementi è innegabile che i denunzianti sono autorizzati a tenere conto anche di questi elementi ed apprezzare nella loro coscienza quale sia il loro reddito vero, il reddito sicuro, immune da ogni rischio e limitare la denunzia a quel reddito. Adunque è dimostrato che, senza parlare di frodi, di evasioni, di reticenze che possono viziare la consegna dei redditi, la tassazione per denunzia dipende da un apprezzamento arbitrario sotto più rapporti, che questo apprezzamento vago indefinito si fa dallo stesso contribuente. Ora è manifestissimo che nel dubbio il dichiarante naturalmente deciderà a proprio suo vantaggio e non c’è da meravigliarsi che la legge stessa designando certi limiti di tolleranza, suppone in generale che il denunziante riduca di un quinto o anche di un quarto al disotto del vero il reddito che denunzia. È impossibile negare, o signori, questi diversi effetti dell’uno e dell’altro processo. L’uno, quello della ritenuta colpisce il reddito con precisione matematica; l’altro invece [non?] lo colpisce per intero ed è somma ventura che [se?] ne colpisce i quattro quinti, senza parlare, come dissi, delle frodi».

 

 

Sebbene si debba andare assai guardinghi nell’interpretare il pensiero altrui, pure sembra potersi supporre che il Pescatore, certamente lo studioso più insigne che in Parlamento abbia allora trattato il problema, persuaso come era (vedi La logica delle imposte, pag. 272 e seg.), che ai redditi di lavoro non spettasse alcuna differenziazione legale nel peso dell’imposta in confronto ai redditi perpetui di capitale, ritenesse assai rilevante la disparità nella precisione degli accertamenti raggiunti col metodo di ritenuta d’acconto per i pubblici impiegati e la insufficienza di essi conseguente al metodo della denuncia applicato ai redditi industriali e commerciali. Ed osservasse: se agli industriali si concede già una tolleranza di due ottavi (quella ai professionisti era dei tre ottavi) e se siffatta tolleranza astrae perfino da quella che essi si attribuiscono con frode (ed alla frode, alle false dichiarazioni il Pescatore dava tanta importanza, da esserne indotto potentemente a preferire al metodo della denunzia controllata quello dell’accertamento «relativo» inserito nel «contingente», Logica, pag. 50-53) non è giusto che agli impiegati pubblici, tassati con precisione matematica con la ritenuta diretta, si dia soltanto il beneficio della tolleranza dei due o dei tre ottavi concessa anche al altri. Perciò egli, come narra il Bonanno, accedeva nel 1867 ad un beneficio maggiore sotto forma di esenzioni da sovrimposte. Nel 1870, tolta intieramente ai comuni la facoltà di sovrimporre, si conservò la differenziazione a favore degli impiegati pubblici, dando ad essa la forma di collocazione dei loro redditi in una nuova categoria D, per cui la riduzione fu portata ai 4/8. Invano si oppose il Valerio, col consenso in pura logica, ma coll’opposizione pratica del Sella, alla distinzione tra redditi di impiego privato tassati sui 5/8 e redditi di impiego pubblico tassati sui 4/8. La categoria D entrò nel sistema della legge d’imposta; sebbene il Quarta ancor oggi persista a ritenerla infondata e ritenga che la sola ragione sostanziale che si può a favore di essa invocare, ossia la labilità e precarietà di essi, valga a favore dei redditi di tutti gli impiegati e professionisti, talché a suo parere «la categoria D deve mantenersi, ma affinché non costituisca un ingiustificato privilegio, la si deve mantenere estendendola indistintamente a tutti i redditi dipendenti dal solo lavoro, qualunque esso sia» (III, 201).

 

 

Non pare possa dirsi arbitraria la scelta da me qui sopra fatta, come dell’unica ragione «non contingente» della D del maggior rigore negli accertamenti degli stipendi pubblici in confronto ai guadagni di lavoro privato. Sembra invero logico ritenere «non contingente» quella sola ragione che riesce a radicarsi nell’opinione dei periti ed a tramandarsi nelle loro enunciazioni. Di che darò due sole prove, l’una legislativa e l’altra dottrinale.

 

 

Quella legislativa si legge nella relazione al disegno di legge presentato dal ministro delle finanze (Meda) per la riforma generale delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali (Atti Parlamentari, leg. XXIV, sessione 1913-1919, stampato n. 1105 dalla Camera dei deputati, seduta del 6 marzo 1919): «Giova ricordare quale sia stata la ragione giustificatrice della classificazione dei redditi di lavoro in due categorie C (reddito del lavoro dei professionisti e degli impiegati privati) e D (reddito del lavoro degli impiegati di Stato, provincie e comuni). Sembrò giustamente al legislatore italiano che più benigno trattamento dovesse riservarsi agli impiegati pubblici, i quali sono accertati fino all’ultimo centesimo sui loro stipendi ed assegni in cifra sicura e definita, in confronto dei professionisti, il cui reddito, per la sua indole incerta e variabile, non può essere accertato con altrettanta sicurezza e viene anzi di solito almeno parzialmente occultato» (pag. 39).

 

 

Quella dottrinale è la spiegazione che il maggiore teorico vivente della finanza in Italia, Antonio De Viti De Marco, dà lapidariamente, come è suo costume, delle vicende storiche delle categorie dell’imposta mobiliare:

 

 

«Con le prime leggi le categorie erano tra: A, B, C. Indi i funzionari dello Stato, adducendo la ragione che i loro stipendi e pensioni non potevano evadere al più rigoroso accertamento del loro reddito, ottennero la nuova categoria D. Poi la legge 1894, considerando che gl’interessi dei prestiti pubblici e dei prestiti garantiti dallo Stato offrono un grado maggiore di sicurezza in confronto dei mutui privati, scisse rispettivamente in A1 e A2 la originaria categoria A» (I primi principi dell’Economia Finanziaria, Roma, 1928, pag. 278).

 

 

Giova tuttavia riconoscere che manca, nonostante il pregevole scritto dell’Abate[4], uno studio approfondito sulle origini dottrinali e legislative italiane della diversificazione dei redditi in genere e della categoria D in ispecie. Lo studio dovrebbe essere condotto non solo sui testi legislativi italiani, ma anche su alcune note fonti estere e sul loro collegamento (le Lettere del Broglio e forse altro da riscoprire), con le fonti legislative italiane e sulla letteratura dell’epoca, di cui il maggior documento si trova nella Logica delle imposte del Pescatore. E poiché un testo legislativo può essere diversamente interpretato col volger degli anni, gioverebbe seguire il principio della diversificazione fino ai giorni nostri, nella dottrina e nei documenti, sì da metterne in chiaro il successivo atteggiarsi.

 

 

Per ora, sulla base delle fonti divulgate, parmi si possano suggerire le

seguenti conclusioni provvisorie:

 

 

  • La diversificazione in favore degli stipendi pubblici ebbe la sua prima attuazione nell’esecuzione di essi dalla sovrimposte locali colla legge del 1867. E fu allora che il Pescatore motivò il beneficio col più rigoroso accertamento di questi redditi in confronto a quelli tassati per denuncia.

 

  • Nel 1870 il beneficio prese la forma di creazione di una particolare categoria (I) tassata sui 4/8, invece che sui 5/8 della C.

