Opera Omnia Luigi Einaudi

Arbitrato e scioperi obbligatori e reato di crumiraggio

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/10/1904

Arbitrato e scioperi obbligatori e reato di crumiraggio

«Corriere della Sera», 13[1] ottobre, 9[2] e 27[3] novembre, 10[4] dicembre 1904 agosto 1904

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. 175-188

 

I

Le recenti allusioni fatte dall’on. Sacchi al disegno di legge Millerand, sullo sciopero e l’arbitrato obbligatorio, rendono interessante discorrere un po’ di quel disegno, anche per correggere le inesattezze in cui si è nel nostro paese caduti a questo proposito.

 

Il progetto Millerand non ha avuto molta fortuna in Francia: presentato dal Waldeck-Rousseau e dal suo compilatore alla camera dei deputati nella seduta del 15 novembre 1900, fu sepolto con tutti gli onori del rinvio alla commissione del lavoro. A cagion di una delle sue clausole, se ne è sempre parlato come del progetto che rendeva lo sciopero obbligatorio. Se questa è una delle sue principali e meno felici disposizioni, è anche vero che lo scopo, almeno apparente, dichiarato dal Millerand nel titolo della legge, era quello di regolare amichevolmente le questioni relative al lavoro. Era un passo – e notevole passo – più in là sulla strada su cui ci si era già messi in Francia colla legge del 1892 sulla conciliazione e l’arbitrato facoltativo. Il Millerand volle spalancare le porte all’arbitrato obbligatorio; e ciò fece in un modo e con un ragionamento assai curioso. Stabilire l’obbligatorietà dell’arbitrato in tutti i casi sarebbe stata una infrazione troppo profonda e repentina ai principii vigenti di diritto. Il progetto diceva che l’arbitrato diventava obbligatorio solo negli stabilimenti con almeno 50 operai od impiegati, nei quali gli operai avessero, al momento della loro entrata in servizio, ricevuto dall’imprenditore un avviso stampato secondo cui lo stabilimento si intendeva sottoposto alla procedura d’arbitrato. In tal modo non si ledevano – pensava il proponente – i principî della libertà del lavoro; l’operaio era libero di non accettare il lavoro negli stabilimenti ad arbitrato. Una volta accettato spontaneamente il contratto di lavoro, l’arbitrato diventava però obbligatorio come qualunque altra clausola contrattuale. In realtà si trattava di un mezzo termine che rendeva gli imprenditori arbitri assoluti della applicazione della legge. La facoltà lasciata agli operai di non entrare in uno stabilimento è invero una libertà troppo giuridicamente astratta di fronte alla necessità di lavorare per vivere. L’arbitrato era però obbligatorio in guisa assoluta in alcuni speciali servizi, che si potrebbero chiamare pubblici: ossia nelle fabbriche ed imprese degli appaltatori dello stato e dei concessionari di miniere. Inoltre i dipartimenti, i comuni, e le autorità concedenti le ferrovie d’interesse locale e le tramvie potevano obbligare i loro concessionari ad accettare l’arbitrato obbligatorio. Altra stranezza questa, perché l’obbligatorietà dell’arbitrato non si aveva per le industrie e le ferrovie esercitate direttamente dallo stato; il quale, mentre respingeva l’obbligatorietà per suo conto, la imponeva ai suoi concessionari.

 

 

In ogni stabilimento sottoposto alla legge e per ogni circoscrizione elettorale di almeno 150 operai, questi nominano un delegato ed un delegato aggiunto fra le persone aventi 25 anni, di vita intemerata, aventi lavorato almeno due anni nello stabilimento stesso, od, in mancanza, in stabilimenti congeneri. La disposizione avrebbe consentito la nomina di ex operai, che erano usciti dallo stabilimento per farsi capi di scioperi e di leghe. I delegati hanno per compito di presentare i reclami del personale ai capi d’industre nei giorni ed ore fissate dal regolamento. Se i reclami non sono accolti, i delegati li ripresentano per iscritto. Entro le quarantott’ore l’imprenditore – qualora persista nel suo rifiuto di accogliere il reclamo – deve designare l’arbitro o gli arbitri da lui scelti. Se non li designa, gli operai hanno il diritto di decidere lo sciopero. Se lo designa, gli operai alla loro volta debbono entro 48 ore designare i loro arbitri in numero pari. Gli arbitri si radunano per decidere la questione o per rinviarla ad un arbitro imparziale. Nelle more il lavoro nella fabbrica deve essere continuato, e solo se la direzione tarda più di sei giorni a rispondere, si può decidere lo sciopero.

