Capitolo II – Di alcune più importanti teorie per la ripartizione delle imposte
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914
Capitolo II – Di alcune più importanti teorie per la ripartizione delle imposte
Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 186-233
Sezione Prima
Perché sia difficile la ripartizione delle imposte.
166. – La necessità, oggettiva o voluta arbitrariamente dal legislatore, di ripartire coattivamente i costi di certi servigi pubblici (proprii, improprii e spuri) per mezzo delle imposte fa sorgere il problema del modo che deve essere tenuto in questa ripartizione. A siffatto studio noi dedicheremo tutta questa parte seconda, applicando poi nella parte terza i principii formulati nella seconda. Più che «principii» sarebbe bene dire «linee direttive generali», in quantoché lo studio delle teorie messe innanzi dagli scrittori ci dimostrerà che noi ci troviamo su terreno poco solido e sfuggevole.
Quando si è detto invero che lo Stato deve obbligare i cittadini tutti a pagare le imposte necessarie perché ai cittadini stessi possa essere procurato il soddisfacimento dei bisogni pubblici, si è detto all’incirca tutto ciò che si sa di positivo in argomento.
Tutto il resto è oscurità; essendo scrittori e legislatori ben lungi dall’essersi messo d’accordo sulla regola che deve essere tenuta per ripartire sui singoli il costo complessivo delle spese pubbliche a cui si deve sopperire con le imposte.
Nell’economia privata l’uomo che sente il vantaggio d’un servizio e ne subisce la privazione, fa la domanda di esso e ne paga il prezzo, quando creda che il vantaggio sia almeno uguale al prezzo. Così anche accade nella economia pubblica quando si pagano prezzi pubblici o tasse. Ma nei servizi indivisibili, il criterio direttivo già usato per la distribuzione del carico dei servizi viene a mancare perché non si ha alcuna domanda da parte del contribuente. Costo e vantaggio individuali diventano così inconoscibili. Il consumatore divenuto contribuente resta completamente passivo e da solo lo Stato deve cercare il criterio per fare la ripartizione. Posizione questa di gran forza e insieme anche di gran delicatezza: di gran forza inquantoché lo Stato per tal modo è un vero monopolista ed un monopolista che da un certo punto di vista è più forte di tutti gli altri perché può imporre oltre al prezzo anche la quantità del servizio da consumarsi. I contribuenti devono tacere e pagare. Questa posizione singolare richiede maggior delicatezza da parte dello Stato perché se lo Stato è monopolista più forte, non si serve, come i monopolisti privati, di questa forza nell’interesse generale dei consociati. Lo Stato deve dunque usare della sua forza esclusivamente nell’intento di arrecare il maggior beneficio possibile ai contribuenti. Ora come farà a far ciò se non sa quale è l’utilità che i singoli ricavano dai pubblici servizi, se esso cioè è all’oscuro del fenomeno che più gli interesserebbe di sapere? Lo Stato ha un bel cercare quale sia il vantaggio singolo; non lo sa né lo può sapere. Onde non c’è da meravigliarsi se per risolvere questo problema si sia fatto ricorso a una quantità di ipotesi che surroghino dall’utilità e della domanda singola dei consociati.
Rispetto al prezzo pubblico e alla tassa, lo Stato ha una guida desunta alla domanda o dai consociati; qui non ha più tal guida perché costringe; la costrizione sopprime la volontà e quindi la guida per giudicare dell’utilità dei pubblici servizi. Da ciò la necessità di sostituire ai fatti certi le ipotesi. Il legislatore deve trasfondere in se stesso i desideri inconsci dei consociati e cercare di prevenirli. Compito arduo, in cui è facile errare.
Sezione Seconda
La teorie apertamente arbitrarie della ripartizione.
167. La teoria della mancanza di ogni principio generale: teoria della volontà del legislatore. – Per riuscire a questo si sono messi innanzi molti criteri che potessero servire come surrogati ai criteri che potessero servire come surrogati ai criteri del costo e del vantaggio. Sono tutti criteri approssimativi, che vogliono soltanto essere strumento per poter raggiungere il fine meno peggio che sia possibile.
Cominciamo dai criteri francamente arbitrari, i quali riconoscono senz’altro la impossibilità di trovare un criterio razionale per la ripartizione dell’imposta; e dichiariamo assurdo appunto ogni tentativo di stabilire i principii teorici dell’imposta, così come esiste la teoria del prezzo.
Cominceremo dall’ipotesi più estrema che è quella che dice il caso essere disperato e non esservi alcun criterio logico e sicuro che possa servire di guida alla ripartizione delle imposte e se mai il criterio da seguire esser quello seguito di fatto nelle diverse legislazioni.
Si vuol con ciò significare che lo studioso altro non deve fare fuorché esaminare le vie seguite di fatto nei diversi paesi e nelle diverse legislazioni e farne una specie di analisi critica e di sintesi. Si dovrebbe, ad esempio, studiare quali sono le imposte italiane sui fabbricati, sulla ricchezza mobile, sul registro, sul consumo, ecc.; essendoché i criteri seguiti dal legislatore sono l’unico fatto di cui valga la pena di occuparsi. Tutto il resto sono discorsi di studiosi. I fatti sono le legislazioni positive, le imposte esistenti, che si debbono sistemare, organizzare a sistema, ecc.
Lo studio, certo importantissimo, parte dalla mente del legislatore tradotta in leggi; ricercando se il legislatore abbia tradotto acconciamente i principii da lui abbracciati in canoni legislativi; se le norme singole rispondano logicamente alle regole fondamentali che il legislatore ha accolto, ovvero vi contraddicano per inesperienza o per interferenza di altri fattori, anch’essi voluti dal legislatore, ma forse non dichiarati.
Ammesso, per esempio, che il legislatore abbia voluto colpire il reddito dei terreni con un’imposta, lo studioso non dovrebbe cercare se tale volontà sia ragionevole o non, se si inspiri a principii logici o non. La volontà fu quella; e la scienza finanziaria non l’ha da discutere. La scienza, riconosciuto il fatto della volontà del legislatore di imporre l’imposta sui terreni, deve ricercare se i mezzi adottati rispondono al fine, se i congegni partici di imposizione scelti sono ben coordinati allo scopo voluto dal legislatore. Accertato che i mezzi sono logici e coerenti, il fine dell’indagine è raggiunto; ora invece siano inadeguati ed illogici, è compito del critico finanziario indicare la maniera con cui l’imposta può essere ristorata nella struttura adeguata ad attuare la volontà del legislatore.
Non si può negare che la funzione dello studioso non abbia importanza anche entro questi limiti e che la sua opera possa riuscire utilissima. Così nel caso dell’imposta sui terreni, potrebbe benissimo disputarsi, dato un punto di partenza che non discutiamo in sé, se il legislatore abbia applicato correttamente l’imposta o no l’imposta stessa, se il metodo del catasto sia più o meno adeguato di altri che potrebbero scegliersi per colpire i redditi fondiarii; a quali parti del prodotto lordo del fondo logicamente debba estendersi l’imposta fondiaria, ecc. ecc.
Tuttavia questa è una teoria che si potrebbe chiamare quasi acefala, perché fa si che lo studioso si arresti proprio nel momento in cui la sua analisi critica diventa più interessante e fruttuosa, ossia quando si tratta di determinare se il concetto informatore da cui è partito il legislatore di un determinato paese è equo o non equo, se raggiunge o non raggiunge lo scopo che avrebbe intento di raggiungere; non se la legge è congegnate logicamente in sé stessa, ma se il principio informatore di essa corrisponde ad un corretto criterio generale di ripartizione delle imposte.
Il ragionamento secondo in cui si deve rendere omaggio alla volontà del legislatore non è una particolarità della finanza. Nel campo del diritto non dico la scuola storica, ma gli esageratori, gli epigoni della scuola storica assunsero spesso a criterio di giustizia la volontà del legislatore. Ma, se è tramontata la scuola del diritto naturale, è tramontata del pari la scuola del puro commento e ricostruzione critica delle leggi vigenti. Se i giuristi si limitassero a studiare ciò che i legislatori in certi momenti hanno voluto ed a far l’analisi critica di essa volontà, rinunzierebbero alla migliore parte del loro compito, che è quella di fare la critica ai principi stessi voluti dal legislatore; di vedere se il tale o tal’altro istituto giuridico è corrispondente o no al maggior bene dei consociati. Questo è sempre stato il compito più alto dei giuristi, compito che precede, non segue quello del legislatore, e quando segue di solito si propone non di commentare l’opera del legislatore, ma di perfezionarla, spesso di distruggerla, dimostrando la verità di altri principii che il legislatore del fututo dovrà accogliere al posto di quelli vigenti.
Si noti poi che questo concetto si svolge in un circolo vizioso, in quanto che lo studioso dovrebbe cominciare a constatare quale è il concetto informatore dell’istituto tributario. Ma per far questo dovrebbe rintracciare quali sono i lavori preparatori delle leggi tributarie studiate per conoscere la vera portata della volontà del legislatore. Giunta a questo punto l’opera sua dovrebbe arrestarsi. Ma perché? Quando il legislatore ha stabilito un determinato istituto giuridico ha a sua volta fatto appello ai concetti che gli studiosi avevano prima elaborato. Ogni legge tributaria e in generale ogni legge nuova è stabilita appunto perché ci furono in passato degli studiosi che enunciarono principii fondamentali in contraddizione colle leggi vigenti ed auspicatori di leggi nuove. È vero che il diritto vigente è fonte della dottrina giuridica; ma d’altro canto i principii nuovi elaborati dalla dottrina sono fonte di un nuovo diritto. Il legislatore esamina le dottrine precedenti, se le assimila e cerca di trasformarle in ordinamenti tributari adatti ai bisogni del paese.
Quindi il legislatore ha riconosciuto che il fatto primo non è nella volontà sua, ma nel concetto ch’egli consciamente o inconsciamente ha applicato nella sua legislazione. Anche noi perciò dobbiamo andare fino a quello che è stato il punto di partenza del legislatore. Si noti inoltre che se noi applicassimo il principio combattuto nella sua interezza verremmo ad assumere come fonte, non dico di diritto, ma di scienza, i concetti che furono esposti quando nei consigli di governo o nei parlamenti si costruì un sistema od una legge tributaria vigente; concetti che sono talora grossolanamente errati, perché quella certa legge si può esser formata attraverso le discussioni di persone la cui dottrina era scarsa, che esposero ragionamenti evidentemente superficiali od erronei nel giorno e nell’ora in cui nell’aula parlamentare o nel consiglio di governo un dato testo di legge fu deliberato. Conoscendosi spesso la genesi delle leggi tributarie, sapendo che talvolta esse furono votate in applicazione di principii esposti in maniera grezza e tratti imperfettamente da noti libri di scienza dovrebbero i giuristi accogliere come principio essenziale queste idee informi od errate? No. È successo anche recentemente che dei legislatori votassero leggi che produssero disastrosi risultati economici e finanziari. Sarebbe quindi ben strano in questi casi che il giurista si dovesse restringere a osservare se un principio errato è stato logicamente applicato. E nei casi – che si vuol sperare siano i più frequenti – in cui il legislatore applica un principio corretto, è dal principio stesso e non dalla volontà del legislatore che deve prendere le sue mosse lo studioso.
