Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo II – Dei prezzi pubblici

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo II – Dei prezzi pubblici

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 51-120

 

 

 

Sezione Prima.

Generalità.

 

37. Passaggio del prezzo quasi privato al prezzo pubblico. – Parlando del prezzo quasi privato, abbiamo veduto che lo Stato provvede a soddisfare un bisogno individualizzato e divisibile degli uomini vendendo loro una merce a prezzi privati stabiliti sul mercato e procacciando loro in aggiunta il soddisfacimento contemporaneo di un bisogno indivisibile. Ad esempio vende legna a prezzi di mercato soddisfacendo al loro bisogno individualizzato e divisibile di riscaldarsi e nel tempo stesso provvede a soddisfare, mercé la conservazione delle foreste, a bisogni igienici, di difesa dei terreni agricoli, ecc., che non possono facilmente individualizzarsi, che sono generali e indivisibili. Da questo caso al caso del prezzo pubblico il passaggio non è arduo. L’avremmo già quasi fatto se avessimo accolto il principio della nazionalizzazione delle forze idrauliche. In questo caso infatti il prezzo sarebbe stato quasi pubblico, inquantoché abbiamo visto che lo Stato si sarebbe dovuto regolare nella fissazione dei prezzi in maniera diversa da quella del privato. Per i carboni, per i minerali, per il legname abbiamo visto che il prezzo deve essere eguale a quello privato; mentre per le acque ciò non è facile, almeno sempre. La necessità di evitare favoritismi impone allo Stato di stabilire un prezzo unico o uniforme od almeno poco differenziato, mentre i privati stabiliscono prezzi molteplici a seconda dei consumatori. In questa necessità di adoperare metodi diversi nella fissazione dei prezzi da quelli che sarebbero in uso presso i privati risiede la caratteristica differenziativa del prezzo pubblico. Lo Stato nel fissare tali prezzi può scostarsi più o meno dalle regole che determinerebbero il prezzo privato. In certi casi se ne discosta poco, in certi altri moltissimo; in genere potendosi affermare che, appena se ne discosta, siamo entrati nella categoria dei prezzi detti pubblici. Il bisogno da soddisfare col sistema dei prezzi pubblici è ancora un bisogno individualizzabile e divisibile: ma si ritiene che questo bisogno non possa essere soddisfatto dalle imprese puramente private, perché queste stabilissero dei prezzi pure privati, mentre si vuole che i prezzi siano stabiliti in altra maniera più conveniente ai consociati, il che può ottenersi soltanto facendo gerire l’impresa dallo Stato o da privati delegati dallo Stato. Di solito, dire che i prezzi devono essere stabiliti in maniera diversa da quello che sarebbe adoperata nelle contrattazioni private vuol dire che i prezzi debbono essere fissati ad un livello più basso. Questo il concetto generale, di cui poi faremo qualche applicazione particolareggiata.

 

 

38. Due ordini di ricerche: quali caratteri hanno le imprese pubbliche e quali sono i metodi di esercizio dell’impresa pubblica. – A questo punto due ordini di ricerche, essenzialmente diverse, si presentano dinanzi a noi. Una prima indagine consiste nel ricercare quale siano l’indole ed i connotati dell’impresa che si chiama pubblica, essendo esercitata dall’ente pubblico, e per cui i servigi si pagano prezzi pubblici. Questa è la indagine fondamentale, ed ha per iscopo di precisare il fatto medesimo che si tratta di studiare. Quando l’oggetto di studio sia precisato, quando si sappia quali sono i connotati caratteristici delle imprese pubbliche sorge un problema subordinato: con quali metodi gerire queste imprese che si sa oramai essere pubbliche; e qui il dibattito volge sovratutto fra l’esercizio diretto e l’esercizio per delegazione ad imprese private. Il primo problema, come ognuno capisce, è più vasto e generale; il secondo è di applicazione pratica, sebbene di fatto pure importante, anzi talvolta più importante del primo al buon successo dell’impresa pubblica.

 

 

Perciò noi divideremo il presente capitolo in alcune sezioni; di cui la prima studierà le caratteristiche dell’impresa pubblica; la seconda i metodi di gestione, se diretta o per delegazione. Seguiranno altre due sezioni consacrate a vedere come le imprese pubbliche esercitate direttamente, o per delegazione, stabiliscano i prezzi pubblici dei loro servigi. Nelle quali sezioni si studieranno quasi esclusivamente i prezzi pubblici dell’impresa ferroviaria, come quello che, essendo tipica ed importantissima, ha dato luogo a ricerche più profonde.

 

 

Sezione Seconda.

L’intrapresa pubblica, sue caratteristiche e sue condizioni determinanti.

 

39. Come le intraprese pubbliche a prezzi pubblici non siano facilmente caratterizzabili; e come la natura tecnologica di esse non sia sufficiente all’uopo. – Sarebbe sommamente desiderabile di possedere un criterio semplice con cui potere caratterizzare le imprese che debbono essere assunte dallo Stato ed i cui prodotti debbono essere venduti col sistema dei prezzi pubblici. Ma una semplice ispezione della struttura tecnologica dell’industria non basta all’uopo. In altre parole nessuna industria possiede per sé caratteristiche che la dichiarino industria di Stato. Lo Stato o i Municipi possono esercitare l’industria delle ferrovie, del gaz, dell’acqua potabile ed in tal caso possono venderne i servizi a prezzi non più privati, ma pubblici, perché fissati secondo norme particolari. Lo Stato può fare benissimo tutto questo; ma non già perché l’esercizio statale sia assolutamente necessario per ragioni tecniche. Perché, ad esempio, l’industria del gaz non potrebbe essere gerita da un privato, invece che dal municipio? In molti casi il municipio può anzi esercitare la sua intrapresa in concorrenza con intraprese analoghe, gerite dai privati; questo avviene a Torino nel servizio delle tramvie, dell’acqua potabile e dell’energia elettrica. Ciò può accadere perché queste intraprese non sono di per sé pubbliche; il che vale per quasi tutte le industrie che hanno preso recentemente il nome di pubbliche. Le poste, sono di regola esercitate dallo Stato, ma non dappertutto: così i telegrafi e i telefoni sono in certi paesi, come negli Stati Uniti, geriti da privati. Fin dai tempi antichi, già nell’Impero Romano la posta fu in Europa servizio di Stato; e per estensione divennero servizio di Stato anche i telegrafi ed i telefoni. Negli Stati Uniti, altre essendo state le vicende storiche di questi servizi, solo la posta, in parte, è un servizio di Stato; non lo sono ancora i servizi dei pacchi postali, dei telegrafi e dei telefoni.

 

 

40. L’insuccesso del legislatore italiano nel definire le intraprese municipalizzabili. – Che il criterio per distinguere l’intrapresa pubblica, che dà origine al prezzo pubblico, dalla intrapresa privata, non sia facile da precisare è dimostrato dall’insuccesso dei legislatori nel definire queste intraprese. Infatti la recente legge italiana sulle municipalizzazioni ha voluto stabilire una specie di criterio per distinguere quelle intraprese che potevano essere gerite dai municipi come pubbliche; non riuscì però il legislatore ad enunciare una definizione, ma soltanto a compilare un elenco sconnesso di intraprese che possono essere gerite dai municipi, fra cui ha enumerato i forni, le farmacie, i bagni, le fabbriche di ghiaccio, gli asili notturni, le case popolari, ecc.; ma la scelta è stata fatta badando sopratutto alle industrie che nelle singole città italiane erano di già gerite o si presumeva potessero essere gerite dal comune nel momento in cui si formulò la legge. Non si fece un catalogo sistematico; bensì uno esemplificativo dedotto dai fatti anziché da principi mal noti e controversi. Esso non ha quindi in realtà nessun valore, ed è una miscellanea poco concludente. La fabbrica e la vendita del ghiaccio, per esempio, perché deve essere gerita meglio dal municipio che da un privato? Non si vedono le ragioni di ciò. O forse la ragione è puramente storica, in quanto nei tempi passati molte erano le città che in Italia avevano la privativa della neve e del ghiaccio.

 

 

41. La caratteristica generale delle intraprese pubbliche sta nel fine pubblico. – Nel determinare quali siano le intraprese le quali è conveniente possano diventare pubbliche occorre dunque inspirarsi a concetti molto generali o comprensivi. Non potendo dire quali imprese precisamente sono pubbliche bisogna limitarsi ad indicare i caratteri che in genere debbono avere le industrie per essere considerate pubbliche. Se noi facciamo questa premessa, nel fine che lo Stato persegue è dato di trovare la caratteristica fondamentale dell’intrapresa pubblica.

 

 

L’intrapresa diventa pubblica, qualunque sia l’industria cui si riferisce, quando lo Stato ritiene di poter, meglio dei privati, tutelare certi interessi pubblici od ottenere una maggior somma di utilità pubblica collettiva. Questo è il concetto che si deve tener presente: in altre parole, un’intrapresa può diventar pubblica quando si raggiungano colla stessa certi fini pubblici che non potrebbero raggiungersi per mezzo dell’intrapresa privata. Ma il concetto generalissimo deve essere concretato, studiando quali siano le condizioni che devono sussistere affinché si possa supporre che esiste il fine di pubblica utilità nella impresa che si vuole far diventare pubblica. Lo studio è stato fatto con molta precisione e profondità in una relazione del Prof. Jannaccone sulle municipalizzazioni dei pubblici servizi al Congresso delle Società economiche tenutosi in Torino alcuni anni fa. Ad essa rimandiamo gli studiosi che vogliono avere in proposito più ampi svolgimenti.

 

 

Raccomandiamo altresì la lettura degli studi e dei dibattiti che si vennero svolgendo sulla rivista «La Riforma Sociale» specialmente ad opera di Riccardo Bachi, Alberto Geisser, Attilio Cabiati ed altri intorno alle municipalizzazioni dei pubblici servizi. Noi ci terremo paghi di un compendioso quadro.

 

 

42. Delle condizioni date le quali la pubblica intrapresa soddisfa al requisito dell’incremento di utilità collettiva: a) Necessità di ovviare a frodi. Caratteristiche della frode che legittima la pubblica intrapresa. La monetazione. – Uno dei casi principali nei quali si scorge la maggiore utilità collettiva della impresa pubblica in confronto alla privata è quello in cui sia evidente la necessità di ovviare a frodi che danneggierebbero i consumatori. Si sa che, spesso, la concorrenza fra produttori privati si esercita, non nel senso di abbassare il prezzo, conservando buona la merce, ma di abbassare il prezzo deteriorando la merce o falsificandola. È questo un fatto notorio, che è sempre esistito in tutte le epoche e in tutti i paesi e costituisce un pericolo per i consumatori. Ovunque il legislatore cerca in tali casi di intervenire stabilendo delle norme proibitive per le falsificazioni e colpendo con pene i produttori delle merci adulterate, obbligandoli in certi casi a vendere la merce di qualità inferiore del vino perché non si possa venderlo per barolo o marsala. Il legislatore può intervenire efficacemente con queste norme di polizia, senza che occorra ancora l’intervento dello Stato sotto forma d’intrapresa pubblica allo scopo d’impedire la frode. Perché le frodi diano luogo all’opportunità di una intrapresa pubblica devono, rivestire un carattere di pericolosità specifica così grave da cui i singoli consumatori non possano difendersi.

 

 

Nei casi citati, l’intervento dello Stato sotto forma d’intrapresa pubblica sarebbe fuor di luogo, potendo i privati con certe cautele difendersi da sé; molte volte sono i privati stessi che provocano la falsificazione, perché pretendono ad ogni modo i prezzi bassi; non c’è quindi ragione perché lo Stato intervenga fuorché con una attenta sorveglianza di polizia. Sarà opportuno invece tale intervento da parte dello Stato quando dalla frode i privati non possano difendersi, o quando per difendersi siano costretti a sottostare a spese troppo elevate; quando infine i danni della frode dai direttamente danneggiati si diffondano facilmente su altre persone che non sono intervenute nell’acquisto, le quali si possono anche quindi meno difendere.

 

 

L’intrapresa pubblica più caratteristica sorta per queste ragioni è la fabbricazione della moneta. Dal punto di vista della salute personale reca molto minor danno la falsificazione della moneta che non quella del pane.

 

 

Tuttavia la coniazione non si può lasciare ai privati per molte ragioni; sebbene vi siano stati degli economisti i quali sostennero l’opportunità del conio privato. I danni però in quest’ultimo caso sarebbero gravissimi: i privati che ogni volta ricevessero una moneta dovrebbero pesarla e saggiarla, il che sarebbe impossibile per ragioni ovvie, a meno di sottostare ad un costo proibitivo. Il danno sarebbe tale, che i privati non se ne potrebbero da soli difendere. Se questa industria fosse lasciata ai privati sorgerebbero naturalmente molte fabbriche concorrenti le quali andrebbero a gara nel fabbricar monete sempre peggiori, le quali per la nota legge di Gresham, secondo cui la moneta buona. Si verificherebbe di nuovo ciò che già avvenne nel Medio Evo, quando molti piccoli feudatari avevano diritto di conio: la falsificazione sistematica cioè del medio metallico circolante. Abbiamo ancora traccie di queste falsificazioni nel nostro sistema monetario, dove la nostra lira è il risultato delle successive falsificazioni che hanno condotto la lira antica che pesava una libbra fino al peso moderno di cinque grammi; gli Inglesi che si sono fermati prima di noi nella tosatura della moneta hanno tutt’ora una lira che vale 25 volte la nostra. La legge per cui la moneta cattiva caccia la buona, ridonda a danno non solo dell’individuo danneggiato, ma di tutti, perché questo succedersi continuo di falsificazioni produce instabilità generale nei prezzi. I produttori ed i consumatori non possono più fare previsioni su quanto potranno ricavare dalla loro merce; i rapporti tra creditori e debitori saranno danneggiati dalle monete false e alzeranno il tasso d’interesse; questo rialzo di tasso agirà sulle condizioni dell’industria, quindi anche l’occupazione degli operai rimarrà limitata; in una parola si verificherebbero dei danni gravissimi generali in tutti gli strati della società. Dal carattere speciale da tempo antico, affidata allo Stato: quest’impresa per tal modo divenne pubblica. In verità non è che in origine lo Stato abbia considerato questa regalia della fabbricazione delle monete come un mezzo di tutela dei consumatori: in origine anzi i Re arrogavano questo diritto di conio per poter godere essi soltanto del potere di falsificazione, senza temere la concorrenza dei falsi monetari privati. A poco a poco dal male venne il bene, ed oggi è universalmente ritenuto che compito dello Stato sia di coniare moneta buona.

 

 

43. b) Aderenza dell’impresa alla strada. Valore mediocre questo argomento preso a sé. – Un’altra condizione che può dar luogo all’impresa pubblica è questa: che si tratti di un’industria inerente alla strada, alla via pubblica. Le vie di comunicazione sono demaniali; l’uso di esse è gratuito, inquantoché il costo della loro manutenzione non è fatto pagare singolarmente agli utenti ma è coperto per mezzo delle imposte. Rispetto alla via pubblica noi non siamo adunque nel caso del prezzo pubblico che è fatto pagare a coloro che si servono di quel dato servizio o di quella merce dello Stato. Ora vi sono delle industrie che per necessità devono essere esercitate su questa pubblica via, come ad es., quasi tutte le intraprese di trasporti nelle città, ossia le tramvie. L’esercente di queste linee di comunicazione può essere un privato, ma il permesso di esercizio gli può venire solo dal comune o dallo Stato, e quindi l’esercizio di questa industria, anche se privata, non si può immaginare se non per una concessione del proprietario della strada. Così le condutture del gas e dell’acqua potabile devono necessariamente usufruire del sottosuolo della pubblica via e non possono quindi essere poste in opera senza una concessione dell’ente proprietario della propria, cioè non destinata ai pedoni, ma ciò nondimeno hanno pur sempre bisogno dell’intervento dello Stato per una dichiarazione di pubblica utilità che permetta l’espropriazione dei terreni che si devono attraversare con le linee ferrate. Se non ci fosse questo intervento, il costo delle ferrovie sarebbe molto maggiore, perché spesso certe linee non potrebbero essere condotte a termine per la resistenza anche di un solo proprietario.

 

 

La costruzione di una linea ferroviaria senza espropriazione per pubblica utilità si può immaginare solo nei paesi nuovi dove il costo della terra è irrisorio e dove quindi i proprietari sono ben contenti di cedere tratti di terreno a prezzi minimi. Il che accade, ad esempio, negli Stati Uniti. In questo solo caso può non essere necessaria l’autorizzazione dell’ente pubblico.

 

 

Ora, se in genere queste intraprese non possono sorgere senza servirsi della strada pubblica o senza ottenere concessione da parte dell’ente pubblico, è evidente che nasceranno rapporti di interesse tra l’ente pubblico e il privato che ottiene la concessione: l’esercente mercé il diritto di uso della via più facilmente si procaccierà la clientela ed otterrà un reddito elevato. Questo vantaggio particolare che si ottiene mediante l’esercizio sulla pubblica via già costruita e mantenuta dall’ente pubblico deve trovare il suo contrapposto in un canone che l’impresa dovrà pagare all’ente pubblico. Si dovrebbe cioè valutare il vantaggio del passaggio sulla via pubblica, pagando un canone corrispondente al detto vantaggio all’ente che ha fatto la concessione e che deve sottostare fra l’altro a continue spese per la manutenzione della via. Di qui la necessità che fra privato ed ente, si stipuli uno speciale contratto. Sostengono parecchi a questo punto che sarebbe assai più semplice che le industrie di questo genere fossero esercitate dall’ente pubblico, perché può accadere che i privati diano un corrispettivo minore di quello corrispondente ai vantaggi effettivamente ottenuti, con danno evidente dei contribuenti.

 

 

Questo argomento però ha un valore mediocre, perché si riferisce non ai principi, ma all’applicazione pratica. Se ci sono nell’amministrazione degli individui poco previdenti che concedono un diritto di passaggio ad una impresa tramviaria per molti anni, con un corrispettivo tenuissimo, certo allora c’è un danno e si può dire che sarebbe stato meglio che il municipio avesse esercitato esso stesso quella tramvia. Ma non ovunque ci sono degli amministratori poco abili e poco previdenti: e ce ne sono che hanno fatto ottimi contratti ed hanno saputo ottenere dei corrispettivi rilevanti. Si tratta quindi di qualità particolari di onestà, abilità pratica e capacità amministrativa nei gestori della cosa pubblica, le quali però sono meno difficili riscontrarsi che non sia l’abilità richiesta per una gestione continuata di una intrapresa, come ad esempio, sarebbe quella della tramvie, in modo da ottenerne un buon rendimento. Non ha quindi molto valore l’argomento della difficoltà di determinare ed ottenere un corrispettivo adeguato al vantaggio che deriva al privato esercente dell’utilizzazione del suolo pubblico.

 

 

44. c) Monopolio in cui si esercita un’impresa. Come le imprese aderenti alle strade siano anche quasi sempre imprese monopolistiche. – Argomento più forte di quello dell’aderenza di un’intrapresa alla strada è l’argomento del monopolio. Questi due argomenti sono legati fra loro, ma li abbiamo trattati separatamente appunto per far vedere quale sia quello che ha veramente importanza. L’argomento del monopolio dice: certe determinate intraprese, che sono quasi sempre quelle aderenti alla strada, sono esercitate in regime di monopolio; cioè l’esercente di quella intrapresa diventerà fatalmente un monopolista e fisserà non il prezzo privato derivante dalla libera concorrenza di più imprenditori sul mercato, ma il prezzo privato fissato in regime di monopolio. I prezzi di libera concorrenza tendono verso il costo di produzione delle intraprese meglio organizzate, e di solito questa legge espelle dal mercato i produttori peggio organizzati con indiscutibile tendenza verso i costi più bassi.

 

 

Quindi, in regime di libera concorrenza, nell’economia privata i consumatori sono già abbastanza tutelati dalla tendenza a prevalere delle intraprese che lavorano con costi più bassi. Quando invece vige il principio del monopolio, quando cioè vi è un solo produttore di una determinata merce, egli guarda solo il suo interesse e vende non a prezzo massimo o minimo, ma a quel determinato prezzo che gli dà il massimo guadagno. Tra 1 e 100, egli sceglierà il prezzo di 10 quando vedrà che da questo ricava il massimo profitto, onde i consumatori ne verranno danneggiati, perché in regime di libera concorrenza essi forse potrebbero pagare soltanto il prezzo 5. Ora questa condizione di monopolio si verifica spesso quando l’intrapresa aderisce alla strada, perché è in tal modo impossibile immaginare una condizione di libera concorrenza perfetta: il moltiplicarsi delle intraprese è limitato da circostanze fisiche insormontabili che stanno nella natura stessa della strada e che non possono essere superate. Così accade per le tramvie: non si può immaginare la moltiplicazione dei binari sulla stessa strada, perché ciò porterebbe ingombro, e neppure l’uso degli stessi binari da parte di diverse società, perché sarebbe troppo difficile ripartire il costo del logorio della strada. Si potrà, è vero, stabilire un po’ di concorrenza dando concessione a diverse società, per vie diverse della città, con percorsi quasi paralleli che uniscano punti quasi identici, ma anche a questa concorrenza c’è un limite. Lo stesso dicasi per il gaz-luce: se avvenisse la concorrenza fra diverse società, le vie della città sarebbero sempre sottosopra come cantieri, a cagioni delle riparazioni necessarie alle tubazioni; lo stesso dicasi ancora per l’acqua potabile e per le linee telefoniche. Vi è quindi una limitazione fisica assoluta nel numero delle intraprese che possono esercitarsi sulla strada. In conseguenza di ciò è assurdo il pensare al moltiplicarsi oltre misura del numero delle intraprese; quindi quelle che hanno ottenuto la concessione godono di un vero e proprio monopolio. Se poi esistano due o tre società, esse troveranno ben presto la convenienza di mettersi d’accordo fra di loro; così avvenne a Torino fra le due società tramviarie Belga e Torinese che solo formalmente sono ancora divise, mentre in realtà si sono fuse in un unica azienda. Così avvenne ancora per le due società del gaz-luce «Italiana» e «Consumatori», le quali, pure rimanendo divise, ritennero anch’esse conveniente di accordarsi e dividersi la città in varie zone, per evitare inutili duplicati d’impianti. Non è detto che solo le imprese le quali passano sulla strada corrono il pericolo di diventare, se abbandonate all’iniziativa privata, monopolistiche. Anche altre imprese, avulse dalla strada, possono patire la stessa sorte; ed in tal caso varranno anche per esse le considerazioni ora fatte. Soltanto si nota che diventano spesso più facilmente monopolistiche le imprese aderenti alla strada. Qualunque sia l’origine del monopolio, si deve concludere che una delle buone ragioni per le quali può convenire all’ente pubblico di assumere una intrapresa, è appunto quella di impedire i danni che derivano dai monopoli nelle industrie private. Su questo punto ritorneremo, parlando delle maniere con cui vengono fissati i prezzi pubblici in contrapposto ai prezzi di monopolio che sarebbero stabiliti dalla impresa privata.

