Opera Omnia Luigi Einaudi

Borse, aumenti di capitali e controllo sulle emissioni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 08/03/1918

Borse, aumenti di capitali e controllo sulle emissioni

«Corriere della Sera», 8 marzo[1], 25 luglio[2] 1918

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 619-631

 

 

I

Da qualche tempo le borse italiane danno prova di molta attività, quasi si direbbe di effervescenza. Siccome le borse ufficialmente sono chiuse, e innanzi tutto evidente non esservi bisogno che le borse siano aperte in modo ufficiale perché si abbiano numerose transazioni. Dal punto di vista, anzi, dell’esatto adempimento agli impegni assunti, del «buon fine» delle operazioni compiute non si sono mai verificati così pochi disguidi come da quando le borse funzionano privatamente senza la sorveglianza dello stato. Ciò ho voluto osservare fin dal principio, per scartare senz’altro i soliti rimedi empirici i quali vengono addotti quando in borsa o in genere sui mercati dei titoli, delle merci e dei prodotti si verifica qualche inconveniente: borse ufficiali o borse libere e tutt’uno, quanto ai pericoli delle speculazioni e delle crisi. Queste si verificano in Francia ed in Italia, dove corre il pregiudizio che gli agenti di cambio debbono essere pochi, dotati di cauzioni vistosissime o ragguardevoli; e si hanno in Inghilterra e negli Stati uniti, dove le borse sono istituzioni private, e gli agenti di cambio sommano a parecchie migliaia.

 

 

Il seguente specchietto chiarisce, per alcuni titoli scelti come rappresentativi dei principali gruppi d’industrie, i movimenti verificatisi recentemente, in confronto a talune date anteriori:

 

 

31 dicembre 1913

31 luglio 1914

31 dicembre 1915

31 dicembre 1916

Primi marzo 1918

Istituti di credito
Banca d’Italia

1426

1267

1305

1274

1318

Banca commerciale

826

670

620

661

950

Credito italiano

548

500

519

568

632

Banca italiana sconto

89

460

520

590

Banco di Roma

104

98

35

41

41

Trasporti ferroviari
Ferrovie mediterranee

264

212

175

188

240

Ferrovie meridionali

537

479

411

429

471

Venete secondarie

114

98

107

174

137

Tramvie elettr. genovesi

776

617

575

575

Società di navigazione
Navigazione generale

400

380

418

493

706

Navigazione alta Italia

130

355

425

590

Tessili
Cotonificio Cantoni

357

399

407

467

498

Stamperia italiana

108

98

124

210

281

Lanificio Rossi

1440

1380

1385

1290

1190

Manifattura Borgosesia

370

355

390

415

Linificio e canap. naz.

80

134

88

130

301

Siderurgia, Meccaniche, Automobili
Terni

1515

1096

1173

1208

1670

Piombino

90

75

124

174

Elba

188

201

250

295

384

Savona

160

137

213

271

397

Ferriere italiane

108

86

151

203

266

Metallurgica italiana

112

99

132

134

155

Miani e Silvestri

92

78

91

112

125

Ansaldo

272

210

230

286

307

Fiat

108

99

342

395

472

Elettricità e Gas
Edison

602

536

473

537

611

Alta Italia

270

240

285

314

Vizzola

1000

776

750

792

900

Gas di Roma

1150

575

431

581

Zuccheri
Eridania

570

450

492

500

640

Raffineria ligure lomb.

312

288

315

310

358

Immobiliari
Immobiliare

284

215

234

311

Beni stabili

248

248

245

960

Fondi rustici

138

127

145

220

Bonifiche ferraresi

345

360

395

615

 

 

Io non voglio fare, come sarebbe necessario se si volesse spiegare veramente la ragione delle singole variazioni di prezzo, un esame particolareggiato dei vari titoli. A ciò mancherebbe lo spazio; né quell’esame è necessario quando si vogliano fare soltanto alcune osservazioni d’indole generale. Sembra invero che una ispezione generica del listino consenta di affermare:

 

 