 

  • La motivazione, che fu anche data dei benefici ora indicati: essere gli stipendi degli impiegati pubblici più miseri dei guadagni privati fu col tempo quasi obliterata; e la ragion probabile di ciò fu che la motivazione non è pertinente all’imposta di ricchezza mobile. La quale, salvo l’eccezione dei redditi minimi e le deviazioni del tempo di guerra, è imposta ad aliquota costante e non tiene conto dell’ammontare del reddito, come farebbe una imposta personale progressiva.

 

 

Essendo questa motivazione illogica in rapporto alla struttura essenziale del tributo, restò sola in campo la motivazione che si potrebbe dire del Pescatore, la quale è riprodotta nelle fonti recenti sopra ricordate. Quale altra spiegazione, d’altro canto, si potrebbe dare della categoria D, se nulla si sapesse sui precedenti storici di essa e a quale altro mai argomento si appigliarono i funzionari delle opere pie e di altri enti morali per chiedere, come finirono di ottenere, la assimilazione dei loro stipendi a quelli degli impiegati di Stato, all’infuori dell’essere quegli stipendi anch’essi accertabili fino all’ultimo centesimo?

 

 

4. – La contaminazione dei criteri oggettivi (natura propria del reddito, se di capitale o lavoro o misti), che soli dovrebbero presiedere alla diversificazione delle aliquote tributarie, con criteri empirici (variabilità, accertabilità, ecc.), fu già tolta per la A (redditi del capitale puro), quando il ministro De Stefani abolì nel 1923 la distinzione, dovuta a circostanze puramente contingenti e di opportunità, fra la A1 e la A2. Le mie proposte rispetto alla D mirano allo stesso intento, di ritorno al disegno razionale del 1864, senza intervento di considerazioni non pertinenti alla natura propria del reddito tassato. Perciò non ha valore la seconda censura, che la tesi da me proposta – essere l’aliquota più dura della C, in confronto alla D, un tacito riconoscimento legale del fatto delle sottovalutazioni dei redditi di lavoro privato – legittimi l’evasione fiscale, essendo quasi scusato il contribuente, il quale reagisca colla frode contro una aliquota del 12%, troppo alta in confronto a quella dell’8 per cento di cui la legge si tiene paga per gli stipendi pubblici più sicuri e perciò passibili di tributo più elevato. L’accusa dovrebbe, eventualmente, essere rivolta ai legislatori passati, dal 1870 al 1822, i quali, qualunque fosse il motivo che a ciò li trasse costrussero un sistema di aliquote che a me pare certamente squilibrato.

 

 

La reazione dei contribuenti è prodotta dello squilibrio tra le aliquote – e lo Scoca proponendo il 7 invece del 12, che, come si vedrà sotto, è invece, tenuto conto delle sovrimposte, quasi il 16%, riconosce, al limite dei redditi divenuti perequati per tutti, l’esistenza di uno squilibrio, poco meno accentuato di quello da me supposto -; non certo dalla segnalazione di quello squilibrio, fatta da me, che lamentando e dicendo «funestissima» la causa del male, proponevo soltanto si procedesse più innanzi sulla via della perequazione delle aliquote, la quale, invocata da tanto tempo e da tanti scrittori, aveva avuto un vigoroso cominciamento di attuazione nei decreti De Stefani del 1923, cominciamento tanto più significativo nel punto ora discusso, in quanto quei decreti avevano tolto, come si disse or ora, una delle due (quella relativa alla A) diversificazioni extra vaganti che erano state innestate sulla originaria tripartita distinzione. Chiedere una riforma della legge atta ad eliminare la spinta alle evasioni non è per fermo giustificare queste; ma anzi contribuire a renderle, oltreché legalmente, anche moralmente biasimevoli. Le multe e le sanzioni, anche penali, fa d’uopo siano applicate in un ambiente sociale e morale in cui il colpevole rimanga isolato, senza neppure il conforto della compassione altrui. Ed a ciò importa, come dice il ministro, che entri nella coscienza di tutti l’impressione evidente della legge giusta.

 

 

5. – Quanto alla sostanza della tesi: che il reddito dell’impiegato pubblico sia un che di eterogeneo al reddito del professionista, fu obiettato (sovrattutto in un articolo del dott. Palermo su il Popolo Biellese del 15 novembre 1928):

 

 

  • essere il reddito del pubblico impiegato meno continuativo e sicuro del reddito del professionista. Questi invero ha un ufficio attrezzato per continuare a funzionare anche durante le more della malattia o di altre disgrazie, laddove l’impiegato può perdere l’impiego per volontarie dimissioni o per licenziamenti d’ufficio ed in caso di malattia trova ridotte le competenze al quarto. Non pare che le volontarie dimissioni, dovute presumibilmente ad avere trovato miglior collocamento o il licenziamento d’ufficio, rarissimo provvedimento e dovuto per legge a colpa dell’impiegato, possano essere prese in considerazione per sminuire il carattere di continuità nello stipendio pubblico, assurto nella frase dei «pochetti, ma sicuretti» alla dignità di adagio popolare.

 

 

L’attrezzamento alla continuità dell’ufficio del professionista, anche durante la mancanza di questi, non si può escludere, ma supporre la esistenza di coadiutori, praticanti, commessi che bene possono per lo più assorbire il reddito che ancor si produce in assenza della vera persona a cui in realtà si indirizzano i clienti.

 

 

Se esistono, questi sono presidi non di continuità, ma di ripresa del reddito, dopo la sospensione dovuta a malattia. Né, a parità di reddito, i presidi suddetti possono convertire in regolare e continuo il flusso irregolare e discontinuo, e perciò di minor valore economico, del reddito professionale.

 

 

1)    Il reddito dell’impiegato pubblico vale di meno del reddito professionale, perché ottenuto in luoghi lontani dalla propria famiglia e dai propri affari. «È risaputo, dice il Palermo, che i funzionari siciliani vengono mandati a respirare l’ottima aria delle magnifiche e suggestive alpi, mentre gli alpigiani vengono mandati ad inspirarsi nella dolce e balsamica isola di Teocrito e di Bellini. I funzionari posti in tali condizioni si contenterebbero di un terzo di meno dello stipendio se potessero guadagnarlo nella propria regione e della metà se potessero esercitare la propria l’unzione nel proprio paese e potessero attendere ai loro interessi ed ai loro affetti». C’è del vero in ciò: ma il vero è soggetto a qualche riserva. Purtroppo – dico purtroppo rispetto all’ideale di crescenti rapporti interregionali, di migliore conoscenza, reciproca, a cui è dovuta tanta parte della più salda coscienza unitaria nazionale odierna in confronto al 1860 – gli scambi territoriali tra i funzionari delle varie regioni italiane sono meno frequenti di quanto sarebbe desiderabile. Pochi i piemontesi, i lombardi, i liguri nel sud, poiché i settentrionali non amano la vita dell’impiegato; numerosi i meridionali nel nord e, a quanto pare, non facile impresa indurli ad accettare volontieri una sede meridionale. Il fatto parrebbe dimostrare che le attrattive della vita nel settentrione superano i vincoli di affetto e di interesse che attirerebbero i meridionali verso i luoghi di nascita.

