Opera Omnia Luigi Einaudi

Atti di governo che creano sfiducia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/09/1920

Atti di governo che creano sfiducia

«Corriere della Sera», 11 settembre 1920[1]

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 882-887

 

 

 

L’indice della fiducia straniera nell’Italia peggiora: dall’1 al 10 settembre il cambio su Parigi è salito da 148 a 154,50, quello su Londra da 76,60 a 81, su Svizzera da 355 a 376, su New York da 21,50 a 22,80. L’aumento più caratteristico è quello avvenuto in confronto alla Francia, paese al par di noi duramente provato dalla guerra, e forse, per sacrificio di uomini e danni materiali, più provato di noi. La minore violenza delle agitazioni operaie, l’opposizione vivace ai sogni millenari russi sorta in seno alle stesse organizzazioni ed al partito socialista, tra cui non sono tanto numerosi i rassegnati ed i vili dinanzi alle minaccie ed ai ricatti dei facinorosi, una classe dirigente più consapevole dei propri meriti e più decisa a non cedere il campo a successori meno degni di essa, un governo deliberato a fare rispettare l’ordine; una politica finanziaria seria, aliena dai demagogismi improduttivi: ecco le ragioni principali le quali spiegano la reputazione economica crescente che va acquistando la Francia in confronto dell’Italia. La Francia ha capito che il fattore principalissimo della produzione è la sicurezza. Le chiacchiere, i progetti avveniristici, gli incitamenti morali, i comandi del legislatore a nulla servono, quando manca la sicurezza del produttore nel frutto del proprio lavoro, del seminatore nella messe, quando la proprietà privata non è sicura, quando la rapina a mano armata della roba altrui si decora col nome di presa di fabbriche e delle materie prime; quando basta un decreto prefettizio a mettere nel nulla, come nel caso Fortunato, gli sforzi perseveranti secolari di creazione della terra. Tooke, il grande storico della economia inglese durante e dopo le guerre napoleoniche, venuto al punto di dichiarare le ragioni della fioritura meravigliosa dell’industria britannica dopo le sofferenze e le rovine della guerra durata vent’anni, non esitò a dare, accanto allo spirito d’invenzione e di iniziativa promosso dalle difficoltà belliche, il primissimo posto al fattore «sicurezza».

 

 

Oggi, gli insegnamenti della esperienza delle altre guerre e della guerra presente sono dimenticati. Non fu visto persino l’on. Corradini, sottosegretario di stato agli interni, responsabile dell’ordine pubblico, affermare che non era stato possibile impedire l’invasione degli stabilimenti, perché nessun articolo del codice penale contempla in modo specifico questo caso, non preveduto all’epoca della formulazione delle nostre leggi fondamentali? Cavillo capzioso.

 

 

Quando mai le norme legislative poterono enunciare tutti gli svariatissimi casi che nella pratica della vita si possono dare? Lo statuto, il codice civile ed il codice penale garantiscono con apertissime parole la inviolabilità della proprietà privata, salvo i casi di espropriazione per pubblica utilità dichiarati nelle leggi. Chi, se non un sofista, può dubitare che le invasioni degli stabilimenti non siano state violazioni del diritto di proprietà e del domicilio privato? Come può un paese, in cui il governo dichiara di non avere i mezzi per tutelare la proprietà privata e l’inviolabilità del domicilio, pretendere di ottenere credito, considerazione, provviste da quei paesi dai quali noi dipendiamo per materie prime e per alimenti? Il cambio sale, in conseguenza di queste sciagurate e criminose dichiarazioni di uomini di governo; e col cambio salgono ineluttabilmente i prezzi, cresce il costo della vita, si rinfocola il malcontento e si diffonde lo spirito rivoluzionario. Chi voglia interpretare le parole secondo il loro significato logico, è costretto a concludere che proposito dichiarato e voluto dell’on. Corradini fosse di alimentare lo spirito di rivolta e la corsa verso l’abisso e verso la miseria del nostro paese.