La teoria della pura volontà del legislatore non può perciò essere accolta. Dobbiamo escludere che la ripartizione dell’imposta debba effettuarsi sulla base di ciò che in un determinato periodo storico e in un dato paese e da un certo legislatore è stato fatto. Noi avremmo tante scienze quanti sono i paesi e i legislatori, mentre invece vi sono principii fondamentali che valgono per tutti i paesi, a cui i legislatori sono ricondotti dalla forza delle cose, malgrado momentanee deviazioni.
Non è però da affermare che la teoria della volontà del legislatore non abbia in sé nulla di buono. Essa ha il merito di mettere in luce la grande importanza delle leggi positive, la necessità di studiarle criticamente, di compararle, di ricavarne il succo, ossia le norme esistenti che più frequentemente sono osservate, che i legislatori illuminati codificano, che si impongono ai legislatori che le violano. Lo studio della volontà del legislatore è un freno, un antidoto contro le scorribande inutili nel campo delle costruzioni tributarie e di impossibile funzionamento. Dopo averne criticato i teorici esclusivi, gli adoratori ristretti, riconosciamo ben volentieri che gli studiosi i quali saldamente si fondano sull’indagine critica e comparativa degli istituti tributari del passato e dell’oggi sono di gran lunga meno soggetti ad errore di quegli altri teorici che fanno astrazione delle leggi positive, le quali sono poi importantissimi tra i fatti che la scienza nostra deve studiare.
169. – La teoria speciale dell’imposta. – Una dottrina, simile a quella ora esposta, dice che le imposte debbono essere ripartite in guisa che lo Stato ottenga certi determinati fini sociali, per esempio quelli della migliore ripartizione delle fortune; e ciò a seconda dei modi di vedere dei partiti politici dominanti.
È un principio che s’avvicina molto a quello criticato ora. Esso vorrebbe che il legislatore nel mettere delle imposte non si preoccupasse soltanto di fare siche i consociati ottengano una determinata quantità di servizi pubblici, ma si proponesse anche altri fini, quelli cioè di punire o deprimere alcune classi per innalzarne altre.
Questo principio, denominato principio sociale, viene da taluni considerato come il frutto più moderno della scienza, mentre in realtà non è principio nuovo e sempre fu adottato da epoche antichissime.
Nel rinascimento, al tempo dei Medici, l’imposta progressiva si chiamava decima scalata. I Medici, l’adottavano per impoverire le grandi famiglie che potevano opporsi al loro potere assoluto.
Non è escluso che nemmeno ora in taluni Comuni le famiglie che appartengono ai partiti dell’opposizione siano considerate ricche e viceversa siano considerate povere quelle amiche. Sistema naturalmente convenientissimo per quelli che si trovano al potere e che tassano i nemici dichiarandoli ricchi.
Nei secoli diciassettesimo e diciottesimo era principio sociale in Francia che i tributi non potessero colpire la nobiltà ed il clero; perché era principio sociale universalmente accolto che il clero difendesse lo Stato con le preghiere, la nobiltà con la spada e il popolo coi denari. Era il popolo che doveva sottostare a tutto il carico delle imposte e ciò era considerato come il non plus ultra della giustizia sociale, che è quella tale giustizia la quale accomoda alle classi dominanti. Siccome queste erano la nobiltà ed il clero ed unicamente esse apparivano interessanti per il legislatore, pareva correttissimo metter delle imposte che conferissero ricchezza a queste classi.
Oggidì l’applicazione del principio viene invertita, dicendosi che le imposte devono essere distribuite in guisa da esentare il proletariato. È sempre un principio sociale, capovolto. Il popolo sovrano prende il posto della nobiltà e del clero: esso, si dice, è quello che sostiene col suo lavoro la società e come una volta la nobiltà ed il clero servivano la società in maniera più alta (con la spada e con le preci) che non fosse il pagare imposte, ora è il popolo che deve da esse essere esentato perché esso paga già il tributo del lavoro.
Solo la borghesia deve pagare le imposte e progressive, di guisa che si giunga a un equiparamento delle fortune. Questo è il cosidetto principio sociale delle imposte che tende ad essere sempre più applicato nei sistemi tributari odierni, ma non si può dire che abbia qualche cosa di sostanzialmente diverso che lo raccomandi più del sistema adottato dai Medici, o da certi facinorosi comuni italiani d’oggi, o dalle monarchie assolute. Sono persone diverse che non vogliono pagare imposte, non vogliono sopperire al carico delle spese pubbliche e vogliono trasferirlo sopra una maggioranza o minoranza di persone; ed è probabile che i risultati di questo sistema saranno cattivi ora come furono pessimi dianzi e porteranno alla fin fine all’impoverimento dello Stato e del paese.
Sgravando d’imposta il proletariato e gravandone quasi esclusivamente la borghesia, avverrà che il numero di questi agiati e ricchi borghesi a poco a poco si assottiglierà od almeno parrà assottigliarsi, trasformandosi i borghesi in falsi proletari, gli imprenditori in false cooperative, prendendo insomma ognuno il colore meglio adatto a salvarsi dagli insulti dell’imposta; cosicché a poco a poco l’onere delle imposte verrà a gravare sopra una piccolissima minoranza di persone che resisterà fino ad un certo punto, per poi scomparire, come scomparvero gli ottimati in una certa epoca nell’impero romano sotto il peso degli oneri fiscali.
Anche questo principio adunque non fornisce nessun lume per conoscere i canoni fondamentali che dovrebbero esser seguiti dal legislatore nella ripartizione delle imposte. Sono canoni contingenti che possono essere applicati da legislatori che vogliono abbattere partiti avversi. Sono metodi, non di legislazione sociale, ma di distruzione sociale. Nulla impedisce, come si osservò già parlando dei servizi pubblici spurii, che si parli in una seconda approssimazione anche dei metodi di estorsione di classe che si decorano col nome di principi sociali delle imposte. Ma sembra difficile che quei fatti di estorsione possono essere elevati alla dignità di canoni fondamentali per la ripartizione delle imposte, sebbene siano interessanti a studiarsi ed abbiano formato oggetto di acclamate e profonde indagini.
Sezione terza
Di due formule subordinate del principio del sacrificio minimo.
169. La formazione del principio del minimo mezzo nella scienza delle finanze; il principio del minimo sacrificio collettivo. – Se abbandoniamo i sistemi francamente arbitrari, e cerchiamo una formula che abbia aspetto razionale, ne vediamo subito una, alla quale si è informata da molti la costruzione della scienza economica, e da cui è parso lecito per analogia sperare un fondamento sicuro anche per la ripartizione delle imposte.
È il principio per cui gli uomini cercano di ottenere il massimo risultato col minimo sacrificio; chiamandosi perciò appunto principio del minimo mezzo. Da questo principio fondamentale derivano tutti i teoremi dell’economia politica. È secondo questa legge che si stabiliscono i prezzi nell’economia privata; ognuno vende a chi paga di più e ognuno compera da chi vende a meno. Il principio serve anche per i prezzi pubblici e le tasse, che non differiscono essenzialmente dai prezzi privati; ma evidentemente però, per essere applicato alla materia delle imposte, deve essere esposto un po’ diversamente, se non vogliamo fin dal bel principio trovarci di fronte all’ostacolo della indivisibiltà dei pubblici servizi. Quando parliamo di prezzo pubblico e di tassa vediamo sempre l’individuo che cerca di ottenere il massimo risultato col minimo sacrificio. Dato che lo Stato costruisca delle ferrovie e ponga tariffe, l’individuo per ottenere il massimo risultato col minimo sacrificio, spedirà o non spedirà merci, viaggerà o resterà a casa, sceglierà la prima, o la seconda, o la terza classe, a seconda della sua convenienza, sempre paragonando costi a prezzi.
Ma nel caso di servizi indivisibili è impossibile parlare di individui e di sacrificio minimo individuale con il massimo risultato, perché questo massimo risultato individualmente non esiste e il minimo sacrificio neppure, ma solo un sacrificio ed un beneficio complessivi, che si ottengono per tutti i cittadini congiuntamente. Sacrifici e benefici sono bensì sentiti dagli individui, perché la collettività non sente nulla, ma non sono misurabili individualmente, bensì solo in blocco. Occorre dunque vedere se il principio possa essere correttamente formulato in linguaggio di imposte, ad esempio così: è conveniente il sistema di imposte con cui si riesce ad ottenere col minimo sacrificio collettivo il massimo vantaggio anch’esso collettivo.
Suppergiù in tal modo il principio fu esposto da A. Smith nella sua opera La ricchezza delle Nazioni (Libro quinto, cap. secondo) e meglio dallo Stuart-Mill nei suoi Principii di economia politica (Libro quinto, capo secondo, par. 2). Questi dice: «Qualunque siano i sacrifici che lo Stato chiede ai contribuenti, si deve far siche, per quanto è possibile, questi sacrifici pesino egualmente su tutti, col qual metodo si cagiona il minimo sacrificio collettivo».
In questa ultima frase è posto il fondamento della distribuzione utilitaria delle imposte: le imposte devono essere cioè ripartite in maniera da arrecare il minimo sacrificio collettivo. Soltanto lo Stuart-Mill aggiunse che, allo scopo di cagionare il minimo sacrificio collettivo possibile, le imposte dovevano pesare ugualmente su tutti i contribuenti.
Si avrebbe cioè, secondo lo Stuart-Mill, un principio «supremo»: il «sacrificio minimo collettivo», che dovrebbe essere il fine a cui tendere; e un principio «subordinato»: il «sacrificio uguale» che dovrebbe essere il mezzo con cui raggiungere il fine. Questi due principi su cui si incardina il sistema d’imposte, possono essere esaminati separatamente, sebbene l’uno sia subordinato all’altro. Cominciamo a studiare che cosa voglia dire sacrificio «uguale» e quale sia il valore di questa teoria a sé considerata. Vedremo poi quale sia il valore del principio supremo del sacrificio minimo. Infatti, sebbene la teoria del sacrificio uguale sia, secondo lo Stuart-Mill, un «mezzo» soltanto per raggiungere il fine del sacrificio minimo, da altri fu assunta da sola a principio regolatore delle imposte; onde conviene studiare quale ne sia la portata. Esaminando poi e criticando il principio del sacrificio minimo, implicitamente criticheremo di nuovo le formule subordinate che in esso sono accolte.
170. L’interpretazione dell’uguale sacrificio come «uguale sacrificio monetario». – Subito è sorta disputa intorno alla frase: «i sacrifici devono pesare ugualmente su tutti» e più precisamente sul significato da attribuirsi a quell’«ugualmente». Le interpretazioni furono numerosissime.
Una, la più semplice e più ovvia, va scartata subito, cioè l’uguaglianza aritmetica semplice; come se tutti dovessero pagare una somma uguale di 100 lire allo Stato. In tal caso l’uguaglianza porterebbe, per la differente fortuna dei contribuenti, un sacrificio in realtà disegualissimo da contribuente a contribuente. Altro è pagare 100 lire per chi ha 1.000 lire di reddito, altro pagare le stesse 100 lire per chi ha 10.000 o 100.000 lire.
Si è osservato subito che il Mill non intendeva parlare di sacrifici monetari, ma di sacrifici psichici, intesi cioè come dolore che una persona sopporta nel separarsi da una parte delle proprie sostanze.
Così si deve intendere che il principio del sacrificio uguale sia applicato non quando si sia fatta pagare una certa quantità d’imposta uguale per tutti; ma quando la quantità sia siffattamente diversa da produrre un uguale sacrificio psichico.