 

2)    Quel che c’è di vero nell’osservazione precedente sta in ciò che l’impiegato teme i traslochi, che sono costosi, che frastornano gli studi dei figli, che gli impediscono di cercare una occupazione sussidiaria per la moglie e i tigli conviventi, come può fare chi sia radicato in un luogo. Tuttavia, per la grande maggioranza degli impiegati adulti e ammogliati, giova riconoscere che l’amministrazione tiene conto delle esigenze di famiglia dei suoi funzionari; e salvo per quelli per cui il trasloco è condizione necessaria di una promozione o della funzione particolarmente delicata coperta, la permanenza nella stessa sede è la regola.

 

3)    il reddito del professionista non è frutto di puro lavoro, ma anche di capitale (gabinetti medici, librerie dell’avvocato, anticipi del notaio, del ragioniere, del rappresentante) e può dar luogo alla formazione di un valore di avviamento cedibile. Il quale secondo punto non pare cada in discussione, poiché se l’avviamento sarà realizzato, sarà anche tassato a parte, in aggiunta al reddito professionale e non può essere ragione perciò di sovratassare questo medesimo reddito. Ed il primo ha in media scarsa importanza e potrebbe tutt’al più legittimare il ricupero di una piccola frazione della distanza che separa la C dalla B. Oggi la distanza è del 2% – differenza fra il 12 e il 14% -; e farla perciò diminuire dal 2 all’ 1,50-1,80% parrebbe forse eccessivo.

 

 

Non tengo conto di altre osservazioni[5], manifestamente frutto di inesatta posizione del problema:

 

 

  • non di quella che i redditi dei professionisti possono essere più alti di quelli degli impiegati. Non si discute invero dell’imposta equa in rapporto a redditi di dimensioni differenti. Ciò potrebbe essere oggetto di discussione rispetto all’imposte complementare progressiva sul reddito, la cui aliquota varia, in dottrina e in legge vigente, col variare del reddito. L’imposta di ricchezza mobile, della quale unicamente si tratta, non consente, né in dottrina, né in legge vigente, variazioni di aliquota in funzione dell’ammontare del reddito. Il legislatore italiano correttamente colpisce coll’8% l’impiegato a 6.000 lire di stipendio e quello provveduto di 40.000 lire, e col 12% il professionista con 5.000 e quello con 100.000 lire di guadagno[6]. La discussione da me proposta è tutta imperniata sulla domanda del come, a parità di reddito, devono essere tassati due redditi aventi origini differenti? Non giova confondere con questa un’altra questione, per fermo interessantissima, ma da me non trattata, perché non pertinente al problema;

 

  • non dell’altra che i pubblici funzionari pagano già il 6% per ritenuta pensioni al tesoro e su certe competenze il 2% alla cassa di previdenza. Già avevo osservato che l’imposta di ricchezza mobile cade non su 100 lire, ma su 100-6 = 94 lire. Essa è quindi l’8% di 94, ossia nel netto e non di 100 lorde. E poiché tanto fa dire l’8% di 94 nette, come 8% di 100 nette, si può concludere che l’imposta, per l’impiegato, è una percentuale di un reddito già depurato del premio di assicurazione pensione. Per il professionista invece l’imposta colpisce un reddito ancora da depurare da analoga quota. Dissi che a depurarlo, occorrerebbe pagare ad una impresa di assicurazione il 20% dell’importo del reddito. Dati precisi al riguardo non esistono. Sempre si seppe che il tesoro sostiene per le pensioni un onere di gran lunga più alto del beneficio della ritenuta del 6 per cento. Non credo che l’onere sia minore del 15% e maggiore del 25%; epperciò supporsi il 20%; ma chiaramente l’ipotesi meriterebbe di essere illustrata con dati precisi. Scrissi appunto per suggerire indagini, non per asserire conclusioni definitive in un campo che oggi si vede quanto sia inesplorato.

 

 

Ad aggravare la posizione dei professionisti fa d’uopo, per ragion di giustizia, ricordare:

 

 

4)    Che gli impiegati godono di riduzioni ferroviarie, di vantaggi presso stabilimenti di cura, di posti gratuiti o semi-gratuiti per i loro figli in collegi pubblici, di case in cooperative sussidiate dallo Stato, di acquisti in cooperative fruenti di particolari agevolezze. Non tutti gli impiegati godono di tutti i vantaggi elencati; non tutti ne godono nell’uguale misura; né conviene esagerarne la portata. Ma non giova neppure ridurla a zero, come taluno vorrebbe, e neppure affermare che gli acquisti di derrate e che l’educazione dei figli siano particolarmente costosi per gli impiegati. Se talora costoro vivono in centri piccoli, lontani da scuole, così fanno anche molti professionisti e lavoratori e soggiacciono, pei figli, a consimili difficoltà.

 

5)    Che gli impiegati non pagano l’imposta comunale sulle industrie, sui commerci, sulle arti e professioni, né l’addizionale provinciale, né (e qui il confronto vale solo con la B, laddove per quelle precedenti anche con la C) l’imposta a favore dei Consigli provinciali dell’Economia (ex-Camere di commercio). L’imposta sulle industrie può andare per i professionisti ad un massimo del 2,40% e l’addizionale provinciale dell’1,20% sul reddito, in tutto del 3,60%; ed è applicata frequentemente nell’aliquota massima (così a Milano, come rilevo dalla Guida del Contribuente per il 1928 del Chiumenti a pag. 974). Per gli industriali e commercianti il totale è del 4,50%; cui aggiungendo l’imposta ai Consigli dell’Economia (0,60% a Bologna, 0,30% a Milano, son le cifre citate dal Chiumenti a pag. 939), arriviamo a circa il 5 per cento. Tenendo conto di queste aggiunte, il 12% di imposta di ricchezza mobile a carico dei professionisti sale al 15,60%, contro l’8% per gli impiegati pubblici, e con gli aggi di esazione circa al doppio. Si dovrebbe tener conto altresì dei contributi sindacali, origine probabile di un differenziale a carico dei professionisti, industriali e commercianti in confronto agli impiegati; ma difettano per ora dati sufficienti in proposito: e fa d’uopo perciò farne astrazione. Ma le sole aggiunte sopra elencate sembrano tali da controbilanciare largamente da sole il peso dei fattori (elencati sopra da 1 a 4) che consiglierebbero, secondo taluni, una maggior tassazione dei redditi professionali in confronto a quelli impiegatizi.