  • che i prezzi odierni segnano in generale un aumento notevole rispetto a quelli del dicembre 1915, quando si subiva ancora l’impressione dello scoppio della guerra europea prima e di quella italiana poi. Maggiore è l’aumento in confronto a quelli che si ebbero il 31 luglio 1914, sotto l’immediata impressione dello scoppio della guerra;
  • i prezzi odierni però non sono più tanto alti ove si paragonino, come pare equo, a quelli della fine 1913, ossia ai prezzi ultimi di pace. Siccome il 1913 non fu n anno molto favorevole all’economia italiana, è probabile che, se il confronto venisse fatto con l’ultimo periodo di prosperità dei tempi di pace, si vedrebbe che il livello generale odierno non è superiore a quello che si aveva allora. Vi sono spostamenti di prezzo; ma il livello generale non pare giunto a quello che erasi toccato nel 1905-1906;
  • i miglioramenti veramente apprezzabili in confronto ai prezzi dei tempi di pace sono localizzati nei gruppi della navigazione, della siderurgia, della meccanica, dell’automobilismo e di alcuni tessili, ossia nelle industrie che hanno lavorato molto per la guerra. Qui v’è, in confronto ai prezzi del 1913, un aumento il quale supera il deprezzamento della moneta. Non bisogna invero dimenticare che se un titolo è aumentato da 100 a 160 in verità è rimasto stazionario, essendoché le 160 lire di adesso non valgono più delle 100 lire del 1913; ed è probabile che, ove la moneta abbia a riguadagnare di pregio, i titoli torneranno ad andar giù.

 

 

I fenomeni preoccupanti nel mercato dei valori di borsa non sono le variazioni di prezzo, le quali non superano i limiti delle oscillazioni solite a verificarsi nei tempi di grandi movimenti economici. Sarebbe certo desiderabile che talune punte eccessive non si fossero avute. Siamo in guerra; ed occorre la massima prudenza, per superare tranquillamente i momenti di prova che possono essere dinanzi a noi. Le speculazioni al rialzo e le posizioni allo scoperto possono dar luogo ad improvvisi tracolli quando temporaneamente si oscuri l’orizzonte politico; e ciò deve evitarsi perché nocivo al credito pubblico. Ma, ripeto, è impossibile impedire le variazioni dei prezzi, poiché tanto varrebbe ordinare al sole di star fermo, alle teste di non pensare, di non riflettere, di non prevedere.

 

 

Non le variazioni dunque dei prezzi, ma i loro rapporti con altri fatti sono degni di riflessione. In primo luogo la connessione delle variazioni dei prezzi con gli aumenti di capitali, che recentemente si moltiplicarono in Italia in maniera mai più vista. È compito del ministro del tesoro quello di assumersi la responsabilità personale di stabilire un fermo su tutte le nuove emissioni di capitali, le quali non sembrassero conformi all’interesse pubblico. L’unico motivo di dubbio è il timore che il ministro deleghi questa sua facoltà ad una delle solite commissioni o dei soliti uffici od istituti più o meno nazionali; che sarebbe un guaio grosso. Il ministro dovrebbe lui, personalmente, esaminare le domande di aumento di capitale delle società e dare o rifiutare il suo consenso. In Inghilterra, da quando è cominciata la guerra non avvengono quasi più emissioni di titoli sul mercato; e sono, come è naturale, ammesse quelle sole emissioni le quali non richiedono un effettivo sborso di denaro da parte del pubblico; ad esempio, le trasformazioni di riserve in capitale azionario, le costituzioni di società con apporti in natura, le fusioni e simili. Se non si vuole l’intervento del ministro del tesoro, per la paura, in Italia non infondata, che la procedura amministrativa guasti tutto, usino almeno somma prudenza le banche le quali si incaricano delle nuove emissioni. Solo per eccezione rarissima dovrebbero le banche assumersi queste operazioni:

 

 

  • perché tutto il risparmio disponibile del paese deve essere convogliato verso i prestiti pubblici;
  • perché nessuno oggi può dire quale sarà la sorte dei capitali impiegati nelle industrie ai prezzi di costruzione e di impianto aumentati che oggi corrono. Salvo eccezioni, come può ragionevolmente sperarsi che un capitale di 100 lire impiegato nell’acquisto di una macchina o frazione di macchina che domani, a prezzi di pace, varrà 25 lire possa dare un reddito sufficiente a compensare l’azionista?

 

 

Non ho, per fortuna, l’impressione che le grosse, strabilianti emissioni verificatesi negli ultimi mesi in Italia abbiano fatto appello al risparmiatore medio e minuto: questi ha seguitato a comprare rendita nuova 5%, rendita vecchia 3,50 e cartelle fondiarie ed ha girato al largo dai titoli che di sé menavano gran rumore nelle borse. Il collocamento si fece sovratutto, a quanto immagino, presso i grossi portafogli e presso le banche, sia direttamente, sia per mezzo di riporti.