 

 

Anche quando si possa decidere lo sciopero, la decisione deve essere presa in una adunanza generale degli operai dello stabilimento, convocata sei ore prima, a scrutinio segreto, con locali d’isolamento, e deve riportare la maggioranza assoluta dei votanti ed il terzo almeno degli aventi diritto al voto. Ancora. Il voto deve essere rinnovato ogni sette giorni; ed hanno diritto di prendervi parte solo gli operai effettivamente scioperanti e non quelli che si sono impiegati altrove o che hanno lasciata la località. Le norme ora riassunte non sono fatte per favorire, ma piuttosto per frenare la tendenza allo sciopero, per impedire le deliberazioni impulsive od i colpi di testa delle minoranze. Quando però la metà più uno dei votanti ed il terzo degli aventi diritto al voto, hanno votato per lo sciopero, anche coloro che hanno voglia di lavorare, devono abbandonare la fabbrica. Può benissimo accadere che, per l’assenza forzata di taluni operai, la minoranza costringa la maggioranza a cessare il lavoro, almeno per sette giorni. Qualunque sia il numero degli assenzienti, rimane sempre la violazione della libertà del lavoro di quelli che hanno voglia di lavorare. Come si potrà inoltre impedire all’imprenditore di riaprire il suo stabilimento con altri operai e con altro contratto di lavoro, rinnegando la legge fastidiosa dell’arbitrato obbligatorio?

 

 

Deboli sono eziandio le sanzioni che il disegno Millerand minaccia ai violatori delle sentenze arbitrali. Lasciando da parte le ammende e le carceri promesse ai perturbatori delle adunanze per l’elezione dei delegati e per la proclamazione dello sciopero, le vere sanzioni contro i violatori dei lodi arbitrali si riducono alla perdita per tre anni di certi diritti elettorali, come ad esempio la perdita dell’eleggibilità a delegati operai, probiviri, membri dei tribunali di commercio, membri dei consigli del lavoro, ecc. ecc. Tutte pene che avrebbero lasciato il tempo che trovavano.

 

 

In conclusione il disegno di legge Millerand rendeva l’arbitrato obbligatorio solo per gli imprenditori che lo accettavano; frenava gli scioperi impulsivi, ma metteva le minoranze alla mercé delle maggioranze vere o fittizie; non si applicava agli operai direttamente dipendenti dallo stato; e non prevedeva nessuna sanzione efficace per i lodi arbitrali.

 

 

Il progetto non ha del resto nulla a che fare con quello enunciato dall’on. Sacchi, il quale vorrebbe una legge generale che obblighi le minoranze ad astenersi dal lavoro sempre quando le maggioranze lo desiderino. Infatti il progetto Millerand è un progetto che mira a stabilire l’arbitrato obbligatorio. L’on. Sacchi invece discorre di sciopero obbligatorio, il che è sostanzialmente diverso. La legge Millerand è obbligatoria solo per gli imprenditori e gli operai che sono disposti ad accettarla; quella Sacchi per tutti. Sicché non aveva affatto ragione l’on. Sacchi di dire:

 

 

«I miei critici evidentemente hanno dimenticato che Millerand, di pieno accordo con Waldeck-Rousseau (di cui non si contesterà certo lo spirito di moderazione), voleva dotare la Francia precisamente della legge che autorizzasse la maggioranza degli operai di una industria ad imporre lo sciopero alla minoranza».

 

 

Le cose, come abbiamo constatato, stanno molto diversamente.