 

 

6. – Fu osservato anche (cfr. articolo del dott. Francesco Mirmina in Il pubblico impiego, dell’1 ottobre 1928) che delle qualità depressive dei redditi professionali si tiene già conto, perché l’imposta di ricchezza mobile non colpisce i redditi inesistenti, ma quelli «reali ed effettivi», già depurati «da tutte le cause accidentali di discontinuità, d’interruzioni normali o fortuite, di maggiore o minore produttività personale». In sostanza, questo è una franca accettazione della tesi che le 100 lire dello stipendio del pubblico impiegato e le 100 lire del guadagno del professionista sono due quantità fiscalmente eterogenee; che le 100 lire del primo possono essere tassate tutte, perché tutte spendibili, laddove le 100 lire del secondo devono essere depurate delle quote di rischio, discontinuità, interruzioni, ecc., le quali fanno sì che il professionista, dotato della prudenza ordinaria propria del buono o anche solo mediocre padre di famiglia, non possa considerare come reddito del tempo in cui le guadagna le 100 lire versategli dal cliente, ma debba distribuirle anche sui periodi di disoccupazione, malattia, vecchiaia, ecc., ecc. E che altro mai avevo detto io? Che la epurazione si faccia prima sul reddito o dopo sull’aliquota, è cosa indifferente. Se tuttavia si preferisce operarla sul reddito e ridurre le 100 lire riscosse saltuariamente dai clienti a lire «reali ed effettive», spendibili normalmente, non si deve, poi, logicamente paragonare le 50 accertate a carico del professionista alle 100 accertate a carico dell’impiegato per derivarne la prova di una frode esercitata dal professionista. La logica impone di scegliere tra due metodi:

 

 

  • tassare, anche per il professionista, tutte le 100 lire tali quali e quando sono ricevute ed in questo caso tassarle per equità con una aliquota assai più bassa di quella dell’impiegato. Se così si fa, è «evasore» il professionista, il quale non denuncia tutte le 100 lire;

 

  • ovvero, tener conto preliminarmente delle cause di rischio, discontinuità, disoccupazione, ecc., ecc., e depurare il reddito da lire 100 a lire x, ad esempio 50. In questo caso, l’evasione comincia dalle lire x, ad esempio 50, in, giù. Ma è illogico ammettere che il reddito accertabile sia solo 50 e poi accusare di frode chi si oppone, nel sistema che il Mirmina afferma essere quello che comunemente è e deve essere osservato, ad un accertamento di 100.

 

 

Si aggiunga che l’opinione oppostami «essere il reddito imponibile una frazione x di 100», dovrebbe trovare fondamento in un esplicito testo legislativo, il quale oggi non pare esista. Di fatto, come egregiamente chiarisce il Deni nelle pagine che seguono, funzionari, contribuenti, commissioni tengono conto delle cause di depurazione e accertano, come dice il Mirmina, redditi «reali ed effettivi» già «decurtati da tutte le cause accidentali di discontinuità, d’interruzioni normali o fortuite, di maggiore o minore produttività personale». Con parole prudenti, l’onor. Mosconi esponeva nella seduta del 20 novembre 1928 lo stesso concetto quando dichiarava di ben comprendere «come nei casi dei redditi incerti e variabili sia doveroso procedere con cautela e con spirito di bene intesa equità» ed assicurava «che in questo senso saranno date opportune disposizioni».

 

 

7. – Ma poiché lo stesso ministro dichiarava altresì che il governo è disposto a continuare a camminare «sulla via dell’alleviamento delle aliquote», sembra a me che uno dei punti essenziali da tenere in giusto conto, quando si possano compiere su quella via i nuovi desiderati passi, sia quello del ristabilimento dell’equilibrio tra le categorie.

 

 

Si tenga conto delle cause di depurazione in sede di accertamento del reddito, come vuole il Mirmina e come osserva farsi già il Deni, o se ne tenga conto in sede di aliquota, si risolva il problema della D con l’esenzione o non, non ha importanza essenziale. Trattasi di problemi, delicati e difficili bensì, ma di seconda approssimazione. Il problema essenziale è: quale peso comparativo bisogna dare alle cause di depurazione dei redditi incerti e variabili dei professionisti (e degli industriali e commercianti privati) in confronto ai redditi fissi degli impiegati pubblici? Risoluto tal punto, con una analisi accurata di tutte le cause di depurazione, per l’una e per l’altra specie di reddito, farà d’uopo risolvere il secondo punto: come tener conto di questo peso? Lasciare la valutazione al criterio variabile, da tempo a tempo, delle commissioni, alle discussioni fra finanza e contribuenti, ovvero fissare per legge, in sede di imponibile o di aliquota, quel tale peso? Il legislatore italiano finora non ha manifestato in modo certo la sua volontà, la classificazione dei redditi nelle tre categorie fondamentali A, B e C, inspirandosi a concetti sostanzialmente diversi da quelli dell’epurazione. Perciò credo che il problema sia degno di attento studio.

 

 

8. – Nel condurre il quale, occorrerà badare al problema strettamente connesso con quello della depurazione e delle aliquote: quello cioè dell’oggetto che si vuole colpire coll’imposta. In questa materia spinosa delle imposte converrebbe scrivere ogni volta una lunga premessa per distinguere dagli altri il problema proposto. Ma forse non gioverebbe, poiché le premesse per lo più sono il frutto della discussione; e discutere giova appunto per chiarire le idee reciproche. A me par chiaro che, affermandosi da taluno dei miei contraddittori doversi tassare il reddito già depurato, si sia implicitamente messo in campo il problema dell’oggetto su cui cade l’imposta.

 

 

Siamo noi sicuri che quando si confrontano le B e C con la D si parli dello stesso oggetto? Non è probabile che esista una inconsaputa contraddizione fra un ideale a cui si mira e un risultato a cui di fatto si arriva? Dove l’ideale sarebbe il «reddito vero effettivo individuale» e il risultato concreto conseguito il «reddito vero presuntivo medio»?.[7]

 

 

9. – Il testo delle leggi d’imposta, il loro spirito informatore, la dottrina e la giurisprudenza pongono sempre a metà dello sforzo inteso ad attuare la giustizia tributaria che si debba accertare il reddito «vero», «effettivo» conseguito nel periodo tributario considerato (anno in corso, anno o biennio precedente, ecc.) dal contribuente «individuo». Non si deve accertare 100 per Tizio, perché 100 per lui è «giusto» in confronto alle 200 su cui Caio è tassato.

 

 

Si deve accertare il vero effettivo individuale di Tizio, sia 100 o 150 o 200, senza preoccuparsi del quantum di tassazione per Caio. Lo stesso sistema adoperandosi per Caio e per Sempronio e Mevio, e tassandosi tutti sul vero, giustizia è resa a tutti.

 

 

Il principio del vero effettivo individuale conduce logicamente a guardare piuttosto le differenze che le somiglianze, il particolare piuttostoché il generale. Il problema non è: quanto possono guadagnare in media i negozianti che hanno bottega nella tal via ed hanno tale giro d’affari? Ma invece: quanto guadagna o quanto perde di fatto il negoziante A o il negoziante B o quello C?

 

 

L’indagine deve quindi insistere non tanto sulle cause per cui da un dato giro d’affari deve risultare un dato reddito, quanto sulle cause per cui da quel dato giro d’affari, da quella data situazione, da quei coefficienti di produzione – tutte cose per fermo preliminarmente utilissime ad appurarsi – Tizio con intelligenza ed abilità è riuscito a ricavare un reddito netto di 100, Caio con intelligenza ed abilità minori un reddito di 50 e Sempronio, avventato od inesperto, ne trasse una perdita di 30. Il Deni, per l’appunto, facendosi eco di questa esigenza della ricerca il vero effettivo individuale, vuole, nella sua conclusione d), l’«accertamento dei redditi al loro valore effettivo, l’abolizione della finzione giuridica del reddito teorico fiscale e di ogni altra menzogna legalizzata ed elevata a sistema».