 

 

Qui sta il secondo lato preoccupante del problema. Le recenti speculazioni di borsa sembrano invero caratterizzate da tentativi di gruppi bancari od industriali di impadronirsi di questo o quel pacchetto di azioni. Ogni tanto si sente dire di lotte feroci tra due o più gruppi i quali vogliono conquistare la maggioranza delle azioni di questa o quella società. Certe azioni, nell’imminenza dell’assemblea generale, salgono di prezzo per centinaia di lire. Ovvero fanno un deporto di 5, 10, 15 lire, il che vuol dire che v’ha chi ha interesse ad affittare le azioni per un mese pagando quei deporti, pur di acquistare il diritto di assistere alle assemblee generali e nominare il consiglio di amministrazione. Talvolta una società fa catena con altre, ossia la società A mette in portafoglio metà più una delle azioni della B, e questa fa altrettanto con le azioni della A; ed i rispettivi consigli, divenuti padroni delle rispettive assemblee generali, si nominano a vicenda in perpetuo.

 

 

Dico subito che questi fatti riguardano una infima minoranza delle società anonime. La maggior parte di esse lavora e produce onestamente e tranquillamente; non è in balia delle banche, non fa catena con altre società, non tende a monopoli, non vuole esercitare alcuna influenza sui giornali, sull’opinione pubblica, sul governo.

 

 

Ma poiché sembra delinearsi una tendenza a costituire taluni pochi gruppi pericolosi industriale – bancari del tipo di quello detto dell’industria pesante in Germania o del trust dell’acciaio o del petrolio negli Stati uniti uopo è che l’opinione pubblica si metta sull’avviso. Non ho alcuna fiducia negli empiastri legislativi, come la nominatività delle azioni; poiché i malanni ora indicati si verificano tanto negli Stati uniti, dove vige il tipo delle azioni nominative, come in Germania, dove le azioni sono al portatore. Soltanto il controllo vigile, continuo dell’opinione pubblica; la pubblicità dei bilanci delle banche e delle società industriali nei loro più minuti particolari possono avere qualche efficacia. Non è escluso che qualche rimedio legale si possa trovare, sebbene negli Stati uniti si discuta in proposito da decenni con scarso costrutto. Frattanto giova insistere sull’obbligo della pubblicità. Qui lo stato potrebbe far molto e non fa assolutamente nulla.

 

 

II

Il seguente confronto mi sembra suggestivo:

 

 

Emissioni di azioni ed obbligazioni sul mercato di Londra

Aumenti netti del capitale delle società per azioni in Italia

1914

2539,0

141,3

1915

370,2

70,3

1916

216,3

476,1

1917

172,6

1314,0

1918 (primo semestre)

141,5

 

 

Dico subito che le due colonne non sono del tutto comparabili. La prima colonna, quella relativa all’Inghilterra, è tratta dall’«Economist» e corrisponde all’ammontare, in milioni di lire italiane oro, delle azioni ed obbligazioni emesse da società d’ogni fatta sul mercato di Londra per investimenti in Inghilterra, nell’impero ed anche fuori dell’impero. Quelle cifre comprendono dunque anche gli investimenti di capitale mediante obbligazioni e non tengono Invece conto delle emissioni di titoli avvenute nelle borse provinciali, che sono del resto assai poca cosa, e delle perdite di capitale delle società morte o tuttora esistenti. Invece le cifre italiane in milioni di lire italiane-carta che ho scelto alla meglio tra le parecchie fonti contradittorie esistenti comprendono solo gli aumenti di capitale mediante azioni, escluse le obbligazioni, e sono al netto dalle diminuzioni di capitali per scioglimento di società o legale riduzione del capitale sociale. Nel complesso, pare a me che, astrazion fatta dall’influenza del cambio, le cifre italiane abbiano un contenuto più ristretto delle cifre britanniche.

 

 

Nonostante queste avvertenze, date le quali le cifre inglesi avrebbero astrattamente dovuto essere invece assai maggiori di quelle italiane, quale sorprendente aspetto ed andamento presentano le due colonne! In Inghilterra le cifre si assottigliano e tendono a zero; in Italia ingrossino di anno in anno e se fosse possibile avere le cifre del primo semestre 1918 probabilmente vedremmo un altro balzo in avanti.

