Opera Omnia Luigi Einaudi

Borse e risparmio nazionale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/04/1925

Borse e risparmio nazionale

«Corriere della Sera», 7 aprile 1925

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VIII, Einaudi, Torino, 1965, pp. 202-207

 

 

 

Gli agenti di cambio avevano evidentemente interpretato in guisa troppo ottimistica gli affidamenti ricevuti dal governo, quando essi si erano per la prima volta agitati contro il decreto che ne scemava il numero ad una piccola frazione di quello degli agenti in carica e toglieva agli altri il diritto alla professione conseguito in base alla legge vigente. È chiaro adesso che il governo intende che il decreto abbia piena attuazione; ed è chiaro, dunque, che nella mente dei suoi ordinatori, esso risponde ad un piano prestabilito.

 

 

Quale sia il piano, non si può dire con sicurezza, poiché dichiarazioni esplicite ufficiali non sono state pubblicate. Procedendo per via di eliminazione, si può escludere che lo scopo sia stato quello di intervenire a difesa della lira. «In quest’ultimo mese, noi abbiamo dovuto manovrare per respingere un’onda di sfiducia, che abilmente sollevata da speculatori di ogni qualità, minacciava di compromettere, nel suo momento più delicato, l’opera ricostruttiva del governo e gli interessi generali del paese». Non esiste un nesso logico diretto tra queste parole dell’on. De Stefani al senato e la diminuzione degli agenti di cambio. La fuga dalla lira può prendere diversi aspetti:

 

 

  • acquisto di oro e di valute estere; ma non consta che di questi acquisti si facessero promotori gli agenti di cambio; e che sovratutto il loro cresciuto numero avesse dato origine ad un incremento di tali acquisti;

 

  • acquisto di merci di consumo; operazione anche questa estranea alle persone di cui si tratta;

 

  • investimento del risparmio più in case, terreni, titoli azionari che in consolidato e in titoli a reddito fisso. Se la predilezione fosse stata molto accentuata e pericolosa, avrebbe dovuto manifestarsi attraverso ad una caduta dei prezzi del consolidato e dei buoni del tesoro. Invece, fino al decreto del 26 febbraio, primo della serie, i valori pubblici andavano crescendo: il consolidato 5% da 96,83 nel mese di gennaio era a poco a poco cresciuto a 98,55 il 25 febbraio. Ed è noto che i buoni del tesoro settennali e novennali 5% erano ricercati in febbraio al disopra della pari, quotando 104 lire e più. Siccome il consolidato ed i buoni sono tipici valori lira, i dati conosciuti non permettono di affermare che esistesse una crisi di sfiducia nella lira. Un piccolo ribasso, arginato venne dopo, probabilmente in conseguenza dei decreti. Ad ogni modo, non consta che gli agenti di cambio abbiano trascurato il collocamento dei valori lira, i quali venivano sul mercato; e ciò, sulla base dei fatti passati, il collegamento fra il dubbio fatto «fuga dalla lira» ed il fatto «eccessivo numero degli agenti di cambio».

 

 

Probabilmente, il criterio più ragionevole di interpretazione del decreto oggi confermato è il seguente: «Lo stato si propone un vasto piano di rivalutazione della lira. All’azione indiretta, esercitata sinora con l’assestamento del bilancio, lo stato si propone di un’azione diretta. Il tesoro ha quindi bisogno di avere sottomano uno stato maggiore di suoi ufficiali, i quali ubbidiscano alle sue direzioni e la cui opera possa essere indirizzata allo scopo di tenere alto il credito dello stato e di contribuire alla graduale rivalutazione della lira. Questi pubblici ufficiali non possono essere agenti di cambio, che in sostanza sono privati professionisti, troppi di numero ed in numero crescente, i quali, per soddisfare ai desideri della loro clientela, si occupano più dei titoli privati che di quelli pubblici, fomentano speculazioni, e fanno opera talvolta contraddittoria con quella dello stato. I pubblici ufficiali di borsa debbono essere pochi, provveduti di forte cauzione, e riuniti in una corporazione fornita di personalità giuridica e di responsabilità propria».