 

 

10. – Contro l’ideale del reddito vero effettivo individuale, scritto nella legge e accettato dalla dottrina, quella che si chiama comunemente «pratica» e che è l’insieme delle consuetudini di fatto osservate, delle norme seguite negli uffici finanziari ha condotto a poco a poco, non so se in molti o pochi casi[8], ad un risultato opposto, non scritto, non legalizzato, lamentato spesso, subito per lo più con rassegnazione per la difficoltà di fare meglio: ed è il metodo del vero presuntivo medio.

 

 

I funzionari delle imposte, trovatisi innanzi alle difficoltà concrete degli accertamenti, si sono persuasi presto che la ricerca del vero effettivo individuale poneva un ideale assai alto, tanto alto da non poterlo per lo più attuare. Nessuna nozione è così elastica, così difficile ad essere precisata come quella del reddito netto effettivo. Se il concetto del reddito è controverso nella dottrina, sì da aver dato luogo ad una lettura amplissima ognora crescente, tanto più è controverso l’appuramento concreto del reddito effettivo delle imprese od economie individuali. L’impiegato che riceve in una data unità di tempo 100 lire di stipendio, il capitalista che riceve 5 lire di interesse sul capitale dato a mutuo possono credere che in tutti gli altri casi l’appuramento del reddito sia ugualmente agevole; ed a prescindere che anche per essi esistono problemi di epurazione, certo è che per i commercianti, gli industriali i professionisti la bisogna è di una complicazione assai maggiore: quale valore daremo ai rischi, alle discontinuità alle insolvenze, alle quote di deperimento e di ammortamento, alle esistenze di inventario, ecc. ecc.? Quale valore alle registrazioni dei libri di commercio e, dove questi non esistono, alle allegazioni degli interessati? C’è, intorno al concetto del reddito vero effettivo individuale, un pericolo, di cui i funzionari delle imposte avvertono immediatamente la portata spaventosa per la finanza: il pericolo degli accertamenti di perdite. Se si vogliono appurare i redditi positivi individuali, giocoforza è ammettere che in certi casi e sovrattutto in certi anni o periodi, i redditi siano stati negativi, ossia si siano verificate perdite. Quante volte, i funzionari non si saranno sentiti dai contribuenti muovere questa obiezione: noi saremmo ben disposti a pagare a fin d’anno sul reddito che nell’anno abbiamo di fatto ottenuto, purché l’accertamento di quell’anno non faccia testo per l’anno seguente e che in questo, se l’esercizio si chiuderà in perdita, questa sia riconosciuta? Il funzionario vede subito l’abisso dietro a queste parole, pur ragionevoli, anzi sacrosante, per chi parta dall’ideale di tassare tutto e solo il reddito effettivo. Vede l’abisso della moltiplicazione dei casi di perdita, ove appena si apra uno spiraglio alla loro ammissione. Raccontano le storie che, in non so qual contrada, una legge fiscale ammise un giorno come motivo di esenzione da una imposta la stupidità o cretinismo. Improvvisamente, fioccarono sul tavolo dei funzionari esterrefatti, a migliaia i certificati medici di cretinismo e le anticamere non bastarono a contenere la folla delle faccie stupide che venivano a reclamare l’esenzione dall’imposta! Così, se sul serio si vuol cercare il vero effettivo individuale, il funzionario teme che la massa dei contribuenti, composta di gente media, faccia il tentativo di confondersi nella minoranza dei veri inetti o disgraziati. Perciò i funzionari riparano nella trincea del «medio», nella difesa inespugnabile del non poter ammettere che un professionista, il quale ha studio aperto, che un negoziante il quale ha bottega su via non guadagni almeno quel tanto che ogni persona media deve essere in grado di guadagnare in quella professione o in quel commercio. Se un contribuente non è capace di lucrare almeno il 5 o il 10 per cento sul suo giro d’affari, se non è in grado di far rendere almeno 10.000 lire nette una bottega per cui paga un fitto di 5.000 lire, se non è in grado di cavare dal suo lavoro o dal suo capitale o da amendue almeno quel tanto che basti a far vivere la famiglia secondo la sua posizione sociale, perché continua egli a fare quel mestiere? Perché non chiude bottega e non mette un punto fermo alle perdite, acconciandosi a fare l’impiegato al soldo altrui, come fa lui, funzionario delle imposte?[9].

 

 

11. Logiche riflessioni, inspirate a buon senso ed al giusto desiderio di salvaguardare le ragioni del tesoro, che troppo pericolo correrebbe se dovesse subire l’alea delle disgrazie, vere o configurate, dei contribuenti. Di qui, il ripiegamento di fatto di ambe le parti, amministrazione e contribuenti, sulla posizione del reddito presuntivo medio. Quasi senza avvedersene, nella generalità dei casi, tra finanza e contribuenti la discussione viene portata non su ciò che è, ma su ciò che deve essere. Il reddito effettivo individuale viene tacitamente lasciato in disparte come un mero concetto scritto da non occuparsene troppo; e si discute sul giro degli affari e sulla percentuale giusta di utile netto sul giro degli affari in questo o quel commercio. Si fanno concordati o si viene ad intese, fra ispettori superiori e rappresentanze dei contribuenti sul reddito medio per bacinella, per fuso, per telaio, per tale o tale altra unità di coefficiente di produzione usata in questa o quella industria. Il contribuente si adatta a pagare anche quando perde, perché, quando guadagna, non è tassato sulle punte individuali, di un anno o della sua ditta, ma sul medio reddito che le imprese della sua categoria sono reputate fornire. Anche i proprietari di fabbricati non sono sempre tassati sul reddito minore o maggiore ottenuto nei rapporti coi singoli inquilini, ma piuttosto in rapporto al reddito normale che fabbricati cosi e così, vecchi o nuovi, posti a mezzogiorno o a mezzanotte su questa o quella via, dotati di tali o tali altri comodi, ecc., ecc., devono dare. Le discussioni sono ridotte al minimo; nasce una norma generalmente seguita, che risparmia attriti ed esagerazioni in un senso o in un altro. La finanza fa affidamento su un provento meno oscillante e gradatamente crescente; il contribuente si sente più tranquillo nel dare incremento alla sua impresa per il tempo per cui l’accertamento, fondato su criteri medi, è destinato a durare.

 

 

12. – Qui si tocca una delle differenze fondamentali tra i due sistemi. Facciamo per il momento astrazione dalle applicazioni concrete; e supponiamoli amendue applicati in pieno, senza reciproche contaminazioni. Il metodo che tassa il reddito effettivo individuale non può, se vuole tassare il vero, dar remora al contribuente. Quando il reddito è 100 deve tassare 100; e se, essendoci una perdita di 50, deve astenersi dal tassare ed anzi dovrebbe concedere una detrazione corrispondente nell’anno successivo, deve però tassare 150 o 200, quando il reddito balza a 150 od a 200. Perciò il contribuente vive in continua inquietudine ed è trattenuto dal mettere in evidenza e talvolta impiegare capitali se teme che da ciò gli possa derivare un aumento di imposta. Sa che l’aumento è certo; mentre dubita sul condono immediato della imposta in caso di perdita.