 

 

Le parole dell’on. Labriola, ministro del lavoro, hanno un significato poco differente. Sta benissimo che egli non voglia essere un’«eccellenza». Brutto titolo spagnolesco, questo; che se egli avrà proibito sul serio ai suoi uscieri ed ai suoi impiegati di infliggergli, avrà iniziato una piccola e meritoria riforma dei nostri decadenti costumi verbali. Egli vuole essere invece «il ministro dei lavoratori»; e questo è veramente l’ufficio a cui è stato chiamato. «Ministro dei lavoratori» non vuol tuttavia dire distruttore delle fonti del lavoro, dei fondamenti reali su cui poggia la possibilità di produrre e di lavorare. L’on. Labriola è noto per essere un descrittore immaginoso di tragedie economiche, mai vissute nella realtà e figlie unicamente della sua calda fantasia. Adesso egli, se meritano fede le interviste con giornalisti, ha scoperto un’altra tragedia: quella dell’ultima fase della economia capitalistica. Ci sarebbe una contradizione tragica fra le esigenze della produzione, la quale richiede un maggiore risparmio e le esigenze dei lavoratori, i quali vorrebbero per sé il maggior guadagno dell’industria da cui soltanto può derivare il maggior risparmio. C’è bisogno di dire che in tutto questo non c’è nessuna tragedia, nessuna novità , nessun indice delle fantastiche «ultime» fasi di economie capitalistiche o non capitalistiche? Da che mondo è mondo, è sempre esistito e sempre esisterà un contrasto fra la tendenza dell’uomo o di alcuni uomini a godere subito tutti i propri guadagni, senza pensare all’avvenire, e la tendenza opposta dell’uomo o di altri uomini a risparmiare in vista dell’avvenire. Le quali tendenze sempre sono esistite, ugualmente in tempi di alti e di bassi guadagni ed è molto dubitabile se durante gli improvvisi ed alti guadagni della guerra si sia risparmiato tanto quanto si risparmiava prima negli anni di interesse basso e di lucri più stentati. Si risparmia quando si è sicuri di godere del frutto del proprio risparmio; non quando invece vengono fuori i ministri del lavoro a predicare che siamo arrivati all’ultima fase dell’economia capitalistica e che domani la produzione sarà in mano di cooperative o tutt’al più di imprese controllate, anche dal punto amministrativo e contabile, dagli operai. I risparmiatori potenziali, i quali ahimè ! oggi in Italia non sono gli operai, si impauriscono e dicono: godiamo i nostri redditi, i nostri stipendi finché siamo in tempo e prima che il reddito del nostro risparmio e quindi il suo valore capitale sia ridotto a zero dalle fantasie comunistiche dei presenti e futuri ministri del lavoro e della produzione. Scherzano col fuoco, costoro. Ieri come oggi, i ministri sembrano inventati apposta per infliggere al paese esperimenti sociali che la esperienza passata e presente ha dimostrati dannosi e distruttivi.

 

 

Vuol presentare il ministro del lavoro un progetto di legge sulle cooperative di produzione? Nobile proposito. Affinché il proposito fruttifichi a vantaggio del paese, egli, parmi, ha il dovere di premettere al suo disegno una relazione nella quale si dimostri quali sono le condizioni di riuscita e quali le cause più numerose di insuccesso di questa, difficilissima fra tutte, forma di cooperazione. Non siamo, per fortuna, su terreno vergine: esiste una letteratura amplissima su questa materia; l’Italia stessa fu ed è campo fertile di sperimentazione nel campo delle cooperative di produzione. La relazione dell’on. Labriola ci dovrà dire perché in 90 casi su 100 le cooperative di produzione, anche se sussidiate dallo stato e spesso perché sussidiate dallo stato, diedero risultati lacrimevoli e furono cagione di disinganni amarissimi per i lavoratori; e quali furono le cause, difficili a verificarsi, per cui i 10 sperimenti residui finirono mediocremente o bene. Il progetto studiato dall’on. Labriola dovrà essere costruito in maniera da evitare le cagioni del disastro e facilitare il verificarsi delle condizioni di successo.

 

 

È probabile che se egli si comporterà in siffatta maniera ragionevole, il suo progetto apparirà troppo austero, poco attraente e scarso cattivatore di voti; sicché sarà subissato sotto l’indignazione dei parlamentari avidi di popolarità. Almeno però, così operando, l’on. Labriola, non si sarà meritata la taccia di distruttore della produzione. E, poiché è dovere dei ministri del lavoro di servire a fatti e non a chiacchere la causa dei lavoratori, è augurabile che, al progetto sui consigli di fabbrica e di controllo, egli premetta una relazione sull’esperimento che dei consigli stessi si fece in Germania dopo la rivoluzione del novembre del 1918. Oramai sono quasi passati due anni; né la Germania è terra incognita come la Russia. Ci si può viaggiare in lungo e in largo; e non deve essere impossibile trovare qualche buon osservatore, capace di studiare la legislazione tedesca sui consigli di fabbrica, e, sovratutto, la sua applicazione pratica. Come funzionano i consigli e con quale risultato? Entro quali limiti il loro controllo si esercita? Se poi l’on. Labriola potesse aggiungere qualche notizia precisa sulle sorti dei consigli di fabbrica in Russia, tanto meglio. È inutile rifare gli esperimenti, che altrove furono già fatti. Giova invece trarne pro e fare solo quelle cose che si dimostrano efficaci e benefiche. Se per avventura, ciò che v’è stato di benefico fu piccola cosa in confronto alle speranze, ragion vuole che la verità diventi palese e che si abbia il coraggio di dire: noi che vogliamo la prosperità e non la rovina del paese, il benessere e non la miseria dei lavoratori, vi diciamo che questo soltanto può farsi, e che il resto sono fandonie pericolose.