171. Le due formule del principio subordinato: sacrificio uguale e sacrificio proporzionale. – Ma anche intorno al concetto di «sacrificio uguale psichico» sono sorte diverse interpretazioni. La formula invero può essere intesa nel senso che tutti i contribuenti siano costretti a sopportare la stessa pena psichica, che si può calcolare ad esempio, in 100 unità di dolore, oppure nel senso che tutti i contribuenti siano obbligati a sopportare un sacrificio «ugualmente proporzionale» al benessere, alla felicità che essi ottengono dalla propria ricchezza. Così se un tale ottiene dal proprio reddito una felicità pari a 1.000, paghi il 10 per cento di 1.000, cioè si privi di 100 di felicità; se un altro ha una felicità totale di 100, costui sopporti una pena di 10. Si hanno cioè due formule per interpretare il criterio della uguaglianza di sacrificio:
- «La formula del sacrificio uguale»; tutti sopportino un uguale sacrificio, ad esempio, 100.
- 2.)«La formula del sacrificio ugualmente proporzionale»; tutti sopportino un sacrificio uguale, ad esempio, al 10 per cento dell’utilità ricavata dalla propria ricchezza.
172. Difficoltà di connettere i due principi del sacrificio uguale e proporzionale e quello supremo del minimo sacrificio collettivo. – Questi due principi presentano un difetto. In che modo essi possono essere collegati col principio fondamentale? Poiché bisogna ricordare che tanto il principio del sacrificio uguale, quanto quello del sacrificio proporzionale sono stati accolti dallo Stuart – Mill in quanto essi sono dei «mezzi subordinati» i quali possono permettere di raggiungere il fine supremo del «minimo sacrificio collettivo».
Ora noi non sappiamo precisamente quale sia il legame che intercede tra i due principi subordinati, del sacrificio uguale e del proporzionale, ed il principio fondamentale del minimo sacrificio collettivo. Come si fa a sapere se facendo pagare ad ognuno in ragione di 100, cagioniamo a tutti i consociati presi insieme il sacrificio minimo? Non è affatto certo che si ottenga questo risultato; anzi si possono ottenere effetti ben diversi.
171. Le due formule subordinate intrinsecamente considerate. – Studiamo invece, come si disse, i due principi in sé stessi e non in rapporto al principio del minimo sacrificio collettivo, cosa logica perché essi a priori non paiono né irragionevoli né ripaganti.
Prendiamo infatti il principio del sacrificio uguale. Nulla v’è di strano in questo principio. Si potrebbe dire, per difenderlo, ch’esso corrisponde al principio giuridico della uguaglianza di tutti di fronte alla legge anche tributaria.
Di per sé, adunque, quel principio del sacrificio uguale potremmo anche accoglierlo. Ma non sappiamo se accogliendolo raggiungiamo l’intento del sacrificio minimo per la collettività. Lo Stuart-Mill, esponendolo come un metodo che mirava a raggiungere il risultato del minimo sacrificio, non ha detto in che modo questi due principi debbansi collegare fra di loro.
Così è pure per il principio del sacrificio proporzionale. Per sé stesso potremmo benissimo accoglierlo; perché il far pagare a tutti una pena egualmente proporzionale alla massa di benessere di cui ciascuno gode, potrebbe dirsi che rende altresì tutti eguali di fronte alla legge.
174. Come le due formole subordinate debbano essere tradotte in linguaggio legislativo. – Bisogna però subito fare una osservazione: i due principi tanto del sacrificio uguale che del sacrificio proporzionale possono bensì essere ammessi come ragionevoli, astrazione fatta dallo scopo che si deve raggiungere e solo avendo riguardo al loro valore intrinseco. Il difficile è di tradurre queste due formule teoriche in norme legislative.
La formula pratica legislativa non può essere che quella la quale faccia pagare ai contribuenti date somme di «denaro», di «moneta».
Le due formule possono acquistare pregio soltanto quando si traducono da termini di pena in termini di denaro. Si tratterebbe, per così dire, di trovare una certa chiave mentale che permettesse di fissare per ognuno dei contribuenti quel quid monetario che corrisponde al 100 od altra quantità di pena cui essi devono sottostare, per ipotesi, nella formola del principio eguale. Quale sarà cioè la quantità di moneta che cagionerà ad ognuno 100 di pena? Qui è il punto difficilissimo a stabilirsi; punto tanto incerto che possiamo concretarlo in infinite maniere.
175. L’arbitrarietà della traduzione in norme legislative delle due formole del sacrificio uguale e del sacrificio proporzionale. – Col principio del sacrificio uguale noi possiamo riuscire a legittimare qualsiasi imposta.
Supponiamo, per esempio, che a ogni unità di pena corrisponda una lira di moneta. Ecco che tutti i contribuenti indistintamente, dovendo sopportare 100 di pena, dovranno sborsare 100 lire di moneta. Arriveremmo così a un’imposta eguale in moneta, sistema logico quando si ritenesse che il rapporto tra il sacrificio di pena e di moneta sia di 1 a 1. Ma i rapporti che possono essere inventati sono infiniti. Si potrà dire, per esempio, che per far sopportare 100 di pena a un contribuente si dovrà fargli sborsare 100 di moneta, a un secondo 200, a un terzo 1.000, a un quarto 10.000; a seconda del pregio individuale che ognuno attribuisce alla moneta. L’arbitrio assoluto è insito nel sistema dell’eguale sacrificio. A un prodigo che abbia 10.000 di moneta e che non ne faccia alcun conto bisognerà far pagare, ad esempio, almeno lire 5.000 per infliggergli una pena di 100; mentre ad un altro parsimonioso, il quale pure possieda 10.000 di moneta e ne faccia gran conto, arrecherebbe forse un dolore enorme e superiore a 100 l’esser privato anche soltanto di 50 di moneta.
Ed ecco che per tal modo l’imposta diverrebbe perfettamente arbitraria. Una volta ammesso il principio dell’egual sacrificio non possiamo esimerci da un’analisi della quantità del sacrificio che il dipartirsi dalla moneta provoca ai vari contribuenti e siccome questa dipartita provoca sacrifici diversissimi anche a parità di redditi dovremmo variare ad hominem le aliquote dell’imposta per stabilire un sistema logico. Sistema che significherebbe l’assenza di ogni sistema. Infatti un organico sistema d’imposta deve essere chiaro, non arbitrario, e non può trattare l’uno diversamente dall’altro nel senso di tener conto delle particolarità psichiche degli individui. Neppure sarebbe logico fare delle ipotesi generali sulla sensibilità psichica dei contribuenti, supponendo ad esempio, che tutti gli uomini che hanno 1.000 lire di ricchezza abbiano la stessa sensibilità, e così pure tutti quelli della classe delle lire 10.000 siano ugualmente sensibili al dolore della privazione della ricchezza. L’ipotesi non ha fondamento; ed essendo manifestamente contraria al vero, non può essere accolta dal teorico che ricerca la verità e non si può contentare dei mezzucci che possono sembrare soddisfacenti ad un legislatore che neppure intravvede le difficoltà dei principii teorici a cui ama fa appello.
Quindi il principio del sacrificio uguale non regge a due obiezioni fondamentali che lo distruggono.
La prima obiezione è ch’esso non è autonomo ed in tanto potrebbe essere valido in quanto mostrasse – ciò che sembra impossibile di poter dimostrare – di poter raggiungere l’intento del minimo sacrificio collettivo. La seconda obiezione è ch’esso, quand’anche fosse accettato per sé stesso, darebbe luogo ai maggiori arbitrii inquantoché occorrerebbe che il legislatore trovasse una formola univoca per trasformare il sacrificio psichico in sacrificio monetario, formola che invece varia a seconda degli individui. Tanti individui tante formole. Il sistema tributario sarebbe perfettamente arbitrario perché dipendente dalla mente di ogni legislatore.
La stessa obiezione può farsi al principio del sacrifizio proporzionale, cioè di una medesima proporzione di pena a seconda del benessere di cui i contribuenti fruiscono.
Anche questo principio non è autonomo. Varrebbe in quanto ci potesse far raggiungere l’intento del minimo sacrificio collettivo. In torna a che noi nulla sappiamo. Inoltre sorge il solito problema: quando sarà possibile di dire che due persone hanno sopportato l’identica proporzione di sacrifizio?
Se facessimo pagare a due persone egualmente ricche la stessa imposta, saremmo sicuri di far loro sopportare la stessa percentuale di pena? No certo. Perché il prodigo ricaverà in confronto all’avaro, a parità di moneta una felicitazione minore; e l’avaro subirà una maggior pena dell’essere privato della medesima somma di ricchezza. Onde il criterio di traduzione della pena psichica in pena pecuniaria dovrebbe anche qui variare da persona a persona, impedendoci di giungere a una formula che sia chiara ed univoca.
Sezione quarta.
Il principio del sacrificio minimo.
A) formulazione ed applicazione.
176. Come sia conveniente occuparsi semplicemente del principio superiore del sacrificio minimo collettivo. – Il meglio è quindi di lasciar stare questi due principii subordinati e guardar senz’altro al fine che si vuole ottenere. Al fine cioè del sacrificio minimo, dell’imposta organizzata in modo da arrecare il sacrificio minimo al contribuente.
Come ha osservato l’Edgeworth, in una prima considerazione il principio del sacrificio minimo può essere considerato abbastanza ragionevole, corrispondente a ciò che gli uomini spontaneamente fanno quando vi sono due persone che si devono sobbarcare ad una spesa e non si può sapere quanto deva essere accollato all’una e quanto all’altra. Sembra naturale che quelle spese debbano essere ripartite tra di loro in guisa che il gravame di ambedue insieme sia il minimo possibile.
177. Applicazione ad una società immaginaria di tre persone. Ragionevolezza
di supporre una decrescenza nella utilità del reddito. – Una volta fatta questa ipotesi, vediamo a che conseguenza ci porti.
Supponiamo una collettività più ristretta che sia possibile; ad esempio di tre persone: Tizio, Caio e Sempronio. Si trovino essi su una certa scala di ricchezza o di reddito: Tizio ha reddito di 1.000 lire, Caio di 2.000, Sempronio di 3.000, di guisa che si abbia per quella collettività un reddito complessivo di 6.000 lire.
Supponiamo che i fini pubblici debba essere spesa una somma che il governo fissa nell’ammontare di lire 1.000, cioè si abbia un’imposta di lire 1.000 da ripartirsi su quelle 6.000 di reddito. Siccome le imposte devono essere ripartite in guisa da cagionare il minimo sacrificio collettivo, il reddito prima si deve consentire in utilità, in guisa che il prelievo di lire 1.000 cagioni il minimo di pena ai consociati.
Bisogna dunque vedere qual sia il criterio da adottare nel fare la conversione dei redditi monetari in redditi utilità.
Possiamo, per abbreviare il cammino, cominciare ad escludere l’ipotesi che ognuna di quella lire di reddito monetario corrisponda ad una unità di reddito utilità. Ciò sembra escluso dall’osservazione più ovvia, la quale ci dimostra che, più o meno, con decrescenza più o meno rapida le prima migliaia di lire sono quelle che l’uomo pregia di più, quelle che egli considera, a torto od a ragione, le più utili; qualunque scopo si vogliano destinare. Man mano che si aggiungono nuove migliaia di lire il vantaggio sembra scemare. La decrescenza sarà rapidissima pur alcuni, per coloro cioè che hanno bisogni limitati come i selvaggi; meno rapida per altri, come per gli uomini inciviliti che conoscono le diverse maniere d’impiegare i loro redditi anche numerosi, e attaccano alle successive migliaia, un’utilità ancora abbastanza grande. Ma vi sarà sempre decrescenza, ed è ciò che solo importa. Perché la teoria del sacrificio minimo si distingue dalle altre due prima esaminate in ciò che essa sembra non aver bisogno di supporre una data specie di curva della utilità del reddito. Basta supporre che la utilità delle successive dosi di ricchezza sia decrescente, per poter ricavare dall’ipotesi fatta conclusioni apparentemente univoche intorno alla ripartizione dell’imposta. Apparentemente diciamo, perché vedremo come una semplice riflessione basti a farci vedere l’errore della teoria.