 

 

Il metodo del reddito presuntivo medio rimedia alla difficoltà. In esso è implicita la deduzione delle perdite, perché non si tassano le punte eccezionali ed individuali dei redditi. Con esso la finanza non ha urgenza di revisioni annue, perché, se possono di anno in anno mutare le condizioni particolari dei singoli contribuenti, non muta altrettanto rapidamente il rendimento medio di una branca di industria o di commercio. Con esso, la finanza non è danneggiata, ma anzi trae grande vantaggio dall’attendere a tassare alla fine di un più lungo periodo l’aumento di reddito verificatosi dopo una revisione. Il farsi piccolo prima del concordato e, subito dopo, impiegare nuovi capitali e nuove iniziative nella propria impresa, così da godere per quattro anni (adotto, a scopo di esemplificazione, l’intervallo tra due revisioni usato da noi) indisturbato l’aumento di reddito, è la conseguenza necessaria del metodo del reddito presuntivo medio. Necessaria e, nel tutt’insieme, assai più vantaggiosa alla finanza che ai contribuenti. Rari sono infatti i casi di imprese temporanee le quali durino solo per i quattro anni per cui la finanza non può variare l’imponibile e poi si squaglino.

 

 

Normalmente l’impresa dura anche oltre, sicché la finanza, alla fine del quadriennio, può elevare l’imponibile, ed elevarlo tanto più sicuramente in quanto è già trascorso il periodo iniziale di prova e di lanciamento dei nuovi capitali investiti.

 

 

Se il contribuente vende l’azienda ad altri, la finanza nulla perde, ed anzi, pur continuando a riscuotere l’imposta sul reddito del cessionario, preleva una volta tanto l’imposta sul prezzo di avviamento riscosso dal cedente. Il quadriennio di serrata ha per effetto di garantire ai contribuenti una esenzione temporanea di fatto per i cresciuti redditi; e di incoraggiare perciò a nuovi investimenti i contribuenti, con vantaggio cospicuo e non lontano della finanza. Occorrerebbe, a parer mio, estendere e non limitare il provvido istituto, decretando che i nuovi redditi delle nuove intraprese debbano essere assoggettate ad imposta solo a partire dal quinto anno. I periodi iniziali sono i più duri; ed una finanza lungimirante ha interesse a fomentare, con una temporanea iniziale indulgenza, il crescere della materia imponibile[10].

 

 

13. – Per ciò il dubbio viene se non forse abbia torto l’ideale del reddito vero effettivo individuale e ragione il fatto del reddito presuntivo medio, e se col loro allontanarsi dal testo della legge, col loro trascurare la ricerca di ciò che effettivamente il singolo contribuente guadagna o perde, coll’abbracciare invece l’opposta via del reddito medio, i funzionari delle imposte ed i contribuenti non abbiano scelto la via buona, quella che finirà per essere sanzionata dal legislatore. Spesso le scoperte si fanno così; facendole, prima di volerle e di pensarle. Ed il dubbio si rafforza quando si rifletta che il principio del reddito normale o medio o ordinario è accolto pacificamente da secoli nella legislazione patria sull’imposta fondiaria; e che il fatto di averlo, per la terra, sostituito a quello del reddito effettivo fu dichiarato, a suo tempo, una delle maggiori scoperte della legislazione e della scienza italiana. Carlo Cattaneo, grande patriota e grande economista proclamò che la fissità degli accertamenti terrieri e la ordinarietà del reddito tassato furono la «profonda verità avvertita nello scorso secolo (18esimo) dai grandi economisti, che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese». Ed aggiunse: «Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle barbare tasse che presso certe nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!»[11].

 

 

14. – La scelta è chiara: da una parte le imposte assise sul concetto che il Cattaneo diceva «barbaro» di volere raggiungere il reddito effettivo, variabile da individuo ad individuo, da tempo a tempo; concetto scritto nella legge, idoleggiato nella dottrina come l’incarnazione della giustizia, ma temuto nel tempo stesso dai contribuenti perché depressivo di tutte le iniziative, scoraggiante per lo stato di continua incertezza ed ansia da esso provocato e dai funzionari delle imposte perché fecondo di contestazioni insolubili, di ammissione di perdite, di rischi per il tesoro. Dall’altra le imposte assise sul concetto del reddito medio od ordinario, fisso per un certo periodo di tempo, che il Cattaneo e prima di lui Gian Rinaldo Carli e prima ancora Pompeo Neri illustrarono ed applicarono e reputarono la maggiore scoperta italiana nel campo della finanza, concetto che asside il tributo sulla contemporaneità degli accertamenti per tutti gli appartenenti alla categoria ed al gruppo, che perequa fra i singoli l’onere tributario, che assicura per un ragionevole periodo di tempo (ad esempio, i quattro anni della legislazione vigente in Italia) il contribuente contro le variazioni dell’onere fiscale e perciò incoraggia a nuovi investimenti di capitale e prepara alla finanza, trascorsi i quattro anni, tempo impercettibile nella vita dello Stato, una messe opima di nuova materia imponibile.

 

 

15. – Entro i limiti in cui è vero che l’amministrazione finanziaria ha già, di fatto, scelto la seconda via, come la sola possibile, concretamente attuabile, utile alla collettività ed anche allo Stato, bisogna riconoscere essersi creato un dissidio tra la lettera della legge e la sua applicazione ed una sperequazione di fatto tra i casi in cui si continua ad applicare il concetto del reddito effettivo (taluni fabbricati, le categorie A e D della ricchezza mobile, gli enti collettivi della B) e quelli in cui si applica il concetto del reddito medio (taluni altri fabbricati, l’imposta sui redditi agricoli, parte dei redditi individuali delle categorie B e C della ricchezza mobile). Probabilmente è questa la causa vera dell’impressione di ingiustizia che è risentita dai primi contro i secondi contribuenti. Le questioni di aliquote, di classificazione dei redditi sono bensì quelle più facilmente comprensibili dall’universale. L’aliquota 10% appare maggiore a primo tratto di quella del 5% e fa gridare alla sperequazione; ma se il metodo tenuto nel valutare la materia soggetta al 10% è diverso da quello osservato, per legge o di fatto, nel valutare la materia soggetta al 5%, ben può darsi che, nei due casi, il carico tributario sia uguale e forse più pesante quello derivante dal 5% di quello nascente dal 10 per cento.

 

 

16. – Né è opportuno abbandonare, come si è fatto dal 1864 in poi, la soluzione del problema alla pratica. L’amministrazione ha, probabilmente, attenendosi alle presunzioni ed ai criteri del reddito medio, scelto la via buona; ma poiché la legge assume sempre a base il concetto del reddito effettivo individuale, sono sorti infiniti compromessi, eccezioni, deviazioni, applicazioni contingenti e discordi. Quel derivare, che si fa il reddito imponibile dal numero dei fusi, delle bacinelle, dei telai, del valore locativo, del giro d’affari è cosa sostanzialmente saggia; ma poiché si fa per applicazioni particolari, in tempi diversi a contribuenti della stessa natura, non sempre forse si fa con uniformità di criteri. Le riunioni degli ispettori superiori forniscono utilissime guide agli uffici esecutivi; ma le norme che ne vengono fuori non hanno virtù generale e lasciano la via aperta alle eccezioni. Nei casi singoli, anche se la norma direbbe di accertare 100, ma concorrono dati certi sul reddito effettivo, si accerta 120. Di qui sperequazione, poiché ognuno dei due sistemi può funzionare, a condizione che sia sempre in tutti i casi applicato lo stesso sistema; non a volta a volta quello del reddito medio o quello del reddito effettivo a seconda che l’uno o l’altro meglio giovi alla finanza o sia difeso con abilità dallo scaltrito contribuente.