 

 

Naturalmente di monopoli ce ne sono di tante specie: vi sono i monopoli perfetti e gli pseudo – monopoli o monopoli imperfetti, che in certi casi si chiamano consorzi o sindacati di industriali; e per cui valgono leggi del prezzo proprie, diverse da quelle di monopolio puro. Quanto meno il monopolio è perfetto, tanto meno è necessaria la assunzione dell’impresa da parte dello Stato; il quale potrà provvedere con altri avvedimenti alla tutela dei consumatori. Basti questo accenno alla soluzione che si può dare al problema importantissimo, ma non attinente strettamente alla scienza finanziaria, delle maniere di scemare i dannosi effetti dei consorzi tra industriali.

 

 

45. d) La non accumulabilità dei prodotti o servizi di una intrapresa. – Altra condizione che può deporre a favore dell’assunzione di una intrapresa a pubblica impresa è quella della non accumulabilità dei prodotti.

 

 

Un’industria che produce panno o pane dà luogo ad oggetti accumulabili: il pane, se anche duro, nutre pur sempre; il panno, anche alquanto logoro, può sempre servire. Invece altri prodotti non sono accumulabili: così il gaz non si può conservare in grande quantità per il timore di penuria futura e si deve consumare di giorno in giorno poiché le provviste delle società possono durare al massimo 24 o 48 ore, durante le quali è necessario di procedere ad altra produzione per non lasciar mancare la luce ed il calore.

 

 

Lo stesso accade per l’energia elettrica e per le ferrovie, di cui non possiamo servirci che volta per volta.

 

 

Data questa circostanza, gli scioperi o, comunque, le interruzioni del lavoro finiscono di essere più dannose di quel che potrebbero essere nelle industrie che producono merci accumulabili. Nello sciopero dei panettieri il danno sarà relativamente limitato: sarà sempre possibile trasportare il pane dai paesi circonvicini o stabilire dei forni provvisori e tirare avanti con delle provviste anteriori di farina. Il prodotto è accumulabile e quindi trasportabile, ed il danno non è insormontabile. Lo sciopero e la serrata possono invece dar luogo ad inconvenienti gravissimi e non sormontabili nel caso del gaz, della luce elettrica, delle ferrovie: in quest’ultima intrapresa specialmente, perché se il trasporto di persone e merci è reso impossibile, ne derivano danni gravissimi, specie alle grandi città che si debbono provvedere di vettovaglie altrove ed i cui rapporti d’affari col mondo circostante vengono interrotti. Alcuni, ed è questo che per noi è in questo momento interessante, hanno dedotto da queste considerazioni che convenga esercitare tali industrie sotto forma di pubbliche intraprese, a preferenza delle private, sono maggiormente in grado di impedire l’interruzione del lavoro derivante da serrate o da scioperi.

 

Questa ragione non pare possa avere un gran valore: anzitutto bisogna osservare che le interruzioni del lavoro dovute a serrate sono molto rare ed è spesso difficile di poter distinguere la serrata dallo sciopero: la serrata è quasi sempre la risposta a certe domande che fanno gli operai, e avviene spesso in conseguenza di una astensione parziale dal lavoro per parte di essi. Quanto agli scioperi, non si vedono i motivi per cui sia più facile agli enti pubblici evitarli di quel che non riesca ad un’impresa privata. Le maestranze possono scioperare anche nelle aziende di Stato, comme avvenne ripetute volte nelle ferrovie di Stato ungheresi, belghe, francesi, australiane e si minacciò di fare in Italia, dove coll’ostruzionismo si diede anzi inizio ad uno sciopero sui generis. Non si trovano ragioni per escludere a priori l’eventualità degli scioperi nelle intraprese pubbliche: lo sciopero, sia pure nelle sue forme più blande, come in quella di minor lavoro compiuto da parte delle maestranze o con il puro compimento del proprio strettissimi dovere cioè con l’ostruzionismo, avverrà ugualmente, e l’arbitrato sarà sempre un pericolosissimo rimedio, forse più pericoloso nell’impresa pubblica che nella impresa privata.

 

 

Nelle ferrovie, infatti, finché si tratta di società private, lo Stato per ragion pubblica potrà imporre ai due contendenti un arbitrato, cioè potrà far votare leggi dirette ad imporre ai ferrovieri e alle società di non fare sciopero o serrata e di lasciar risolvere la questione dagli arbitri e se non sarà sempre ubbidito dagli operai, i quali non hanno nulla da perdere e non possono esser messi in prigione, se non si vuole provocare una peggiore e più lunga sospensione del servizio, lo sarà certo dalle società che hanno una sostanza passibile di sequestri e possono essere costrette a pagare multe anche gravosissime. Qui non si dice che lo Stato faccia bene o male ad imporre l’arbitrato obbligatorio alle società ferroviarie private. Questo è problema gravissimo, che non si può risolvere in poche parole. Ma si vuol soltanto notare che, bene o male, lo Stato può tentare di impedire le interruzioni del lavoro quando le ferrovie sono di privati, forse più facilmente di quanto sono sue.

 

 

Se invero lo Stato esercita esso stesso l’intrapresa ferroviaria, i pericoli dell’arbitrato diventano gravissimi; perché allora il presidente del collegio arbitrale diventa, evidentemente, sovrano in confronto allo Stato stesso ed ai rappresentanti legali della nazione. In poche parole l’arbitrato applicato ai servizi pubblici implica logicamente il trasferimento della sovranità al presidente della corte d’arbitrato. Sarà trasferimento temporaneo e parziale; ma però pur sempre trasferimento della sovranità. La cosa è gravissima; e quanto sia grave, si comprende riflettendo che, se il bilancio ferroviario, ad esempio, in seguito alla sentenza arbitrale presenta un disavanzo, questo dovrà essere colmato coi proventi del bilancio generale dello Stato. Ecco così convertito un governo a base parlamentare in un governo personale, in un governo affidato alla magistratura. Sovvertimento più profondo degli onorati canoni della divisione dei poteri sarebbe difficile di immaginare.

 

 

Bilancio votato dal parlamento in seguito ad ordine del magistrato: ecco l’assurdo, o, se non l’assurdo, la difficoltà grave dell’arbitrato grave dell’arbitrato nei pubblici servizi.

 

 

L’argomento dei prodotti non accumulabili è dunque tutt’altro che sufficiente e tranquillante perché possa servire di base ad un’assunzione di date intraprese da parte dello Stato; poiché, come si è visto il passaggio dai privati allo Stato non potrebbe impedire in alcun modo, l’interruzione del lavoro, e l’arbitrato sarebbe di funzionamento ancor più arduo che non per le imprese private.

 

 

Inoltre gli eventuali divieti posti a tutti gli impiegati dello Stato di scioperare, se anche potessero essere osservati, il che è difficile, dal momento che l’unica sanzione sarebbe il carcere, urterebbe contro difficoltà di principio. In fondo, vietare ad un operaio di scioperare anche se è lavoratore dello Stato, equivale ad impedire ad una persona di disporre del proprio lavoro come crede, cioè a mettere delle restrizioni alla sua libertà personale. Non è detto infatti in tutti i Codici civili che nessun uomo può locare l’opera propria in perpetuo ad un altro, perché gli è come se egli si ponesse in condizione di schiavitù? Ora, rendersi schiavo di un altro uomo o dello Stato sono due partiti che nella sostanza si equivalgono. Molte osservazioni si potrebbero fare a questo proposito; come quella certamente sensata che l’operaio od impiegato dello Stato rinuncierà al diritto di sciopero in cambio di vantaggi di stipendio, di carriera, di pensioni, ecc., concessigli dallo Stato. Certamente è indubbio che l’operaio od impiegato, se vuole abbandonare il lavoro, deve sottostare alle regole di preavviso da lui medesimo consentite; e si può ragionevolmente argomentare che egli possa essere assoggettato alla perdita di certi benefici come promozioni, pensioni, assegnatigli come corrispettivo della sua costanza e diligenza di lavoro. Ma sembra impossibile togliergli per principio il diritto a non lavorare; che è diritto innato in ogni uomo non schiavo. Dato ciò, che cosa resta dei vantaggi della impresa pubblica?

 

 

Anche l’impresa privata può offrire siffatti benefici al proprio personale da renderselo affezionato e fedele.

 

 

46. c) La necessità di raggiungere certi fini extra-economici. – Motivo più plausibile per la costituzione di pubbliche intraprese sarebbe la necessità che lo Stato ha in certi casi di raggiungere dei fini extra economici, non raggiungibili dalle imprese private. In parte era questo il caso delle foreste, poiché noi sappiamo che il prezzo del legname è bensì stabilito secondo le regole del mercato libero, laddove i fini di tutela dei boschi che lo Stato si propone sono fini non sempre economici. Ora questo fatto si ripete nella categoria dell’intrapresa pubblica e dei prezzi pubblici, in quanto che vi sono intraprese che sarebbero ragionevolmente esercitate dai privati per solo fine di lucro, mentre invece lo Stato può proporsi fini non di lucro. Così accade per le poste: nessun impedimento ci sarebbe a lasciar esercitare le poste ai privati. Questi talora potrebbero perfino esercitarle meglio: così il trasporto delle lettere entro il perimetro delle grandi città potrebbe essere compiuto con un servizio forse più rapido, specie nei grandi centri, ove le lettere da trasportare sono numerosissime e vi sarebbe forse financo la convenienza a trasportare le corrispondenze ad un prezzo minore dell’attuale. Però, naturalmente, i privati eserciterebbero il servizio solo in quei luoghi in cui esistesse la convenienza; non certo, ad esempio, tra una città ed un comune di montagna dove arrivano in media due o tre lettere all’anno, onde non converrebbe pagare un portalettere, sia pure con un compenso minimo, per un servizio così poco proficuo: quindi ecco che i trasporti delle lettere fra ceti luoghi non si eserciterebbero. Invece lo Stato, non per motivi economici, ma politici o generali di cultura, conviene di esercitare l’industria postale anche in quei luoghi dove i privati non l’eserciterebbero: lo Stato, impiantando il servizio postale o telegrafico in un paesello di montagna subirà delle perdite, ma otterrà dei vantaggi generali, come quello della più forte unione fra le varie parti della nazione, della maggior facilità di esercitare sorveglianza sopra tutte le località dello Stato e poter così intervenire prontamente quando vi avvengano commovimenti o delitti, e infine della diffusione della coltura, poiché il traffico postale si andrà man mano sviluppando e l’amore alla lettura e alla coltura andrà penetrando anche nei piccoli paesi e potrà dare frutti nel futuro.

 

 

Questi risultati non si possono sempre concretare in moneta, ma sono vantaggi indiscutibili per la civiltà della nazione. Lo Stato deve certamente colmare le perdite subite per tali scopi con altri proventi. Ed a questo punto si pone il problema: allo Stato conviene maggiormente coprire questa perdita mercé imposte messe sui contribuenti in generale, o invece con prezzi pubblici un po’ più alti pagati da tutti i consumatori di quel medesimo servizio postale, il quale verrebbe così fatto pagare un poco più caro nei luoghi di grande comunicazione dove il detto servizio è produttivo? Quasi ovunque si è seguito questo secondo sistema, e facendo una media dei vari costi del servizio nei vari luoghi, si è costituita una specie di mutua assicurazione politica e di coltura tra i luoghi più favoriti topograficamente e più progrediti e i luoghi dove la coltura è meno diffusa, facendo pagare a tutti lo stesso prezzo. Per poter esercitare quest’opera altamente benefica, è necessario che l’impresa del servizio postale sia statizzata: e quindi costituisca un monopolio per mezzo del quale soltanto è possibile dare vantaggi alle località meno favorite.

 

 

Altrimenti i privati eserciterebbero l’industria nei luoghi dove è proficua, abbandonata allo Stato nei luoghi dove è passiva; le ragioni extra economiche per cui lo Stato è indotto ad esercitare l’industria postale ed ecco come, esercitandola, lo Stato fissa i prezzi in una maniera diversa da quella che sarebbe in economia privata; onde i prezzi stessi si dicono pubblici.

 

 

I casi in cui intervengono motivi extra-economici a consigliare la costituzione di intraprese pubbliche sono numerosi assai, e il più cospicuo è forse quello delle ferrovie. Ove queste fossero lasciate ai privati sarebbero da questi impiantate solo nel caso in cui fosse probabile un esercizio economico; in cui cioè si presumesse di ricavare almeno il reddito corrente per impieghi industriali della stessa specie; quando non fossero produttive evidentemente i privati non la eserciterebbero, come avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti dove le ferrovie sono esercitate da società private. Queste non hanno nessuna ragione di preoccuparsi degli elementi extra economici nel costruire ferrovie, e quindi le impiantano solamente là dove se ne manifesti la necessità e si possa supporre che la rimunerazione al capitale sarà sufficiente. Invece nei paesi continentali l’impianto delle ferrovie è talvolta conveniente non tanto dal punto di vista economico, quanto per gli accennati motivi politici di diffusione di coltura e di saldezza di organizzazione statale. Nelle città lontane dai grandi centri e nei paesi con lente e scarse comunicazioni l’economia è arretrata e permane uno stadio di civiltà inferiore, che si reputa interesse della nazione dal punto di vista del suo progresso civile collettivo di cancellare con ogni mezzo. In ispecial modo quest’opera è ritenuta necessaria in Italia, dove esistono regioni economicamente poco sviluppate e dove per conseguenza, istituendo comunicazioni ferroviarie che agevolino i contatti, si cerca di promuovere un’unità di spirito nazionale. La rapidità e la comodità dei mezzi di comunicazione è coefficiente necessario perché l’unità politica di una nazione non sia tale solo formalmente.

 

 

Finalmente nei paesi europei dove c’è pericolo di guerra e gli Stati sono sempre l’un contro l’altro armati, intervengono motivi militari per la costruzione di ferrovie anche se sono passive. Nessun imprenditore privato osa costrurre una ferrovia con la speranza di ricavarne guadagno nel solo caso di una guerra; invece lo Stato può costruirla per fini militari per rendere possibile una mobilitazione rapida: ed in questo caso è naturale che esso si assuma le spese o la passività per raggiungere il fine extra economico della difesa della Nazione.

 

 

47. f) La sussidiarietà di una intrapresa ed altre intraprese già statizzate. – Un’ultima ragione a favore della costituzione di pubbliche intraprese si ha quando un’azienda è sussidiaria di altre che sono già esercitate dallo Stato, per cui questo può avere convenienza ad esercitarla con un costo relativamente minore. È il caso del telefono o del telegrafo, che si possono considerare come industrie sussidiarie di quella postale: nelle grandi città sono industrie divise con spese separate: ma in moltissimi piccoli paesi lo stesso ufficiale postale può anche funzionare da ufficiale telegrafico o telefonico: quindi lo Stato nell’esercitare questi servizi non andrà incontro ad un costo elevato, ma dovrà dare soltanto un supplemento di retribuzione all’impiegato postale, o un tanto per ogni comunicazione: non avrà cioè un costo separato per ogni servizio ed il costo complessivo sarà quindi minore per lui che per un privato. In tal caso lo Stato potrà avere vantaggio ad esercitare queste intraprese, non per sé stesse, ma perché, essendo già collegate a servizi pubblici esistenti, i nuovi servizi possono essere agli utenti a prezzi vantaggiosi.

 

 

48. Come tra le ragioni dell’impresa pubblica non abbia luogo il semplice scopo di trarre reddito fiscale. – Quelle dette sopra sono le più importanti ragioni le quali spiegano come una intrapresa da privata possa essere fatta diventare pubblica. Altre ragioni possono essere addotte, ma sono di minore importanza. Vuolsi, come conclusione, notare come il mero scopo di ottenere un reddito fiscale non sia una ragione sufficiente ed accettabile per legittimare l’assunzione di un’impresa da parte dell’ente collettivo. Se, invero, il desiderio di reddito a prò dell’erario pubblico è il solo movente, noi non siamo più nel campo dell’impresa pubblica, ma del demanio fiscale puro, senza nemmeno quei vantaggi incidentali pubblici che si sono osservati nel caso delle foreste; non c’è più ragione di fissare prezzi pubblici, anzi si devono fissare quei medesimi prezzi che vigono sul mercato. Tutta la questione si riduce in questo caso, come già vedemmo parlando del demanio fiscale puro, alla seguente domanda: rimanendo uguali i prezzi da pagarsi dai consumatori, quale dei due, il privato o l’ente pubblico, è meglio capace a ridurre i costi di produzione del servizio? Già rispondemmo alla domanda, dicendo che in questo caso la palma spetta indubbiamente al privato; onde si vede la inopportunità per lo Stato di assumere, su questo unico fondamento, una impresa economica.

 

 

Sezione Terza.

Dell’esercizio diretto o per delegazione

delle pubbliche intraprese.

 

49. Come sorga il problema subordinato dell’esercizio diretto o dell’esercizio per delegazione ad un esercente privato. – Anche però quando si sia pervenuti alla conclusione che per un’industria è opportuna l’assunzione in forma di pubblica intrapresa, il problema non può dirsi interamente risolto inquantoché rimane la questione subordinata se la stessa debba essere esercitata direttamente dallo Stato, oppure da esso delegata ad un’intrapresa privata sotto la sua sorveglianza e tutela, mediante vincoli all’esercizio, fissando, per esempio, il prezzo a cui l’intrapresa stessa dovrà attenersi nella vendita, prezzo che avrà quindi un carattere pubblico anziché privato.

 

 

Il problema ulteriore da esaminarsi in sede subordinata è dunque quello della ricerca dei mezzi più adatti all’attuazione del sistema, affinché si evitino danni ed inconvenienti. Si tratta cioè di decidere circa l’opportunità dell’esercizio diretto da parte dello Stato o della delega ad una intrapresa privata secondo speciali modalità. Anche qui una risposta generale ed unica non si può dare. Trattandosi di un problema di politica economica applicata, spetta all’amministratore della cosa pubblica studiare, sui dati precisi e particolareggiati che egli può possedere, quale sia la via migliore da seguire. Dovendo trattare l’argomento in generale, possiamo soltanto mettere in risalto gli elementi che possono far pendere la bilancia più verso una soluzione che un’altra. Solo l’esame degli elementi caratteristici delle imprese pubbliche può guidare alla soluzione del problema.

 

 

50. a) Le industrie complicate male si prestano all’esercizio privato. – Per molte industrie il pericolo di cattiva amministrazione da parte dell’esercente – Stato è più grave che in altre. Così mentre non esistono speciali difficoltà nell’esercizio delle poste, ove si tratta più che altro dell’organizzazione di uffici a rapido funzionamento affinché le corrispondenze appena impostate e appena ricevute vengano inviate per la giusta destinazione, il pericolo di cattivo funzionamento è più grave nell’industria ferroviaria ove non si tratta soltanto di organizzazione burocratica come quella che occorre per smaltire le lettere impostale e recarle presto a destinazione, ma di risolvere volta per volta complessi problemi tecnici ed economici.

 

 

Così mentre non è necessario una speciale eminente abilità nel fissare i prezzi dei francobolli, nell’amministrazione ferroviaria invece la formazione delle tariffe è problema assai complesso in cui bisogna tener conto di moltissime circostanze: come quella della qualità della merce, del suo prezzo; dei mercati che si tratta di conquistare, dell’organizzazione dei paesi speditori, ecc, ecc. Occorre inoltre tener conto delle distanze e se per esse convenga porre tariffe proporzionali e differenziali; e, se differenziali, stabilirne l’entità in ragione della distanza e in base ad altre considerazioni. Sono questi problemi delicatissimi che l’esercente deve risolvere secondo il suo interesse e la sua esperienza.

 

 

L’amministrazione di Stato si trova di fronte a maggiori difficoltà da superare, in confronto di un’impresa delegata la quale ha notevole facilità di adattamento alle mutazioni della tecnica e dei mercati.

 

 

Dal punto di vista dell’esercizio le ferrovie presentano del pari problemi complicatissimi: le innovazioni nel campo dell’ingegneria, la necessità di adottare nuovi tipi di locomotive e di carri conducono spesso ed errori.

 

 

Problemi difficili si presentano nella scelta del tipo di materiale rotabile, oltre che nell’acquisto del medesimo, come del momento più adatto per comperare del carbon fossile sul mercato inglese. Tutte queste abilità non sempre possono averle impiegati dell’amministrazione di Stato non spinti da interesse diretto, per cui è lecito concludere che l’esercizio ferroviario presenta per l’ente pubblico difficoltà assai più gravi dell’esercizio delle poste.

 

 

Presenta pure delle difficoltà non lievi per lo Stato una buona amministrazione telefonica perché in essa l’elemento tecnico assume proporzioni importantissime, ed inoltre bisogna impiegare capitali ingenti, con larga previsione dell’aumento degli abbonati. Per queste e per molte altre difficoltà le amministrazioni telefoniche di Stato lasciano spesso molto a desiderare. Certi impianti, dopo un determinato tempo, si sono dimostrati inadatti perché la loro massima potenzialità risultò inferiore al bisogno e fu necessario raddoppiarli e anche sostituirli con nuovi impianti; perché le aggiunte successive non potevano andare oltre un limite determinato.

 

 

51. b) Così pure non sono adatte le imprese soggette all’alea di nuove invenzioni. – Occorre inoltre osservare in ispecial modo se si tratta di un’intrapresa la quale si presti a rapide modificazioni per nuove invenzioni, inquantoché se l’intrapresa è già stabilizzata nella sua forma, così che i nuovi ritrovati riguardino i dettagli più che l’essenza stessa dell’industria, allora sarà più facile che l’intrapresa possa esser gerita direttamente dallo Stato, non trattandosi che di modificare poco per volta gli impianti che già esistono; mentre invece se l’industria può dar luogo a rivoluzioni tecniche e nuovi metodi possono essere inventati, che realizzino un progresso tale che convenga sostituirli agli antichi, l’esercizio dello Stato può essere di remota grandissima al progresso. Il che pare si sia verificato in talune città dove l’industria della illuminazione era stata municipalizzata. Se l’intrapresa della luce è lasciata a società private, delegate all’uopo, in caso di nuove invenzioni saranno esse che ci rimetteranno, mentre l’ente pubblico non perderà nulla, e nel caso che la vecchia società intraprenditrice non volesse introdurre i miglioramenti necessari, esso ente non avrà che a delegare l’esercizio ad una nuova società che provvederà ai nuovi impianti. Il fatto si verificò a proposito della sostituzione dell’elettricità al gaz. In una città ove l’illuminazione a gaz esercita dal municipio e sia dimostrato utile di sostituire ad essa interamente o parzialmente l’illuminazione elettrica, il municipio che ha impiegato un forte capitale nei gazometri, può trovare poco conveniente sacrificarlo per impiegarne dell’altro nell’impianto elettrico, anche perché può darsi che il primo capitale l’abbia tolto a prestito e non abbia peranco ultimato l’ammortamento. Quel municipio penserà quindi di ritardare la nuova applicazione finché abbia ammortizzato il capitale impiegato precedentemente, mentre nel caso di società private delegate la sostituzione può avvenire subito, perché la perdita degli azionisti non può impedire il beneficio collettivo della sostituzione di un metodo più moderno d’illuminazione a quello più antico.