 

 

Purtroppo, il coraggio di dire la verità e di opporsi al disastro pare che fra i ministri l’abbia sinora avuto uno solo: l’on. Meda. Di nessun altro, almeno, ho letto sui giornali abbia avuto il coraggio di non trovare geniale e meravigliosa qualunque sconclusionata idea venuta in mente agli organizzatori del conflitto metallurgico per uscire dal pasticcio in cui hanno trascinato le masse lavoratrici. Se son vere le cronache dei giornali, a chi gli chiedeva non so se 200 milioni di lire per fornire i mezzi di vita a certe cooperative immaginate per gerire gli stabilimenti invasi dagli operai, l’on. Meda avrebbe risposto con un perentorio rifiuto.

 

 

Meda ha ragione di non voler essere il Karolyi dell’Italia. Il tesoro dello stato deve rimanere spietatamente chiuso a tutti gli assalti sia di capitalisti come di lavoratori. L’industria siderurgica è stata davvero causa di sciagure senza fine al nostro paese. Badisi che dico industria «siderurgica» e non metallurgica e non meccanica. Nove decimi delle imprese metallurgiche in senso largo sono imprese pure, alcune delle quali hanno forse guadagnato troppo a spese dello stato, – ed a queste le leggi vigenti od in corso provvedono a portare via i guadagni eccessivi in misura persino pericolosa alla vita delle imprese stesse – ma in complesso non sono creazioni artificiose e sarebbero capaci di vivere oggi di una vita dura bensì ma vitale ed autonoma. V’è stata una minoranza di imprese e specie di quelle siderurgiche che prima della guerra vivevano da parassite dello stato, e durante la guerra hanno dato esempi di finanza megalomane e dissipatrice e pretendevano dallo stato centinaia di milioni, che a ragione lo stato si rifiutò di pagare perché non dovuti. Il vizio di vivere a spalle dello stato degli industriali sembra ora essersi attaccato agli operai. Bisogna incoraggiare l’on. Meda nella resistenza.

 

 

Egli deve resistere nell’interesse dei lavoratori. Nessuna cooperativa di produzione mai prosperò grazie all’aiuto dello stato. L’esempio più famoso è quello degli ateliers nationaux del 1848 in Francia, miseramente rovinati dopo breve periodo di speranze sconfinate. Il denaro dello stato è farina del diavolo che va in tanta crusca. Le sole cooperative le quali riuscirono di vantaggio ai lavoratori furono quelle che seppero procurarsi il credito da sé, colla buona amministrazione, con la rinuncia, con la buona scelta dei dirigenti. Nessuna banca impresterà certo i denari dei depositanti agli invasori della roba altrui; tutte invece lo daranno ai lavoratori che dimostrino coi fatti di esserne degni.

 

 

Egli deve resistere nell’interesse della collettività. Lo stato oggi non può dare a mutuo né centinaia né decine, né unità di milioni se non stampando nuovi biglietti. Quale contradizione più stridente – queste sì, on. Labriola, sono tragedie, non del capitalismo morente ma del collettivismo nascente! – fra la domanda da cui ebbe origine il conflitto attuale di un rialzo di salari e la conclusione di un mutuo in biglietti nuovi destinato fatalmente a aumentare il costo della vita ben più, ed a carico di un numero ben maggiore di uomini, del beneficio sperabile dall’aumento dei salari! Che i salari aumentino è possibile e può essere logico e giusto. Ma tutti, finalmente, dovrebbero essere concordi nel volere che l’aumento, se ci deve essere, debba avvenire senza che la circolazione cartacea aumenti neppure di una lira. L’organizzatore operaio, che non metta questa condizione, confessa di volere ingannare, indegnamente ingannare, i suoi mandanti. Il ministro, che la dimentichi, dichiara di volere essere l’affamatore del popolo.

 

 



[1] Con il titolo Parole ed atti di governo [ndr].

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