 

 

II

 

L’on. Sacchi ha fatto strada; o meglio hanno fatto strada i fautori di novissimi principii giuridici in materia di conflitti del lavoro. Oggi è il sostituto procuratore generale della corte d’appello di Roma, Raffaele De Notaristefani il quale su una grave rivista giuridica, in La giustizia penale, delinea la figura del reato di crumiraggio. Il sentimento da cui è mosso il De Notaristefani è chiaro:

 

 

Cresciuta ed ordinata l’organizzazione proletaria per opera di un partito politico, al quale l’inerzia degli altri lascia molti simpatici monopoli, non seppe tollerare in pace il crumiraggio, né la tutela, o, se mai, il concorso che a quella forma di concorrenza o, vogliasi pur dire, a quell’esercizio di libertà prestava l’autorità della forza pubblica. Da una parte il numero e la fame, dall’altra la legge e le armi: dovevano nascere e nacquero conflitti sanguinosi. Ma a questi è seguita una così solenne ed imponente manifestazione di forza e di solidarietà, peggio o meglio ancora, una così completa dedizione da parte del diritto e della legge, che l’uno e l’altra sentono il bisogno di intervenire e di trasformarsi per paura di essere distrutti dalla muffa.

 

 

Ecco ora in poche parole il ragionamento fatto dal magistrato per legittimare l’introduzione nel codice penale del reato di crumiraggio.

 

 

Il principio della libera concorrenza illimitata nelle industrie, nei commerci, nei rapporti fra capitale e lavoro, va perdendo terreno. L’intervento sempre più frequente dello stato per mezzo della legislazione industriale e sociale, il costituirsi di associazioni, dimostrano che al principio della concorrenza va sostituendosi l’altro principio della solidarietà sociale. Una fra le più moderne manifestazioni di questo spirito di solidarietà sociale è certo il formarsi di unioni, di leghe fra operai per difendere i propri diritti ed interessi contro gli imprenditori. Ora quando la collettività degli operai riunita in associazione, crede opportuno lo sciopero come arma per vincere nella lotta con gli imprenditori, l’intervento dei crumiri, ossia di operai i quali offrendosi a sostituire gli scioperanti, fanno abortire lo sciopero, costituisce un atto che rompe la solidarietà operaia, un atto che si può qualificare di concorrenza illecita quando produca un danno ingiusto agli operai stessi. Questo atto deve essere permesso solo quando lo sciopero sia stato ingiustamente proclamato dai lavoratori, perché in tal caso la concorrenza dei disoccupati, impedendo la soddisfazione di inconsulte pretese, non deve essere bollata come crumiraggio, ed anzi deve incontrare le simpatie dell’opinione pubblica ed essere efficacemente tutelata dallo stato. Ma quando i lavoratori siano insorti contro la ingiustizia padronale, il fatto che alcuni crumiri vengano ad impedire od almeno a rendere più difficile il raggiungimento degli onesti voti della collettività operaia, è un atto di concorrenza sleale, e come tale è un reato che deve essere punito dal codice penale. Siccome tutta la difficoltà sta evidentemente nel vedere se lo sciopero sia giusto od ingiusto, il De Notaristefani mette innanzi due fatti, verificandosi i quali lo sciopero si dovrebbe presumere giusto: 1) l’ordine di scioperare o l’approvazione data allo sciopero dalla rappresentanza della collettività operaia, legalmente riconosciuta e costituita, poiché è nell’ordine naturale delle cose che basti a contrattare le condizioni del lavoro la rappresentanza dei lavoratori; 2) il rifiuto opposto dagl’imprenditori di un’offerta di arbitrato fatta dai lavoratori. Date queste o consimili presunzioni, non sarebbe impossibile trovare degli arbitri che valutassero tutte le circostanze relative alla giustizia di uno sciopero, nello stesso modo che si trovano giudici per tutti i litigi civili e per tutte le cause penali.