 

 

Se il municipio non ha dato alla società concessionaria il monopolio della illuminazione in genere, ma solo quella dell’illuminazione a gaz, sarà sempre lecito al municipio non preoccuparsi delle sorti degli azionisti della società concessionaria – i quali al postutto sapevano di impiegare i propri capitali in un’impresa aleatoria il cui reddito poteva essere annullato da nuove invenzioni – e concedere l’illuminazione elettrica ad altre imprese delegate. Il pericolo grave di perdite che si manifesta nelle industrie soggette a rapide mutazioni tecniche dimostra la necessità da parte degli enti pubblici di non gerire direttamente tali intraprese.

 

 

Impresa aleatoria fu quella di gerire le tramvie a cavallo poiché furono sostituiti dalle elettriche; ed altrettanto succederebbe qualora si mostrasse la convenienza di sostituire su vasta scala le ferrovie a vapore con quelle elettriche. In questo caso lo Stato perderebbe molti suoi capitali, restando svalutati quelli impiegati sotto la forma precedente.

 

 

Questo pericolo non ha importanza in talune industrie: come nella postale ove non si prevedono mezzi tecnici nuovi per il trasporto delle corrispondenze. Si potrà prevedere un miglioramento nella parte ferroviaria di questa industria, cioè nel trasporto della posta da un paese all’altro, ma non nel ricevimento e distribuzione delle lettere in cui, dal tempo dei romani non si sono, si può dire, fatti notevoli progressi; onde il pericolo di perdite è minimo.

 

 

Lo stesso si può dire per l’acqua potabile, perché l’industria del prendere l’acqua dove si trova e trasportarla nella città dove manca, è industria che per molto tempo ancora non si potrà presumibilmente impiantare ed esercitare in un modo molto diverso da quello che si usava fin dall’epoca romana, per mezzo cioè di acquedotti; si potrà con nuovi mezzi trasportarla da 100 invece che da 10 chilometri, si potrà fare più largo uso di pozzi artesiani, ma modificazioni sostanziali non si avranno e in nessun caso i capitali è prevedibile possano essere fortemente svalutati.

 

 

52. c) Né sono adatte le imprese che, coi loro redditi variabili, possono pregiudicare il bilancio dello Stato. – Un altro elemento di cui si deve tener conto per giudicare se convenga o no l’esercizio diretto, è l’influenza che i risultati di quella determinata industria possono avere sul bilancio dello Stato. Se l’industria è tale che i rendimenti e i costi siano poco variabili da anno ad anno, allora l’intrapresa potrà essere gerita in modo diretto dall’ente pubblico. L’industria del gas sotto questo rispetto, può essere esercitata direttamente dall’ente pubblico, perché il bilancio pubblico non corre rischio di essere soggetto a gravi oscillazioni: saranno, in ogni caso, oscillazioni in aumento progressivo col progredire della popolazione, della città e del benessere economico. Quando poi il municipio gerisce insieme gaz e luce elettrica, allora le oscillazioni tra l’una e l’altra industria si possono compensare e il reddito netto del municipio si tariffa che non varia molto da un anno all’altro: il municipio può averla fissata abbastanza bassa nell’interesse dei consumatori e perciò il consumo può andare sviluppandosi gradualmente.

 

 

Anche le tramvie sono industrie adatte dal punto di vista dei redditi, perché non sono soggetti a variazioni molto forti di redditi. I cittadini non perdono facilmente l’abitudine di andare in tramvia; anzi nuovi strati delle popolazioni andranno man mano acquistando questa abitudine. Quindi aumento graduale dei redditi e variazioni lente del reddito nel senso della progressione. Vi possono essere cause temporanee di variazione, come ad esempio, una esposizione, la quale può portare aumento, forte nei redditi, i quali non si manterranno più negli anni successivi; ma sono casi rari che, quando si verificano, sono collegati con un aumento di spese in un altro campo di bilancio del comune di guisa che l’aumento temporaneo di reddito tramviario è subito assorbito e non può far danno.

 

 

Riassumendo nella gestione del gaz, tramvie, luce elettrica, acqua potabile, ecc. non si verifica l’inconveniente di una forte oscillazione del rendimento. Oscillazioni possono bensì verificarsi, ma per causa del variare delle spese di produzione, e sotto questo rispetto si può distinguere tra le imprese dell’acqua potabile, dalle poste, e in minor grado dei telegrafi e dei telefoni e dalle tramvie, dove non vi sono materie prime, variabilissime di prezzo, da acquistare e trasformare; e solo spese di personale, di forza motrice e di ammortamento degli impianti, le quali variano assai meno rapidamente, mentre nelle imprese di illuminazione saranno gerite meno convenientemente degli acquedotti in maniera diretta.

 

 

Altre industrie vi sono invece il cui bilancio è in continuo movimento e da cui perciò possono derivare avanzi e disavanzi nel bilancio generale dello Stato. Le ferrovie sono aziende, le quali, a meno che non avvengano manipolazioni di bilancio per renderne il reddito pressoché stabile, danno luogo di solito a variazioni non insignificanti di reddito, talora anche di decine di milioni di lire.

 

 

Così è accaduto persino in Prussia, il quale paese pure è sempre citato per dimostrare che l’esercizio delle ferrovie dello Stato può essere vantaggioso. Là una delle cause maggiori della instabilità del bilancio e della necessità di fare continuamente dei debiti nuovi, fu appunto l’esistenza delle ferrovie di Stato, che diedero luogo a redditi talvolta crescenti poi decrescenti rapidamente di anno in anno. Il che si capisce, perché il reddito della ferrovia è variabile in funzione del numero dei viaggiatori (un’epidemia, una guerra anche lontana può far scemare il numero dei viaggiatori per diporto; una crisi commerciale quello dei viaggiatori per affari), della quantità di merce trasportata, e quindi dei raccolti agricoli interni od esteri, della prosperità o stato di crisi delle industrie; dei prezzi del carbone, di cui si fa un consumo enorme, delle traversine in legno, delle rotaie, del materiale ferroviario, ecc. ecc. I bilanci delle compagnie inglesi ed americane, che non sono regolarizzati con contributi dello Stato presentano variazioni, notevolissime talvolta, di reddito da un anno all’altro. È dunque più conveniente assai per lo Stato delegare l’esercizio delle ferrovie a una intrapresa privata dietro compenso di un canone fisso, sul quale può quindi far assegnatamente come su un’entrata annua variabile; e di una partecipazione agli utili netti oltre una data cifra, partecipazione che potrebbe essere anche liquidata sulla media del quinquennio precedente, per normalizzare il più possibile il reddito dello Stato.

 

 

L’imprenditore da ciò non sarà affatto danneggiato perché si deve supporre che sia capace di risparmiare nelle annate buone per compensare le deficienze di rendimento di annate meno buone costituendo apposite riserve.

 

 

Cosa che lo Stato non può fare agevolmente, per motivi che furono esposti sopra (cfr. par. 32).

 

 

53. d) Né quelle in cui il numero dei dipendenti è grande. – Un altro elemento che fa ritenere opportuna la delegazione a un’intrapresa privata, è quello del numero degli operai ed impiegati necessari all’esercizio dell’intrapresa stessa.

 

 

Se essa può essere gerita da un numero di agenti (indichiamo con la parola agenti, come si usa nelle ferrovie di Stato italiane, tutti i dipendenti dell’impresa pubblica, dal più umile cantoniere al direttore generale) relativamente piccolo, allora non ci sono gravi inconvenienti: in tal caso infatti gli agenti essendo pochi non possono avere alcuna influenza politica; i consiglieri comunali, i deputati, non vanno certo a cercare i voti di poche centinaia di persone; quindi il voto di quegli agenti ha un valore puramente individuale, pari a quello di qualsiasi altro elettore.

 

 

Quando invece i dipendenti di una pubblica impresa sono molti, il loro voto può essere prezioso e può spostare la vittoria da un candidato ad un altro: ora questi voti finiscono per organizzarsi e spostarsi tutti verso l’una o l’altra parte politica, a seconda delle maggiori o minori promesse che ogni parte sarà spinta a fare. In una città grande, 1000 agenti dell’impresa municipale del gaz si persuaderanno subito che è conveniente votare per un candidato unico; quello cioè che fa loro le promesse migliori: di diminuzione d’orario, di concessioni disciplinari, di aumento di salario e così via.

 

 

Non sarebbe difficile dimostrare con esempi appropriati, che tralascio non volendo soffermarmi su questi fatti di seconda approssimazione, per le ragioni già esposte nell’introduzione al corso, che quei 1000 voti da cui dipende la vittoria vanno all’incanto e si danno al miglior offerente. Il risultato è quindi un disastro finanziario per il municipio perché i candidati prometteranno prima delle elezioni ogni sorta di concessioni apportatrici di notevoli aggravi all’amministrazione dell’ente pubblico.

 

 

Questo pericolo sussiste in tutte le intraprese statizzate, ma in misura più o meno sensibile a seconda del numero degli agenti. Gli agenti dell’acqua potabile sono così pochi che il loro voto non sarà mai in grado di decidere di una vittoria elettorale politica o amministrativa, cosicché, sempre per la stessa ragione, i desiderata (che, ora si chiamano rivendicazioni) degli impiegati dell’acqua potabile non saranno mai sfruttati dalle ambizioni di candidati. È quindi poco pericoloso l’esercizio diretto di un acquedotto da parte dell’ente pubblico.

 

 

Così è meno pericoloso, sotto questo aspetto, l’esercizio diretto delle poste di quel che non sia l’intrapresa diretta delle ferrovie. L’intrapresa postale si esercita con un numero di agenti, grande in senso assoluto, ma piccolo relativamente, in quanto che essi possono essere compatti e organizzati solo nei maggiori centri, ove perciò potranno avere qualche importanza nell’esito delle elezioni politiche ed amministrative; ma si tratterà in fondo di pochi deputati delle grandi città che saranno costretti a fare delle promesse; mentre nei collegi rurali ove ci sono pochissimi impiegati in ogni comune, non potranno i loro voti decidere della vittoria; quindi le loro rivendicazioni non verranno così facilmente ascoltate. Invece i ferrovieri sono moltissimi, in Italia più di 150.000; essi hanno un’importanza elettorale stragrande in moltissimi collegi; facilmente possono spostare il loro domicilio politico e quindi le sorti di molti collegi dipendono da loro; ciò rende la loro massa assai influente sull’esito delle elezioni. Ciò costituisce un grave inconveniente che non si deve trascurare, nel considerare l’opportunità o meno dell’esercizio di Stato.

 

 

Questa è forse la ragione più grave la quale possa, nei paesi dove i governi sono a base di maggioranze parlamentari, sconsigliare dall’esercizio diretto di un’impresa pubblica. Il gran numero di agenti rende facili le pressioni elettorali, infiltra un elemento di corruzione nella vita politica, demoralizza e rende perpetuamente malcontenti gli agenti incitandoli a ricatti continui; rende ognora più precaria la parte finanziaria dell’impresa pubblica.

 

 

Molti rimedi sono stati proposti contro questi malanni. Di cui uno potrebbe essere quello di concentrare gli agenti delle grandi intraprese pubbliche in speciali collegi elettorali, dove essi votassero da soli, eleggendo un numero di deputati proporzionale alla loro importanza numerica in confronto alla popolazione complessiva. Supponendo ad esempio che i ferrovieri italiani, comprese le loro famiglie, contino 600.000 abitanti, e siano così all’incirca una sessantesima parte della popolazione italiana; verrebbero costituiti in uno o parecchi collegi elettorali speciali, che eleggerebbero 1/60 dei 508 deputati componenti la nostra Camera: all’incirca 8 deputati.

 

 

In tal modo i ferrovieri eserciterebbero sulla legislazione patria una influenza corrispondente al loro numero, e potrebbero riuscire a farsi aumentare le paghe solo quando ciò paresse corrispondente alle mutate condizioni del mercato della mano d’opera anche agli altri 500 deputati, su cui i ferrovieri non potrebbero esercitare alcuna influenza elettorale.

 

 

Il rimedio a primo aspetto può sembrare efficace. Ma presenta il fianco all’obbiezione che, se esso è buono per i ferrovieri, deve essere buono anche per i postelegrafonici, e poi per i professori, per gli impiegati di prefettura, per i doganieri, e per tutte le altri classi di impiegati. E se è buono per costoro, perché non per gli altri ceti sociali: per gli industriali, per gli operai delle varie industrie, per i contadini proprietari, i mezzadri, gli affittuari, i braccianti agricoli, i proprietari di terre, i rentiers, ecc. ecc.? Dovremmo creare collegi elettorali anche per i fannulloni ed i vagabondi, che purtroppo sono ceti sociali numerosi. Il Parlamento non aspirerebbe nemmeno più in apparenza ad essere la rappresentanza della nazione; ma si convertirebbe in luogo di convegno per i delegati di piccoli gruppi sociali per una politica gretta di do ut des, senza alcun visione larga dei più ampi del paese. Non si vuol con ciò affermare che questa più larga visione i Parlamenti l’abbiano oggi sempre; ma poiché non infrequentemente non l’hanno, sembra eccessivo abolirla per legge.

 

 

Escluso perciò il rimedio della creazione di collegi elettorali speciali, rimane solo il rimedio della impresa delegata a privati concessionari. Con ciò il male non viene tolto del tatto; perché gli agenti numerosi possono ugualmente esercitare una pressione elettorale sui rappresentanti affinché questi si impegnino a far concedere dallo Stato alla compagnia delegata esercente un ribasso di canone o un compenso sufficiente a permettere alla impresa delegata stessa di fare aumenti di salario od altre concessioni agli agenti-elettori. Ma indubbiamente il giro da compiersi è più lungo; e la riuscita meni sicura. L’impresa delegata agisce come un cuscinetto che ammorza gli urti che gli agenti organizzati muovono alla finanza pubblica.

 

 

Nel tentare di vincere questo ostacolo intermedio un po’ della forza esercitata dagli agenti si perde; ed è più probabile che si raggiunga un risultato conforme o meno contrario all’interesse generale.

 

 

Un’altra soluzione, che ha incontrato molta simpatia presso certe classi di agenti, è quella che si sintetizza colla formula: la ferrovia ai ferrovieri. In concreto essa vorrebbe dire che la impresa privata delegata dallo Stato ad esercitare la ferrovia sia costituita dalla associazione dei ferrovieri medesimi; i quali dovrebbero pagare allo Stato un canone fisso ed una quota di utili, esercendo poi l’impresa a loro rischio e beneficio.

 

 

Formula seducente: ma di assai ardua applicazione.

 

 

Come troverebbero gli agenti il capitale circolante necessario per l’esercizio? Se lo dovesse fornire lo Stato, questo non correrebbe troppi rischi, senza alcuna garanzia, nell’abbondare in mano a nullatenenti la gestione di un capitale del valore di parecchi miliardi di lire? Che garanzie darebbero gli agenti del pagamento puntuale del canone? Come sarebbe mantenuta la ferrea disciplina necessaria in un’azienda così delicata, quando i capi dipendessero più o meno del beneplacito dei più inferiori, loro soci nella impresa esercente? A queste e somiglianti formidabili domande è assai difficile rispondere, talché la soluzione della ferrovia ai ferrovieri, per ora almeno, si presenta come meno praticamente raccomandabile dell’altra della delegazione ad un impresa privata ordinaria. Un avviamento all’attuazione della formula si potrebbe avere, quando gli agenti avessero diritto di partecipare agli utili dell’impresa, mercé azioni speciali privilegiate, le quali darebbero ad essi il diritto di partecipare ai consigli di amministrazione e di agguerrirsi nella difficilissima arte di organizzare e reggere felicemente le grandi imprese industriali.

 

 

54. e) Né quelle dove è pericolosa la pressione dei contribuenti. – Vi sono poi intraprese pubbliche nelle quali è pericolosa la pressione dei consumatori i quali chiedono di continuo una diminuzione dei prezzi pubblici che la azienda di Stato fa loro pagare. I prezzi pubblici, si dice, sono istituiti per qualche finalità, tanto che se essi fossero eguale ai prezzi privati, le intraprese pubbliche non avrebbero ragione di esistere; questi prezzi adunque, per raggiungere il loro scopo, devono essere inferiori ai prezzi privati; quindi non appena un’intrapresa da privata diventa pubblica si eleva un grande clamore dai consumatori per ottenere diminuzioni nei prezzi.

 

 

In tutte le intraprese pubbliche avviene questo fenomeno, che spesso dà luogo al fatto che i prezzi pubblici sono più o meno inferiori al costo di produzione del servizio, trasformandosi così, come vedremo, il prezzo in tassa.

 

 

Vi sono poi intraprese di grandi proporzioni in cui questo pericolo è massimo. Appena le ferrovie d’Italia diventarono di Stato, il chiasso dei consumatori fu grandissimo per ottenere diminuzioni e, in certi casi la diminuzione giunse a tal punto da lasciare scoperta grossa parte del costo di produzione. Dai ribassi per le famiglie degli impiegati si passò a quelli per le famiglie dei parlamentari e così via; in occasione di pubblici festeggiamenti, esposizioni, ecc. si concessero diminuzioni del prezzo pubblico. Dagli impiegati e parlamentari si passò alla riduzione pei giornalisti; e chi non è giornalista in Italia? Ora, i giornalisti fruiscono del 75% di ribasso sulla tariffa normale, con danno delle finanze dell’azienda. Una volta concesse queste tariffe di favore, come si potranno abolire?

 

 

Le pressioni per la riduzione di prezzo pubblico non si verificano soltanto per i viaggiatori, ma anche per le merci. Alcune regioni possono essere temporaneamente soggette a crisi o difficoltà nella vendita dei loro prodotti; se le ferrovie sono in mano a privati delegati, questi certo non vorranno andare incontro alla rovina per favorire i colpiti dalla crisi; questi ultimi invece, se lo Stato è il gerente dell’azienda ferroviaria, pretendono di essere soccorsi mercé il trasporto delle loro merci o derrate a prezzi bassissimi; e così infatti vi sono tariffe per alcuni paesi meridionali che non hanno alcun fondamento tecnico economico, ma sono motivate unicamente dalla necessità di soccorrere paesi meno favoriti. Non si vuole con ciò dire che lo Stato non debba usare una politica di prezzi pubblici che sia atta a promuovere il trasporto di merci povere e che non debba perciò sottostare magari a perdite temporanee. Anzi vedremo in seguito come sia ufficio dello Stato ferroviere di foggiare per tal modo le tariffe da rendere massimo il vantaggio del trasporto per gli utenti. Ma ciò compatibilmente alla esigenza di non perder di vista il costo dei trasporti, a cui per qualcuno deve sopperire. Mentre queste esigenze non di rado si perdono di vista sotto la pressione dei consumatori più clamorosi.

 

 

Queste riduzioni parziali danno luogo ad altri inconvenienti. Così si è osservato che dalla Liguria certe derrate agricole pagano per il trasporto in Piemonte un tariffa proporzionalmente superiore a quelle pagate delle merci provenienti da certi paesi meridionali. Ora se, in seguito a queste osservazioni, la riduzione si estende da taluni luoghi soltanto a tutto il paese e a tutte le merci indistintamente, il costo di esercizio dell’impresa diventerà superiore al preventivo, giungendosi magari, finalmente, all’ideale, per gli utenti, della ferrovia cosidetta gratuita. Ma poiché nessun servizio può essere attuato senza un costo di produzione, la gratuità è in tal caso metaforica e si ridurrà a questo: che non pagheranno più i viaggiatori e gli speditori di merci, ma pagheranno i contribuenti che forse dovranno sottostare ad imposte più elevate per sopperire alle spese ferroviarie quand’anche non si servano mai delle ferrovie stesse. Questo inconveniente si verifica per l’appunto nell’esercizio di Stato.

 

 

55. f) Né dove è temibile la pressione dei fornitori delle imprese pubbliche. – Oltre quella dei consumatori e degli agenti, l’impresa pubblica deve temere un’altra pressione pericolosissima: quella dei fornitori delle materie prime, dei combustibili, del macchinario di cui essa abbisogna. Una impresa delegata non sottostà a simili pressioni; perché si può supporre che i suoi amministratori abbiano per unico intento di comprare sul miglior mercato, non monta se nazionale od estero, la miglior merce al più basso prezzo possibile. Non così l’impresa pubblica direttamente esercitata dallo Stato. Subito i fabbricanti nazionali di quelle merci cominciano a far baccano ed a pretendere che lo Stato, quale padre e provvidenza di tutti i suoi concittadini, debba provvedersi esclusivamente all’interno; dando all’uopo la preferenza ai produttori nazionali in confronto ai produttori esteri. Su di che nessuno avrebbe nulla da ridire se la preferenza fosse data a parità di condizioni. Non così la intendono gli industriali nazionali; i quali cominciano a chiedere la preferenza anche se il loro prezzo è del 5% superiore a quello più basso dei concorrenti esteri, prezzo quest’ultimo il più spesso già caricato di esorbitanti dazi protettivi; poi vogliono che la preferenza sia data anche se il loro prezzo è superiore del 5% non più al più basso dei prezzi esteri, ma alla media dei tre o cinque prezzi più bassi esteri; poi ancora vogliono escludere dal formare la media il più basso od i due più bassi prezzi esteri, ma alla media dei tre o cinque prezzi più bassi esteri; poi ancora vogliono escludere dal formare la media il più basso od i due più bassi prezzi esteri, col pretesto che sono prezzi inferiori al costo e perciò sleali; in seguito ancora non si contentano del 5 e vogliono il 6% in più e infine il 10%. Finalmente, pretendono che ad alcuni appalti siano ammessi solo concorrenti nazionali. E quando il legislatore, sotto la pressione elettorale dei fornitori dello Stato, ha accettato tutte queste condizioni, essi, posti al sicuro dalla concorrenza estera, si coalizzano e si fanno pronti a iugularlo ed a estorcergli prezzi di monopolio. Che meraviglia, dopo ciò, che il costo di esercizio delle imprese esercite direttamente dagli enti pubblici sia elevato? A poco o nulla servono le garanzie che lo Stato si illude di imporre, facendo obbligo di prezzi equi, istituendo commissioni governative di controllo, ecc. L’unica garanzia per ottenere prezzi bassi, od i più bassi possibili, è la concorrenza; e questa non si ha quando lo Stato stesso la distrugge, concedendo privilegi e prelazioni a taluno dei concorrenti a danno della collettività. I fornitori nazionali, per farsi preferire, non hanno nessun altro mezzo consentaneo all’interesse pubblico fuorché quello di fornire merce uguale a prezzi più bassi o merce migliore a prezzi uguali a quelli dei concorrenti esteri.