178. Nell’ipotesi di una decrescenza lenta dell’utilità della ricchezza. – Supponiamo ora che 1.000 che le 1.000 di Tizio, che sono le prime ed ultime, per lui abbiamo un utilità pari a 1.000 unità, che le 2.000 lire di Caio possano frazionarsi in due parti di L. 1.000 ciascuna; le prime 1.000 avranno un’utilità, come per Tizio, pari a 1.000 unità; le seconde mille una utilità pari a 900. Per Sempronio le prime 2.000 conservano la stessa intensità di utilità che già vedemmo per Caio, per il terzo migliaio avremo una utilità pari a 800. L’utilità totale sarà di 1.000, 1.900, 2.700 rispettivamente per le tre persone.
Vediamo ora come debba essere prelevata l’imposta di lire 1.000 su questa collettività per produrre il minimo sacrificio per i contribuenti.
Evidentemente la somma di lire 1.000 deve prelevarsi tutta su Sempronio e non sugli altri. Se preleviamo le lire 1.000 sul terzo migliaio di Sempronio procuriamo a lui un sacrificio di 800, Tizio e Caio sopportano un sacrificio di valore zero. Il sacrifizio totale della società sarebbe perciò di 800 + 0 + 0 ossia di 800 unità di utilità.
Qualunque altra ripartizione che potesse essere fatta darebbe luogo ad un sacrifizio maggiore. Supponiamo invero che le imposte siano ripartite su tutti i contribuenti in proporzione al reddito; che si applichi, per esempio, un’aliquota di un sesto del reddito, necessaria per ottenere un gettito di L. 1.000. In questo caso Tizio deve dare 1/6 di 1.000 lire, cioè L. 166,66; Caio 1/6 di 2.000 lire = L. 333,33; Sempronio 1/6 di 3.000 lire = L. 500. Tale sarebbe il sacrificio in quantità di moneta, a cui corrisponde, in termini di utilità, per Tizio un sacrificio di 1/6 di 1.000 utilità, ossia di 166,66 utilità. Caio paga 1/6 di 2.000 lire, ossia L. 333,33. Ma L. 333,33 sono 1/3 del secondo migliaio di lire del suo reddito – ed è di questo terzo del secondo migliaio di cui egli rimane privo per causa dell’imposta, che riduce il suo reddito da 2.000 a 1.666,66 lire, – ossia gli cagionano un sacrificio di 1/3 dell’utilità 9 che egli ricava dal predetto secondo migliaio ossia di 300 utilità. Sempronio paga 1/6 di 3.000 lire, ossia L. 500. Ma L. 500 sono 1/2 del terzo migliaio di lire del suo reddito, ossia gli cagionano un sacrificio di 1/2 dell’utilità 800 che egli ricava dal predetto terzo migliaio, ossia di 400 utilità.
Il sacrificio totale della società è di 866,66 e siccome 866 è maggiore di 800, resta dimostrato che il sistema che più conviene è quello di far pagare tutto a Sempronio, perché in tal modo il sacrificio, minimo, che sopporta la società è di 800 soltanto.
Se invece di supporre che le imposte debbano essere di 1.000 lire, supponiamo che debbano essere di 2.000, il risultato è il medesimo. Perché il sacrificio totale complessivo sia in questo caso il minimo, l’imposta deve essere prelevata così: 1.000 su Sempronio, che sopporta un sacrificio di 800, poi altre 1.000 lire divise fra Caio e Sempronio, perché dal secolo migliaio essi ricavano soltanto un’uguale utilità di 900 minore di quella che ricavano dal primo. Ciascuno di essi perde 450 unità di utilità. Si ha così un sacrificio totale della società 800 + 450 + 450 pari a 1.700.
Qualunque altro sistema che si adottasse provocherebbe un sacrificio totale maggiore violando così la legge del minimo sacrificio; perché se per esempio 2.000 lire d’imposta fossero distribuite proporzionalmente fra tutti i contribuenti, e peggio ancora se si applicasse un’aliquota regressiva, da Tizio e Caio e Sempronio, i risultati sarebbero ancora peggiori.
Contentiamoci del caso di imposta ripartita proporzionalmente nel senso che ognuno deve pagare 1/3 del proprio reddito: Tizio 333,33, Caio 666,66, Sempronio 1.000 lire. Che risultato si ottiene in termini di sacrificio?
Tizio paga 1/3 di mille lire, pari sappiamo, a 333,33 unità di utilità, Caio paga L. 666,66 detraendole tutte dal secondo migliaio; quindi sacrifica un’utilità di 2/3 dell’utilità 900 del secondo migliaio, ossia 600 unità di utilità; Sempronio paga infine un’imposta di 1.000 lire, pari a tutto il terzo migliaio di lire, quindi egli sacrifica tutta l’utilità del terzo migliaio che è di 800. Quindi l’utilità sociale che viene ad essere persa è di 333,33 + 600 + 800 pari a 1733,33 utilità, quindi una perdita superiore a quella precedente.
Per maggior chiarezza, le considerazioni sopra svolte possono essere espresse nel seguente specchietto (indicando con ut. unità di utilità):
reddito in moneta | reddito in ut. | |
Tizio | 1.000 | = 1.000 |
Caio | 2.000 | = 1.000 + 900 |
Sempronio | 3.000 | = 1.000 + 900 + 800 |
|
| |
Totale | 6.000 | 5.000 |
Se l’imposta = 1.000 lire e si vuol procurare il minimo sacrificio di utilità.
Tizio | paga L. 0 | = ut. 0 |
Caio | 0 | = ut 0 |
Sempronio | 1.000 | = ut 800 |
|
| |
Totale | L. 1.000 | = ut. 800 |
Se l’imposta L. 1.000 ed è prelevata proporzionalmente al reddito monetario, avremo il seguente risultato:
Tizio | paga L. 166,66 | pari a ut. 166,66 |
Caio | 333,33 | 300,- |
Sempronio | 500,- | 400,- |
|
| |
Totale | L. 1.000 | = ut. 866,66 |
Se l’imposta è di L. 2.000 e si vuol procurare il minimo sacrificio di utilità:
Tizio | paga L. 0 | = ut. 0 |
Caio | 5.000 | = ut 450 |
Sempronio | 1.500 | = ut 800 + 450 |
|
| |
Totale | L. 2.000 | = ut. 1.700 |
Se l’imposta è di L. 2.000 ed è prelevata proporzionalmente al reddito monetario:
Tizio | paga L. 333,33 | = ut. 333,33 |
Caio | 666,66 | = ut 600,- |
Sempronio | 1.000,- | = ut 800,- |
|
| |
Totale | L. 2.000 | ut. 1.733,33 |
I medesimi calcoli si potrebbero fare qualora fare qualora l’imposta fosse di L. 3.000; aumentando l’imposta, si ottiene il risultato che tutti e tre i contribuenti vengono ridotti alla perfetta uguaglianza, cioè tutti a 1.000 lire di reddito.
In questo modo si ottiene il minimo di sacrificio della società e l’imposta deve essere non soltanto progressiva, ma tendere anche a livellare i redditi.
179. Nell’ipotesi di una decrescenza più rapida dell’utilità. – A questa conclusione si è arrivati facendo l’ipotesi di una certa decrescenza lenta dell’utilità, ipotesi benigna, perché si è supposto che il secondo migliaio avesse un’utilità modo elevata, di 900, e anche il terzo desse un vantaggio psichico ragguardevole di 800.
Ma si può supporre che la decrescenza dell’utilità sia anche maggiore, il che non si sa se sia più o meno corrispondente al vero; ma l’ipotesi è spesso fatta espressamente od implicitamente da molti scrittori, specie per i redditi molto elevati.
Le prime 1.000 lire potranno ancora calcolarsi come pari a 1.000 unità di reddito utilità; le seconde 1.000 per Caio e Sempronio come pari a 500 e le terze 1.000 di Sempronio a 333,33 ut. Facendo diminuire l’utilità in proporzione inversa al crescere del reddito, quando il reddito si sia triplicato l’utilità si può supporre ridotta a 1/3. Si potrebbero anche supporre altre ragioni di decrescenza; ma qualunque ipotesi si faccia circa l’andamento della decrescenza, purché decrescenza vi sia, lenta o rapida, si ottengono i medesimi risultati.
Infatti, supponiamo che l’imposta da prelevarsi sia di L. 1.000.
Allora per cagionare il minimo sacrificio alla collettività bisogna portar via il terzo migliaio, a Sempronio, perché per tal modo si cagiona a Sempronio un sacrificio di 1.000 lire, uguale a 333 ut.; cosicché la collettività avrebbe appunto altresì un danno di 333,33 ut.; mentre, se si stabilisce l’imposta proporzionalmente ai redditi, si avrebbe un danno maggiore per la collettività. Tizio perderebbe L. 333,33, e Sempronio L. 500. Traducendo queste perdite di lire moneta in perdite di utilità, si ha che Tizio perderebbe 1/6 della sua utilità totale di 1.000, ossia 166,66 unità di utilità; Caio, pagando L. 333,33 perderebbe 1/3 del secondo suo migliaio di lire; e poiché questo gli dà una utilità come 500, perderebbe 1/3 di 500, ossia 166,66 unità di utilità. Sempronio, pagando L. 500, pagherebbe 1/2 del suo terzo migliaio di lire; e poiché questo gli dà un’utilità come 333,33, perderebbe 1/2 di 333,33, ossia 166,66 unità di utilità. Il sacrificio totale quella società sarebbe + 166,66 + 166,66 + 166,66 ossia di 500. Essendo 500 maggiore di 333,33, resta dimostrato che il minimo sacrificio per la collettività si ottiene, accollando tutta l’imposta a Sempronio e togliendoli il suo terzo migliaio di reddito.
Se supponiamo che la imposta sia di 3.000 lire, cioè una metà del reddito complessivo globale della società, allora perché il sacrificio totale della società sia il minimo, bisogna prima portar via 1.000 lire a Sempronio con una perdita di utilità di 333,33 unità, poi un secondo migliaio a Sempronio ed un primo a Caio e niente su Tizio. La utilità così perduta, come dimostra un semplice ragionamento, oramai utilità a ripetersi, è di 500 + 500 + 333,33 = 1.333,33. Una diversa distribuzione delle imposte darebbe risultati come quelli annunziati prima. Poiché, ad esempio, dovendosi pagare un’aliquota uguale alla metà del reddito, Tizio pagherebbe 500 lire, aventi un’utilità come 500; Caio pagherebbe lire 1.000 aventi un’utilità di 500; e Sempronio pagherebbe L. 1.500 aventi un’utilità di 333,33 + 250 = 583,33. Avremmo una perdita totale di utilità di 500 + 500 + 583,33 = 1.583,33 molto maggiore di quella di 1.333,33 che si aveva nel caso che si fosse seguita la regola data dal minimo sacrificio collettivo.