 

 

Io non so se, con questo mezzo, lo stato riuscirà a tenere alto il credito pubblico e a facilitare la rivalutazione della lira. Ritengo lo stato non abbia all’uopo alcun bisogno né di ufficiali pubblici, né di corporazioni chiuse. Il credito pubblico si tiene alto esclusivamente con una buona finanza. Quando questa si fa, la coalizione di migliaia di agenti di cambio non basterebbe a scrollare di un iota il credito dello stato. Quando non si fa, neppure Napoleone riuscirebbe, come non riuscì, con qualunque specie di corporazione, a frenare il tracollo dei valori di stato. Il mezzo non è idoneo al fine; e a raggiungere il fine altri mezzi occorrono.

 

 

Dico che il problema delle borse è un altro e che le corporazioni chiuse non lo risolvono. Le borse non sono state create per tener alto il credito di nessuno, nemmeno dello stato. Le borse sono un mercato, il cui unico ufficio è di valutare il credito dello stato, dei comuni, delle società anonime; valutarlo per quel che vale, non mai per tenerlo su o per tirarlo su. La borsa non ha e non deve avere per iscopo di aiutare la rivalutazione della lira ma di valutare la lira, per quello che vale. Attribuire alla borsa il compito di tener su, di promuovere, di rivalutare, è un confondere uffici che spettano ad enti diversi. Il compito di far apprezzare il consolidato e di rivalutare la lira è compito del governo, del tesoro. La borsa non deve se non prendere atto del fatto già avvenuto, se è avvenuto. Il compito di far crescere il valore delle azioni di una società anonima spetta al consiglio di amministrazione della società. Se il consiglio amministrerà bene e farà fare alla società buoni affari, la borsa prenderà atto della buona amministrazione e dei buoni affari ed il valore dell’azione crescerà. Accadrà il contrario, se il tesoro dello stato lascerà crescere il disavanzo o il consiglio della società manderà questa in malora.

 

 

La borsa è una borsa e non è un ufficio di propaganda. Se vogliamo convertire le borse in organi incaricati di qualche compito di stato o di propaganda dei titoli di qualche società, esse cessano di essere delle borse. Diventano qualcosa d’altro; qualcosa che, con i suoi pubblici ufficiali, potrà anche avere un interesse decorativo o adempiere a qualche compito nuovo, che non conosco: ma non sono più borse.

 

 

Che cosa è una borsa? Stringi, stringi, non si sa trovare altra definizione se non questa: che la borsa è un mercato. Vanno su quel mercato tutti coloro che hanno da vendere titoli e tutti quelli che hanno da comprar titoli. Titoli di stato, di enti pubblici, di società private.

 

 

Un mercato non ha per ufficio di far l’interesse né del venditore né del compratore; ma solo di provvedere un luogo d’incontro delle due parti.

 

 

È utile che i mediatori (agenti di cambio) tra le due parti siano pochi, come volle Napoleone e vuole adesso il decreto italiano, o molti come sono in tutte le borse del mondo, eccetto Parigi? Io direi molti, perché un mercato, in cui le contrattazioni devono obbligatoriamente passare attraverso a poche mani, non è un mercato ampio. Se un mercato è ampio, ossia se vi sono sempre molte persone pronte a comprare ed a vendere e disposte a servire d’intermediari fra venditori e compratori, ivi gli scarti fra prezzi d’offerta e prezzi di richiesta, fra lettera e danaro, sono minimi. In un mercato, dove tutti invece debbono passare per forza attraverso quaranta o cinquanta persone, quasi pubblici notai, qual vivacità può esservi, qual ampiezza di scelta per i clienti? Gli scarti saranno maggiori e i lucri degli intermediari più alti, sebbene su una cifra minore di affari.

 

 

Un mercato deve anche essere specializzato. Le grandi borse si dividono ciascuna in sub-mercati, ognuno dei quali tratta esclusivamente un gruppo di titoli: di stato, di enti locali, dell’industria tessile, di quella meccanica, delle miniere d’oro, delle miniere di carbone, ecc. ecc. Come potrà attuarsi questa specializzazione, opera non di leggi ma delle necessità economiche, se una legge dice: tutte le contrattazioni debbono passare attraverso 45 notai pubblici, incaricati di registrarle con la gravità e col sussiego proprie di dignitari incaricati da un potere superiore di vigilare su non si sa bene quali misteriosi interessi pubblici? Se una specializzazione deve operarsi anche nelle borse italiane, è necessario che la scelta e la divisione del lavoro possa aver luogo su una grande massa, sempre rinnovantesi, di professionisti, ognuno dei quali sia spinto dalla reciproca concorrenza ad approfondire un determinato gruppo di titoli ed a rendere veri servigi, con consigli tecnicamente fondati, alla clientela.