 

 

Tutto il resto non è che un pretesto per vendere, giovandosi di influenze e pressioni politiche ed elettorali, allo Stato a prezzi che nessun privato accetterebbe e che quindi nemmeno lo Stato dovrebbe accettare nell’interesse della generalità.

 

 

56. g) Né dove il tesoro dello Stato pretende di non veder diminuire il reddito netto. Pericolo di veder trascurati gli ammortamenti. – A queste pressioni un’altra se n’aggiunge in contraddizione ad esse, e dà luogo a problemi che possono essere insolubili o sono solubili solo con la rovina dell’azienda. Quest’ultimo inconveniente è dato dal tesoro dello Stato, che vuole sempre ottenere quel tanto di reddito netto a cui s’era abituato o su cui aveva fatto assegnamento per pagare almeno in parte gli interessi e l’ammortamento dei capitali presi a prestito per gerire la stessa pubblica impresa.

 

 

Le ferrovie di Stato si trovano così sottoposte ad una quadruplice pressione in senso opposto: dei ferrovieri per l’aumento delle paghe, degli utenti per la diminuzione delle tariffe, dei fornitori per l’aumento di prezzo delle loro forniture e del tesoro per il consolidamento del reddito netto. Come se ne esce? La soluzione si trova facilmente ed è quella di affidare la risoluzione del problema del bilancio ai posteri. Un governo parlamentare non ha da preoccuparsi di un problema che riguarda il futuro: che cosa importa il futuro relativamente lontano per un ministro dei lavori pubblici o per un amministratore di qualche azienda municipale? Nulla, perché ad essi, i quali sanno di poter rimanere al potere per un anno o due, basta conservare la fiducia del Parlamento o del consiglio comunale per il momento. Essi perciò risolvono il problema facendo figurare un reddito ottengono questo semplicemente con il trascurare o diminuire gli ammortamenti. L’ammortamento è l’operazione economica per cui si mette da parte una determinata somma per potere entro un certo tempo ricostruire quel valore che tecnicamente si è andato esaurendo negli impianti eseguiti.

 

 

Supponendo una nuova spesa per materiale rotabile di 50.000.000 lire, coperte con il prestito, nel bilancio delle ferrovie dovrà essere iscritta ogni anno una tale somma che (supponendo di circa 40 anni la vita media del materiale acquistato) conduca alla ricostituzione dei 50 milioni in 40 anni, quando cioè i carri si saranno logorati e non avranno più che un valore zero. Ogni azienda industriale procurerebbe di reintegrare il capitale di 50 milioni entro i 40 anni per poter sostituire i carri divenuti inservibili alla fine di quel periodo. Ma il governante dell’oggi non ha da preoccuparsi di un problema che dovrà fra quarant’anni essere risolto da un suo successore e si accontenta di formare un bilancio dimostri vantaggiosa e non soverchiamente onerosa l’azienda.

 

 

Questo ragionamento non è affatto fantastico e fu in molti paesi: in Francia, in Australia, in Italia, ecc.

 

 

Gli ammortamenti nelle aziende pubbliche sono fatti spesso in misura insufficiente. Tanto, chi se ne dovrebbe lamentare? Non i viventi; ma i posteri che si troveranno dinanzi ai debiti e non troveranno più le attività che dovrebbero fronteggiarli, e che sono state logorate.

 

 

Ma quando i posteri si lamenteranno, saranno cambiati ministri e direttori generali. In una intrapresa delegata il pericolo di trascurare gli ammortamenti è minore; perché, se anche non se ne curassero gli amministratori, c’è un giudice indipendente, la borsa, la quale valuta le azioni e le obbligazioni emesse dalla società delegata non al valore nominale, e neppure al valore che piace agli amministratori di fissare; ma al valore che effettivamente hanno. La borsa valuta care le azioni e le obbligazioni se si fanno gli ammortamenti necessari e quindi il patrimonio sociale è mantenuto in buono stato; e la deprezza se si trascurano. Onde in questo caso gli azionisti sono messi sull’avviso; cominciano a mormorare ed il consiglio di amministrazione deve prendere provvedimenti. Questo freno non esiste nell’esercizio di Stato, perché non esistono azioni; e le obbligazioni emesse dallo Stato per sopperire alle spese degli impianti ferroviari non possono deprezzare, se anche la ferrovia va male, perché esse sono garantite non dalle sole entrate ferroviarie ma da tutte le entrate dello Stato e quindi anche dalle imposte.

 

 

Questi pericoli gravi cui vanno incontro tutte le aziende dello Stato amministrate direttamente rispetto all’ammortamento sono più o meno gravi a seconda dell’importanza dei capitali di impianto e del tempo nel quale debbono essere ammortizzati.

 

 

I pericoli di tal genere saranno molto meno gravi in un impianto per l’acqua potabile, perché in questo caso quando gli impianti e le condutture siano fatte bene la durata potrà essere di secoli: ci sono infatti acquedotti che, rabberciati, datano in sostanza dall’epoca romana. Cosicché, non essendo in questo caso molto forte la spesa di ammortamento si potrà affidare, senza gravi pericoli, l’azienda allo Stato. Nelle ferrovie invece il materiale mobile va soggetto a una rapida svalutazione, non solo fisica, ma economica: così per esempio, mentre i carri antichi non avevano portata superiore alle 20 tonn., quelli moderni giungono alle 40-50 tonn., e anche più. E quindi necessario un continuo rinnovo di materiale se non si vuole conservare in vita un materiale antiquato e se non si vogliono aggravare eccessivamente le generazioni future.

 

 

57. Dei limiti alla delegazione dell’esercizio ad imprenditori privati. Errori che si commettono nella delegazione. – Da quando si è esposto non devesi dedurre senz’altro la convenienza del sistema delle delega a privati delle intraprese pubbliche in tutti i casi. Non è inutile di ricordare ancora una volta che il problema non può essere risoluto con una formula semplice ed univoca. Dal punto di vista scientifico è soltanto possibile di elencare le condizioni che rendono più o meno conveniente ricorrere ad un metodo od all’altro. Dopo aver dette delle condizioni che favoriscono o facilitano l’esercizio diretto, accenniamo alle difficoltà che incontra altresì l’esercizio per delegazione.

 

 

Notiamo anzitutto che la necessità per lo Stato di ricavare un reddito netto invariabile dalle ferrovie persiste anche quando esso ne deleghi l’esercizio a società private.

 

 

Questa necessità ebbe da noi la conseguenza che lo Stato colle convenzioni del 1885-1905, con le quali l’esercizio delle ferrovie statali italiane fu concesso alle tre società Mediterranea, Adriatica e Sicula, cercò di stabilire un canone che fosse possibilmente al sicuro da ogni diminuzione e da ogni alea. Notiamo anzitutto che il sistema delle convenzioni del 1885 non era di concessione intera vera e propria come in Francia, dove i diversi gruppi di linee ferroviarie furono concessi a società private, delegate sotto certe condizioni di tariffa ecc., le quali società dovevano provvedere a trovare l’intiero capitale necessario per la costruzione e l’esercizio delle linee. In Italia si seguì un sistema intermedio, distinguendo l’impianto dall’esercizio, ossia le spese in conto patrimoniale necessario per la costruzione delle linee, stazioni, per la compra del materiale ferroviario dalle spese in conto esercizio che si devono fare per la gestione della ferrovia, come salari agli agenti, compra del carbon fossile, riparazioni ai veicoli ed alle strade, ecc. ecc.

 

 

Purtroppo il sistema misto seguito presentava tutti gli inconvenienti del regime privato senza eliminare quelli del regime pubblico. Infatti per provvedere alle spese d’impianto, siccome non se ne potevano incaricare le società, le quali dovevano pensare al solo esercizio, e d’altro canto lo Stato non voleva direttamente caricarsene, per non diminuire i redditi d’esercizio, se ne affidò il carico a certe cosidette casse patrimoniali le quali dovevano provvedere agli aumenti di patrimonio od ampliamenti richiesti dall’aumento del traffico, ecc. A tal uopo le casse erano alimentate con assegni sugli incrementi di prodotto lordo, oltre i prodotti iniziali, ossia oltre i prodotti che si avevano prima del 1885.

 

 

Ora accadde che gli incrementi di prodotto che si prevedevano non si verificarono. Erano quelli tempi in cui l’Italia attraversava un periodo di crisi economica e finanziaria, cosicché, pochi anni dopo la firma delle convenzioni, cominciò a manifestarsi un decremento, poi una stazionarietà in questi prodotti lordi. Quando le convenzioni si firmarono, la nazione si trovava in un periodo di floridezza che si sperava durevole; ma la rottura del trattato di commercio con la Francia, la guerra d’Africa, la crisi edilizia sopravvennero a far diminuire i redditi ferroviari. Epperciò le casse patrimoniali rimasero sprovvedute di dotazioni e gli impianti nuovi, ed il miglioramento del materiale rotabile avrebbero dovuto far carico al bilancio dello Stato. Il quale bilancio, trovandosi anch’esso in deficit, male poteva provvedere a spese in conto patrimoniale a prò delle ferrovie. Onde lo Stato grettamente, credendo di fare soltanto il danno delle imprese delegate esercenti, lasciò decadere le dotazioni, sicché nel 1905, allo scadere del ventennio, le ferrovie italiane si trovavano in pessime condizioni: linee insufficienti, stazioni ristrette, carri mancanti, locomotive ansanti.

 

 

Donde il memorabile disservizio ferroviario che funestò l’Italia negli anni 1905-1908, conseguenza delle imprevidenza dello Stato e dei conflitti d’interesse tra Stato e società nel periodo precedente.

 

 

Il difetto però, non stava nella delegazione a un’intrapresa privata, bensì nel modo con cui questa delegazione era stata fatta, cioè nel sistema misto. Se invece di un contratto di questo tipo se ne fosse concluso uno diverso, gli inconvenienti lamentati avrebbero potuto evitarsi, come in Francia, dove la delegazione a società privata è a lunghissima scadenza e lo Stato non partecipa ai prodotti lordi, ma soltanto percepisce dalla società un canone annuo fisso, di modo che la società delegata deve provvedere da sola a tutte le spese d’impianto che eseguisce nel suo interesse.

 

 

Anche rispetto all’esercizio il sistema misto era difettoso. Infatti il sistema adottato era quello non del canone fisso ma della compartecipazione dello Stato ai prodotti lordi. Siccome si era veduto che negli anni precedenti al 1885 lo Stato aveva speso circa il 62,50 per cento delle entrate per spese d’esercizio, così si disse: alle società esercenti spetti il 62,50 per cento dei prodotti come compenso ad esse per l’esercizio ed allo Stato il 27,50 per cento come sua compartecipazione, andando il restante 10% ai fondi di riserva, diversi dalla cassa per gli aumenti patrimoniali, destinati essi fondi a provvedere ai danni prodotti da forza maggiore ed alla rinnovazione della parte metallica dell’armamento e del materiale rotabile reso inservibile dall’uso. I fondi di riserva, che dovevano servire altresì come corrispettivo dell’uso del materiale rotabile reso inservibile dall’uso. I fondi di riserva, che dovevano servire altresì come corrispettivo dell’uso del materiale mobile d’esercizio, si palesarono insufficienti alle rinnovazioni ossia alla conservazione del materiale esistente; come già la cassa si è visto essere stata incapace a provvedere all’aumento del materiale richiesto dalle nuove esigenze del traffico. Ma anche il sistema di ripartizione dei prodotti lordi tra le società e lo Stato, sia pure che, oltre il prodotto iniziale la quota della società discendesse al 56%, quella dello Stato aumentasse al 28% e quella dei fondi di riserva e della cassa per gli aumenti al 16%, non era opportuno per nessun verso: in primo luogo perché lo Stato poteva non avere convenienza e far nuovi impianti; perché l’aumento dei prodotti conseguente sarebbe andato a beneficio in gran parte delle società: ed in secondo luogo perché le società non avevano interesse a promuovere il traffico con diminuzione di tariffe, perché in questo caso il beneficio sarebbe andato anche a vantaggio dello Stato. C’era quindi una contraddizione stridente tra i due contraenti, sorgente dai termini del contratto. Invero una riduzione di tariffa provocando l’aumento del traffico ha per effetto un aumento delle spese d’esercizio, le quali secondo il contratto erano tutte a carico delle società esercenti.

 

 

Ammettiamo che per l’aumento del traffico in seguito sempre all’aumento di traffico il prodotto lordo fosse aumentato di 110; se tutto il prodotto lordo in più fosse toccato alle società, esse avrebbero avuto interesse a diminuire le tariffe, perché avrebbero ottenuto un vantaggio di 10, anzi avrebbero avuto il tornaconto anche se il vantaggio fosse stato, per ipotesi, solo di 1 o 2. Ma date le condizioni del contratto con lo Stato, che limitavano la quota parte delle Società al 62 1/2 o 56%, esse non avrebbero percepito che 62 o 69 unità sull’aumento di 110, mentre il resto sarebbe stato devoluto allo Stato. Quindi esse avrebbero dovuto spendere 100 per ottenere da 62 a 69; cosa che sconsigliava loro una ardita politica ferroviaria.

 

 

L’esempio dimostra come anche la delegazione ad un’intrapresa privata non sia cosa sempre facile, né opportuna, e possa esserlo soltanto quando la convenzione non dia luogo a contrasto d’interessi fra lo Stato e la società delegata. In caso diverso sarebbe preferibile l’esercizio diretto, malgrado i non lievi inconvenienti segnalati. Fra i molti sistemi che furono proposti allo scopo di evitare conflitti di interessi dannosi all’esercizio, ricordiamo ancora come il più opportuno quello di stabilire un canone annuo fisso, cosicché la società intraprenditrice conservi la sua piena libertà di azione ed abbia il suo tornaconto a introdurre ogni perfezionamento a favorire quei progressi, che si risolvono in un incremento di reddito dell’intrapresa che le è affidata a lunga scadenza.

 

 

Quando l’impresa si presti ad una sorveglianza esatta sui conti, è anche consigliabile il sistema della partecipazione dello Stato ai benefici netti, oltre un minimo d’interesse al capitale impiegato. Per esempio in Italia, come altrove, l’emissione dei biglietti e affidata ad istituti di emissione privati, come la Banca d’Italia od enti morali come il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia. Siccome il privilegio dell’emissione dei biglietti di banca è redditizio, si dovette studiare il modo di far partecipare lo Stato al reddito. Dopo avere lungamente adottato il metodo della tassa sulla circolazione, che è una specie di imposta o compartecipazione al prodotto lordo (quantità di biglietti emessi) dell’azienda bancaria, si finì di preferire il sistema della compartecipazione al reddito netto. Sul reddito netto ottenuto si comincia a prelevare la somma necessaria a pagare il 5% d’interesse al capitale del banco; se c’è un avanzo, ma questo non supera la somma necessaria a pagare un altro 1% sul capitale del banco, lo Stato partecipa per un terzo all’avanzo. Se l’avanzo è superiore ancora, ossia è tale che sarebbe possibile pagare al capitale del banco più del 6% su tutto l’avanzo medesimo, ossia su tutta la parte del reddito che supera il 5% del capitale del banco, lo Stato preleva la metà, rimanendo l’altra metà al banco esercente. Il sistema funziona da parecchi anni egregiamente esercente. Il sistema funziona da parecchi anni egregiamente, con buoni risultati pel pubblico, per i banchi e per l’erario.

 

 

Sezione Quarta.

Norme secondo cui si determinano i prezzi pubblici.

 

58. Ora che si sono vedute quali siano le caratteristiche che distinguono l’impresa pubblica e le condizioni che, a volta a volta possono far preferire l’esercizio diretto o l’esercizio per delegazione, passiamo allo studio delle norme che regolano la determinazione dei prezzi a cui sono venduti i servizi di esse, prezzi che, come si è detto, sono stabiliti con regole divergenti, se non nelle linee fondamentali, nelle modalità di esplicazione, da quelle dei prezzi privati.

 

 

59. Si sceglie l’intrapresa ferroviaria come esempio per lo studio della formazione dei prezzi pubblici. – La teoria dei prezzi pubblici può essere evidentemente formulata in modi diversi a seconda della natura delle singole intraprese pubbliche. Noi non possiamo partitamente esaminare questi vai modi, e ci limiteremo ad esporre un esempio, che è il più caratteristico e quello che presenta maggior interesse; cioè ci riferiremo all’intrapresa ferroviaria, anche perché in questo campo gli studi fatti sono numerosi.

 

 

Gli studi che si potrebbero citare su questo argomento sono numerosi, da quelli classici del Dupuit a quelli del Launhardt, dell’Ulrich, del Sax, ecc. Ma noi abbiamo la fortuna di avere un trattato di autore italiano che unisce alle doti della precisione scientifica quelli della chiarezza di esposizione e della facilità di intendimento, qualità che sono sovratutto pregevoli per le scuole. Voglio accennare alla monografia su le Tariffe ferroviarie del prof. Filippo Tajani, che forma il n. 68 di una Enciclopedia ferroviaria edita dall’Unione Tipografico Editrice Torinese. A questa monografia largamente attingeremo per questa sezione e quella susseguente del presente capitolo. Ma l’utilizzazione fattane in queste pagine ha soltanto per iscopo di invogliare lo studioso a leggere con molto suo profitto la intiera preziosa memoria del Tajani.

 

 

60. In condizioni di libera concorrenza il prezzo dei trasporti tende verso il costo. – Anzitutto, come si regola la domanda trasporti ferroviari? in relazione a questa domanda ed al costo dei trasporti stessi, come si stabiliscono i prezzi in regime di libera concorrenza? Il principio che si applica qui come in ogni altra intrapresa nelle stesse condizioni è che il prezzo di vendita della merce tende al limite del costo di produzione, che è in questo caso produzione del servizio di trasporti ferroviari.

 

 

Questa regola può essere dimostrata, perché è evidente che se la tariffa fosse superiore al costo di produzione (includendo in esso non solo il costo vivo, ma anche l’interesse normale e l’ammortamento) avverrebbe che altri imprenditori, che hanno capitali disponibili, si dedicherebbero a questa industria e producendo maggior quantità di mezzi di trasporto, farebbero abbassare il prezzo fino al livello del costo di produzione. Se invece la tariffa fosse inferiore al costo di produzione, neppure potrebbe sostenersi, perché alcuni dei produttori, cioè quelli che perdono di più, finirebbero per ritirare i loro capitali, onde si verificherebbe una diminuzione dei trasporti offerti e quindi un rialzo nelle tariffe.

 

 

61. Se il prezzo del trasporto è uguale al costo, il guadagno degli utenti è massimo. – Vediamo ora, dato che la tariffa sia eguale al costo dei trasporti, quali conseguenze ne derivino per i guadagni degli imprenditori e per quelli dei consumatori, che in questo caso si chiamano gli utenti delle ferrovie.

 

 

Sulla retta OP (ordinata) possiamo indicare i prezzi dei trasporti. Partiremo, ad esempio, dal prezzo Oa il più basso, e passando per i più elevati Ob, Oc, Om, giungeremo fino ad un’altezza massima rappresentata da OP, prezzo massimo. Tracciamo la linea delle ascisse: su di essa possiamo portare le diverse quantità dei trasporti che si fanno ad ognuno dei determinati prezzi Oa, Ob, ecc.

 

 

Se cominciamo collo scegliere il prezzo massimo OP, a questa massima tariffa nessun utente viaggierà o spedirà merci; quindi la quantità del traffico sarà zero e si confonderà col punto d’origine della retta delle ascisse: se invece la tariffa diventa un poco più bassa e cioè Om, è evidente che la quantità dei trasporti comincierà ad essere di Om1 e così per il prezzo Oc la quantità trasportata diventa Oc1 e via via fino al trasporto massimo Oa1 corrispondente al prezzo Oa. Se il prezzo diventa zero il trasporto sarà di una quantità infinita di merce. Sui diversi punti che indicano la quantità di merce trasportata noi possiamo elevare altrettante ordinate la cui altezza sia proporzionata al prezzo che viene richiesto per quella determinata quantità; le ordinate cioè avranno il loro termine all’altezza ove è segnato il prezzo corrispondente, per es. l’ordinata del punto m1 si fermerà all’altezza Om. Congiungendo le estremità delle ordinate si ottiene una curva che si dice curva della domanda. La quantità trasportata cresce man mano che il prezzo va diminuendo, sicché quando il prezzo diventa zero la quantità trasportata è massima.

 

 

Se noi sopprimiamo idealmente le ordinate, che servono soltanto a formare la curva della domanda, noi avremo più chiara la forma della curva stessa.

 

 

Ora noi sappiamo che se esiste libera concorrenza perfetta, il prezzo (e nel nostro caso la tariffa ferroviaria) è uguale al costo di produzione (del trasporto). Così se il trasporto, per esempio, costa Ob è evidente, per quello che si è detto ora, che il prezzo di esso sarà Ob.

 

 

Allora è facile conoscere il ricavo dell’imprenditore: tracciamo una parallela alla linea delle ascisse partendo dai punti dei vari prezzi; nel nostro caso noi vediamo, ed esempio, che il prezzo Ob dà luogo al trasporto Ob1 si ha il rettangolo tratteggiato Obrb1 il quale rappresenta quindi il prodotto che ottiene il vettore con questo suo trasporto. D’altra parte, qual è il costo del vettore? Pure Ob per ogni unità trasportata, e siccome la quantità trasportata è Ob1 il prodotto (rettangolo Obrb1) rappresenterà anche il costo totale per l’imprenditore dei trasporti.

 

 

Vediamo quindi che in caso di libera concorrenza perfetta, il vettore non fa alcun guadagno; cioè nessun guadagno oltre l’interesse e l’ammortamento del capitale impiegato, poiché questi sono compresi nel costo di produzione. Se il produttore non fa nessun guadagno poiché il costo è appena coperto dall’introito, che guadagno fa l’utente? Questi ottiene un utile che vien rappresentato dal triangolo in bianco sopra il rettangolo tratteggiato.