 

 

Questa in breve la nuova teoria del De Notaristefani, esposta nel modo che a noi fu possibile di comprenderla. Diciamo subito che essa è un’altra prova della poca adattabilità dei nostri magistrati a capire i fenomeni economici e, peggio ancora, della loro incurabile ignoranza della scienza economica. Se lo scrittore de La giustizia penale si fosse preso la briga di studiare in qualche moderno trattato di economia politica non sarebbe venuto fuori con una così strana definizione dei criteri che possono far presumere giusto uno sciopero. Chi può azzardarsi a dire quando uno sciopero è giusto, essendo la “giustizia” di uno sciopero una parola che non esiste nel vocabolario economico? Chi può dire se sia “giusto” pagare il pane otto ovvero dieci soldi al chilogramma? Si sa unicamente che un certo prezzo è quello che in un certo momento si deve pagare, date le condizioni del mercato ed i mille e mille fattori dell’equilibrio economico. Così è degli scioperi. Nessuno può affermare che uno sciopero è giusto; ma soltanto che uno sciopero è riuscito perché le domande degli operai erano opportunamente redatte in guisa che l’industria poteva soddisfarle, dati i prezzi, i profitti, gli interessi vigenti. Sta tutta qui la difficoltà di istituire l’arbitrato obbligatorio nelle contese fra capitale e lavoro. Per le liti civili il giudice ha una base: la legge o il contratto. Se gli operai chiedono cinque lire al giorno e gli imprenditori vogliono darne solo quattro, come farà il giudice a riconoscere giusta la domanda degli operai? Bisognerebbe che il giudice sapesse fare lui il calcolo complicatissimo che attualmente fanno a loro rischio gli imprenditori della convenienza di pagare o no un certo salario, dati i prezzi correnti, il margine di profitto, i costi di produzione, l’organizzazione delle varie sorta di intraprese, ecc. ecc. Forse un giorno arriveremo a sapere tutte queste cose, a possedere tutti i dati utili in guisa che i giudici potranno dare le loro sentenze in modo non stravagante. Per ora siamo lontanissimi da tutto ciò; non dico in Italia, ma in Germania e in Inghilterra dove pure esistono organizzazioni fatte apposta per raccogliere dati di questo genere.

 

 

Se gli economisti non hanno sinora scoperto alcun criterio semplice per riconoscere la “giustizia” di uno sciopero, questa scoperta l’ha forse fatta il De Notaristefani? Tutt’altro. Egli – partendo da una informe teoria del solidarismo sociale, venuta di moda recentemente in Francia ed è in fondo una abbreviazione della favola di Menenio Agrippa – ha innanzi tutto detto che uno sciopero poteva presumersi giusto se votato dalla collettività operaia legalmente costituita e riconosciuta, e ciò per la non dimostrata, né dimostrabile ragione che a contrattare le condizioni del lavoro basti la rappresentanza dei lavoratori. Il che in fondo – per quanto si cianci di solidarietà sociale – significa dare l’individuo piedi e mani legati in mano alle leghe. Nessuno potrà lavorare se non coi patti stabiliti da esse. Chi non voglia o non possa, muoia di fame, sempre in nome e ad onore della solidarietà sociale. Come saranno inoltre costituite le rappresentanze giuridiche dei lavoratori che avranno la magica facoltà di dare l’impronta di giusto agli scioperi da esse proclamati? Dagli operai già impiegati nella fabbrica colpita dallo sciopero? o non anche insieme dagli operai disoccupati che avrebbero desiderato di impiegarvisi? Non fanno forse parte anche questi ultimi della “collettività operaia”, i cui interessi tutti dovrebbero essere tutelati dalla “rappresentanza giuridica” degli operai? Si aggiunga: quando mai fu ammesso che la concordia in una pretesa dei molti individui costituenti una parte in lite costituisse una presunzione di giustizia della pretesa stessa? Per la stessa ragione si dovrebbe senz’altro presumere siano dal lato della giustizia gli imprenditori quando la maggioranza di essi, debitamente radunata, votasse la chiusura delle fabbriche, allo scopo, mettiamo, di costringere gli operai a lavorare un’ora di più al giorno. Messisi su questa china non si sa dove si vada a finire.