 

 

E qui tocco il punto vero del problema delle borse. Come tutti i mercati, le borse non hanno nessuna teoria al rialzo od al ribasso da difendere. Ma indirettamente, se esse adempiono bene al loro ufficio, di essere prontissimi divulgatori ed anzi anticipatori di fatti accaduti altrove, esse sono il necessario, meraviglioso strumento per incanalare il nuovo risparmio verso l’erario, verso le industrie e verso i commerci. Il risparmio da se stesso non va né verso i titoli di stato, né verso le industrie. Il primo impulso di chi risparmia è di tenersi il proprio danaro e di non darlo a nessuno. Per indurlo a darlo altrui, è necessario, assolutamente necessario che il risparmiatore si sia persuaso che il titolo è buono, che è vendibile, che può essere dato a pegno per procacciarsi prestiti, che soddisfa a mille altri svariatissimi requisiti.

 

 

Chi dà questa persuasione al pubblico? La borsa, con il professionismo che essa sviluppa, con la creazione cioè di una classe di persone la quale, trovandovi il proprio tornaconto, è sempre lì pronta a ricomprar i titoli che il pubblico vuol rivendere, che sa dove trovare i capitalisti pronti ad anticipare somme su pegno dei titoli che il detentore non vuole ancora vendere, ma con cui ha bisogno di battere moneta; che ha inventato all’uopo i contratti di riporto; che acquista i titoli nuovi, sconosciuti al pubblico, che se li sballotta per mesi e mesi, e talvolta per anni nelle sue proprie file, dall’un professionista all’altro, sinché, a furia di vederli quotati e di vederli crescere, i risparmiatori ad uno ad uno, come le pecore fanno, li acquistano, li mettono in portafoglio, se ne trovano bene e li tengono o male e li rivendono agli stessi professionisti, i quali tornano a riprenderli, ecc.

 

 

Senza la creazione di un’ampia, ricca, intraprendente, curiosa classe di intermediari e di speculatori la borsa non va, il mercato non si fa e la comunicazione fra risparmio ed industria è rotta. Chiamateli come volete: agenti di cambio, commissionari, operatori, ecc., ecc. Il nome non importa. Operino in nome proprio o dei clienti: piccolissime cosette intorno alle quali si è accanita per anni la mania di discutere di gente che non sa che le borse non si fanno con i regolamenti, le leggi, i divieti di far questo o quello. L’importante è che il mercato si faccia, ampio, specializzato, vertiginoso.

 

 

In Italia, siamo appena all’inizio della vertigine. Non bisogna confondere le cifre grosse provocate dal fatto transitorio della svalutazione della lira con le cifre grosse di reali contrattazioni fatte. Queste sono appena appena sull’inizio. Il risparmio nazionale si dirige ancor poco ai titoli mobiliari. Troppa poca gente acquista ancora titoli di stato e titoli di società anonime. Un’infima minoranza delle società anonime esistenti in Italia ha i proprii titoli quotati in borsa. Danno grave per l’economia del paese, la quale stenta a trovare i capitali ad essa necessari nella forma facile, frazionata, mobilissima dell’azione.

 

 

Fate che il movimento verso i titoli mobiliari si allarghi, che in ognuna delle famiglie italiane (9 milioni di famiglie) vi sia qualche titolo mobiliare; ed a manipolare siffatta enorme massa di transazioni parranno ridicolmente piccole le cifre di 250 e 150 agenti di cambio esistenti oggi a Milano e a Torino.

 

 

Se l’Italia ha da crescere, come deve crescere, in potenza economica, bisognerà arrivare fatalmente alle migliaia di intermediari in titoli nelle grandi borse italiane. Come ciò accadrà, non lo so; perché l’avvenire è sempre difficile ad indovinarsi. So però che i 60 o 45 agenti creati pubblici ufficiali dal recente decreto saranno una piccola quota dell’esercito di professionisti che in avvenire opererà nelle borse italiane.

 

 

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