 

 

Infatti l’utente, o almeno il primo utente, quegli che trasporta la merce più fina e più cara, quindi più atta a pagare una tariffa altissima, qual prezzo sarebbe stato disposto a pagare?

 

 

Evidentemente un prezzo massimo vicinissimo ad OP[1] (non OP perché allora la quantità trasportata sarebbe zero). Ma oltre questo primo utente ce ne sarebbero stati altri disposti a pagare prezzi successivamente più miti Om, Oc, e così via, fino al limite Ob che noi abbiamo considerato come prezzo di equilibrio. Ora quando il prezzo sia fissato ad Ob, gli utenti che erano disposti a pagare prezzi superiori, ottengono un guadagno rispettivamente pari alla differenza fra quello che pagano e quello che avrebbero altrimenti pagato. Questo eccesso del prezzo che una persona sarebbe disposta a pagare, piuttosto che star senza la cosa, sul prezzo che effettivamente paga, è detto dal Marshall (Principii di Economia, libro III cap. V) sopraggiù o rendita del consumatore. Sarà opportuno che lo studioso ricorra a questi fonti.

 

 

Esiste infatti la legge dell’indifferenza per cui su di un mercato, in un determinato momento, in regime di libera concorrenza, non si possono stabilire prezzi diversi per una stessa merce. In caso di libera concorrenza v’è quindi un prezzo solo per i trasporti e di questo usufruiranno anche coloro che sarebbero disposti a pagarne uno superiore. Sono appunto costoro che, usando del prezzo Ob, godono di un vantaggio che, a seconda della loro capacità di consumo, varietà dalla intera differenza tra OP e Ob fino ad una piccolissima quantità al disopra di Ob.

 

 

Se moltiplichiamo questi diversi vantaggi che ognuno ottiene in questo modo per la quantità di merce che ognuno sarebbe stato disposto a spedire a quel prezzo superiore, otteniamo tanti piccoli rettangoli: il guadagno complessivo sarà poi uguale al triangolo Pbr. Quindi mentre il vettore non ha alcun guadagno, l’hanno gli utenti ed è il guadagno massimo che possa essere ottenuto dalla intera società in regime di libera concorrenza.

 

 

62. Se il prezzo fosse superiore od inferiore al costo si avrebbe una perdita sociale. – È evidente che questo è il guadagno massimo in confronto ai prezzi superiori, come si dimostra facilmente.

 

 

Partendo infatti (fig. 3) dal costo Ob[2] e ponendo il prezzo uguale ad Oc, la quantità trasportata sarebbe Oc1. Il vettore in questo caso otterrebbe un guadagno lordo eguale al rettangolo OcSc1. Il guadagno netto è invece indicato dal rettangolo che si ottiene moltiplicando bc x bK cioè bcSK mentre gli utenti hanno solo più il guadagno cPS.

 

 

Nel caso dunque di prezzo Ob uguale al costo, si ha che il guadagno dell’esercente è zero, quello degli utenti è bPr totale bPr.

 

 

Nel caso invece di prezzo Oc superiore al costo Ob, il guadagno dell’esercente è bcSK; quello degli utenti è cPS; totale utile della società (esercente + utenti) è bPSK, che è minore di bPr che si otteneva al prezzo Ob. Va perduto il triangolo SKr che non profitta né ad esercente né ad utente.

 

 

Resta dimostrato quindi che, quando il prezzo è uguale al costo di produzione, il guadagno degli utenti è massimo, mentre quando il prezzo è superiore al costo il vettore ha un guadagno che però è inferiore alla perdita degli utenti, il che si risolve in ultima analisi in una distruzione di ricchezza. Neanche per le ferrovie gerite dallo Stato, che agisce nell’interesse generale, non v’è quindi interesse a porre una tariffa superiore ad Ob, che sarebbe quella stabilita dai privati in condizioni di libera concorrenza.

 

 

Supponiamo ora che il vettore stabilisca un prezzo Oa inferiore al costo Ob.

 

 

Si dimostra che neanche in questo caso vi è un utile della società eguale all’utile bPt (fig. 4)[3] che si ha quando il prezzo è Ob, ossia uguale al costo.

 

 

Infatti vendendo al prezzo Oa il vettore trasporta la quantità Oa1; ma siccome il suo costo unitario è Ob, il costo totale è dato dalla moltiplicazione di Ob per Oa1, ossia uguale ad Obca1.

 

 

Infatti, benché egli accetti di fare il trasporto al prezzo Oa, continua egualmente a sopportare il costo Ob: essendo Oa1, la quantità trasportata bisognerà moltiplicare Ob per Oa1 per avere il costo che il vettore sopporta. Questo costo sarà rappresentato dal rettangolo Obca1. Qual è il prodotto che si ottiene? è il prodotto dato dalla moltiplicazione di Oa per la quantità Oa1 trasportata: sarà cioè il rettangolo tratteggiato Oa Sa1, il quale è inferiore al precedente. Quindi egli perde la differenza, ossia tutto il rettangolo abcS. Questo vorrebbe dir poco se i consumatori guadagnassero più di quello che il vettore perde: ci sarebbe nel complesso un vantaggio; e, se non gli esercenti privati, almeno lo Stato avrebbe il tornaconto a trasportare ad un prezzo inferiore al costo perché farebbe il bene della collettività, ch’esso rappresenta. Ma gli utenti, che vantaggio ottengono a lor volta? Essi, al vantaggio rappresentato dal triangolo bPt che ottenevano prima, debbono aggiungere ora che il risparmio ulteriore che essi fanno in confronto al prezzo che sarebbero stati disposti a pagare, vale a dire ottengono in più il guadagno rappresentato dal trapezio btSa. Quindi dato che la curva della domanda è quella che è per le ragioni sovra esposte, fra il maggior utile degli utenti (trapezio btSa) e la perdita dell’amministrazione (rettangolo abcS), esiste una differenza passiva a carico di quest’ultima rappresentata dal triangolo esterno tcS (in nero).

 

 

Questa si può chiamare la perdita sociale.

 

 

Resta quindi dimostrato che, neanche nel caso che l’esercente sia lo Stato, è conveniente il trasporto a un prezzo inferiore al costo di produzione.

 

 

Del resto, la dimostrazione che un prezzo pubblico inferiore al costo di produzione riesce di danno, anziché di vantaggio alla collettività, si può dare anche in un altro modo. Non occupiamoci dei trasporti che si sarebbero già verificati al prezzo uguale al costo: supponiamo che questo prezzo sia di 10 lire per ogni tonnellata. Supponiamo ora che l’esercente della ferrovia per permettere a talun utente di far trasporti anche al disotto del prezzo di 10, ribassi per costoro la tariffa fino a 5 lire, sebbene il costo rimanga sempre di 10. Allora che cosa si verifica?

 

 

Supponiamo che egli trasporti in più al prezzo ribassato 100.000 tonnellate; poiché ogni tonnellata deve essere trasportata a quella data distanza, è evidente che egli spende 10 lire per tonnellata. Per 100.000 tonnellate la sua perdita sarà dunque di 500.000 lire. A questa perdita dell’esercente, che guadagno si può contrapporre da parte dell’utente? È evidente che se si potesse contrapporre un guadagno che fosse di 500.000 lire, si dovrebbe ammettere che il contratto è giovevole al complesso della società o almeno non v’è per essa alcuna perdita. Ma è possibile che gli utenti guadagnino le 500.000 lire che l’esercente perde? Ciò è molto dubbio e possiamo dimostrarlo col ragionamento. Infatti queste 100.000 tonnellate trasportate a 5 lire caduna, non sarebbero state trasportate alla tariffa di 10 lire. Da questo fatto sicuro consegue che gli utenti non ricavano nel trasporto un’utilità uguale a 10 perché, se ciò fosse, essi avrebbero avuto anche prima convenienza ad effettuare i loro trasporti anche al prezzo di 10. Se non l’hanno fatto è per il timore di una perdita. È probabile che una parte di questi utenti avrebbe spedite le sue merci appena il prezzo fosse stato ribassato da 10 a 9; altri avrebbero trovato convenienza solo aspettando il ribasso a 8; altri avrebbero effettuati i trasporti al prezzo di 7; altri a 6; altri ancora si sarebbero decisi soltanto allorché il prezzo si fosse limitato a 5. Quindi che vantaggio reca agli utenti il vettore che riduce il prezzo di trasporto a 5 lire? Supponiamo che le tonnellate da trasportarsi siano 100 mila: 20 mila si sarebbero già trasportate al prezzo ribassato di lire 9; altre 20 mila al prezzo di lire 8; altre 20 mila a 7; e così via fino al prezzo di lire 5. Giunto il prezzo a 5 tutte le 100.000 tonnellate vengono trasportate; perché dato che si trasportino le 20 mila tonnellate degli utenti che attendevano appunto quel prezzo, a fortiori verranno trasportate le rimanenti che si sarebbero adattate anche a un prezzo superiore. Ora, qual è il guadagno complessivo delle schiere diverse di utenti? la prima schiera che avrebbe trasportato il suo carico al prezzo 9 guadagna 4, differenza fra 5, prezzo attuale, e 9, prezzo che sarebbe stata disposta a pagare. Trattandosi di 20 mila tonnellate, il guadagno totale sarà di 80.000 lire. La seconda schiera, che avrebbe trasportato 20 mila tonnellate al prezzo di 8, ha un guadagno di 3 per ogni tonnellata e, perciò, nel complesso di 60.000 lire; la terza schiera ha un guadagno di 1 x 20.000 = 40.000 lire; la quarta ha un guadagno di 1 x 20.000 = 20.000 lire; l’ultima schiera che avrebbe atteso il prezzo cinque non ha alcun guadagno. Sommando i guadagni otteniamo in tutto lire 200 mila, che sottratte dalla perdita dell’esercente in lire 500.000 danno una perdita netta sociale di 300.000 lire, che nella (fig. 4) era rappresentata dal triangolo tSc.

 

 

63. In libera concorrenza non conviene perciò allo Stato di intervenire. -Ecco adunque dimostrata con una seconda prova che, esistendo libera concorrenza ed essendo i trasporti effettuati a prezzo pari al costo di produzione, già si ottiene, colla libera concorrenza, il massimo di utile sociale, e quindi non vi è ragione per lo Stato di intervenire.

 

 

64. L’ipotesi della libera concorrenza nelle ferrovie non corrisponde però alla realtà. – Senonché l’ipotesi della libera concorrenza nel caso delle ferrovie non corrisponde alla realtà. L’esperienza basta di per sé a provarlo: nelle ferrovie esiste una specie di monopolio naturale in mano di una sola o di parecchie società, che trovano sempre convenienza ad accordarsi appunto per l’impossibilità di una perfetta libera concorrenza.

 

 

Di qui l’opportunità dell’intervento dello Stato. Già abbiamo sopra, nella sezione prima di questo capitolo, dimostrato come l’esistenza del monopolio sia ragione principalissima per dichiarare pubblica una certa impresa economica. Sembra ora opportuno di applicare, più particolareggiatamente, quel concetto al caso delle ferrovie, per vedere come in esse il monopolio sia inevitabile e come, dato il monopolio, si stabiliscano prezzi appunto di monopolio, a togliere i dannosi effetti dei quali si richiede la pubblica impresa con prezzi pubblici. Il ragionamento che servirà a provare quanto ora abbiamo asserito, dovrà passare per alcuni successivi gradi:

 

 

  • 1) Dovremo dimostrare perché non possa esistere nell’esercizio ferroviario libera concorrenza;
  • 2.) dovremo studiare qual tipo di monopolio si attui nelle ferrovie e qual prezzo il vettore abbia interesse a stabilire;
  • 3.) veduti i danni di questo prezzo, discutere la necessità dell’intervento dello Stato;
  • 4.) esaminare qual prezzo diverso dal precedente è d’uopo che lo Stato stabilisca.

 

 

65. Analisi del concetto del costo di produzione nelle ferrovie. Che nell’esercizio ferroviario non possa esistere libertà di concorrenza, si può vedere analizzando il concetto del costo di produzione nelle ferrovie, il quale presenta certi caratteri peculiari, che pur trovandosi presenti anche in altre aziende, non assumono sempre forme tanto spiccate quanto nell’esercizio ferroviario.

 

 

66. Spese fisse e spese variabili in complesso. – Il costo di produzione delle ferrovie si può dividere in due parti: la prima è costituita dalle spese fisse o invariabili, la seconda dalle spese variabili. La prima parte è data da tutte quelle spese che devono esser fatte per esercitare una ferrovia, astrazion fatta dal volume dei traffici che si può sperare possano prodursi sulla stessa. Per l’impianto è necessario una strada, sia che la ferrovia abbia a servire per un viaggiatore come per cento, e questa strada dovrà essere costruita in modo speciale. L’impianto importa l’esistenza di stazioni, di ponti, gallerie, di materiale ferroviario, di un personale direttivo, di una organizzazione, ecc., ecc. L’impianto rappresenta un spesa fissa che, fino a un certo punto, non varia col variare del numero dei viaggiatori e delle tonnellate di merci; certo quando il traffico sarà cresciuto oltre un certo limite, sarà necessario migliorare o raddoppiare l’impianto rimane immutato. La spesa d’impianto perciò importa all’inizio una somma capitale e tutti gli anni una somma per il pagamento degli interessi e dell’ammortamento.

 

 

Oltre a queste spese, altre ve ne sono, anche all’inizio dell’impianto, per l’acquisto di un certo numero di carri, locomotive, vetture, ecc., che vengono a costituire la dotazione iniziale di materiale rotabile per quella ferrovia, materiale che sarà pur necessario ammortizzare in ragione del suo consumo medio.

 

 

Una spesa fissa è pure quella costituita dai salari e stipendi di una frazione iniziale importante del personale, il quale sarà necessario in tutta la sua gerarchia, dal direttore generale fino al facchino, sin dall’inizio dell’impianto. Per queste spese si verificherà evidentemente più presto il bisogno di un aumento col crescere del numero dei viaggiatori o del trasporto merci, ma ad ogni modo dovrà trascorrere un certo spazio di tempo durante il quale queste spese resteranno fisse crescendo il traffico.

 

 

Le spese fisse non sono, si avvertì già, assolutamente fisse comunque aumenti il traffico. Ma entro certi larghissimi limiti si possono considerare tali, salvo a fare un balzo quando il traffico cresce oltre un certo segno e rimanere allora di nuovo per un po’ costanti. Così per esempio: per il poco traffico iniziale si era costrutta (a 500 metri di altezza) una prima galleria; aumentato il traffico si dovette costrurre una seconda galleria, più costosa, perché più bassa, a 300 metri sul livello del mare (le gallerie più basse sono più costose perché più lunghe) ed ora se ne palesa necessaria una terza ancor più costosa a 200 metri: in questi cambiamenti è evidente l’aumento della spesa fissa.

 

 

Passando invece alle spese variabili, vedremo che esse, pur crescendo coll’aumento del traffico, non crescono però nella sua stessa proporzione.

 

 

Nel primo momento possiamo supporre però nella sua stessa proporzione. Nel primo momento possiamo supporre che le spese variabili crescano con certa rapidità, in un secondo momento cresceranno con rapidità minore perché certe spese che prima erano variabili per il carbone, essendo necessario trasportare il treno molto in alto, diminuiranno proporzionalmente col nuovo impianto, che aumentò le spese fisse. Per esempio: costruendo una seconda galleria dei Giovi, è accaduto che mentre prima era necessaria una maggiore quantità di spesa variabile per il carbone, essendo necessario trasportare il treno molto in alto, diminuiranno proporzionalmente col nuovo impianto, che aumentò le spese fisse. Per esempio: costruendo una seconda galleria dei Giovi, è accaduto che mentre prima era necessaria una maggiore quantità di spesa variabile per il carbone, essendo necessario trasportare il treno molto in alto, questa spesa diminuì proporzionalmente col nuovo impianto, che aumentò però le spese fisse.

 

 

67. Concetto delle spese decrescenti e costanti per unità successive di traffico. – Un’altro concetto si può dare di queste spese in rapporto all’unità di traffico, mentre il precedente non rappresentava che le variazioni complessive.

 

 

In questa seconda concezione il rapporto cambia completamente: le spese variabili diventano costanti e le fisse diventano decrescenti, per le successive unità di traffico. infatti, se noi calcoliamo, non più la spesa totale ma la spesa per unità di traffico, dobbiamo domandarci: se vi fosse una sola unità di traffico, che spesa si avrebbe da sopportare per fatto di quelle spese che sopra abbiamo chiamato variabili? Una spesa costante che possiamo supporre di uno. Infatti le spese variabili crescono di una quantità costante col crescere del traffico. La seconda unità di traffico costerebbe evidentemente altrettanto, come la prima, così la terza unità e via via nella medesima ragione. La spesa cresce coll’aumento delle unità, ma per unità è sempre la stessa. La spesa complessiva del carbone, crescendo le unità di traffico, cresce e quindi è variabile nel suo complesso; ma, calcolandola per ogni unità di traffico aggiunto, diventa costante; perché ad ogni unità di traffico che si aggiunge, è una nuova spesa costante di carbone in più che bisogna sopportare. Dunque la spesa variabile nel complesso è invece costante per ogni unità di traffico aggiunta.

 

 

Viceversa le spese fisse nel complesso diventano variabili decrescenti per ogni unità di traffico; perché è evidente che, crescendo il traffico e rimanendo fissa la spesa, ogni unità di traffico viene a costar meno.

 

 

Così, supponendo una somma di 100.000 lire per le spese fisse, se una sola fosse l’unità di traffico, le 100.000 lire graverebbero tutte sulla stessa; con due unità di traffico la spesa andrebbe ripartita equamente su ogni unità, in ragione di L. 50.000 ciascuna; per tre unità di traffico noi avremo per ognuna la spesa di 33.033; per quattro divideremo la spesa fissa in quattro parti di 25.000 lire, e così via.

 

 

Questa decrescenza proporzionale delle spese fisse coll’aumentare delle unità di traffico si verifica anche nelle altre industrie, ma in maniera caratteristica nelle ferrovie ove queste unità di traffico vengono denominate viaggiatore chilometro e tonnellata chilometro.

 

 

È chiaro perciò che se noi aggiungiamo per ogni unità di traffico una parte costante alla parte variabile decrescente, abbiamo un totale il quale decresce. Man mano che il traffico aumenta, la spesa fissa diminuisce e teoricamente si deve concludere che essa diventerebbe quasi nulla a traffico enorme.

 

 

68. Come il prezzo del trasporto in caso di libera concorrenza tenda verso il limite del costo parziale. – Questa analisi è stata utile per poter procedere innanzi nella dimostrazione. Nel fatto, quella che ha importanza nella determinazione del traffico, in caso di libera concorrenza, non è la parte fissa nel complesso (cioè la parte di spesa decrescente per unità di traffico), ma è invece la parte variabile del costo (cioè la spesa costante per ogni unità di traffico).

 

 

Possiamo schematizzare le cose sin qui dette nella seguente maniera:

 

 

La spesa è

Nel complesso Per le unità successive
Costo totale { Spese generali Fissa Variabile decrescente
{ Spese d’esercizio Variabile Costante

 

 

Il quadro serve a mettere in chiaro qual è la natura delle due grandi categorie di spese che si verificano nell’impresa ferroviaria, e che del resto, più o meno e in proporzioni diverse, esistono in ogni impresa economica.

 

 

Da un lato vi sono le spese generali, le quali consistono nell’interesse e nell’ammortamento delle spese d’impianto, nei quadri fondamentali del personale, in una certa parte delle spese di riparazione, ecc. Queste spese nel complesso sono fisse, almeno entro grandi limiti di traffico, come fu spiegato sopra; ma decrescono per le successive unità di traffico, in quanto, rimanendo fissa la spesa totale, se si trasporta maggior quantità di merci o di viaggiatori, il costo unitario diminuisce.

 

 

Dall’altro lato vi sono le spese d’esercizio, dette anche spese vive, come il consumo del carbone, dei lubrificanti, del maggior personale che si rende necessario col crescere del traffico, del logorio più rapido delle vie e del materiale, delle spese di riparazione e manutenzione più forti. Queste spese sono variabili in complesso, perché crescono a mano a mano che il traffico aumenta; sono invece costanti per ogni successiva unità di traffico, perché ogni unità che si aggiunge al traffico aggiunge la medesima spesa unitaria al costo precedente.

 

 

Per chiarezza, d’ora innanzi chiameremo spese generali e spese d’esercizio le due parti del costo, secondo l’uso comune. Occorre notare ancora che le spese generali sono spese che l’amministrazione ferroviaria deve sopportare sia che vi sia grande, mediocre, piccolo o magari nessun traffico; perché il capitale è oramai speso; e se non lo si può rinumerare ogni anno, è altrettanta perdita o spesa che si deve sopportare. Il personale nei suoi quadri necessari occorre mantenerlo; un certo numero minimo di treni bisogna farlo correre. Invece le spese d’esercizio sono quelle che si fanno solo se il traffico c’è, e non si fanno quando il traffico manca. Se non c’è merce da trasportare, i treni merci stanno fermi e non si consuma carbone; la via non si logora per il passaggio che non avviene, non si assolda un personale aggiuntivo, ecc.

 

 

Fatte queste premesse, possiamo affermare che il limite cui tende il prezzo di trasporto nelle ferrovie, in regime di perfetta concorrenza e supposto che ci siano ferrovie tra di loro concorrenti, è la spesa di esercizio.

 

 

La dimostrazione è abbastanza evidente. L’Hadley, economista americano, ha dato la dimostrazione con un esempio molto semplice.

 

 

Supponiamo, egli dice, che vi sia una società ferroviaria la quale trasporti 100.000 tonnellate di merci a una data distanza, al prezzo di lire 10 per tonnellata; di queste lire 10, cinque lire siano la parte che va a compensare la spesa d’esercizio, che si fa quando c’è traffico ed altrimenti non si fa; e 5 lire corrispondano alle spese generali; che quindi si suppongono eguali a 500.000 lire (100.000 tonn. x 5 lire) in complesso.

 

 

Se le tonnellate da trasportare invece di 100.000 fossero state 200.000, la spesa viva di esercizio, essendo costante per ogni unità di traffico in più, sarebbe rimasta di lire 5 per ogni tonnellata; le 500.000 lire di spese generali invece, ripartendosi su 200.000 tonnellate, avrebbero ridotta la spesa a 2 lire e mezza per tonnellata.