 

 

17. – Ripetutamente, i contribuenti hanno presentato il quesito qui discusso arrivando però a conclusioni inaccettabili. Contribuenti e consulenti pratici i quali si avveggono che, di fatto, negli uffici delle imposte non si perde il tempo a cercare sui bilanci delle ditte il reddito vero, ma si tenta di calcolare il reddito come percentuale empirica della cifra di affari e come una derivata media presuntiva dai coefficienti di fabbricazione, deducono affrettatamente che l’imposta di ricchezza mobile sia una menzogna, inventata per tormentare i contribuenti e che meglio sarebbe abolirla, ed in vece sua, pagare una percentuale sul giro degli affari o un diritto fisso per telaio, fuso, ecc.[12]. Deduzione questa affrettata perché la trasformazione, che essi invocano, dell’imposta sulla ricchezza mobile in imposta sul giro degli affari produrrebbe ben presto nuove, sebbene differenti, sperequazioni. Il giro degli affari è un dato utile per conoscere il reddito medio, ma non può essere esso la base dell’imposta; poiché il reddito medio non è una percentuale costante nei successivi tempi e industrie, del giro degli affari. L’imposta assisa direttamente sugli affari nasce sperequata e la sua sperequazione cresce col tempo sia che si guardi al reddito medio o al reddito effettivo. Il Problema vero non è di ritornare alle deprecate imposte sul prodotto lordo o sulle patenti, ché a tanto ammonterebbe una imposta sul giro degli affari o sui coefficienti di fabbricazione; ma di perfezionare il congegno dell’imposta sulla ricchezza mobile; e se ci persuaderemo che l’imposta sul reddito medio, oggi di fatto applicata per molti redditi mobiliari, è preferibile all’imposta sul reddito effettivo, francamente regolarla secondo il concetto oggi applicato di fatto in tutti quei casi in cui ciò convenga fare.

 

 

18. – Perciò a me sembra che sia giunto il momento di studiare, oltreché il riordinamento delle aliquote, anche la trasformazione del metodo di accertamento seguito di fatto in metodo di diritto. È tempo che la via, riscoperta dai funzionari della amministrazione dopoché nel secolo 18esimo la sua scoperta aveva dato gloria ai De Miro ed ai Pompeo Neri sia studiata a fondo nel suo funzionamento concreto e nei suoi effetti reali; e, se reputata buona o necessaria, si cessi dal seguirla di fatto, quasi vergognandosene, come di una empirica deviazione dai sommi principi insegnati dalla scienza; ma sia apertamente codificata con opportune norme, applicabili in tutti i casi dal legislatore voluti.

 

 

La riforma potrebbe anche procedere per gradi; cominciandosi da quell’imposta sui redditi agrari che per nove decimi è di fatto oggi applicata secondo il concetto del reddito medio; ma rimane un decimo di incertezza, di fluttuazione tra la pratica dominante e talune caratteristiche o casi residui di reddito effettivo, di trattative «individuali» che turbano l’euritmia del meccanismo. E si potrà seguitare con la categoria B, delle industrie e dei commerci, la quale, facendosi cominciare il quadriennio a data fissa per tutti i componenti dei vari gruppi, si presterebbe magnificamente ad una applicazione generale, nazionalmente perequata, del concetto del reddito medio. Semplici suggerimenti di studio questi, che dovrebbero essere elaborati dai periti della materia. Qui basti di avere posto il problema.



[1] Dallo Scoca in base alla esposizione medesima del Quarta e da Clemente Bonanno (in articolo su Le diserzioni dei contribuenti e le idee errate del senatore Einaudi, in «La Vita italiana», 1928, settembre – ottobre, pag. 27 e seg.) in base a ricerche più ampie nei documenti parlamentari. Il Quarta, sunteggiando il Pescatore, assai fedelmente del resto, a quanto parmi dalla esposizione fatta dal B., non distinse sempre (pag. 196) le parole del Pescatore dal riassunto suo e, obiettando (a pag. 197) a cose dette «dall’on. Pescatore e con lui dal commissario regio on. Finali» poté lasciar supporre che alla discussione avesse partecipato, insieme con e nello stesso senso del stesso senso del Pescatore, anche il Finali. Il Quarta assai bene, a mio parere, tratta congiuntamente dell’art. 15 della legge 28 giugno 1866, che esentò gli impiegati governativi dalle sovrimposte locali, dell’art. 16 della legge 28 maggio 1867 che estese l’esenzione agli impiegati provinciali e comunali e dell’art. 7 della legge 11 agosto 1870 che abolì le sovrimposte per tutti i contribuenti, e nel tempo stesso, volendo conservare agli impiegati pubblici (di Stato, provincie e comuni) il particolare beneficio ad essi attribuito dalle leggi del 1866 del 1867, inaugurò la distinzione della D dalla C. Quest’ultima non è una improvvisazione, come potrebbe sembrare, se staccati dai suoi logici precedenti; ed ottimamente il Quarta coglie il momento della proposta della nuova categoria D per discorrere dell’opinione del Pescatore. Epperciò non v’ha ragione di censura, logica o cronologica, contro chi, per spiegare la D, tiene conto delle opinioni manifestate in occasione delle discussioni che furono l’antecedente necessario di quella avventura nel

1870. Si potrà discutere se l’opinione del Pescatore debba essere la sola considerata; si può aggiungere che il Pescatore non era né ministro, né relatore; si può notare che neppure le opinioni di ministri e relatori vincolano l’interpretazione della legge. Tuttociò non vieta che l’interprete, trovandosi di fronte ad un testo di legge, il quale merita spiegazione, cerchi nelle idee del tempo quella che a lui pare veramente rilevante. Perché le altre venute fuori allora non siano parse rilevanti e sola logica e non caduca sia quella del Pescatore, è detto brevemente nel testo.

[2] Secondo il testo, come citato dal Bonanno a pag. 15 e 16 del suo articolo, con due parentesi quadrate mie, la cui introduzione parmi opportuna a chiarimento di esso.

[3] Del qual metodo di tassazione per ritenuta qui non si discorre; ma ci si fa cenno solo in quanto esso è il metodo necessario per colpire con precisione matematica il reddito degli impiegati. Il «tassare precisamente» era l’argomento vero del raffronto posto dal Pescatore.

[4] Ettore Abate, La diversificazione tributaria e l’imposta sul reddito, Borgo S. Lorenzo 1918. L’Abate, stimato funzionario delle imposte, il cui studio non si riferisce però soltanto al preciso punto della imposta italiana di ricchezza mobile, a pag. 25 adduce, a spiegare la minor

tassazione degli stipendi degli impiegati pubblici in primo luogo «la valutazione di tali stipendi fatta con maggiore esattezza e rigore che non sarà possibile per altre entrate di puro lavoro, le quali in parte sfuggono all’accertamento fiscale», ed in secondo luogo l’impossibilità per essi al «trasferire su di altri il peso dell’imposta, neppure in parte». A pag. 86, ritornando sull’argomento, ricorda solo la prima ragione.