 

 

Né meno curiosa è l’altra presunzione di “giustizia” in uno sciopero, ossia il rifiuto degli imprenditori di accettare l’arbitrato offerto dagli operai. Pur troppo è consuetudine gridare contro chi rifiuta un arbitrato, come se fosse un barbaro o peggio. Vi son tuttavia casi in cui una questione non può e non deve essere sottoposta ad arbitrato. Osiamo anzi affermare che l’arbitrato, come ha funzionato in Italia sin qui, rappresenta un vero decadimento nel modo di risolvere i conflitti operai. Se scoppia uno sciopero, sindaci, prefetti, ispettori generali del ministero degli interni vanno a gara nell’offrire la loro opera pacificatrice; il che vuol dire l’opera di chi, essendo ignaro in materia, cercherà di aggiustare le cose con un colpo al cerchio ed uno alla botte. Sarebbe bene che gl’imprenditori osassero, con un rifiuto netto, manifestare più spesso di quanto non facciano, la loro sfiducia in un arbitrato che non può a meno di produrre confusione e rendere necessari in futuro altri conflitti per accomodare le cose male aggiustate in tutta furia dagli arbitri per amore del quieto vivere. In Inghilterra – che pure tutti citano a proposito ed a sproposito – quanti sono gli arbitri in cui padroni ed operai ripongono piena fiducia non solo per la loro imparzialità, ma anche per la loro conoscenza tecnica delle più grosse questioni in gioco? Due o tre, a dir molto, l’opera dei quali è disputatissima. E in Italia si dovrebbe punire con una presunzione d’ingiustizia l’imprenditore che non si inchina senz’altro dinanzi ad un terzo che vorrebbe esser arbitro in affari di cui spesso non ha la più lontana nozione! Son cose che parrebbero incredibili se non fossero propugnate da alti magistrati!

 

 

Lasciamo dunque in pace i crumiri. I quali, poveretti, hanno già da difendersi contro l’ostilità dei lavoratori organizzati, contro il pubblico disprezzo, contro gli insulti dei giornali popolari, e non meritano davvero l’onore del carcere per delitto di lesa solidarietà sociale. Forse essi sono esseri inferiori, come pretendono i capi del movimento operaio; ma se le leghe comprendono davvero l’aristocrazia operaia, dovrebbero dimostrare la loro forza superiore astenendosi dal perseguitare e dal mandare in carcere quei poveri untorelli di crumiri. Dopo tutto nessun imprenditore alla lunga vorrà ricorrere al crumiraggio di persone incapaci ed ignoranti per poco che gli operai scelti ed abili delle leghe non mettano innanzi pretese incompatibili colla vita dell’industria. Il codice penale riserviamolo contro gli atti che ledono il diritto di ognuno al lavoro od apportano grave e diretto nocumento alla società.

 

 

III

 

L’esempio è contagioso. Alcuni giorni fa dovevamo occuparci di un sostituto procuratore generale del re, il quale enunciava una serie di stravaganti proposizioni sul novissimo reato di crumiraggio. Oggi è un economista noto, direttore di una scuola superiore di scienze sociali, il prof. Arturo F. De Johannis, il quale, nel suo giornale, espone principi altrettanto strani sulla libertà di lavoro negli scioperi. Davvero bisogna concludere che in Italia l’ambiente deve essere curiosamente pervertito, se persone chiare per studi e per intelligenza, note per il loro attaccamento, ragionato e non feticistico, ai principi della scuola liberale, vengono fuori con storture simili a quelle che ammannisce ai suoi lettori l’egregio professore di Firenze.

 

 

Egli parte da una identificazione della maestranza operaia di una fabbrica ai soci di una società commerciale per azioni. L’art. 163 del codice di commercio obbliga – salvo certi casi eccezionali – la minoranza ad uniformarsi al voto della maggioranza; né il giudice può intervenire ad esonerare la minoranza da questo suo obbligo.

 

 