 

 

Supponiamo ora che sopraggiunga, in caso di libera concorrenza, un’altra società; essa per attirare a sé il traffico, diminuirà, per esempio, la tariffa da L. 10 a L. 9. Ne viene che anche la prima è costretta a fare uno stesso ribasso, perché se non lo facesse perderebbe tutto il traffico e in tal caso avrebbe sempre da pagare la spesa fissa generale di 500.000 lire in complesso e di lire 5 per ogni tonnellata, pur non ricevendo nessun prodotto per mancanza di trasporti; perderebbe adunque 5 lire per ogni tonnellata e 500.000 lire in tutto. Invece ribassando la tariffa a 9 lire, essa conserverà il traffico, potendosi supporre che conservi tutto il traffico essa, senza dividerlo con la nuova concorrente perché, a parità di prezzo, gli uomini non mutano abitudini e seguiteranno a preferire l’antica strada, e perderà soltanto la differenza fra 10 lire che spende in tutto e 9 lire che incassa: cioè perderà 1 lira per tonnellata e 100.000 lire in tutto.

 

 

È sempre meglio perdere solo 100.000 lire invece di 500.000 lire; sebbene sia doloroso dovere scegliere tra due mali il minore. Ad ogni modo ad essa converrà proseguire nell’esercizio. Supponiamo che l’altra società, per spuntarla, riduca il prezzo ad 8 lire; anche in questo caso converrà alla prima società di continuare il lavoro riducendo anch’essa il prezzo ad 8 lire; essa perderà infatti la differenza tra lire 10 spesa complessiva ed 8 lire che essa percepisce; cioè 2 lire, perdita gravissima, di 200.000 lire in tutto, ma non grave come quella che la incoglierebbe abbandonando il traffico (che, come sappiamo, è delle 5 lire di spese generali e di 500.000 lire in tutto). Continuando in questo senso fino agli estremi, la società avrà l’interesse a ridurre la tariffa finché percepisca qualche frazione al disopra di 5 lire, per esempio lire 5,01 perché in questo caso perderà la differenza fra lire 10 di spese complessive e lire 5,01 di ricavo, ossia lire 4,99 ed in tutto lire 499 mila che, sia pure di poco, è una quantità minore di lire 5 per unità e di L. 500.000 in complesso che è la perdita che farebbe in caso di cessazione di traffico.

 

 

Alla perfine si adatterà anche a trasportare a lire 5; perché dovendo perdere ad ogni modo 500.000 lire, tanto fa perdere in un modo o nell’altro; e continuando nell’esercizio può conservare la speranza di miglior fortuna nell’avvenire. Ma al disotto di 5 lire non andrà perché allora perderebbe più delle 5 lire che dovrebbe rimettere in caso di cessazione di trasporti.

 

 

Infatti nel caso che la società concorrente ponesse una tariffa di lire 4,90, la prima società trasportando le merci anche essa a 4,90 perderebbe la differenza tra il costo totale di lire 10 ed il ricavo che è di lire 4,90, cioè lire 5,10 per unità di traffico e 510 mila lire in complesso; che è perdita maggiore di quella già conosciuta, di lire 500.000, che si avvererebbe in caso di cessazione di traffico. È dunque dimostrato che il limite inferiore a cui il prezzo di trasporto ferroviario può discendere è la spesa viva di esercizio.

 

 

Certo qualche volta, si procede anche oltre e la società trasporta a L. 4,90, 4, 3, 1 e magari zero; ciò accade però soltanto per brevissimo tempo, quando così facendo abbia speranza di poter distruggere la società concorrente in una lotta all’ultimo sangue. Negli Stati Uniti, paese classico di queste violentissime lotte, accadde che avendo una compagnia dichiarato che avrebbe trasportato gratis i viaggiatori fra New York e Chicago, l’altra annunciò che li avrebbe provveduti di pranzo e cena senza costo veruno. In un altro caso, avendo una compagnia dichiarato che avrebbe trasportato gratis sulle linee dell’avversario; il quale pagò così lo scotto ed ebbe le beffe. Ma senza andare sino a questi estremi, la rovina di una delle società è inevitabile, anche perché nell’intrapresa ferroviaria accade che sia assolutamente impossibile di trasformare notevole parte del capitale che è già stato impiegato nell’impianto fisso. In una intrapresa comune, quando gli affari vanno male si potrà essere sospendere l’esercizio e vendere il macchinario; esso potrà essere venduto per demolizione o passerà intatto ad altre industrie; così molte fabbriche d’automobili che si trovarono nel 1907 a Torino senza lavoro, cercarono di utilizzare il macchinario per altre industrie. Anche i locali, spesso, si possono adottare ad altri scopi, ed ecco che i capitali investiti dapprima in un modo possono essere utilizzati in un altro. Ma nell’intrapresa ferroviaria, come si potrebbe utilizzare il capitale già impiegato? la strada non può essere utilizzata; le gallerie restano inservibili. Soltanto i carri ferroviari e le locomotive possono essere venduti e le stazioni realizzate in qualche grande città come mercati coperti o aree fabbricabili. In caso di cessazione di esercizio quasi tutto dunque è perduto. Dato che il capitale è fisso, immobilizzato, è naturale che alla società convenga di lavorare in concorrenza fino a che ricava il costo vivo di esercizio.

 

 

69. Come nasca perciò il monopolio privato nelle ferrovie. – Ciò alla lunga conduce all’accordo; perché le due società comprendono agevolmente che non è comodo seguitare nell’industria, vendendo a tariffe che sono a mala pena eguali alle spese vive di esercizio e non al costo totale. Le due società adunque si accorderanno per fondersi in un’impresa sola, oppure, restando tecnicamente indipendenti, stabiliranno accordi commerciali per la ripartizione del traffico.

 

 

Così la libera concorrenza nell’intrapresa ferroviaria va fatalmente trasformandosi in monopolio, sia che invece di alcune società ne rimanga una sola, quella che è riuscita a battere le concorrenti; sia che tutte si siano accordate fra loro con modalità che possono variare.

 

 

Instaurato il monopolio, è ben difficile poterlo demolire. Messe d’accordo fra loro le società concorrenti, come potrà un nuovo capitalista avere il coraggio di iniziare la costruzione di una terza, di una quarta linea concorrente per portar via alle altre società riunite una parte del traffico? Il costo è enorme; già si prevede che il capitale impiegato non può dare nessunissima rinumerazione, perché dove c’è concorrenza la tariffa si riduce al costo vivo di esercizio; il capitalista quindi sa che la sorte sua è di non guadagnare; può sperare tutt’al più di farsi ammettere nel gruppo monopolistico, e quindi può indursi a costrurre la linea non per fare concorrenza, ma per minacciarla e indurre così gli altri concorrenti a comperarlo, forse ad un prezzo maggiore di ciò che la costruzione gli è costata. Ma è un calcolo molto aleatorio ed è ben più probabile che la compagnia già impiantata, per vincere il nuovo concorrente, riduca i prezzi anche al disotto del costo vivo di esercizio, avendo essa in mano la clientela già formata, con possibilità di resistere più a lungo; il concorrente così sarà presto ridotto al fallimento.

 

 

Aggiungasi altre considerazioni: il monopolio spessissimo esiste fin dagli inizi; essendovi talvolta infatti disposizioni legislative che proibiscono il sorgere della concorrenza. All’art. 265 della nostra legge 29 marzo 1865 sui lavori pubblici è detto: «Il concessionario di una ferrovia pubblica ha il privilegio esclusivo di qualsiasi altra concessione di ferrovie parimenti pubbliche che congiunga due punti della sua linea e le corra parallelamente, entro quei limiti di distanza che verranno determinati nell’atto di concessione».

 

 

Il legislatore ha voluto impedire perdite inutili di capitali che sarebbero andati dispersi nelle linee parallele concorrenti le quali alla fine si sarebbero fuse in un monopolio.

 

 

Quindi la concorrenza è inizialmente possibile solo in paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra dove lo Stato si è per molto tempo disinteressato della costruzione delle ferrovie, lasciando che si costruissero molte linee concorrenti parallele. Il risultato tuttavia della concorrenza non si è ottenuto perché la società rivali si sono riunite presto in estesi sistemi ferroviari che hanno il monopolio del trasporto in larghe zone di territorio.

 

 

70. Quale sia il criterio secondo cui si fissano i prezzi di monopolio. Come si debba intendere limitato il monopolio ferroviario. – Questa è, adunque, la fine delle intraprese ferroviarie: la costituzione del monopolio. Ed ecco che si ripresenta il problema che si è studiato prima per le intraprese in regime di libera concorrenza. Per queste intraprese si era detto: è inutile l’intervento dello Stato perché, quando esiste la concorrenza, il prezzo si riduce inevitabilmente al limite del costo. Ma noi abbiam visto che il prezzo si riduce anche al disotto del costo totale di produzione sino al limite del costo vivo di esercizio e continuando in questa diminuzione oltre misura, ha libera concorrenza lascia il posto al monopolio. Qual è il prezzo in questo caso? Quello che il monopolista ha interesse di stabilire.

 

 

In questo caso, che è il caso reale, c’è un dissidio tra l’interesse dell’esercente e l’interesse dell’utente. Dall’economia politica noi sappiamo che il monopolista è una persona che domina il mercato, producendo essa sola una determinata merce e può quindi stabilire quel prezzo che gli tornerà più conveniente. Nel caso delle ferrovie il monopolio non sarà assoluto, perché limitato da una certa concorrenza, sia pure esigua, di altri mezzi di trasporto che possono servire di freno alle tariffe eccessive. Posson fare concorrenza, ad esempio, le linee di navigazione, le quali trasportano merci, anche pesantissime, a un costo basso. In Germania per le numerosissime linee di navigazione fluviale, che dai porti del Nord portano, si può dire, fino alla Svizzera, tale concorrenza si verifica su vasta scala. In Italia invece v’è una sola grande arteria fluviale e anch’essa, d’altra parte, soltanto qualora fosse meglio regolata potrebbe permettere un ragguardevole traffico di navigazione anche per merci pesanti, cioè il Po: altre vie fluviali non esistono.

 

 

Esiste invece il calmiere del trasporto per mare. Invece di trasportare una derrata per terra, dal Sud al Nord d’Italia, sarà più conveniente, se le tariffe ferroviarie sono eccessive, imbarcarla su navi che dal mezzogiorno la porteranno a Genova o a Venezia. Per brevi distanze poi vi sono i trasporti mediante carri, i quali, nel nostro paese, esercitano un traffico ancora notevole, anche perché le tariffe ferroviarie per brevi distanze sono piuttosto elevate. Ad ogni modo si tratta pur sempre di freni di limitata importanza. In sostanza, per i trasporti a grande di stanza e che necessitano di una certa rapidità, la ferrovia impera sovrana.

 

 

71. Il prezzo che dà il massimo guadagno netto. Il caso del prezzo (o tariffa) unico. – Perciò, dato che vi sia il monopolio, quale prezzo avrà interesse a stabilire il monopolista? Evidentemente quello che gli dà il massimo guadagno netto; non quindi il prezzo più elevato, il quale distruggerebbe il traffico; non il più basso, perché gli annullerebbe il profitto ma quello intermedio tra i tanti possibili che gli darà il massimo profitto.

 

 

La cosa si può spiegare con una semplice diagramma (fig. 5) [4]. Possiamo portare sulla ordinata OP i prezzi (le tariffe) possibili a stabilirsi, dai più bassi ai più alti e sull’ascissa OQ le quantità di merci che vengono trasportate: si è già detto che la curva della domanda assume la forma (PQ) che è rappresentata nel diagramma. Si trasporta una quantità grandissima OQ, quando la tariffa sia bassissima; se invece la tariffa è altissima, per esempio OP, la quantità trasportata sarà zero. Quanto più il prezzo decresce, tanto più aumenta la quantità trasportata. Ottenuta la curva della domanda col metodo già spiegato, supponiamo ora che per il monopolista ci sia un costo dei trasporti; sia questo Oa, comprendendo in Oa tanto il costo parziale quanto il totale. Se fossimo in condizioni di libera concorrenza, il prezzo che verrebbe stabilito in un primo momento, innanzi che la lotta accanita abbia già cominciato a distruggere la concorrenza medesima, sarebbe Oa, eguale al costo di produzione, la quantità trasportata sarebbe Oa1 ed il rettangolo OaAa1 sarebbe il prodotto totale ottenuto.

 

 

Evidentemente il monopolista non ha interesse a fissare soltanto il prezzo Oa perché in tal caso egli non guadagnerebbe nulla e avrebbe solamente il rimborso della spesa e degli interessi correnti sul capitale investito.

 

 

Così pure non ha interesse a fissare il prezzo OP perché annientando il traffico perderebbe ogni guadagno; quindi il monopolista ha interesse a fissare un prezzo intermedio fra Oa e OP. Il problema consiste cioè nello stabilire quel prezzo Ob1 dato il quale la superficie abBb2 che rappresenta il suo guadagno, assuma proporzioni massime. Geometricamente si tratterebbe del problema di iscrivere il rettangolo AbBb2 di superficie massima nel triangolo PaA. In questo caso il monopolista trasporta la quantità Ob1, il prodotto lordo è uguale a ObBb1, il prodotto netto è eguale alla superficie tratteggiata compresa in abBB2 che rappresenta il massimo guadagno possibile per il monopolista. Tutta l’abilità sua starà appunto nel cercare, per via di esperienze successive, tra Oa eOP la tariffa che gli arrecherà tale guadagno massimo.

 

 

72. Come il prezzo unico in caso di monopolio non convenga né ad utente né ad esercente. – Ora vediamo quali siano le conseguenze di questo unico prezzo Ob che verrebbe a stabilirsi nel monopolio. Dirò subito che esso è un prezzo tale che non conviene né ai consumatori, né al monopolista medesimo.

 

 

Che sia dannoso agli utenti è manifesto perché essi pagano più di Oa1, costo del trasporto. Ma non convien nemmeno all’esercente. Infatti, mentre questi desidererebbe di assorbire tutti i guadagni possibili a trarsi dall’industria del trasporto, riesce invece ad assorbirne soltanto una parte indicata nella fig. 6[5] dalla superficie tratteggiata.

 

 

Il guadagno totale dato dal trasporto, da che cosa è invero determinato? Dal vantaggio massimo che avrebbero gli utenti nel fare i trasporti meno il costo di produzione dei trasporti stessi.

 

 

Per esempio: nel caso del trasporto di una piccolissima quantità di merce, molto fine o pregiata, l’utente sarebbe persino, ove non potesse farne a meno, disposto a pagare il prezzo OP meno una quantità infinitesimale. Allora, poiché il costo del trasporto è solo di Oa, poiché l’utile lordo è assai più elevato e quasi uguale ad OP, l’utile netto totale del trasporto è dato da quasi tutta intera la lunghezza aP. Per una quantità ulteriore che venga ad aggiungersi, l’utile del trasporto sarà un poco più basso; così per un prezzo Oc, la spesa del trasporto sarebbe c1 d (leggendo i prezzi sulla ordinata dal punto c1) e si avrebbe un guadagno netto di dC.

 

 

Quindi risulta evidente che l’esercente monopolista non ha convenienza ad effettuare i trasporti al prezzo unico Ob, perché egli assorbe bensì una parte del guadagno del trasporto, ma non tutto. Così la prima dose di merce trasportata, egli potrebbe mettere una tariffa altissima quasi uguale ad OP e lucrare aP; invece mettendo solo la tariffa Ob, lucra solo ab abbandonando all’utente bP. Per la seconda dose egli potrebbe mettere la tariffa c1 C e lucrare dC; invece mettendo solo c1d1 = Ob, lucra solo dd1 = a b perdendo d1 C = b c, che lascia al consumatore.

 

 

73. Il prezzo unico non conviene nemmeno alla società nel suo complesso. – Il prezzo Ob non conviene neanche alla collettività nel complesso. Infatti, per essa l’utile massimo sarebbe quello che si ha vendendo i trasporti al costo di produzione Oa; perché in tal caso si ottiene appunto il guadagno massimo rappresentato dal triangolo PaA. Ora questa superficie triangolare di massimo guadagno non è raggiunta nel caso del prezzo unico di monopolio nemmeno se sommiamo l’utile dell’esercente con quello degli utenti. Il guadagno dell’esercente è, infatti, il rettangolo tratteggiato abBb2 e quello degli utenti è invece il triangolo PbB. Va dunque perduto il triangolo Bb2A. In che cosa consiste questo triangolo? Nel vantaggio che avrebbero gli utenti se fosse possibile di poter trasportare certe merci ad un prezzo inferiore ad Ob e superiore ad Oa; per ipotesi Os. Infatti, essendo il prezzo Os, si trasporterà una quantità ulteriore di merce b1 s1 e in tal caso i consumatori avrebbero anche una nuova porzione di utile (eguale al triangolo Bb2 1 S) potendo usufruire di un prezzo Os, mentre alcuni di essi sarebbero disposti a pagare anche prezzi variabili tra Os e Ob. Se potessero poi usufruire di un prezzo Oe anche inferiore, avrebbero un utile rappresentato dal triangolo Ss2 E.

 

 

74. – Il monopolista preferisce i prezzi molteplici. – Che cosa avviene allora, sempre supponendo che ci troviamo in regime di monopolio? Avviene che l’esercente della ferrovia fa questo ragionamento: perché devo io perdere tutto l’utile dei trasporti, che potrei ricavare trasportando ad un prezzo diverso da Ob e superiore a Oa? Certo per qualcuno dei trasporti io potrei attuare un prezzo inferiore ad Ob; e potrei trasportare certe merci che non trasporterei se mi ostinassi a vendere alla sola tariffa Ob.

 

 

Il monopolista può ragionare così, perché appunto in quanto è monopolista può violare la legge dell’indifferenza dei prezzi, per cui sullo stesso mercato, nello stesso momento, una stessa merce, o uno stesso servizio, non possono essere venduti a prezzi diversi. Egli adunque cercherà di vendere lo stesso servizio a prezzi diversi a seconda degli utenti, in modo da ottenere per ciascuna specie di merce trasportata il massimo guadagno.

 

 

Supponiamo (fig. 7)[6] (*) che sia sempre Oa il prezzo uguale al costo totale di produzione; al disopra di questo Oa (ché al disotto non converrà mai di andare per l’esercente né vi sarà costretto da una concorrenza che non esiste) il monopolista stabilisce tanti prezzi quante sono le specie delle merci da trasportarsi; per esempio, per la seta impone una tariffa molto alta Oe, essendo essa una merce molto ricca e di cui si trasporterà una data quantità Oo1, pur essendo il prezzo del trasporto molto elevato. Il rettangolo allungato OrRo1 è il risultato lordo che l’esercente ottiene rappresentato in superficie, si cui oaa1o1 rappresenta il costo e a r R a1 il guadagno. V’è poi un’altra merce, supponiamo il cotone, che non è più ricca come la prima, ma tuttavia può sopportare ancora una tariffa di trasporto abbastanza elevata, per esempio il prezzo Os; a tal prezzo verrà trasportata la quantità o1 o2. Il prodotto lordo sarà naturalmente dato dalla moltiplicazione del prezzo Os per la quantità trasportata o1 o2 e sarà cioè o1 o2 SN. Il profitto netto che si ottiene è sempre abbastanza elevato: poiché, essendo il costo rappresentato da o1 a1 a2 o2, il profitto netto è dato da a1 N S a2.

 

 

Supponiamo che la terza merce sia composta di agrumi, che possono sopportare un costo abbastanza elevato, ma inferiore alle altre due merci: per questa terza merce il monopolista potrà fissare la tariffa Om. La quantità trasportata sarà di o2 o3 e il prodotto lordo sarà rappresentato dal rettangolo o2 o3 M K e il profitto netto sarà sempre abbastanza elevato, dato dalla differenza fra il prodotto lordo o2 o3 M K ed il costo o2 o3 a3 a2 e cioè da a2 a3 M K.

 

 

Noi vediamo così che con tanti prezzi successivi il monopolista è venuto ad assorbire gran parte della superficie del triangolo P a A, salvo la serie dei piccoli triangoli, in bianco, che verrebbero anche essi assorbiti se fosse possibile fare non solo i prezzi Or-Os-Om-Oa, ma anche tutta una serie di prezzi intermedi assai più frazionati. In pratica non è possibile, per le tariffe, questo frazionamento estremo in guisa da stabilire per ogni merce particolare un prezzo che assorbisca tutto l’utile che può venire dal trasporto. Un monopolista tuttavia riuscirà a ciò abbastanza bene per mezzo di esperienze successive e in tal modo non resterà ai consumatori null’altro che l’utile rappresentato dai piccoli triangoletti ridotti alla minima superficie possibile.

 

 

75. Come coi prezzi molteplici l’utile sociale sia massimizzato; ma tutto l’utile sia attribuito all’esercente. – Dal punto di vista sociale c’è un vantaggio in questo sistema, inquantoché non si perde nulla dell’utile che si sarebbe potuto ottenere per mezzo dei trasporti, perché ad ogni singolo trasporto vien caricato quel determinato prezzo massimo che la merce può sopportare, cioè si fa pagare ai consumatori tutto quanto è possibile. Se non che, se questo è un vantaggio per la collettività (ossia per la somma degli utenti più l’esercente), è però in pari tempo un risultato poco piacevole per gli utenti, in quanto l’imprenditore con questo sistema, che dicesi delle tariffe molteplici, dopo aver massimizzato l’utile per la società intera, lo assorbe tutto egli stesso.

 

 

76. Necessità dell’intervento dello Stato. – Concludendo, l’esercente, in caso di monopolio, ha interesse a stabilire una tariffa molteplice così frazionata da assorbire a proprio favore tutto il vantaggio del trasporto.

 

 

Ma appunto questa massima convenienza riguardo all’esercente fa nascere la necessità dell’intervento dello Stato. Lo Stato interviene cioè per far siche l’esercente non assorba egli tutto l’utile derivante dalle tariffe molteplici.

 

 

Lo Stato però, intervenendo, ha interesse a conservare il sistema, già stabilito dal monopolista, delle tariffe molteplici. Infatti, se lo Stato stabilisse una tariffa unica, ricadremmo nel caso di prima, in cui andava perduta una parte di trasporti possibili ad effettuarsi e quindi era pure perduta una parte dell’utile e per l’esercente e per gli utenti. Il sistema delle tariffe molteplici si deve adunque mantenere, colla differenza che lo Stato deve fare in modo che l’utile dell’esercente sia ridotto al minimo e portato al massimo quello degli utenti.

 

 

77. Come lo Stato debba adottare le tariffe molteplici. – Lo Stato non può certo andare al disotto del prezzo che rappresenta le spese vive di esercizio; perché se ribassasse le tariffe al disotto di questo livello ci sarebbe una perdita sociale. Ma al di là di questo conto vivo lo Stato deve inoltre ottenere il rimborso delle spese generali che, per esempio, possano fissarsi sui 200 milioni: questi 200 milioni lo Stato li può distribuire come crede; può cioè (gli è conveniente farlo) imporne il pagamento, non a tutte, ma solo ad alcune delle merci. Così per le merci povere che non potrebbero effettuare il trasporto ad una certa distanza se fosse loro imposto di pagare più delle spese vive di esercizio (che possiamo supporre nella figura 8 eguali a Oa, ossia, per esempio, a 10 lire ogni tonnellata) lo Stato non oltrepasserà la tariffa minima O a (di 10 lire per tonn.)[7].