Tizio | reddito moneta 1.000 | reddito ut. 1.000 |
Caio | 2.000 | 1.000 + 500 |
Sempronio | 3.000 | 1.000 +500+ 333,33 |
Se il fabbisogno dello Stato è di L. 3.000 allora, per cagionare alla società il minimo sacrificio prelevare L. 2.000 su Sempronio e L. 1.000 su Caio, asportando i redditi utilità che nello specchietto riportato di sopra sono in cifre corsive e poste a destra del primo migliaio che è l’uguale pei tre componenti la società.
Evidentemente allora il reddito dei contribuenti dopo il prelievo dell’imposta si riduce a quello che segue:
Tizio | reddito moneta 1.000 | reddito ut. 1.000 |
Caio | 1.000 | 1.000 |
Sempronio | 1.000 | 1.000 |
180. L’imposta distribuita secondo il criterio del minimo sacrificio tende a diventare progressiva e livellatrice. – Se il gravame dell’imposta è molto forte si raggiunge il risultato di prelevare tutto il reddito dei contribuenti oltre un determinato limite. È perciò che questo principio del sacrificio minimo si può chiamare anche principio del sacrificio equimarginale, perché, applicato che sia, tende, col crescere del fabbisogno dello Stato, a ridurre i contribuenti alla stessa utilità marginale di reddito.
Quindi l’imposta che abbia per iscopo di far gravare sul complesso dei contribuenti il minimo sacrificio possibile, quando si postuli una decrescenza nella utilità nei redditi, qualunque sia la ragione di questa decrescenza, giunge alla conseguenza di essere progressiva poiché toglie ai contribuenti una percentuale non uguale, ma crescente, quanto più il reddito è elevato.
Il metodo pratico da seguire, nella ripartizione dell’imposta, sarebbe quello di cominciare a prelevare tutta la differenza di reddito posseduta dai contribuenti più ricchi in confronto alla categoria inferiore. Se il prelievo basta a coprire il fabbisogno dello Stato, cessa l’imposta; se non basta, si preleva tutta o parte della differenza di reddito tra la categoria seconda e la terza immediatamente susseguente. E così via.
Classi di reddito
| Reddito medio | Numero dei componenti la classe | Reddito complessivo della classe | Reddito di ogni classe
| ||
Lire | Lire | fino a5.000 | Da 5.001 A 20.000 | Da 20.001 A 100.000 | ||
I. da 20.001 a 100.000 | 50.000 | 100 | 5.000.000 | 500.000 | 1.500.000 | 3.000.000 |
II. da 5.000 a 20.000 | 1.000 | 1.000 | 10.000.000 | 5.000.000 | 5.000.000 | – |
III. da 1.001 a 5.000 | 10.000 | 10.000 | 20.000.000 | 20.000.000 | – | – |
| 11.100 | 35.000.000 | 25.500.000 | 6.500.000 | 3.000.000 |
Non si calcolano i redditi non superiori a L. 1.000 perché praticamente non raggiungibili dall’imposta e spettanti a persone che tendono a vivere a carico dello Stato e non a contribuire alle sue spese. Per calcolare il reddito complessivo della classe si è supposto che il reddito medio di ognuno dei componenti la classe non fosse equidistante dagli estremi della classe, ma propendesse più verso il limite inferiore, essendo ragionevole supporre che siano più numerosi i percettori di redditi più bassi che di redditi più elevati. Si è calcolato così il reddito complessivo di ogni classe; e si è poi scomposto il reddito di ogni classe a seconda delle porzioni comprese nei diversi limiti che segnano il passaggio da una classe all’altra. Così il reddito della classe III, di 20.000.000 lire in complesso, è tutto compreso nella categoria di redditi fino alle lire 5.000. Il reddito della classe II, di 10.000.000 lire in totale, si scomparse: in 5.000.000 lire che vanno fino a 5.000 lire (sono infatti 1.000 persone che hanno tutte reddito 5.001 a 20.000 lire e che tutte hanno almeno 5.000 lire di reddito, oltre al di più); ed oltre 5.000.000 lire che costituiscono il più oltre 5.000 lire (sono 1.000 persone il cui reddito medio è di lire 10.000; onde superano di 5 mila lire in media il reddito di 5.000 lire). Il reddito della classe I, composta di 100 persone è in media di 50.000 lire. Quindi si scompone in 100 volte le prime 5.000 lire (e in tutto 500.000 lire per queste prima frazione), 100 volte 15.000 lire, che è la porzione di reddito che va da 5.001 a 20.000 lire (ed in tutto 1.500.000 lire); e finalmente 100 volte il supero oltre le 20.000, supero che, essendo in media il reddito dei componenti questa classe di 50 mila lire, è di 30 mila lire; onde questa porzione risulta di 3 milioni di lire.
Ora si vede subito come funziona l’imposta basata sul principio del minimo sacrificio. Se il fabbisogno dello stato è di 3 milioni di lire; basta tassare la classe I portandole via tutta la parte del suo reddito che supera le 20 mila e che ammonta precisamente a 3 milioni lire. In tal modo la classe I rimane ridotta ad un reddito uniforme di 20 mila lire, la cui cifra non supera il massimo della categoria II, che prima le stava al disotto. È un primo livellamento, operato da un’imposta commisurata ad un fabbisogno assai tenue dello Stato.
Supponiamo che il fabbisogno diventi di 9.500.000 lire; nulla di assurdo, poiché in parecchi Stati moderni le spese pubbliche ammontano a circa un quarto del reddito nazionale. Dato questo fabbisogno, si preleva sulla classe I tutto ciò che supera le 5.000 lire di reddito, portandole via 4.500.000 lire; e sulla classe II tutto il supero al di sopra delle 5.000 lire, con un provento di 5.000.000 lire; ed in tutto appunto la somma necessaria. Così si osserva il principio del minimo sacrificio collettivo come fu sopra definito; e, così facendo, si riducono i redditi dalle classe I e II alla cifra uniforme di 5.000 lire che è il massimo della categoria III. Così procede il livellamento operato dall’imposta; come farebbe colui che ad uno ad uno portasse via i gradini di una scala costruita su muratura piena, cominciando al più alto e lasciando sussistere solo i più bassi. La sommità della scala degraderebbe via via, diventando il pianerottolo superiore sempre più basso e lungo. Una certa differenza nei redditi vi sarà ancora; ma, mentre prima si andava da 1.001 a 100.000, ora si va da 1.001 a 5.000. Il massimo si è abbassato; e la società presenta un aspetto più uniforme.
La tendenza all’uniformità è attiva per sé stessa, una volta se ne sia ammesso il principio.
Infatti lo Stato tenendo conto della diversa utilità che la ricchezza ha nelle mani dei diversi contribuenti, potrebbe anche indursi a togliere una parte maggiore ai più abbienti, e a distribuirla a coloro che hanno redditi minimi.
Infatti partendo dal solito schema:
Prima dell’imposta | Dopo l’imposta | |||||
| Reddito moneta | Reddito utilità | Reddito moneta | Reddito utilità | ||
privato | pubblico | privato | pubblico | |||
Tizio | 1.000 | 1.000 | 1.000 | 1.000 | 1.000 | 900 |
Caio | 2.000 | 1.000 + 900 | 1.000 | 1.000 | 1.000 | 900 |
Sempronio | 3.000 | 1.000 + 900 + 800 | 1.000 | 1.000 | 1.000 | 900 |
6.000 | 5.600 | 3.000 | 3.000 | 3.000 | 2.700 | |
6.000 | 5.700 |
Lo Stato invero che preleva con l’imposta 3.000 lire, ossia 2.600 unità di utilità, torna a ridare le stesse 3.000 lire ai consociati sotto forma di servizi pubblici; chiamiamo queste 3.000 lire «reddito pubblico», e supponiamo che siano restituite ai consociati in parti uguali, non potendo lo Stato comportarsi diversamente. È evidente che le 1.000 lire di reddito pubblico, che ognuno dei consociati avrà, apporteranno ad essi una utilità minore delle lire 1.000 che già aveva il reddito privato; non perché siano reddito pubblico, ma perché vengono dopo. Non volendo cambiare i dati del problema, dobbiamo supporre che l’utilità di questo secondo migliaio di reddito sia di 900. Un semplice sguardo allo specchietto basta a persuadere che, col trasferire la ricchezza dall’uno all’altro dei consociati, lo Stato ha aumentato la felicità totale di cento unità; e più l’avrebbe aumentata se si fosse supposta una ragione più rapida nella decrescenza dell’utilità della ricchezza. In tal guisa il principio del minimo sacrificio può portare lo Stato ad aumentare le imposte ed a ridurre tutti gli uomini allo stesso reddito, in omaggio alla teoria che, chiamandosi del minimo sacrificio implicitamente tende alla massima felicitazione della collettività per mezzo delle imposte. Questa teoria, così spiegata nella sua espressione più netta e lata, è quella che in fondo si trova a fondamento delle teorie tutte di coloro, i quali vogliono servirsi delle imposte come di un arma per accrescere il benessere complessivo della nazione.
È tempo ormai di vedere quale fondamento abbia questa teoria così feconda di conseguenze formidabili.
B) Critica psicologica.
181. – Critica psicologica del principio del minimo sacrificio collettivo: la decrescenza nell’utilità avviene secondo una ragione variabile da individuo a individuo. – Una prima osservazione deve farsi di natura psicologica. Per fare il nostro ragionamento abbiamo dovuto supporre una scala della utilità dei redditi, eguale per tutti i componenti la società.
Ma è ciò conforme alla realtà? Niente vi è al contrario di più innaturale che supporre che gli uomini considerino, tutti, nella stessa maniera l’utilità dei loro redditi.
Anche se prendiamo la prima dose di ricchezza, potremo calcolare che, se Tizio la valuta a mille unità di utilità vi sia un Caio che la valuta a 5.000 perché ha gusti molto fini e sa utilizzare quei denari molto bene; e Sempronio invece potrà essere un uomo medio che dà al primo migliaio di lire una valutazione di 3.000 unità di utilità. Nelle dosi successive possono darsi variazioni infinite perché potrà darsi che per un individuo la seconda dose di redditi abbia un’utilità bassissima, annettendo egli al secondo migliaio un valore non è più convertibile in benessere individuale, ma solo un valore di tesaurizzamento monetario; un altro invece che abbia moltissimi bisogni da soddisfare la valuterà quasi come il primo migliaio. Se a un contadino diamo, invece che 2.000 lire, 50.000 lire di reddito, costui continuerà a vivere come prima mettendo quasi tutto da parte o spenderà poco di più; invece una persona educata in ambiente raffinato troverà mezzo di spendere con gusto i suoi denari. Un contadino non va ad una stagione di bagni o in montagna o a teatro; quindi una gran parte dei vantaggi di che al mondo si può fruire sono a lui inaccessibile. Vivono nelle campagne infatti contadini benestanti che hanno redditi notevoli e pure seguitano a lavorare sempre la terra, perché non concepiscono altro modo di vita.
Vi sono quindi nella valutazione dell’utilità dei redditi grandissime differenze tra individuo e individuo.
Il Seligman ha esposto bene questo concetto della variabilità estrema nel valore del reddito moneta, scrivendo nelle sue Progressive Taxation: Molti individui che hanno lo stesso reddito lo valutano con criteri differenti; uno può essere celibe, l’altro ammogliato, l’uno ben portante e l’altro ammalato; l’uno di gusti semplici, l’altro di gusti raffinati; l’uno può essere avaro, l’altro prodigo, l’uno può spendere i suoi redditi in un villaggio dove i prezzi sono bassissimi, l’altro in una città. È assolutamente impossibile di dire se la stessa imposta su persone di reddito e di fortuna identica è di sacrificio uguale e dà utilità uguale.