 

 

La diversità non si spiega ricorrendo ad un immaginario ristagno industriale inglese; in Inghilterra, come da noi, gli ultimi anni di guerra furono caratterizzati da un intenso e febbrile lavoro, non minore e senza forse in cifre assolute maggiore del nostro.

 

 

Neppure si spiega immaginando che in Inghilterra non si siano dovute compiere trasformazioni e nuovi impianti industriali. Questa che i paesi vecchi possono senza impianti nuovi far fronte alle improvvise variazioni nella domanda dei prodotti industriali è una fandonia senza senso. Nessun impianto destinato a fabbricare orologi può, senza profonde trasformazioni, mutarsi senz’altro in una fabbrica di proiettili. Nuovo o vecchio che sia il paese, fa d’uopo spendere, investire. Dato lo straordinario consumo di munizioni, di artiglierie, di provviste di guerra, impianti nuovi mai più visti sorsero in Inghilterra come in Italia e richiesero denaro nuovo.

 

 

La differenza non si spiega neppure ricorrendo ad un’altra vecchia fandonia; la quale si legge ripetuta fino alla nausea in giornali e riviste: quella per cui le industrie dei paesi vecchi non hanno bisogno di ricorrere a capitali nuovi perché hanno ammortizzato i loro vecchi impianti coi guadagni del passato. Sia pure l’ammortamento proceduto in modo siffattamente meraviglioso da ridurre all’attivo il valore di bilancio dei singoli capitoli – stabilimento, macchinario, avviamento, brevetti ecc. – ad una lira, i guadagni fatti o saranno stati distribuiti agli azionisti ed in tal caso la società dovrebbe far appello a nuovi versamenti per nuovi investimenti, ovvero saranno stati mandati a riserva. Ma le riserve non si tengono da nessuna società ragionevole investite in denaro contante, conti correnti bancari o titoli pubblici. S’investono nell’impresa; il che vuol dire che esse sono rappresentate da impianti, edifici, macchine, che lavoravano già prima della guerra e che non bastano se si vuole aumentare o variare la produzione. La leggenda degli ammortamenti che in Inghilterra, in Francia, in Germania, negli Stati uniti, dappertutto fuorché da noi, avrebbero ridotto i costi degli impianti a zero è una fandonia non solo logica, ma di fatto. Chi abbia l’abitudine di leggere bilanci di società sa che dappertutto ci sono, precisamente come in Italia, società fortunate e prudenti, specialmente prudenti, che hanno ammortizzato largamente; altre le quali si contentano degli ammortamenti legali ed altre che portano all’attivo cifre pericolose di avviamenti, di brevetti, d’impianti ad alto costo.

 

 

Come si spiega dunque la differenza? Per l’Inghilterra, la brusca caduta da 2 miliardi e 53 milioni nel 1914 a 370 nel 1915 ha una spiegazione assai semplice: il tesoro proibì senz’altro l’emissione di nuovi titoli sul mercato senza suo permesso ed il permesso non lo dà quasi mai. Vuole riservare a sé tutto il risparmio del paese, per i bisogni di guerra.

 

 

Come si facciano i nuovi impianti industriali non so. Probabilmente:

 

 

  • il governo, come dappertutto, concede anticipazioni sui prezzi delle forniture, e gli industriali calcolano, come si fa altresì in ogni paese in guerra, il piano delle forniture in guisa da ammortizzare durante gli anni di guerra il costo dell’impianto;
  • gli industriali spontaneamente, senza esservi costretti, mandano a riserva buona parte degli utili conseguiti e se ne servono per gli impianti. Il 27,4% degli utili conseguiti nei bilanci chiusi nel 1917 ed il 32,5% di quelli del primo trimestre del 1918 andarono a riserva;
  • soci ed azionisti forse lasciano gli utili ed i loro fondi disponibili in conto corrente presso le imprese industriali.