«Suppongasi – egli aggiunge per analogia – per un momento che gli operai di uno stabilimento sieno costituiti in società e che il loro statuto, fra le altre disposizioni, contenga questa: che le deliberazioni che importano abbandono temporaneo del lavoro saranno prese alla maggioranza di quattro quinti e saranno obbligatorie anche per la minoranza». Fatta l’ipotesi, senza nemmeno fermarsi a discuterla, egli continua: «Non si può quindi logicamente non ammettere un diritto nelle maggioranze delle società operaie di coercire, anche in fatto di sciopero, le minoranze; si può desiderare che la materia sia più o meno rigorosamente disciplinata, che gli statuti delle società contengano garanzie che evitino sorprese od altro, ma il principio non si può disconoscerlo; e si può anche convenire che lo stato, per mezzo del governo, si limiti a mantenere l’ordine e a impedire le violenze; ma ove mai la sua azione dovesse esorbitare da tali limiti, debba intervenire piuttosto a favore delle maggioranze che delle minoranze». Che anzi, ove l’imprenditore ricorresse a crumiri, e da ciò nascessero conflitti, sarebbe persino a discutersi se il governo dovesse proteggere i nuovi occupanti, o non piuttosto mantenere liberi i posti – sino dopo la definizione del conflitto – per gli scioperanti; i quali non hanno abbandonato il lavoro in modo che il loro posto sia diventato res nullius, ma lo hanno sospeso, si sono momentaneamente allontanati, quasi lasciandovi il segno del loro possesso, tanto è vero che fanno adunanze, pubblicano manifesti, votano ordini del giorno coll’intendimento palese di ritornare al loro posto, appena sieno mutate le condizioni precedenti.

 

 

In verità, come può sul serio il prof. De Johannis partire dall’ipotesi che si possano assimilare gli operai di uno stabilimento ai soci di una società anonima? I soci trattano degli interessi loro propri; sono essi che per un certo scopo hanno messo capitali in una azienda; e siccome non si può immaginare che la gestione dell’azienda venga condotta con criteri contradditori, è giuocoforza vi sia una norma comune obbligatoria per la minoranza. Per gli operai di uno stabilimento il caso è ben diverso. Si può sostenere, è vero, con ragione, che essi hanno un interesse comune ad essere pagati bene; si può comprendere che essi creino una società coll’obbligo di agire d’accordo per conseguire certi miglioramenti; e se questa società si è costituita liberamente fra tutti gli operai della fabbrica, si può ammettere che sia l’assemblea sociale quella che decida sugli scioperi.

 

 

Sin qui sta bene. Non più in là. Si può forse ammettere che, se vi sono operai dissenzienti, lo stato debba intervenire per costringerli a non lavorare? Evidentemente no. Il codice di commercio stabilisce che un socio di una società per azioni possa ritirarsi dalla società se dissente, ad esempio, dall’aumento o dalla reintegrazione del capitale sociale; e non dovrà concedersi un diritto di recesso agli operai dissenzienti da una maggioranza di scioperanti quando si tratta di qualche cosa di ben più grave e più sacro di uno sborso di capitali, quando cioè è in giuoco la possibilità di lavoro e di vita di un uomo e della sua famiglia? Ci fu tempo nel quale si considerava immorale e privo di effetti legali il patto di chi si obbligava a non lavorare, se non col consenso altrui; oggi non si deve almeno concedere la possibilità di ribellarsi ad una deliberazione che viola il proprio diritto al lavoro?

 

 

Non basta. Il De Johannis dovrebbe spiegare chiaramente come potrebbe vivere l’industria quando lo stato non solo obbligasse le minoranze a seguire i voti delle maggioranze degli operai occupati, ma ancora impedisse agli imprenditori di ricorrere ai crumiri, allo scopo di conservare il posto agli scioperanti, quando sarà terminato il conflitto.

 

 

Certo in quel giorno tutti i conflitti saranno presto terminati colla vittoria sicura degli operai. Quale imprenditore potrà combattere per un sol giorno, sapendo di non potere assumere nuovo personale? Per molte industrie sarebbe l’impossibilita` di vivere. Si prende, ad esempio, questa nostra industria del giornalismo quotidiano, dove gli operai sono pagati cinque, sei, sette, otto lire al giorno. Per un giornale non uscire per un mese vuol dire la rovina; per gli operai, che hanno la possibilità di fare risparmi, lo sciopero rappresenterebbe il mezzo sicuro di farsi crescere la paga senza colpo ferire. Dove avrebbe termine la ascensione indefinita dei salari nelle tipografie giornalistiche, se si dovesse accogliere il principio della repressione del crumiraggio e dello sciopero obbligatorio? Non parliamo delle ferrovie e di altri servizi pubblici. I ferrovieri scioperano avendo i mezzi per resistere qualche mese. E lo stato deve non solo lasciarli scioperare, ma obbligare la minoranza ad abbandonare il lavoro, e respingere ogni offerta di crumiri! Come si durerà per mesi senza ferrovie, o senza gas, o senz’acqua e via dicendo?