 

 

Mentre cioè nei ragionamenti e nei diagrammi precedenti si supponeva che O a fosse uguale al costo totale, e tutta la superficie tratteggiata al disopra della linea a A rappresentava un profitto netto di monopolio, qui si suppone che O a sia uguale solo al costo di esercizio. Perciò lo Stato, che non vuole realizzare nessun profitto, dovrà solo stabilire i prezzi in maniera che la superficie tratteggiata, al disopra della linea a A e rappresentante il di lui incasso oltre il rimborso da lui sopportate.

 

 

E cioè la superficie O a A o9 rappresenti il costo vivo di esercizio e sia la superficie, pure tratteggiata, o f f1 e1 e2 d1 d2 e1 e3 b1 b2 a1 A o9 quella che deve rappresentare le spese generali. Come si ottiene tale superficie? La regola generale è questa: far pagare ad ogni trasporto un po’ meno di quel che potrebbe pagare e che farebbe sicuramente pagare un monopolista privato.

 

 

Sia una prima quantità di trasporti O o2 che potrebbe pagare tutto il prezzo O f. Lo Stato fa pagare questo prezzo soltanto ad una frazione di essa quantità e precisamente ad O o1 mentre alla residua frazione o1 o2 fa pagare il prezzo minore O e. È evidente che l’utente gode per i trasporti o1 o2 del vantaggio rappresentato del rettangolo e1 f1 F e2 che in regime di monopolio privato sarebbe confiscato dall’utente.

 

 

Così pure sulla successiva quantità di trasporti o2 o4 sarebbe possibile far pagare il prezzo O e. Viceversa lo Stato ad una prima frazione di essa quantità o2 o3 fa pagare il prezzo O d, ed ad una seconda frazione o3 o4 fa pagare il prezzo O c; cosicché l’utente ottiene il vantaggio rappresentato dalla superficie e2 E c2 c1 d2 d1, che altrimenti sarebbe andato a beneficio dell’esercente.

 

 

In tal modo colla applicazione dei prezzi O f, O e, O d, O c ed O b, quasi sempre inferiori a quelli che si sarebbero potuto mettere in regime di monopolio privato, lo Stato si è già assicurata la superficie tratteggiata a f f1 c1 e2 d1 d2 c1 c3 b1 b2 a1 sufficiente a compensare le spese generali; cosicché per le successive quantità di trasporto o6 o7 ed o8 su cui avrebbe potuto imporre i prezzi O c ed O b si contenta di mettere il prezzo O a uguale al puro rimborso delle spese d’esercizio; e così arreca agli utenti vantaggi nel trasporto rappresentati dalle superfici a1 c4 C a2 ed a2 b3 B a3 che gli utenti avrebbero dovuto abbandonare all’esercente; più consente il trasporto di un ultima quantità o8 o9 che non si sarebbe mai potuta trasportare ad un prezzo superiore al prezzo di costo vivo O a, cosicché gli utenti lucrano ancora il vantaggio a3 B A che sarebbe altrimenti andato perduto per tutti.

 

 

Concludendo lo Stato continua ad applicare, come il privato monopolista, la regola dei prezzi molteplici; ma mentre costui l’applicava nell’intento di ottenere per sé il massimo di profitto e, potendo, avrebbe differenziato la tariffa così minutamente da assorbire tutto il vantaggio del trasporto per le singole merci; lo Stato invece mira ad un diverso risultato. La sua differenziazione nelle tariffe ha solo per iscopo di coprire i costi, costo d’esercizio e costo generale; cosicché evidentemente le sue tariffe si devono tenere ad un piano più basso di quelle del monopolista privato.

 

 

Mentre l’esercente privato fa pagare ad ogni merce la somma medesima che essa può sopportare, lo Stato divide pure le merci in tante categorie, ma, classificando ogni merce in una categoria di una classe o più inferiore a quella in cui il monopolista privato l’avrebbe messa, rende possibile all’utente di godere di un vantaggio nel trasporto, che il vettore privato avrebbe confiscato a suo beneficio.

 

 

Nell’applicare questa regola lo Stato può seguire norme diverse. Cercherà, ad esempio, di far pagare la tariffa più elevata non solo a quelle merci che sono in grado di pagarla per le loro intrinseche qualità, ma anche per quelle che hanno già trovato il proprio mercato; vi sono merci che per il loro valore possono pagare O b e sono affettivamente assoggettate a questo prezzo, per aver già trovato il proprio mercato; altre invece che se teoricamente posson esser ritenute passibili di un prezzo O b, sono ancora ai loro inizi riguardo alla conquista del mercato, e a queste lo Stato farà pagare non il prezzo Ob ma il prezzo Oa che sarà detto in tal caso tariffa ferro viaria di esportazione o di penetrazione; tariffa quindi che comprende puramente la spesa viva di esercizio.

 

 

Un’altra norma sarà quella di far pagare a una merce una tariffa minore, nel caso che si pensi che quella merce sarebbe venduta con profitto in un determinato mercato che si voglia favorire. Così, se si vogliono favorire le spedizioni di derrate alimentari nei grandi centri per ovviare al rincaro dei viveri, mentre quelle merci teoricamente andrebbero tutte poste nelle categorie della tariffa Oc ed Ob, lo Stato sceglie in quella categoria alcune merci che vengono particolarmente richieste nei centri grossi dai consumatori, e le sottopone solamente a un prezzo Oa.

 

 

Lo stesso sistema si può scegliere nelle tariffe pei viaggiatori anche senza parlare della distinzione in prime, seconde e terze classi, che solo in parte corrispondono alle maggiori comodità ed a maggior costo del viaggio, mentre in parte notevole sono un mezzo per distribuire le spese generali più su quelli che possono e meno su quelli che non possono tanto pagare, vi sono le tariffe speciali per comitive di pellegrini, gitanti, emigranti, per impiegati, ecc. ecc.

 

 

Economicamente queste tariffe si giustificano pensando che, se anche rimborsano solo il costo vivo di esercizio, le spese pure del treno, lo Stato non ci rimette perché quelli sono viaggi che si fanno al prezzo Oa, uguale al rimborso delle spese vive, ed altrimenti non si farebbero. La gente preferirebbe di starsene in casa, se dovesse pagare dei prezzi Ob, Oc, ecc.; onde lo Stato, che non vuole fare guadagni di monopolio, si decide ad effettuare questi trasporti.

 

 

Nel complesso lo Stato non perde perché il suo intento è soltanto di ottenere una somma uguale alle spese totali di esercizio, che può distribuire nel modo da esso ritenuto più opportuno.

 

 

78. Dei pretesi vantaggi del prezzo unico o tariffa naturale. – Può non essere inutile di riaffermare come conclusione essere erronea perciò la teoria di coloro i quali si fanno paladini del prezzo unico o della classe unica. Secondo costoro l’elemento che si deve considerare è il costo dei trasporti in funzione del peso, del volume e della distanza; nulla dovrebbe importare, a prima vista, la qualità della merce o la ricchezza del viaggiatore. Quindi lo Stato dovrebbe applicare un’unica tariffa che alcuni hanno chiamato naturale cioè stabilita in base agli elementi suddetti. Ma questa tariffa naturale che fu anche applicata in certi paesi, come nell’Alsazia-Lorena, ha dato pessimi risultati; infatti, se in questo modo si veniva a far opera di giustizia (se di giustizia si può parlare in questi casi) facendo pagare alle merci il costo del loro trasporto, il risultato era che si faceva pagare Ob a delle merci che avrebbero potuto sopportare tranquillamente il prezzo Od, e che perciò venivano ad avere un utile eguale alla differenza tra Od e Ob, cioè bd. Inoltre a questo guadagno di taluni corrisponde il danno di altri: infatti tutte quelle merci il cui vantaggio di trasporto è inferiore alla tariffa Ob non vengono trasportate e precisamente non vengono trasportate (fig. 8)[8] la quantità o8 o9. Quindi, da una parte, favori ingiusti a merci che non ne abbisognano; d’altro canto rigore di tariffe contro merci che non vengon più trasportate, mentre potrebbero esserlo: ed è il caso spesso delle derrate alimentari, dei combustibili e dei materiali da costruzione. È quindi conveniente per lo Stato seguire il metodo delle tariffe molteplici adottato dal monopolista privato, piegandolo alle esigenze dell’interesse pubblico.

 

 

79. Lo Stato può però stabilire dei prezzi molteplici pubblici anche delegando l’ingerenza ad un privato. – Ma ammesso questo principio, sarà indispensabile un esercizio diretto da parte dello Stato?

 

 

Questo è il secondo problema che si deve sempre esaminare parlando delle pubbliche intraprese quando già sia dimostrata la necessità di un intervento dello Stato.

 

 

Non c’è nulla di teoricamente assurdo nel pensare che sia possibile per lo Stato la delegazione dell’intrapresa ad una società privata, per mezzo di un capitolato che fissi le tariffe a seconda della merce. La società cioè deve essere vincolata allo Stato da una serie di patti di cui i più importanti sono appunto quelli riferentesi alle tariffe ed alla classificazione delle merci nelle varie categorie di quelle. Se il periodo di concessione non è più lungo di dieci o quindici anni, è possibile portare tariffe economicamente convenienti per quel periodo di tempo e fare una classificazione delle merci in guisa che l’esercente privato, anche volendo, non riesca ad ottenere un utile superiore a quello che otterrebbe lo Stato.

 

 

Il principalissimo vantaggio dell’intervento dello Stato è quello in sostanza, di fissare i prezzi pubblici. E questo intento lo si può ottenere anche mediante delegazione ad impresa privata concessionaria. Privata, si disse, ma meglio si direbbe semi-pubblica perché l’impresa concessionaria non è più veramente privata, ossia libera assolutamente delle sue azioni; ma è semi-pubblica, ossia vincolata obblighi di tariffe massime, di viaggi, ecc. ecc. Certo nella concessione di un’intrapresa ad una società privata sono possibili degli errori: è possibile classificare certe merci in categorie superiori quelle sufficienti a conceder così all’esercente un vantaggio maggio di quello che sarebbe stato opportuno quale rinumerazione sul capitano impiegato; ma ciò d’altra parte è possibile accada anche in un esercizio diretto.

 

 

80. Come gli errori siano meno pericolosi nel sistema della delegazione ad un’intrapresa privata che nell’esercizio diretto. – Anzi in questo caso i danni essere più irreparabili; infatti se si concede l’impresa ad una società con un canone fisso, e classificazione è stata, per ipotesi, sbagliata, di guisa che l’esercente non ottenga soltanto la somma che deve pagare come canone allo Stato; ma un utile maggiore, i conti metteranno questo fatto in luce e in base a ciò, alla scadenza del contratto, si muterà la classificazione delle merci e si correggerà l’errore. Inoltre, si potrebbe usare il sistema stabilito per gli istituti di emissione, cioè, quando la società ottenga un provento netto superiore ad un limite prestabilito, ad venire ad una ripartizione del maggior utile fra lo Stato e l’esercente.

 

 

Con questo sistema resta evitata la possibilità che gli sbagli siano irrimediabili, perché, automaticamente, parte dell’utile, che avrebbero avuto in misura eccessiva le intraprese delegate, passa nelle casse dello Stato.

 

 

Se invece lo Stato esercente diretto applica una tariffa errata e ottiene un margine nel bilancio, si hanno i fenomeni pericolosissimi, che già si sono decritti; nasceranno agitazioni da parte del personale ferroviario per impadronirsene, degli utenti per ottenere ribassi immediati di tariffe, con grave danno per la stabilità del bilancio stesso nel caso che il maggior utile fosse dovuto a circostanze transitorie.

 

 

Nell’economia dell’esercizio diretto delle ferrovie, può anche darsi che lo Stato stabilisca tariffe che non gli danno modo di coprire l’interesse e l’ammortamento dei capitali impiegati. L’Italia si trova appunto in una situazione consimile, perché lo Stato ritrae dalle ferrovie un utile che può essere generosamente calcolato complessivamente in 80 o 90 milioni annui, mentre, per poter pagare l’interesse o l’ammortamento del capitale investito, dovrebbe ricavarne non 80, ma 200-250; perde perciò 100-150 milioni di lire all’anno. Questi 100-150 milioni, che lo Stato deve pur pagare ai suoi creditori, li ricava ponendo nuove imposte sui contribuenti.

 

 

Perde 100-150 milioni nella categoria dei prezzi pubblici ferroviari e li ricava in un’altra categoria di entrate: quella delle imposte.

 

 

Il problema perciò, può esser formulato in questa guisa: è conveniente che lo Stato imponga i 100-150 milioni di differenza sotto forma di imposte sui contribuenti? Il problema si risolverà soltanto dopo un confronto fra l’utile degli utenti che dovrebbero pagare quei 100-150 milioni addizionali e quello dei contribuenti che sono costretti a far fronte alla perdita mercé imposte.

 

 

Si può facilmente immaginare che, se gli utenti delle ferrovie fossero costretti a pagare una nuova tariffa più elevata, per esempio, 10 lire invece di 8, una parte di essi non avrebbe più interesse a effettuare i trasporti. Per alcuni, che trasportavano le merci per cui il vantaggio del trasporto era di 10 lire o più, vi sarà ancora convenienza a trasportare.

 

 

Ma per gli altri, per cui il vantaggio del trasporto è minore di 10, il costo del trasporto (tariffa = 10) sarebbe superiore al vantaggio; quindi questi utenti cesserebbero di fare dei trasporti. Ciò potrebbe accadere sopratutto in Italia, paese ferroviariamente mal congegnato, perché di forma allungatissima, onde i trasporti devono essere effettuati su grandi distanze dal nord al sud e viceversa; al contrario invece della Francia che è molto più adatta al servizio ferroviario, essendo minori le distanze dai punti periferici al centro. A questo si aggiunga altra grave difficoltà del servizio ferroviario italiano, di dover superare forti e frequentissimi dislivelli che portano a spese maggiori sia fisse che mobili. Quindi, se lo Stato volesse sopperire a tutte le spese necessarie al servizio ferroviario col provento del servizio stesso, si troverebbe di fronte a molte e gravi difficoltà. Esso perciò considera quei 100-150 milioni come il prezzo che bisogna pagare per il costo eccezionale di esercizio e costruzione delle sue ferrovie, tenendo anche conto delle spese maggiori per il carbone che è necessario importare. Questa è una condizione disgraziata in cui si trova l’Italia rispetto al servizio ferroviario e che deve essere sopportata da tutti i cittadini, senza distinzione. L’importante è di vedere chi siano i contribuenti che debbono farne le spese; se si tratta di persone in grado da poter sopportare tali aggravi, allora il ragionamento può correre, ma se invece i contribuenti, sono già poverissimi e si vedono imporre, per le suddette ragioni, il dazio sul grano, dovremo dire che sarebbe stato opportuno scegliere un altro sistema per ottenere i 100-150 milioni, pur facendoli pagare ai contribuenti. Questi aggravi infatti vanno senza dubbio a colpire persone che delle ferrovie si giovano mediocremente.

 

 

Quindi noi dobbiamo riconoscere che forse i 100-150 milioni di perdita ferroviaria od una parte, non agevolmente misurabile, di essi correttamente vanno accollati ai contribuenti, perché rappresentano il corrispettivo dei vantaggi di unificazione nazionale, di risorgimento delle ragioni povere, di cultura, di difesa e mobilitazione militare che si vollero raggiungere da tutti mediante le ferrovie ed è perciò corretto che siano fatti pagare a tutti i contribuenti e non ai soli utenti, ai quali va accollato il costo economico normale (spese generali più spese d’esercizio) della ferrovia e non il costo ultra normale politico, militare, tellurico, ecc. ecc.

 

 

Ma riconosciuto ciò, due problemi rimangono insoluti:

 

 

  • 1) Quale sia il modo migliore di ripartire i 100-150 milioni di perdita sui contribuenti. Problema a cui si accennò sopra e che evidentemente va risoluto nella stessa maniera con cui si risolvono tutti i problemi di ripartizione delle spese indivisibili mediante imposte
  • 2.) se veramente i 100-150 milioni di perdita siano un costo politico da accollarsi ai contribuenti, per le ragioni suesposte, od in parte almeno, la conseguenza di errori commessi nell’impianto o nella gestione delle ferrovie. Spese eccessive di costruzione, costi di esercizio troppo alti per personale esuberante o riottoso alla disciplina per la consapevolezza che lo Stato è scarsamente capace di opporsi ai desideri degli agenti-elettori. Il qual dubbio non muta la conclusione alla quale si è ora venuti doversi cioè i 100-150 milioni di perdite accollare ai contribuenti. Se si trattasse di una società privata che avesse commesso spropositi e che producesse trasporti perciò a costi elevati, non perciò essa potrebbe elevare le tariffe a danno dei consumatori; perché questi fanno trasporti non per sopperire ai falsi costi degli esercenti, ma per ottenere il vantaggio proprio. Onde la perdita dovrebbe essere subita dagli azionisti. Nel caso delle ferrovie di Stato e delle altre imprese pubbliche gli azionisti sono i contribuenti. È la collettività dei contribuenti, e non gli utenti, che sono una categoria di persone differentemente composta, quella che deve sopportare le perdite dell’impresa pubblica. Dia colpa a sé stessa, se non seppe porvi riparo.

 

 

Ma forse non è fuor di luogo osservare che un diverso metodo di delegazione dell’impresa a compagnie concessionarie prima e il perfezionamento perseverante dal metodo scelto, se buono, avrebbero impedito molti errori ed evitato una parte di quelle perdite a cui i contribuenti forzatamente devono oggi sottostare.

 

 

Sezione Quinta.

Le specie delle tariffe.

 

81. – Abbiamo ora veduto quale sia la regola fondamentale cui devono ispirarsi i prezzi pubblici: essere congegnati dal monopolista Stato in guisa da ottenere in complesso nulla più e nulla meno del rimborso del costo totale (spesa generale e spesa di esercizio) dell’impresa, distribuendo questo costo complessivo sulle diverse unità di servizio venduto a seconda della capacità delle diverse specie di servizio di sopportarne il peso. Ciò si è dimostrato per il prezzo pubblico detto tariffa ferroviaria; ma vale anche per le altre specie di imprese pubbliche.

 

 

Difficilmente, anzi mai, la differenziazione del prezzo potrà spingersi sino ai limiti a cui arriva nelle ferrovie; e ciò per la maggior semplicità delle altre imprese, che impediscono le minute distinzioni di prezzi. Nelle tramvie si distinguerà fra prezzi dalle prime ore del mattino e prezzi delle altre ore; nella luce elettrica si potranno consentire prezzi diversi a seconda della quantità del consumo, o dell’uso domestico, o per scale, o per negozi, o per stabilimenti industriali, o per illuminazione pubblica, o dell’uso di giorno, nelle prime ore della sera e a notte inoltrata, ecc. ecc. Per l’acqua potabile si potranno stabilire prezzi diversi a seconda del valor locativo degli appuntamenti serviti. Dappertutto il criterio sarà lo stesso: rendere massimo il consumo, compatibilmente con la necessità di far fronte a tutto il costo.

 

 

Fatto questo studio, un altro ci attende: quello dei modi concreti di attuare il concetto generale, ossia di formare le tariffe dei prezzi. Anche qui ci varremo sopratutto dell’esperienza ferroviaria, che è la più ricca di insegnamenti.

 

 

82. La tariffa a base fissa. – La maniera più semplice è la tariffa a base fissa, intendendo per base il prezzo unitario che è fatto pagare per ogni unità di trasporto, la quale si può anche chiamare unità di traffico: viaggiatore-chilometro e tonnellata-chilometro. Il sistema a base fissa è il più semplice: il prezzo del trasporto è direttamente proporzionale alla distanza, ossia esso viene ad essere aumentato sempre della medesima somma coll’aumentare del numero dei viaggiatori-chilometro e delle tonnellate-chilometro. Se, per esempio, si fissa la base di tariffa in 5 centesimi per chilometro si avrà la base fissa quando il viaggiatore pagherà 5 centesimi per un chilometro, 50 centesimi per 10 chilometri e 50 lire per 1000 chilometri.

 

 

Spesso però si comincia a stabilire per la tariffa in un punto fisso che rimane immutato qualunque sia il numero dei chilometri percorsi. Per esempio un biglietto per viaggiatore non viene venduto a meno di 50 centesimi per quanto breve sia la distanza; il che si capisce, perché vi sono certe spese fisse qualunque sia la distanza percorsa, come quelle del biglietto, del bigliettaio, del controllo, ecc. A questa prima base si aggiunge poi una parte fissa crescendo regolarmente di 5 in 5 centesimi per unità di trasporto. Cosicché percorrendo 1 chilometro, ove sia possibile, si pagherà 0,50 + 0,05 = 0,55; percorrendone 10 si pagherà 0,50 + (0,05 x 10) = 1 lira; percorrendone 100 si pagherà 0,50 + (0,05 x 100) = L. 5,50. Al prezzo risultante dalla moltiplicazione della base per il numero dei chilometri si aggiungono sempre i 50 centesimi. La tariffa a base fissa, applicata quasi esclusivamente in Italia fino al passaggio delle ferrovie allo Stato dà luogo a critiche che sono fondate, così da consigliare l’applicazione di sistemi diversi da questo primo e più semplice.

 

 

83. Critica della tariffa a base fissa. – Tali sono i sistemi di tariffa a base variabile, la quale può essere in senso crescente o in senso decrescente. Il sistema più importante è quello a base decrescente: di quello a base crescente, che ha una applicazione più ristretta, parleremo più tardi.

 

 

Il sistema di tariffe a base decrescente si fonda, appunto, sulla critica del sistema di tariffe a base fissa.

 

 

84. Le tariffe hanno per massimo il vantaggio del trasporto e per minimo il costo parziale del trasporto. – La critica muove da alcune considerazioni relative al vantaggio del trasporto e al costo del trasporto. Le tariffe devono essere in funzione dell’uno e dell’altro elemento. La tariffa, è evidente, non può essere superiore al vantaggio del trasporto per l’utente; se il trasporto dà un vantaggio di 5 lire all’utente, la tariffa non può essere di 6 lire, perché altrimenti nessuno trasporterebbe: il vantaggio del trasporto è quindi il limite massimo della tariffa. Il limite minimo, d’altra parte, è rappresentato dal costo del trasporto e lo si è già dimostrato: infatti se fosse inferiore ad esso costo, ci sarebbe una perdita per la nazione complessivamente considerata.