Possiamo, per esempio, supporre che Tizio, Caio e Sempronio siano persone di reddito eguale; abbiamo tutti e tra 3.000 lire di reddito. Se sono vere le osservazioni ora fatte, non potremo più ammettere, come prima, l’ipotesi che per tutti e tre il primo migliaio valga 1.000, il secondo 500, il terzo 250 unità di utilità. Dovremo invece vedere qual’è l’utilità effettiva che ognuno ricava dal proprio reddito e colpirlo a seconda della diversa sensibilità che essi hanno rispetto ad esso. Per esempio, per Tizio, che è poco sensibile, supporre che il primo migliaio equivalga a 1.000 unità di utilità, il secondo = 500, il terzo = 250. Per Caio, uomo medio, il primo migliaio = 2.000 utilità, il secondo = 1.500, il terzo = 1.000. Per Sempronio, che valuta molto le prime più grossolane soddisfazioni della vita, il primo migliaio valga 3.000 unità di utilità, ma poi, soddisfatti i primi bisogni, l’utilità discende presto, ed il secondo migliaio sia = 1.000, il terzo = 100. Le ipotesi non hanno nulla di stravagante; essendoché gli uomini sono ancor più mutevoli e diversi nei loro gusti. In questo caso come dovrebbe essere prelevata l’imposta, sempre seguendo il canone fondamentale del minimo sacrificio collettivo?
Se si trattasse di prelevare solo lire 1.000, il prelievo si farebbe tutto su Sempronio; perché, togliendogli il terzo migliaio, la perdita sociale è di 100 soltanto. Supponendo invece che il fabbisogno dello Stato di 3.000 lire, si preleverà un primo migliaio su Sempronio (perdita sociale: 100) un secondo su Tizio (perdita sociale: 250), il terzo ancora su Tizio (perdita sociali: 500); ché, prelevando l’imposta altrimenti, il sacrificio sarebbe maggiore.
Ecco dunque per l’imposta di lire 3.000 una diseguale distribuzione: su Tizio 2.000 lire, su Caio nulla, su Sempronio 1.000 lire; tutto ciò logicamente dedotto dal principio del minimo sacrificio, tenendo conto solo dell’utilità diversa che i contribuenti ricavano dei loro redditi.
182. – L’arbitrarietà assoluta nel prelievo dell’imposta. – La conseguenza è gravissima, e porta all’assenza di ogni regola determinata per prelevare l’imposta. L’imposta diventa arbitraria nel senso che per prelevarla non solo bisogna far l’inventario dei redditi dei contribuenti, ma anche quello della sensibilità dei contribuenti, e per ognuno d’essi sapere l’utilità effettiva ricavata dal proprio reddito e una volta saputala, collocare l’imposta là dove il sacrificio di utilità è minimo.
Ora noi non potremo mai supporre che vi siano agenti delle imposte così abili da poter conoscere non solo il reddito monetario, ma anche la sensibilità dei vari contribuenti di fronte a questo reddito monetario.
Bisognerebbe che tutti gli agenti delle imposte fossero psicologi acutissimi come non ce ne furono mai al mondo, e con questa loro raffinata psicologia potessero conoscere la dove è il minimo sacrificio di utilità da parte dei contribuenti. Siamo molto lontani e lo saremo sempre, da questo punto; e se anche potessimo aggiungervi, sarebbe pericolosissimo dare agli agenti delle imposte la facoltà di giovarsi delle loro raffinatissime doti perché in tal caso vi sarebbe il pericolo che essi considerassero come sensibilissimi al dolore dell’imposte gli amici o parenti, o quelli del proprio partito, affrancandoli nella misura del possibile dell’imposta; i nemici, naturalmente, sarebbero tutti completamente insensibili all’utilità dei redditi e alla perdita derivante dalla imposta; e perciò taillables et corvéables a merci, come i roturies (terzo Stato) sotto l’antico regime.
183. L’impossibilità di far le somme dei sacrifici, per essere questi quantità eterogenee. – Ma supponiamo anche di fare astrazione da questa variazione grandissima da individuo a individuo della utilità della ricchezza. Un altro ostacolo d’ordine psicologico appare insormontabile.
Si disse che per applicare un tributo di L. 3.000 bisognava cominciare a portar via, nel caso di redditi di 1.000, 2.000, 3.000, per Tizio, Caio e Sempronio (perdita utilità 333.33) e poi ancora 1.000 a Sempronio (perdita utilità 500) e infine 1.000 a Caio (perdita utilità 500)cagionando così il minimo sacrificio alla società di 1333,33 di utilità. Qualunque altro sacrificio derivante da diversa distribuzione delle imposte, sarebbe stato maggiore.
Tuttavia la logica dell’operazione non corre. Facendo il calcolo così semplice, a prima vista, si è dovuto sommare una quantità di sacrificio di 333,33 di Sempronio, con una ulteriore quantità di sacrificio di 500 di Sempronio e con una quantità di 500 di Tizio. Ma è possibile fare questa somma? Bisogna vedere cosa sono i sacrifici individuali che si sommano. Sono essi sensazioni che hanno i singoli individui nel perdere una certa quantità di ricchezza o nell’acquistarne una quantità supplementare. Ora questa sensazione è individua ledi Sempronio quando egli la prova e così pure di Caio quando la prova Caio. Ciascuno può misurare e paragonare in sé le proprie sensazioni e dire che l’una è maggiore o minore di un’altra; ma sempre, dico, individualmente. Ma come si farebbe mai a paragonare le sensazioni di Tizio con quelle che ha avuto Caio? Sono quantità che sono incommensurabili e imparagonabili tra di loro, né si è ancora inventato uno strumento per misurare l’intensità delle sensazioni degli individui.
L’operazione che si fa in base al principio del minimo sacrificio è dunque corretta solo apparentemente; ma in fondo eguale a quella di che sommasse 333.33 asini con 500 cavalli, ovvero con 500 sacchi di grano.
Ora le operazioni aritmetiche noi sappiamo si devono fare in quantità omogenee e non eterogenee, e si potrebbe anche andar oltre sostenendo che per sommar asini bisognerebbe che fossero tutti dello stesso valore. Quindi noi non possiamo fare né questa operazione, né l’altre compiute in base alla teoria criticata.
184. Come l’unità di misura delle utilità si trovi solo attraverso alla riduzione monetaria. – Gli uomini in realtà hanno trovato un metodo per ridurre ad unità le sensazioni, e l’han trovato nella pratica coll’unità monetaria.
Ciascuno per proprio conto valuta i redditi moneta in diverse quantità di utilità, ma l’unica cosa che oggettivamente si conosce è che i redditi sono valutati degli uomini in una certa quantità di moneta; non c’è possibilità di passaggio tra il reddito moneta ed il reddito utilità se non individualmente. Il mercato economico, su cui si determinano i prezzi dei beni, si è incaricato di inventare lo strumento per trasformare il reddito utilità in reddito moneta. Si è detto; certi redditi utilità equivalgono a 1.000, 2.000, 3.000 di reddito moneta. Ed ecco che qui si tratta di quantità omogenee, di dischi di metallo tutti dello stesso peso che si possono benissimo sommare.
Noi abbiamo perciò il modo di paragonare le quantità di sacrificio di utilità, ma solo attraverso le cifre di reddito-moneta.
Noi possiamo dire che il reddito sociale totale è di 6.000 lire, ma non sappiamo qual sia il benessere totale che la collettività ricava da quella somma; perché dovremmo sommare quantità eterogenee di unità utilità, che hanno valore solo i singoli.
Spieghiamo la cosa con un esempio:
Ci siano due paesi che abbiano un reddito monetario perfettamente uguale; siano, per pura ipotesi – che sappiamo bene quanto sia lontana dalla realtà – l’Italia e l’Inghilterra, due paesi aventi entrambi 10 miliardi di reddito monetario.
Possiamo noi supporre che la quantità di reddito utilità, a parità di reddito monetario, sia eguale per i due paesi? Niente affatto. Ché altro sono 10 miliardi per il popolo italiano; altro per l’inglese. Gli inglesi dovrebbero comperare maggiore quantità di calore, spendere più per gli abiti, per le case, per le calzature, per il cibo, non potendo usare di cibi che possono servire in alcune parti d’Italia. Data la scarsità di frutta devono comperare dello zucchero per ottenere gli stessi intenti che, forse e in parte, l’Italia ottiene con la frutta a buon mercato.
Quindi si può asserire che con gli stessi 10 miliardi di lire di reddito moneta gli italiani otterrebbero una quantità di benessere, in un certo senso, maggiore che gli inglesi. Ciò infatti che avanza dal risparmio sul riscaldamento, abitazione, cibo, ecc., l’italiano potrebbe destinarlo a procurarsi maggiori soddisfazioni in altri campi. Ma di quanto sarebbe maggiore l’utilità che l’italiano ricaverebbe? Questo non lo possiamo sapere, perché non possiamo misurare il vantaggio psichico. Quindi, quando non vogliono cadere nell’arbitrio più assoluto, non possiamo passare dal reddito monetario totale al reddito utilità totale; dobbiamo invece contentarci della trasformazione dei redditi utilità individuali in redditi moneta pure individuali; ed una volta conosciuti questi, siccome sono composti di unità metalliche tutte uguali, è possibile fare la somma e conoscere il reddito moneta totale. Ma dove va allora il principio del minimo sacrificio? I dischi di metallo che compongono il reddito sociale totale sono tutti uguali; ed attraverso ad essi, non è più possibile fare distinzione tra contribuente e contribuente, redditieri grossi e redditieri piccoli, cervelli grossolani e spiriti sensibili.
Ragionare di ripartizione delle imposte in rapporto alla utilità ricavata dai redditi, è fare dei ragionamenti campati in aria.
C) Critica economica.
185. Della redistribuzione dei redditi in seguito alla imposta livellatrice. – Ma altre osservazioni si possono ancora fare al principio dell’imposta basata sul minimo di sacrificio dei contribuenti.
Abbiamo veduto che tale imposta tende ad uguagliare i redditi monetari e che, pur facendo astrazione dal fabbisogno dello Stato per i servizi pubblici, sarebbe conveniente per accrescere la felicità degli uomini distribuire le imposte in modo che l’utilità marginale della ricchezza rimasta ai consociati dopo il prelievo delle imposte resti uguale.
Supponiamo di avere ancora i soliti tre contribuenti; essi sono tutti ridotti dall’imposta a 1.000 lire di reddito. Poi, siccome lo Stato ricava dall’imposta 3.000 lire di provento, le distribuisce ai medesimi sotto forma di pubblici servizi. Come già osservammo, i consociati avranno un reddito monetario composto di due parti: 1.) il reddito monetario privato consistente nelle 1.000 lire rimaste dopo il prelievo dell’imposta; 2.) su soprappiù che si può chiamar reddito monetario pubblico che deriva dal godimento dei servizi pubblici che lo Stato fornisce con le 3.000 lire prelevate con l’imposta.
Con che criterio lo Stato ripartirà le 3.000 lire? Essendo tutti i contribuenti eguali di fronte ai pubblici servizi, non potrà far altro che dare un’identica di pubblici servizi o sforzarsi di far siche tutti i consociati siano ugualmente benefici. Essi perciò si può supporre ricavino altre 1.000 lire di reddito pubblico; dimodoché tutti avranno un reddito privato di 1.000 lire ed un reddito pubblico di altre 1.000 lire: in tutto 2.000 lire.