 

 

Noi comprendiamo si possa discutere seriamente l’arbitrato obbligatorio. È un sistema, che salvo alcuni casi di servizio pubblico, riteniamo inapplicabile nel nostro paese, dove gli arbitri non avrebbero i mezzi, gli strumenti per giudicare. La abolizione dei contratti di lavoro individuali e la loro sostituzione con l’arbitrato obbligatorio per tutti è un sistema logico perché deferisce ad una autorità, supposta imparziale, la fissazione dei salari e degli altri patti di lavoro. Ma il sistema dei De Notaristefani e dei De Johannis è l’organizzazione della rivolta continua a base di ricatti negli stabilimenti industriali, è il ritorno ai tempi più nefasti del corporativismo d’antico regime. Che cos’è questo posto che lo scioperante non ha abbandonato, e che egli ha il diritto di riprendere quando il conflitto sarà finito? Che cosa è, se lo si spogli dell’orpello di frasi fatte sedicenti democratiche da cui è circonfuso – se non la riproduzione moderna dei posti, delle cariche che i sovrani di antico regime e i maestri delle corporazioni vendevano per far quattrini?

 

 

Si era creduto che tutto questo retaggio di servitù medievali fosse scomparso. Eccolo invece rinverniciato e rimesso a nuovo per soddisfare le folle. In Francia è il buon giudice Magnaud che sale a poco a poco ai più alti fastigi della magistratura, dettando sentenze di cui le poche accettabili sono l’imitazione di ciò che si era sempre fatto da giudici, i quali non si erano mai sognato di farsi chiamare “buoni”; e le molte pessime sono una violazione così evidente della legge da fare tristemente pensare all’avvenire di un paese dove la giustizia viene in tal modo manomessa per piaggeria verso i partiti dominanti. In Italia non siamo ancora giunti a tanto. Ma già si vedono qua e là gli indizi di un tale turbamento negli spiriti che è opera doverosa e veramente liberale e democratica denunciarli con linguaggio che non vuole essere irrispettoso, ma semplicemente ammonitore.

 

 

IV

 

Il prof. De Johannis è rimasto assai scottato dall’articolo che abbiamo scritto sulle nuovissime sue teorie in fatto di libertà di lavoro, e, incollerito, ci accusa di scorrettezza e di ingiustizia.

 

La prima scorrettezza sarebbe stata quella di avergli fatto dire: «essere dovere del governo di intervenire a favore delle maggioranze cacciando dalle officine, magari colle baionette, le minoranze operaie che, in caso di sciopero, volessero continuare a lavorare». Lasciando da parte le baionette, o che cosa d’altro ha voluto dire il De Johannis quando ha detto che «se lo stato dovesse per necessità di cose intervenire, la logica dovrebbe condurlo a far rispettare la deliberazione della maggioranza contro la minoranza», e quando ha aggiunto che «ove lo stato dovesse esorbitare dai limiti della difesa dell’ordine e della repressione delle violenze, dovrebbe intervenire piuttosto a favore delle maggioranze che delle minoranze»? O noi non comprendiamo l’italiano o con queste parole il De Johannis ha voluto dire che se la maggioranza vuole lo sciopero, la minoranza deve acquietarsi, senza alcuna difesa legale contro la prepotenza dei più. È vero che il De Johannis ha messo dei se e dei ma, da noi scrupolosamente riprodotti nel nostro sunto del suo articolo; perché aveva visto egli stesso la enormità delle sue affermazioni. Ma sono se e ma che non contano nulla. Che cosa vuol dire «se lo stato dovesse per necessità di cose intervenire nell’oggetto della disputa»? Una delle due: o la maggioranza scioperante lascia pacificamente la minoranza al lavoro; ed allora il problema non sorge. O la maggioranza cerca di impedire la libertà del lavoro; ed allora lo stato deve necessariamente intervenire. Noi non concepiamo che lo stato possa fare qualcosa di diverso. Interverrà a reprimere le violenze, tutelando il diritto della minoranza a lavorare; o se non vuole intervenire in questo senso dovrà intervenire nella maniera preferita dal De Johannis «piuttosto a favore delle maggioranze che delle minoranze». L’egregio nostro contradditore vorrà favorire di dirci se questa sua frase possa interpretarsi in modo diverso dal seguente: «lo stato interverrà a far rispettare la deliberazione della maggioranza, che voleva la sospensione del lavoro». Ci spieghi ancora il De Johannis che cosa ciò significa se non l’obbligatorietà degli scioperi. Forse egli non supponeva che altri leggesse tanto attentamente la sua prosa e ne traesse tutte le conseguenze logiche. Ma son sorprese le quali capitano anche a coloro che meditano assai sui loro scritti; e non solo a noi, accusati dal De Johannis di «giudicare con leggerezza su argomenti che oltrepassano i limiti dei nostri studi».