 

 

In Italia recentemente il governo proibì l’emissione di azioni nuove da parte delle società più importanti senza il suo consenso. L’unico effetto della proibizione parve essere stata un’ascesa vertiginosa nelle nuove emissioni. Non ultima causa della strabiliante diversità di effetti prodotti dalla medesima causa pare sia che in Inghilterra il governo non si mise in capo, almeno sinora, di controllare le emissioni. Vuole solo proibirle perché gli fanno concorrenza; ed il tesoro ha bisogno di tutto il risparmio del paese e proibisce perché così gli piace. Non dà giudizi di merito sulle emissioni. Fa solo pochissime eccezioni in quei casi in cui l’emissione gli giova direttamente. Il consenso lo dà il tesoro e non il Board of trade (corrispondente al nostro ministero dell’industria). In questo modo gli industriali vivono sicuri che, quando il tesoro non avrà più bisogno di prestiti, finita la guerra, le emissioni ritorneranno libere ed essi potranno procacciarsi capitali a piacimento sul mercato.

 

 

In Italia disgraziatamente, per una di quelle comiche ragioni di competenza che rendono i ministeri altrettanti compartimenti stagni o altrettante potenze ostili, il consenso lo dà il ministro dell’industria, assistito da apposita commissione. Peggio: il consenso deve essere dato tenendo conto dell’importanza degli scopi per cui l’aumento di capitale è stato deliberato. Una organizzazione più pestifera non si sarebbe potuto immaginare:

 

 

  • Lo stato viene così a dare un giudizio sulla solidità dell’impresa e sulla bontà degli scopi per cui le società chiedono denari al pubblico. Cosa pazzesca e pericolosa. Pazzesca, perché è assurdo credere che una commissione possa sostituire la propria insanabile ignoranza alla competenza degli amministratori delle singole imprese. Pericolosa, perché lo stato viene a dare una specie di affidamento al pubblico che le azioni le quali si offrono in sottoscrizione sono solide e serie azioni, perché lo scopo dell’aumento è buono, l’impresa è sana e di importanza nazionale. Solo l’inesprimibile leggerezza di uomini politici e di funzionari può non tremare dinanzi alla responsabilità morale che con autorizzazioni fondate su una base così insipiente lo stato si assume dinanzi ai risparmiatori italiani.
  • Le società si impauriscono all’idea di non potere più procedere all’aumento se non dopo un previo esame economico-morale da parte del ministero dell’industria. Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente, se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra. Frattanto, more solito, le società hanno ricorso alla furberia ed alle blandizie e con rapporti altisonanti sull’importanza degli scopi nazionali che esse si propongono strappano il consenso alle commissioni le quali oggi sono persuase che certi scopi debbono essere raggiunti. E così le emissioni vanno crescendo di volume in modo spaventoso. Tutti si affrettano a far l’aumento prima che avvenga la serrata.

 

 

Conduce al medesimo risultato il provvedimento legislativo che limitò i dividendi all’8%. Se il legislatore ritenne di impedire in tal modo lo spreco degli utili di guerra, sono portato a concludere – trattasi di una prima impressione – che forse la sua sia stata una illusione. Sta di fatto che nel 1916 le somme mandate a riserva in ubbidienza al decreto sommano a circa un terzo degli utili conseguiti, suppergiù quanto si mandò a riserva in Inghilterra senza uopo di nessun decreto. Ma altro e un risparmio fatto volontariamente, altro e un accantonamento obbligatorio, deciso a contraggenio. Quello è guardato con amore e con orgoglio; questo con dispetto e con ansia. Che cosa vorrà farne lo stato? Il rafforzamento delle società e il vero scopo del decreto o non bisogna vedervi invece un pretesto per preparare una futura confisca?

 

 

Di qui alcune tendenze nelle società, in cui il pubblico vede, a torto, un tentativo efficace per sottrarre i denari al fisco; e il cui vero effetto è ben altro e ben più dannoso.

 

 

Se le società ritengono di sottrarre sul serio ad imposte presenti o future gli utili mandati obbligatoriamente a riserva:

 

  • col trasformare le riserve stesse in capitali nominali;
  • coll’investirle in nuovi impianti, esse si ingannano e con esse si inganna il pubblico. Il fisco tassa oggi e tasserà domani, astrazion fatta da qualsiasi forma legale sia data all’utile. Ciò è pacifico e non può dar luogo a nessun dubbio. Perciò non può produrre nessun danno pubblico il fatto di una società che destina i suoi utili di guerra di 2 milioni, già ridotti ad 1 milione da imposte diverse, ad aumento di capitale. Essa non chiede un centesimo al risparmio ed è la sala cosa importante -, dispone solo di ciò che già possiede, e si limita a scrivere quel milione in bilancio con un nome, «capitale sociale», invece che con un altro nome, «riserva luogotenenziale». Su quel «capitale» non può ripartire dividendi.