186. Come la redistribuzione possa aumentare il benessere collettivo. – Vediamo quali sono le conseguenze che si ricavano da questa redistribuzione operata per mezzo delle imposte quando si voglia raggiungere il fine del minimo sacrificio collettivo.
Per Caio non v’è nessuna conseguenza; egli è ritornato al reddito che aveva prima del prelievo dell’imposta: 1.000 lire di reddito privato e 1.000 lire di reddito pubblico e avrà una massa di godimento eguale. È vero che prima aveva 2.000 lire di reddito tutto privato; ed ora ha 1.000 lire di reddito privato e 1.000 lire di così detto pubblico; ma, per non sottilizzare troppo, supponiamo che Caio non subisca nessuna variazione di godimenti totali. È una supposizione alquanto ardita e che pochissimi reputeranno ragionevole; ma si può fare per spirito di misericordia verso la teoria criticata. Le variazioni però si hanno per Tizio e Sempronio. Tizio aveva 1.000 lire, ora ne ha 2.000. Sempronio ne aveva 3.000 ed ora ne ha soltanto 2.000: Sempronio ha dunque una perdita che è uguale al vantaggio di Tizio; non c’è quindi nessuna monetaria; anzi si potrebbe dire che quella redistribuzione sia utile per la collettività secondo il principio del minimo sacrificio, perché Sempronio ha perso soltanto un superfluo, mentre Tizio acquistando 1.000 lire in più, viene ad avere ciò che gli è necessario; forse una pensione per la vecchiaia, forse un sussidio per malattia, e poiché il danno sostenuto da Sempronio è poco importante, e molto elevato il benefizio ricevuto da Tizio, si può dire che a primo aspetto questa redistribuzione delle fortune, operata per mezzo delle imposte, sia stata economicamente opportuna.
187. Dannose conseguenze ulteriori economiche di questa redistribuzione delle ricchezza: diminuire gli sforzi degli operai e promuovere l’infingardaggine degli oziosi. – Ma questo è soltanto un aspetto della questione; bisogna vedere se non possono nascere altri effetti, e per ciò è necessario sapere a quali categoria di persone appartengono i tre consociati.
Apparentemente i tre consociati hanno soltanto caratteristiche economiche, cioè: Tizio, categoria dei poveri; Caio dei medi; Sempronio degli agiati, secondo la diversa misura dei redditi. Fin qui, non vi sarebbe ancora nessun danno nella redistribuzione, perché si tratterebbe soltanto di ricchezze che passano da una persona ad un altra. Noi non possiamo però fermarci qui; essendo invece necessario osservare quali erano le qualità personali economiche che hanno le persone che noi siamo abituati a considerare come povere, medie o agiate.
Se noi ragioniamo prendendo per base periodi lunghi di tempo, non si può certo ritenere che la quantità di ricchezza che una classe sociale od una persona possiedono, non abbia alcuna relazione con le doti personali di quelle date persone.
V’è chi ha fatto a questo riguardo ricerche che non hanno un grado di attendibilità sempre uguale e sicuro ma intanto hanno servito a constatare fatti abbastanza interessanti. E cioè che la distribuzione delle ricchezze si verifica secondo una curva che non è molto differente dalla curva secondo cui si distribuiscono altri fenomeni, come quello dell’intelligenza degli individui (secondo le statistiche scolastiche) e che ha anche un certo rapporto con tutte le altre manifestazioni dell’attività e dell’intelligenza umana. Diguisaché si potrebbe ritenere che la distribuzione delle ricchezze avvenga secondo regole simili e quelle che reggono la distribuzione delle qualità personali di intelligenza e di attività degli uomini. Si è notato molte che la distribuzione della ricchezza non pare molto diversa da un’epoca ad un’altra. Si disse anzi che nelle varie epoche economiche la distribuzione della ricchezza è stata quasi sempre la stessa o non molto differente. Data la verità della premessa e, in base sovratutto all’osservazione comune, sembra di poter dire che nella categoria dei ricchi, dei medi e dei poveri entrano, in massima, gli individui che sono più o meno dotati di quelle qualità che sono necessarie a procurarsi la ricchezza.
È questa una verità quasi lapalissiana, sebbene non priva di significato. Non si può supporre che per lunghi periodi di tempo la ricchezza resti presso chi non è capace di conservarla o di riacquistarla se l’ha perduta.
Basta osservare quel che succede nelle famiglie per diverse generazioni. La generazione che s’è arricchita lascia la ricchezza a chi appena è capace di conservarla e da questa passa ad altre che la disperdono e la redistribuiscono a coloro che hanno le qualità economiche necessarie per procacciarsela. Queste qualità saranno magari anche moralmente detestabili.
Noi non crediamo che nelle grandi linee ci sia una contraddizione stridente fra qualità morali e qualità atte a procacciare la ricchezza. Ma ciò del resto non monta. Qui non si ricerca se la imposta prelevata secondo il principio del sacrificio minimo abbia per effetto di accrescere o diminuire le qualità morali degli uomini; ricerca interessante forse, ma non pertinente. Si ricerca invece quali effetti quel sistema abbia sulla produzione della ricchezza.
Non pare siamo effetti favorevoli al procacciamento della ricchezza. Poiché vedemmo che essa si distribuisce, alla lunga, secondo le qualità economiche dei diversi individui; par certo che, se lo Stato vedemmo che essa si distribuisce, alla lunga, secondo le qualità economiche dei diversi individui; par certo che, se lo Stato vuole intervenire e distribuisce la ricchezza in misura eguale tra i consociati, si debba avere la conseguenza che la ricchezza andrà tanto a chi aveva qualità economiche per procurarsela quanto a chi non le aveva.
Tizio che non le aveva, vede aumentato il suo reddito di 1.000 lire. Che cosa sarà portato a fare? Ad aumentare od a diminuire le sue facoltà attive economiche?
Non è facile rispondere. Un piccolo aiuto a chi si trova in basso può essere, al momento opportuno, un incitamento a sollevarsi, a progredire, a lavorare con passione. Numerosi sono gli esempi di coloro a cui la protezione di un benefattore in giovinezza ha giovata ad iniziare una carriera operosa e feconda. Perciò non si può escludere che lo Stato, assicurando un minimo di protezione, di sicurezza di vita ai più poveri, giovi al miglioramento ed al progresso economico di essi. Già abbiamo accennato, trattando dei servizi pubblici proprii, dei vantaggi di una certa dose di legislazione sociale; e si può ammettere che una refezione scolastica ai bambini delle prime scuole elementari, una piccola pensione ai molto vecchi ed agli inabili al lavoro possano essere un incitamento a lavorare per coloro che in tal modo sono assicurati della vita.
Ma la Rupe Tarpea è vicinissima al Campidoglio. È facilissimo il passo che trasforma lo stimolo a lavorare in un incitamento alla neghittosità. Anzi, in generale, possiamo asserire che i doni gratuiti, la elemosina, i sussidi nuociano, salvo casi ben determinati, moltissimo ai beneficiari.
L’esperienza universale è troppo ricca al riguardo per aver bisogno di prove. Le cose non mutano quando la beneficenza è fatta ad opera dello Stato col mezzo delle imposte.
Chi ha un reddito privato basso per non avere qualità economiche eminenti, non sarà portato a perfezionarsi o selezionarsi, per accrescere il proprio benessere, quando ci sia un’organizzazione di Stato che provveda a dargli quelle cose ch’egli si sarebbe dovuto procacciare con grande fatica col lavoro. Anzi tale redistribuzione normalmente avrà per conseguenza di diminuire di numero quelli che farebbero sforzi e di far si che questi restino neghittosi e spengano le faville di previdenza che potrebbero esser nate in loro. Essi cesseranno di fare lo sforzo del risparmio – inteso il risparmio nel senso più lato di sacrificio o sforzo presente in vista di un bene futuro materiale od immateriale – e consumeranno le 1.000 lire di reddito privato, pensando che la vecchiaia e i figli saranno sostentati dallo Stato. Anzi pensando che i loro figli in qualche modo saranno provveduti, non avranno alcuna previdenza neppure dal punto di vista sessuale e potrà darsi che il numero dei figli cresca oltre misura. Infatti le famiglie son sempre cresciute a dismisura quando lo Stato ha pensato al loro mantenimento. In Inghilterra dal 1770 al 1834 circa, quando fu approvata la riforma della legge dei poveri, la quantità della popolazione crebbe fortemente, fra l’altro anche perché lo Stato dava un sussidio, per mezzo di imposte distribuite sui contribuenti, ai poveri che avessero molti figli e quindi aver molti figli era un mezzo per aver molti sussidio. C’era quindi una specie di fabbricazione artificiale di figli in conseguenza dei sussidi elargiti dallo Stato.
Questi sono gli effetti probabili che la redistribuzione delle imposte potrà operare su Tizio; spinta alla neghittosità, disamore al lavoro, che è certo mezzo assai più arduo a procacciare ricchezze della partecipazione ai panem et circenses distribuiti dallo Stato col provento delle imposte livellatrici. Quanto poi a Sempronio l’effetto sarà altrettanto cattivo; egli era riuscito ad acquistare un reddito di 3.000 lire; ora un’imposta gliene porta via 2.000 di reddito privato; restituendogliene soltanto 1.000 sotto forma di reddito pubblico. Possiamo supporre che egli abbia a produrre ricchezza con lo stesso fervore di prima? è difficile che egli abbia a continuare a produrre anche quel tanto che gli vien portato via dall’imposta senza nessuna restituzione per mezzo di servizi pubblici.
Bisognerebbe supporre che si trattasse di un filantropo, il che è ben difficile. Nessuno lavora per questo intento, ma soltanto per accrescere il beneficio proprio e della propria famiglia; onde per certo che l’effetto abbia ad essere di limitare lo sforzo alla produzione di un reddito di 2.000 lire.
188. Della distruzione o non formazione dei redditi soggetti a gravi rischi d’imposta. E prima dei redditi di salario. – È evidente che nessuno produce i redditi per i quali vi sia rischio di confisca tributaria. Continuano a prodursi solo i redditi che il contribuente spera di tenere per sé, almeno in gran parte; e per gli altri soggetti al rischio della imposta forte, si continuano a produrre i redditi che sono indipendenti dallo sforzo volontario dell’individuo. Ora questi redditi automatici sono in realtà assai scarsi. Appaiono certe volte molto forti nei racconti dei giornali che hanno preso l’abitudine di discorrere ad ogni piè sospinto di miliardari; ma si tratta quasi sempre di cifre d’America, quindi molto sospette. In generale non sembra che le masse di reddito che si hanno senza sforzo da parte di chi lo ottiene siano molto notevoli. Non può essere certamente considerato automatico il reddito che si ottiene per mezzo del salario. È reddito questo che si ottiene per mezzo di uno sforzo individuale che c’è sempre da parte del salariato. Quando si venisse a dire a un cantante: Voi guadagnate troppo e dovete pagare allo Stato 5.000 lire della vostra eccessiva gara serale di 10.000, il cantante canterebbe meno o andrebbe a lavorare in un altro paese. Quando un’imposta prelevasse parte cospicua del reddito del lavoro cesserebbe il lavoro, almeno per la parte dello sforzo che non avesse il compenso corrispondente di reddito.
189. Effetti sui redditi di capitale. – Quid rispetto ai redditi del capitale? Questi possono sembrare indipendenti del tutto dal lavoro, ma non lo sono rispetto ad una operazione volontaria economica: quella del risparmio. Il capitale invero è una somma che non si è consumata immediatamente e il cui consumo è stato rimandato ad epoche future.