 

 

Il fiero rimprovero di leggerezza ce lo siamo meritati perché non abbiamo citato il libro del direttore dell’ufficio del lavoro di Francia, Arthur Fontaine, su Le louage de travail, in cui il Fontaine considera, al pari del De Johannis, lo sciopero non come una rottura, ma come una sospensione del

contratto di lavoro.

 

 

Noi potremmo rispondergli che una sciocchezza non cessa di essere tale solo perché detta da uno straniero; ma ammettiamo volentieri che si tratta di una questione grave, che non si può decidere in poche parole, senza una minuta casistica. Tant’è vero che noi non avevamo detto che avesse torto il Fontaine quando asseriva non dovere lo sciopero considerarsi come una rottura del contratto di lavoro tale da far perdere il diritto ai versamenti già fatti per la pensione; ci eravamo soltanto sollevati contro il diritto dello scioperante a riprendere il suo posto, diritto che al De Johannis pare ammissibile e che a noi invece fa l’impressione di una brutta reliquia d’antico regime. La dottrina del Fontaine era tanto poco «fuori dei limiti dei nostri studi» che sapevamo anche come l’autore del libro su Le louage de travail avesse recentemente riconosciuto la necessità in diritto vigente per l’operaio di osservare i termini di disdetta prima dello sciopero per non essere ritenuto colpevole di rottura di contratto. Legga il De Johannis le discussioni dinanzi al comitato permanente del consiglio del lavoro pubblicate nel recente rapporto del signor Manoury su Le Délai Congé.

 

 

L’ultima scorrettezza di cui ci accusa il professore di Firenze è di aver male interpretati i suoi dubbi sul dovere dello stato di proteggere i crumiri o non piuttosto di mantenere liberi i posti sino alla definizione del conflitto. Anche qui il De Johannis rilegga il sunto da noi fatto dei suoi periodi e vedrà che abbiamo scrupolosamente conservata la forma dubitativa data al suo pensiero. Forseché ci doveva essere in seguito vietato di combattere e combattere vivacemente quella delle due soluzioni all’angoscioso dubbio dello scrittore fiorentino che era stata da lui esposta con maggior lusso di argomentazioni favorevoli?

 

 

Tutto ciò che il De Johannis dice ancora sulle reazioni suscitate dagli scioperi eccessivi, sulla necessità di togliere le cause degli scioperi, e di fare le riforme è estraneo all’argomento in discussione. Noi siamo convinti quanto lui della necessità di favorire i progressi delle classi operaie; ma appunto perciò ci opponiamo con fermezza all’avvento di un sedicente nuovo diritto operaio, che sarebbe la rovina delle industrie e delle classi operaie medesime.

 

 


[1] Con il titolo Il progetto Millerand sull’arbitrato obbligato. [ndr]

[2] Con il titolo Il reato di «krumiraggio». Ristampato nel 1924 col titolo Il reato di crumiraggio e lo sciopero obbligatorio in Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti editore, 1924, pp. 105-112; [ndr]

[3] Con il titolo Sciopero obbligatorio e krumiri. Ristampato nel 1924 col titolo Il reato di crumiraggio e lo sciopero obbligatorio in Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti editore, 1924, pp. 112-117; [ndr]

[4] Con il titolo Il preteso diritto di persecuzione contro i krumiri. [ndr]

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