 

 

85. Il vantaggio del trasporto per tonn.-Km. o viaggiatore-Km è decrescente col crescere della lunghezza del trasporto. Quindi decrescente deve essere la base della tariffa. – Il vantaggio del trasporto nasce da una quantità di coefficienti diversi: rispetto alle merci, nasce dalla differenza di prezzo che una merce ha nel luogo di produzione e nel luogo di consumo.

 

 

In Sicilia gli agrumi hanno un determinato lavoro di 10 cent. il Kg., mentre nell’Alta Italia invece hanno un valore di 20 cent.? Conviene alloro spedire agrumi dalla Sicilia nell’Alta Italia finché il costo del trasporto sia un po’ inferiore a 10 centesimi il Kg. e tanto più converrà quanto più il costo del trasporto sia sotto a questa cifra che è supposta uguale al vantaggio del trasporto. In caso contrario il trasporto non si effettuerà più.

 

 

Questo ragionamento, a dir vero, non è completamente esatto, come, in genere, non sono mai esatti questi giudizi in materia economica che procedono con soverchio semplicissimo; infatti il costo del trasporto reagisce sulla differenza del prezzo della merce nel luogo di produzione e in quel consumo. Se la tariffa di trasporto fosse solo di 5 centesimi ed il vantaggio del trasporto degli agrumi tra la Sicilia e Torino fosse di 10 centesimi al Kg. (differenza tra i due prezzi di partenza e di arrivo), subito ci sarebbe convenienza ad organizzare in grande il trasporto degli agrumi. Speculatori si recherebbero in Sicilia ed effettuerebbero i trasporti della merce facendo aumentare i prezzi a Palermo per la gran richiesta e diminuire i prezzi a Torino per la cresciuta offerta, fino a che la differenza del prezzo tra Torino e la Sicilia non fosse superiore al costo di trasporto. Ma noi possiamo fare astrazione pel momento da questa reazione del costo di trasporto sui prezzi e possiamo ritenere che siano dati i due prezzi e siano perciò indipendenti dal costo di trasporto: o meglio possiamo supporre che il prezzo del trasporto sia uno soltanto degli elementi che influiscono sui prezzi, ed essendo quindi, la sua, un’influenza parziale, possiamo ritenere che in un primo momento essa sia trascurabile ed i due prezzi siano perciò indipendenti dal costo del trasporto. È dunque lecito affermare che il prezzo del trasporto non deve essere superiore al vantaggio del trasporto.

 

 

Questa tesi generale porta alla condanna della tariffa a base fissa. Infatti, se questa fosse razionalmente giustificata, vorrebbe dire che il vantaggio del trasporto cresce proporzionalmente al crescere delle distanze. Ossia, poiché la tariffa non deve andare al di là del vantaggio del trasporto, questo dovrebbe crescere nelle medesime proporzioni in cui cresce la tariffa; così se lo speditore ricavasse un vantaggio di 5 centesimi a spedire una tonnellata a un chilometro, dovrebbe ricavarne uno di 50 a spedirla a 10 Km., di 50 lire a 100 Km. ecc. La distanza dovrebbe essere un coefficiente di aumento di prezzo regolare: dovrebbe bastare lo spedire una merce a 10 Km, per potersela far pagare 50 cent. di più che sul posto; mentre spedendola ad 1 Km. si dovrebbe ottenere solo un aumento di 5 centesimi; e spedendola a 1000 chilometri ci si dovrebbe attendere a vendere a 5 + 50 lire quella merce stessa che sul posto si vende a 5 lire. Ora è appunto questo che non si verifica; poiché normalmente il vantaggio del trasporto cresce in misura minore della distanza. Così, per esempio, per il vino del mezzogiorno che si volesse trasportare a distanze lunghe bensì, ma non eccessivamente lunghe, per es., a Torino, Milano, Svizzera, il vantaggio ci sarebbe; ma se si intendesse trasportarlo, supponiamo, nell’Europa del Nord, allora le tariffe a base fissa giungerebbero a cifre così elevate che i prezzi dei vini dovrebbero essere rialzati in modo da non poter resistere alla concorrenza di altre bevande come il sidro, la birra.

 

 

Lo stesso dicasi per i viaggiatori, specialmente per quelli di commercio. Essi per brevi distanze possono si avere vantaggio a viaggiare, ma se le distanze crescono punto necessariamente in ragione dell’aumento di spesa. Nel caso di viaggi di piacere che si compiono in una giornata, i treni sono affollati, ma per i lunghi viaggi il numero dei viaggiatori diminuisce, perché se il piacere del viaggio è cresciuto, questo non è cresciuto in proporzione al crescere del costo.

 

 

Noi abbiamo quindi dimostrato che per ciò che si riferisce al vantaggio dei trasporti l’aumento non è nelle proporzioni dell’aumento della distanza.

 

 

86. Anche il costo del trasporto non cresce nella stessa proporzione delle distanze. – Rispetto al costo del trasporto si può dire, in altri termini, la stessa cosa. Anche il costo del trasporto non cresce nelle stesse proporzioni con cui cresce la distanza.

 

 

Infatti, se il viaggio è brevissimo, il costo per unità di trasporto è molto alto perché deve coprire le spese fisse inevitabili all’inizio di trasporto. Il rilascio dei biglietti, il controllo, le spese di stazione, le spese della amministrazione centrale, le spese di carico e scarico sono le stesse tanto per chi viaggia o spedisce merce a 10 chilometri come a 100; quindi il costo di ogni chilometro risulta più basso nel secondo caso che nel primo; perché l’identico costo, per esempio 1 lira, bisogna nell’un caso dividerlo per 10 e nell’altro si può dividere per 100. Crescendo la distanza, il prezzo del trasporto diminuisce per il fatto che le spese fisse verranno a ripartirsi su un numero maggiore di chilometri.

 

 

Ne consegue che tanto il vantaggio del trasporto che il costo del trasporto non in funzione regolare della distanza, ma decrescendo col crescere della distanza.

 

 

87. Tariffe a base variabile: a) tariffa differenziale a base scalare con diritto fisso. – Da questo fatto appunto, è sorta l’idea di fare la stessa cosa per le tariffe, di stabilire cioè, un sistema di tariffe a base variabile decrescente in cui si prendono basi diverse e sempre più piccole per calcolare le tariffe. Da 5 centesimi di base per viaggiatore o tonnellata – chilometro per i primi tratti di percorso, si va diminuendo di guisa che i successivi tratti di percorso costino di meno. A questa tariffa a base decrescente non si è giunti a traverso varie prove.

 

 

Avremmo anzitutto la tariffa differenziale a base scalare con diritto fisso. Il principio della differenzialità fu all’inizio applicato nel senso che per le distanze maggiori si adottò bensì una base minore, ma questa agi su tutta la distanza a cominciare dal principio.

 

 

Supponiamo che fino a 100 Km. valga la tariffa di 8 cent. per tonnellata chilometro, oltre 100 Km. si applichi a tutta la lunghezza la tariffa di 6 cent. per tonn. Km.; oltre i 200 quella di 5 cent. e via dicendo.

 

 

Così, per esempio, si pagherà:

 

 

Per Km.ri per ogni kilometro e in tutto

1

centesimi 8

lire 0,08

10

8

0,80

100

8

8

101

6

6,06

150

6

9

200

6

12

201

5

10,04

250

5

12,50

300

5

15

301

4

12,04

 

 

Si vede subito quale è l’inconveniente della tariffa: basta confrontare ciò che accade passando dal Km. 100 al Km. 101, dal 200 al 201, dal 300 al 301. Al Km. 100 si pagano 8 cent. per Km. quindi 8 lire; al Km. 101 benché si viaggi di più, pure, essendo diminuita la base della tariffa, si pagano solo L. 6,06. Al Km. 200 si pagano 6 cent. per Km. e quindi L. 12; al Km. 201 si paga solo 5 cent. per chilometro e quindi in tutto, benché si viaggi 1 Km. di più, si pagano solo L. 10,04.

 

 

Allo scopo di raccordare le diverse tariffe si adottò talvolta prezzo costante per le distanze che davano luogo a questa discrepanza. Così il massimo della prima zona si lasciò invariato sino raggiungere lo stesso prezzo della seconda, ed il massimo della seconda zona mantenuto costante sino a raggiungere la terza zona. Ad esempio da 100 fino a 133 chilometri si mantiene invariata tariffa complessiva di 8 lire; perché moltiplicando 101, 102, 103, 104, ecc., 133 Km. per 6 cent., si avrebbe avuto un prodotto minore di L. 8; a partire del 134esimo Km. si cominciò ad applicare la tariffa di 6 cent., perché 0,06 x 134 dà la tariffa complessiva di L. 8,04. Dal pari oltre 200 si mantenne immutata la tariffa di L. 12 sino 240 Km. perché, applicando la tariffa di 5 cent., si sarebbe ottenuto un prodotto minore a L. 12; e solo dal 241esimo Km. in poi applica la tariffa di 5 cent., che comincia allora a dare un prodotto di L. 12,05. È questo un compromesso, con cui la tariffa assume figura di una scala con ripiani intermedi, dove l’ascensione si ferma. Sistema illogico, perché senza buone ragioni non si può violare regola che vuole far pagare prezzi maggiori per distanze maggiori.

 

 

88. b) tariffa differenziale a base scalare con diritto fisso. – Per togliere questo secondo inconveniente si ricorse alla tariffa differenziale del tipo belga con diritto fisso, nella quale si applicano basi diverse per i tratti successivi del percorso. Vale a dire che il prezzo chilometrico stabilito per i piccoli percorsi, che si chiama base iniziale (supponiamo di 8 centesimi) non si applica che ai primi 100 Km. per chi percorre distanze maggiori si aggiunge al prezzo totale dei primo 100 Km. calcolato sempre, come sopra, sulla base di 8 cent., una tassa calcolata su una base meno elevata, per esempio, di 6 cent., e per tutti i chilometri percorsi in più fino ai 200 Km. Così si evitano salti, perché per un percorso di 101 Km. si fanno pagare 0,08 x 1 per i primi 100 = S lire; e poi 0,06 x 1 = 0,06 per il 101esimo chilometro, così da avere un prezzo complessivo di L. 8,06. Superata la distanza di 200 chilometri si prende per i percorsi successivi una terza base ancora più ridotta, supponiamo di 5 cent. e ciò fino ai 300 Km. Cosicché chi percorra 201 chilometri paga per i primi 100 chilometri 100 x 0,08 = 8 lire, per il secondo centinaio di chilometri 100 x 0,06 = 6 lire e per il 201esimo Km., 5 centesimi ed in tutto (100 x 0,08) + (100 x 0,06) + 0,05 = L. 8 + 6 + 0,05 = L. 14,05.

 

 

Analogamente si seguita apponendo una base di 4 cent. fra 300 e 400 Km., poi di 3 fra 400 e 500 e così di seguito per le distanze successive.

 

 

La tariffa in tal modo congegnata è forse la più perfetta, perché il prezzo del trasporto aumenta gradatamente di Km. in Km. e, pur aumentando sempre meno velocemente, non subisce mai salti repentini nei punti dove si ha un mutamento di tariffa.

 

 

Questo metodo ha trovato applicazioni numerose anche in altri campi della finanza pubblica: ad evitare ad es. che la progressività nelle imposte conduca a sbalzi repentini di imposta quando si passa dal limite superiore di una categoria di reddito tassata, ad es., coll’1% al limite inferiore della categoria successiva tassata coll’1,50%.

 

 

89. c) tariffa a zone costanti. – Una semplice modificazione ulteriore di questa forma sarebbe quella in cui i successivi tratti si applichi non più una base fissa per unità chilometrica una vera base fissa per tutta la zona. In questo senso: mentre prima si poneva, supponiamo, per la prima zona la base fissa di 8 cent. per unità di trasporto (viaggiatore o tonnellata-chilometro) si porrebbe invece per la prima zona la tariffa di 8 lire, per la seconda la tariffa di 6 lire, per la terza di 5 lire; tariffe di 8, di 6, di 5 lire che rimangono invariate qualunque sia la differenza percorsa entro la zona.

 

 

Così il prezzo per il trasporto ad 1 Km. sarebbe di 6 lire come quello a 100 Km.; il trasporto a 101 Km. costerebbe 6 lire + 5 lire, come il trasporto a 200; sia 201 che 300 Km. costerebbero 6 + 5 + 4.

 

 

Questo sistema presenta il vantaggio della semplicità; ma è assai gravoso per le prime percorrenze al principio di ogni zona; onde non è applicabile per i viaggi brevi; ma solo per coloro che viaggiano o spediscono almeno oltre, supponiamo, 300 Km. Per costoro può essere non troppo differente far pagare 15 lire, prezzo dei primi 300 Km., più 0,30 prezzo dei primi 100 chilometri della quarta zona, ovvero più 3 lire prezzo di tutta la quarta zona. Lo svantaggio del calcolo per grandi zone diminuite quanto più i percorsi sono lunghi, e le zone sono ristrette, per es. di 50 o 25 Km. soltanto; come un breve conteggio basta a dimostrare. Inoltre il sistema della tariffa a zone è più facile applicazione nei paesi che hanno percorsi ferroviari molto regolari. Così avviene, per esempio, nell’Ungheria dove v’è una grande pianura e dove tutte le ferrovie si sviluppano concentricamente verso la capitale Budapest, di modo che restano facilmente delimitate le zone circolari entro le quali le tariffe possono essere distribuite equamente, con prezzo fisso per ogni zona. Ma nel nostro paese, formato in maniera tanto differente, ove i centri sono numerosissimi, ed hanno raggi d’influenza accavallantisi in ogni senso, le zone sarebbero di difficilissima, per non dire di impossibile formazione.

 

 

90. d) tariffe a zone variabili. – Ina trasformazione di questo sistema sarebbe quella non di diminuire le tariffe, ma di aumentare invece le lunghezze delle successive zone. Si stabilirebbe così, ad esempio, una tariffa fissa per ogni zona di 8 lire, ma si aumenterebbero le zone da 100 Km. per la prima, a 150 nella seconda, 200 nella terza e così via. Così con 8 lire si avrebbe diritto di percorrere solo 100 Km.; con altre 8 lire invece si percorrerebbero 150 Km.; con successive 8 lire 200 Km.; e così via. La forma è diversa, ed i risultati uguali a quelli che si ottengono col metodo precedente.

 

 

91. Tariffe a base variabile crescente. – Prima di por termine a questo argomento dobbiamo ricordare, oltre la tariffa a base variabile crescente. Può a prima vista sembrare strana una forma di tariffa di questa specie, la quale dovrebbe avere nella prima zona per base 3 cent., nella seconda per base 4, nella terza 5, nella quarta 6, e così via. Può sembrare assurdo, ripetiamo, che si applichi questa tariffa, per cui i viaggi sono tanto più costosi quanto più sono lunghi, mentre pare che la ferrovia dovrebbe favorirli, come quello che ha più convenienza ad effettuare. Ma bisogna appunto notare che questa speciale tariffa non si applica per i viaggi a lunga distanza ma esclusivamente per le brevi distanze.

 

 

In questo ambito è conveniente allo Stato favorire con le tariffe più i viaggi brevissimi che i brevi. Il concetto su cui è basata questa tariffa, che dicesi vicinale, è invero il seguente: La ferrovia è certo monopolista ma entro certi limiti; per ciò lo Stato deve pensare che quanto più decresce la distanza tanto più diviene sensibile la concorrenza che le muovono altri mezzi di trasporto o di locomozione. Non si usufruirà certo della vettura per recarsi da Torino a Milano, ma sì per recarsi da Torino a Moncalieri se il prezzo della ferrovia è troppo alto e la concorrenza potrà inoltre esser compiuta con tramvie, ecc.; la spesa sarà forse minore, e minore forse anche il tempo.

 

 

Per i trasporti poi, si sa come sia diffusa l’industria dei conducenti. Tra ogni capoluogo di provincia e i centri minori, e talora anche tra varie provincie questa industria si esercita su vasta scala sia per ragioni di tariffa meno elevata, che per ragioni di comodità.

 

 

Lo Stato è quindi interessato ad applicare una tariffa variabile decrescente, che però ha avuto applicazione ristretta a talune linee.

 

 

È evidente che diminuendo la possibilità della concorrenza col crescere della distanza, non sarà più necessario per lo Stato mantenere bassa la tariffa. Essa quindi andrà aumentando fino ad arrivare alla zona in cui s’inizia il sistema normale della tariffa a base variabile decrescente.

 

 

Queste le ragioni dell’istituzione parziale di questa tariffa che a prima vista parrebbe strana e irrazionale. Il motivo poi per cui in Italia la tassa vicinale non è stata applicata su vasta scala, ma solo su alcune linee fu il timore di promuovere eccessivamente il traffico dove i mezzi delle ferrovie non sarebbero stati sufficienti a esaurirlo.

 

 

92. Tariffa a base fissa unica. Tariffa postale. – Un’ultima forma di tariffa trova applicazione propria in un altro servizio: quello postale. È la tariffa a base fissa unica. Non bisogna prendere troppo alla lettera la parola unica. Non si vuole con essa dire che per qualsiasi lettera di qualunque peso e per qualunque distanza si faccia pagare una medesima somma.

 

 

No. La tariffa a base fissa unica si riferisce ad una sola zona di trasporti postali e telegrafici o telefonici; entro la qual zona, del resto abbastanza ampia, il prezzo è unico.

 

 

Così ad esempio, le lettere che vanno oltre il distretto postale e non superano i 15 grammi, pagano tutte in Italia per qualsiasi distanza una identica somma di L. 0,15. Per qualunque telegramma che non superi 10 parole a qualunque distanza si pagano 60 centesimi; per avere l’abbonamento al telefono per un anno in una grande città italiana un privato paga 160 lire, qualunque sia il numero delle telefonate. Anche questa tariffa può sembrare alquanto illogica, inquantoché pare che diverso debba essere il costo ed il vantaggio del trasporto di una lettera da Torino a Moncalieri, da Milano a Monza che da Torino o Milano a Trapani. Ed è infatti diverso. Sembrerebbe quindi giusto graduare le tariffe in proporzione delle distanze, come si faceva prima del 1860 nel Regno di Napoli, nel Lombardo-Veneto, nello Stato Pontificio[9]. Si fecero però a questo sistema della diversificazione delle critiche che portarono all’applicazione della tariffa unica. Le critiche partivano tanto dal punto di vista del costo che da quello del reddito dello Stato. Fu Sir Rowland Hill, direttore delle poste inglesi che nel 1830 dimostrò l’errore del sistema a base variabile. Egli operò un calcolo basato sul prezzo del trasporto delle lettere a distanza diversa; osservò, ad esempio, quanto variasse a 100 a 200 a 100 Km. il costo del trasporto di una tonnellata di lettere; trovò una differenza reale, ma così irrilevante rispetto al resto del costo del trasporto, che il costo totale poteva quasi considerarsi come fisso qualunque fosse la distanza.

 

 

Se si bada, infatti, alla natura del servizio postale, si vede che questo costo si distingue in due parti: vi è la parte minima rappresentata dal costo del trasporto e si può calcolare nel 2 o 3% del costo totale. Questa parte varia col crescer della distanza; ma cosa monta una sua pure cospicua variazione proporzionale, quando assolutamente è così poca cosa? La parte massima, il 95-98% della spesa è data dalla spesa iniziale e terminale, cioè: dalla raccolta delle lettere e dallo smistamento per le varie destinazioni; lavoro abbastanza complicato e che richiede spese notevoli; poi, arrivate le lettere a destinazione: nuovo smistamento per le varie zone della città, ulteriore smistamento compiuto dai portalettere, secondo i vari destinatari e consegna alle rispettive dimore. Queste operazioni costituiscono la parte maggiore del costo.

 

 

Ora è evidente che se 97 lire di spesa rimangono fisse e solo 3 variano, anche ammesso che queste variino da L. 0,50 a L. 3, la variazione totale sarà solo fra 97 + 0,50 = 97,50 e 97 + 3 = 100; ossia fra 97,50 e 100; variazione troppo piccola, perché franchi la spesa di tenerne conto. Tanto più si può porre senza scrupoli una tariffa unica, poiché, se si volesse tener conto delle variazioni del costo del trasporto, bisognerebbe graduare la tariffa con sì piccole variazioni ch’esse né pure potrebbero venire espresse nel nostro sistema monetario.

 

 

Inoltre, se nel servizio postale s’applicasse la tariffa a zone, il servizio stesso crescerebbe di spesa perché gli impiegati, oltre al solito lavoro di smistamento per i paesi, ne dovrebbero compiere un altro per zone. Gli impiegati dovrebbero, per ogni lettera, perdere un tempo enorme a sfogliare prontuari per accertare le distanze fra le località di partenza e la località di arrivo; e verificare se l’affrancazione è corretta ovvero bisogna applicare la multa. Tanto tempo andrebbe perso in questo lavoro che il servizio diverrebbe decuplicato e la maggior spesa per lo Stato supererebbe quel che si riscuoterebbe in più per la tassa così aumentata. Anzi i prodotti sarebbero diminuiti per il rincaro e la lentezza del servizio.

 

 

Perciò si è compreso preso esser miglior partito applicare la tariffa a base unica fissa, che è da noi di 15 cent. per 15 grammi, in Inghilterra 1 pence per 1 libbra (30 grammi circa), in Svizzera di L. 0,10, in Germania di Mk. 0,10, in Francia di L. 0,15.

 

 

La tariffa a base unica inoltre è utile anche agli utenti perché quando fosse applicata la tariffa b a base variabile, lo speditore a breve distanza avrebbe sì la consolazione di spendere meno degli altri, ma per le accresciute spese generali, dovrebbe sottostare ad una tassa di certo superiore a quella ch’egli paga, vigendo la tariffa a base unica fissa.

 

 

 



[1] Figura omessa.

[2] Figura omessa.

[3] Figura omessa.

[4] Figura omessa.

[5] Figura omessa.

[6] Figura omessa.

[7] Figura omessa.

[8] Figura omessa.

[9] Diversissime ed in proporzione assai costose erano le tasse postali negli Stati d’Italia dell’unificazione. Nella Lombardia e nel Ducato di Parma la tariffa era di 0,12 entro il distretto, 0,20 fuori. Nelle Due Sicilie vi era una grande diversificazione; per via di terra si pagavano 0,08, 0,12, 0,16, per distanze al disotto di 50, da 50 a 100, da 100 a 150 miglia rispettivamente; per via di mare si pagavano cent. 20 se le lettere erano trasportate su bastimento a vapore, e centesimi 8 se su bastimento a vela.

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