[5] Il rag. Attilio Russo fa osservare nel «Ragioniere professionista» (Milano, 15 dicembre 1928) che i professionisti (ragionieri) sono spesso amministratori e sindaci di società anonime, ricevono incarichi di perizie penali, amministrano a prezzo convenuto aziende private e in tutti questi casi assolvono l’imposta di ricchezza mobile attraverso la società o l’azienda, in categoria B, C2 o per ritenuta, indipendentemente dall’imposta che essi pagano in C1, come professionisti. L’osservazione significa che i confronti tra i redditi medi tassati nelle diverse categorie dell’imposta di ricchezza mobile non hanno un significato assoluto, ed occorrerebbe integrare quelle medie, tenendo conto dei redditi di lavoro che contemporaneamente il contribuente ottiene e sono tassati in altra categoria o sotto altro nome. Il che può accadere per il professionista e per l’impiegato; rimanendo da appurare per quale delle due categorie l’integrazione da farsi abbia maggiore rilevanza.

[6] Talune disposizioni legislative del tempo di guerra (decreti 9 novembre 1916, 9 settembre 1967 e 1 agosto 1918) avevano contaminato, come le altre due imposte dirette, anche questa nostra di ricchezza mobile, introducendo in essa concetti di progressività in funzione dell’ammontare del reddito. Come ho ampiamente chiarito nel capitolo secondo del volume La guerra e il sistema tributario italiano (Bari, Laterza, 1927), quella contaminazione aveva cause puramente occasionali e rispondeva empiricamente alla necessità sentita in quel tempo di dare una soddisfazione purchessia alle tendenze vero la progressività nella distribuzione delle imposte. L’applicazione fattane era pero illogica, essendo la progressività incompatibile colle imposte reali e divise e solo concepibile nelle imposte personali sul reddito o sul patrimonio complessivo del contribuente. (Cfr. mio Corso di Scienza della Finanza, quarta ediz., pag. 138). Ben fece perciò l’on. De Stefani a spazzar via queste sovrastrutture ingombranti dalle tre grandi imposte dirette ed a introdurre invece il concetto della progressività in quella imposta complementare sul reddito complessivo, dove essa soltanto trova la sua applicazione propria. (Cfr. opera citata, cap. settimo, sez. terza). Lo Scoca al par. 15 dello studio qui di seguito stampato introduce il criterio di un non sufficiente incremento verificatosi dopo la guerra nello stipendio dei pubblici impiegati in confronto a quello di cui gioirono i guadagni dei professionisti, per giustificare provvisoriamente la minore aliquota dell’imposta che li grava. Astrazion fatta dalla verificazione che dovrebbe farsi e non sarebbe agevole a fare del contrasto allegato fra le curve nel tempo delle due specie di redditi, parmi sia da escludere nella costruzione di un sistema di imposte reali sui redditi – e l’imposta mobiliare appartiene certamente a questo sistema – ogni riguardo all’ammontare del reddito. Rinascerebbe il caos del tempo di guerra, e tutto il sistema ne sarebbe travolto, con perdita ultima sicura della finanza.

[7] Le mie osservazioni si riferiscono all’imposta fabbricati, a quella sui redditi agricoli, ed alle categorie B, privati e C, dell’imposta di ricchezza mobile. Per l’imposta fondiaria sui terreni ideale e risultato sono identici, poiché la legge medesima si fonda sul criterio del vero presuntivo medio. Per le categorie A e D dell’imposta di ricchezza mobile non è pensabile, salvo eccezioni singolari per la A, altro criterio fuor del vero effettivo individuale. Per gli enti collettivi della B è notabile una nuovissima marcata tendenza verso il presuntivo medio, che sarebbe interessante studiare.

[8] Le persone perite nella pratica finanziaria sono disposte a ritenere il sistema abbastanza generalizzato. Leggasi, ad esempio, un articolo dell’avv. Luigi Sertorio nell’«Informazione industriale», riprodotto intieramente ne «Il Giornale dei ragionieri» del 31 gennaio 1928), di cui riproduco questo brano essenziale: «Attraverso a vari elementi si può, con relativa sicurezza, accertare la cifra di affari di una determinata azienda; l’agente accertatore della cifra di affari arguisce l’esistenza di un reddito proporzionato alla cifra di affari stessa. E il contribuente, in mancanza di meglio, è costretto a seguire il fisco su questa strada ed a mettersi in discussione con lui sulla maggiore o minore percentuale di reddito netto che in relazione alla cifra di affari può presumersi come corrispondente alla verità. In tal modo nella pratica l’imposta di ricchezza mobile trasforma, altera completamente il suo fondamentale concetto, ed in luogo di una imposta sul reddito (cioè sugli utili) diventa un’imposta sulla cifra di affari».

[9] Nell’articolo citato il Sertorio riporta «il ricordo di un caso specifico» in cui il funzionario avrebbe allegato al contribuente «che se anche l’azienda è in perdita, non è questo motivo convincente per escludere che l’imposta di ricchezza mobile debba pagarsi, perché non è giusto creare ad un dato contribuente una condizione industriale più favorevole di quella dei suoi concorrenti che pagano l’imposta di ricchezza mobile». Il Sertorio riferisce il ricordo a guisa di critica, Si vedrà subito, per le cose dette nel testo, che l’allegazione del funzionario ha un fondamento dottrinale di grande peso.

[10] Il vizio del quadriennio in Italia non sta nel suo riconoscimento e nella sua durata; ma in ciò che in esso non ha inizio nello stesso momento per tutti i contribuenti dello stesso gruppo. Da ciò solo le disuguaglianze che il Deni così brillantemente mette in luce. Ad eliminare il vizio gioverebbe ordinare che le revisioni non avvengano individualmente, ognuna alla scadenza accidentale del proprio quadriennio; ma tutti gli accertamenti di un dato gruppo o branca di industria o di commercio, o di professioni siano riveduti, ad ogni quattro anni, alla medesima data. In tal modo gli accertamenti potrebbero, con una giusta visione d’insieme, essere perequati gli uni agli altri ed i dati forniti da ciascun contribuente servirebbero a controllare le dichiarazioni degli altri. La uniformità della scadenza quadriennale rafforzerebbe implicitamente la tendenza ad osservare di fatto il criterio del reddito medio o normale e a trascurare l’ideale del reddito vero effettivo individuale.

[11] Di questo fondamentale problema, dalla cui soluzione dipende tutto il buon assetto delle imposte sui redditi, discorsi a lungo in La Terra e l’imposta (monografia pubblicata negli «Annali di Economia» editi dalla università Bocconi di Milano, anno primo, vol. primo) e nella quarta edizione del Corso di Scienza della Finanza, libro secondo, capitolo ottavo su la «Tassazione dei sopraredditi e dei redditi ordinari» e capitolo 12esimo su «L’accertamento della materia imponibile».

[12] Il Sertorio, nell’articolo citato, propone la trasformazione dell’ imposta di ricchezza mobile in imposta sulla produzione.

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