 

 

I malanni veri, gravissimi, prodotti non dalla limitazione dei dividendi, che è cosa opportuna e si faceva anche prima, ma dalla limitazione imposta colla forza della legge, sono i seguenti:

 

 

  • Tutte le società, le quali si sarebbero contentate di ripartire il 5% od il 6%, oggi fanno ogni sforzo per arrivare almeno all’8%. Non è ancora stato fatto il conto delle maggiori distribuzioni provocate dalla paura di non potere più disporre degli utili conseguiti.
  • Società ed industriali sono portati a considerare come roba di nessuno, farina del diavolo, gli utili che non possono ripartire. Quindi largheggiano in stipendi, gratificazioni, aumenti di salari. Sovratutto largheggiano in nuovi impianti inutili. Di questo malanno ne ha colpa, insieme col decreto sulla limitazione dei dividendi, la imposta sui sovraprofitti. Per lasciarci portar via gli utili dal fisco ora o poi, pensano istintivamente gli amministratori, possiamo spenderli! La spesa in impianti provoca domanda di lavoro, di mattoni, di calce, di ferro, di macchine in momenti in cui di tutto si dovrebbe fare grande economia. Il guaio si è che non vi è rimedio. Finché durerà la causa ed anzi quanto più si inaspriranno i provvedimenti repressivi, peggio sarà. Per impedire lo spreco da parte degli azionisti, il decreto ha organizzato lo spreco da parte delle società. Gli azionisti, talvolta modesti, devono contentarsi dell’8% – che spesso, dato il prezzo d’acquisto delle azioni ai corsi ante-bellici, le riserve ed i sovraprezzi versati, è un od un 4 od un 3% effettivo – e devono assistere alla volatizzazione degli utili di loro proprietà in largizioni interne o in fantastiche costruzioni nuove.
  • Le società sono portate ad aumentare il capitale, non trasformando le riserve in capitale nominale, il che è cosa innocente e non reca un centesimo di denaro nuovo nelle casse sociali, ma facendo appello vero e proprio al denaro nuovo sul mercato. Una società lucra 2 milioni di lire nette su un capitale di 10 milioni. Può ripartire solo 800.000 lire di utili in virtù del decreto. Essa aumenta il capitale da 10 a 20 milioni; ed ecco che assicura ai suoi azionisti l’8%, anche sul nuovo capitale dei 10 milioni. A far ciò bastano gli utili già conseguiti. Anche se il nuovo capitale fosse male impiegato o restasse improduttivo, l’8% è assicurato dall’utile vecchio. Nel dopo guerra, quando gli utili sgonfieranno, la sorte dei 20 milioni sarà più dura di quella che sarebbe stata quella dei 10; ma nel frattempo gli utili possono repartirsi.

 

 

La conclusione non è lieta; ma occorre sia detta e ripetuta per tempo. I decreti sulla limitazione delle nuove emissioni e sulla limitazione dei dividendi stanno producendo effetti diametralmente contrari a quelli che si proponeva il legislatore. Così è di quasi tutti i decreti luogotenenziali; ma di questi in modo segnalatissimo. Essi producono gonfiamento di capitali, spreco di utili, rincaro della vita; scemano le sottoscrizioni ai prestiti pubblici da parte degli azionisti e preparano assai tristi giorni all’economia nazionale nel dopo guerra. Saggio pensiero sarebbe di abolirli senz’altro; come sarà saggissima cosa decretare senz’altro che tutti i malaugurati decreti economici del tempo di guerra abbiano automaticamente a cadere sei mesi dopo la pace. Tutt’al più, finché dura la guerra, le nuove emissioni dovrebbero essere soggette al consenso personale – senza pareri di commissioni – del ministro del tesoro, il quale dando il consenso dovrebbe dichiarare, sotto la sua responsabilità, che l’emissione e consentita, senza alcuna garanzia del governo, unicamente perché non la si reputa nociva al collocamento dei prestiti pubblici e dei buoni del tesoro.

 

 


[1] Con il titolo Il mercato dei valori di Borsa. Il problema delle nuove emissioni. [ndr]

[2] Con il titolo Aumenti di capitali ed interventi di governo. Confronti internazionali. [ndr]

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