Se si cominciasse a dire: il reddito di capitale è confiscato a partire da un certo punto, per mezzo di imposte; il contribuente troverebbe opportune consumare subito il capitale finché è bene presente e non trasformarlo in bene futuro sapendo che lo Stato gli porterebbe via troppa parte del reddito.
Se per esempio, di 100 lire risparmiate su un migliaio di lire di reddito, e messe a risparmio al frutto del 4%, l’imposta confiscasse metà del reddito, ossia due lire su quattro, il risparmiatore probabilmente risparmierebbe di meno. Anche qui il risultato non sarebbe sempre questo; potendo darsi che colui che voglia ottenere le 4 lire di reddito od un multiplo di esse sia indotto dall’imposta a produrre 200 lire di risparmio invece che 100. Ma se ciò è vero per il risparmio che si potrebbe dire necessario, compiuto cioè per raggiungere certi scopi della vita, ma si può dir vero per tutto il risparmio, che dipende dalla volontà del risparmiatore. Per questa parte notevolissima del risparmio, l’imposta forte è un freno. E dal punto di vista economico pare dannoso impedire la formazione dei risparmi, perché la diminuzione dei capitali porta a un rialzo d’interessi. Se invero il tasso aumenta per la più scarsa formazione dei risparmi, gli imprenditori avendo bisogno di capitale, non li possono avere che ad un tasso molto elevato; ne deriverà quindi una limitazione alla formazione delle industrie: quindi alla richiesta di lavoro; quindi una diminuzione di salari; per cui si giunge al danno di altre persone e forse delle più povere come conseguenza della forzosa redistribuzione dei redditi dovuta all’imposta.
190. Effetti sulle rendite. – Rimangono ancora da considerare quelle che si dicono in linguaggio economico rendite: rendite del terreno nudo, delle aree edilizie, ecc. Certo, rispetto a queste, che provengono dal processo di capitali non riproducibili, in generale il pericolo di non formazione per timore dell’imposta è assai più piccolo. Poiché la rendita non è dovuta ad un lavoro dell’uomo e neppure ad una sua rinuncia, ma è dovuta ad una limitazione di beni naturali; essa, malgrado l’imposta, seguiterà a riprodursi. Le rendite, cioè, potranno essere portate via dall’imposta senza nuocere al reddito stesso.
Però ci sono limitazioni a farsi, in quantoché non sempre quella che appare rendita lo è veramente; in sostanza, spesso, è un premio necessario per ottenere una certa produzione. Per esempio, si può prendere il caso della rendita mineraria. È vero che si sono taluni che hanno miniere molto feconde e delle rendita minerarie elevatissime, i quali otterrebbero ancora un forte reddito se venisse messa un’ imposta del 50% e anche più. Chi ha una miniera di diamanti o d’oro, per esempio, ne ricava una rendita di 100.000 lire all’anno, oltre all’interesse ed al rimborso del capitale impiegato per l’impianto, perché quella miniera è particolarmente feconda, non sarà scoraggiato, si dice, anche se si metta un’imposta grave. Si potrebbe dire; mettiamo pure un’imposta di 95 mila su 100 mila di rendita poiché il proprietario si accontenterà delle 5.000 lire, che otterrebbe senza nessun sforzo particolare, 5.000 lire essendo sempre meglio di niente. Il ragionamento corre, ma solo per l’individuo, che ha già iniziato lo sfruttamento di una miniera feconda, perché è vero che per quell’individuo non è necessario ottenere 100 mila per coltivare la miniera e che egli continuerebbe, anche se, oltre il rimborso e l’ammortamento del capitale, ottenesse soltanto 5.000 lire di rendita. Ma è anche vero che la domanda va redatta in questa altra maniera: seguiterebbero nuove miniere ad essere coltivate, quando i proprietari delle miniere vedessero ridotte le rendite da 100 a 5 mila soltanto, di guisa da vederla quasi annullate? Certamente no. Quel’è invero lo stimolo per il quale sono coltivate le miniere in generale? è la speranza di riescire a coltivare una miniera buona e particolarmente feconda. Se coloro che coltivano queste miniere sapessero già prima che se l’impresa va male il danno sarà tutto per loro; mentre se va bene e ad essi capita di scoprire una miniera buona, l’imposta li colpirà gravemente, non si porrebbero neppure all’epoca di sfruttamento delle miniere. Vorrebbe per tal modo a mancare la fornitura del materiale minerario richiesto dai consumatori. Tolto, adunque, il premio, è tolta ogni spinta ad iniziare la ricerca delle miniere fruttiferi, o la spinta si conserva solo se si riescono ad aumentare i prezzi a carico dei consumatori.
Quindi anche nel caso delle rendite v’è piccolo di spegnere lo spirito d’iniziativa; quando cioè la rendita è considerata come un premio dato agli imprenditori più fortunati o a quelli più abili. La quale osservazione in generale vale per ogni industria, in cui si possono ottenere rendite o profitti d’intrapresa, con esclusa neppure la industria edilizia, al cui vigoreggiare, specie nei casi di piani grandiosi di rinnovamento e di estensione edilizia, i quali richieggono alte qualità di antiveggenza e di pazienza, è necessaria la speranza negli imprenditori di poter godere di quella rendita delle aree, che molti attribuiscono a merito e vogliono devolvere a favore esclusivo della collettività.
Quindi l’imposta che vuol procurare il minimo sacrificio collettivo e la massima felicità ai contribuenti, non solo posa su un fondamento psicologico errato, come conduce a conseguenza economiche che sono certo dannose, perché da una parte arricchisce coloro che hanno minor merito e spegne in essi gli ultimi stimoli che anche potessero avere ad esercitare un poco di previdenza; d’altro canto per coloro che producevano di più, assorbendo il reddito al disopra di certi limiti, toglie incitamento a produrre oltre quel certo punto. Rimarrà tutt’al più la possibilità di produrre, al disopra di quei limiti, quelle che sono pure rendite e non corrispondono a nessuno sforzo da parte dell’individuo. Ora queste tali rendite e non corrispondono a nessuno sforzo da parte dell’individuo. Ora queste tali rendite sono così scarse in complesso che non vale la pena di concepire un sistema tributario atto solo a colpire una parte così infima dei redditi che esistono.
191. Due esempio italiani di buoni risultati dell’imposta progressiva e livellatrice. – La dimostrazione ora data ha la sua riprova in cui l’imposta livellatrice non produce alcun danno. Il primo è l’imposta sul gioco del lotto. Astraendo dalle particolarità che qui non importano, si può dire che sulla vincita al lotto gravi una imposta rapidamente progressiva; perché lo Stato paga ai vincitori di estratti e di ambi solo il 60% della vincita che teoricamente dovrebbero avere, ai vincitori di terni il 40% e di quaterni il 10%; tanto meno in proporzione cioè quanto più la vincita è assolutamente rilevante. Si tratta perciò di una imposta – sebbene non così chiamata ed apparentemente considerata come utile dei banchi di lotto esercitanti dallo Stato – progressiva sui tre scaglioni di vincite che è del 40, 60 e 90 per cento. Perché questa imposta, che sarebbe su altri redditi ferocissima ed annientatrice, non reca alcun danno? Perché il reddito a produrlo, nessun danno si ha, anzi si hanno benefici. L’imposta spegne lo stimolo al lavoro di consultar cabale, frati veggenti ecc. ecc.?
Tanto meglio per la popolazione della ricchezza, che non cresce sicuramente col gioco.
L’altro esempio è fornito dalla imposta speciale detta quota di concorso sui benefici ecclesiastici. È noto, a tacere dei minori benefizi, che l’imposta sui benefizi vescovili ed arcivescovili è del terzo del reddito per la parte di reddito tra 10.000 e 20.000 lire; del 50% fra 20.000 e 30.000 lire; dei due terzi fra 30.000 e 60.000 lire e del 100% sulla parte di reddito che supera le 60 mila lire. Se una simile imposta colpisse i redditi soliti di capitale e di lavoro, cesserebbe ipso fatto ogni produzione di reddito al disopra delle 60.000 lire. A che produrre, quando tutto deve essere versato al fisco? Nel caso speciale l’effetto dannosissimo non si verifica. Perché? La spiegazione è semplice. I redditi dei benefizi vescovili ed arcivescovili sono redditi consolidati, provenienti esclusivamente da titoli di rendita pubblica, in cui furono investiti i patrimoni ab antico spettanti a quegli enti. L’investito pro tempore del beneficio non può consumare il patrimonio; non ne ha nemmeno la disponibilità, essendo quei titoli di proprietà dell’ente, e soggetti a controllo governativo. Egli altro non può fare che percepire i frutti; i quali gli sono consegnati decurtati già dalla falcidia della quota di concorso. Il patrimonio non è distrutto solo per l’impossibilità legale di distruggerlo. Ma in quanti altri casi si potrebbe sancire questa impossibilità legale? Rarissime volte; onde rimane, dall’evidenza del contrario, di nuovo provato l’effetto dannoso dell’imposta progressiva e livellatrice.
D) Critica finanziaria.
192. Dei risultati finanziari scarsissimi ed insufficienti di una imposta unica livellatrice. – Il principio di ridurre tutti alla stessa utilità marginale oltreché dal punto di vista economico può essere criticato dal punto di vista finanziario, cioè dalla possibilità di stabilire un sistema d’imposte basato su quel principio. A chi cerchi di immaginare qual sia il miglior sistema tributario, il primo pensiero che vien fatto è appunto di prelevare somme maggiori su coloro che hanno di più e minori su quelli che hanno di meno, di applicare cioè un’imposta unica progressiva.
193. Insufficienza di questa imposta. – Ora questa imposta unica che è stata il motto di molte scuole economiche e di finanzieri, presenta un grandissimo difetto dal punto di vista finanziario ed è che essa è insufficiente a produrre le somme necessarie per far fronte al fabbisogno dello Stato moderno. Alcune poche considerazioni basteranno a dimostrare che un’imposta unica, se fosse possibile istituirla, darebbe luogo ad un colossale disinganno, perché il suo reddito sarebbe molto al di sotto del necessario a far fronte alle spese dello Stato.
Infatti: che le imposte debbano essere sufficienti a far fronte alle spese dello Stato è principio evidente. Che cosa importerebbe che un sistema d’imposta sia perfettamente giusto quando lo Stato avendo bisogno di 2 miliardi riesca ad incassare soltanto 700 milioni? Bisognerebbe provvedere al resto per mezzo di prestiti che però non potrebbero essere rinnovati all’infinito e il cui servizio d’ altra parte non potrebbe essere soddisfatto, perché restando gli incassi sempre uguali, gli oneri di interesse accrescerebbero di continuo le spese. Quindi primo canone delle imposte è la loro sufficienza a provvedere al fabbisogno dello Stato. Ora quante sono le spese dello Stato moderno? Prendiamo l’esempio di qualche Stato e vediamo quale dovrebbe essere l’aliquota dell’imposta, quando l’imposta fosse una sola.
194. Esempio dell’Inghilterra. – Osserviamo prima l’Inghilterra, pio la Francia, ed infine l’Italia. In Inghilterra le spese cui si deve far fronte da parte degli enti pubblici, non possono essere calcolati a meno di circa 300 milioni di lire sterline; cifra altissima, in cui si tien conto anche delle spese dei municipi e delle contee, perché si tratta sempre di enti pubblici che devono provvedere coi medesimi mezzi dello Stato, dovrebbe trionfare anche per gli enti comunali, i quali vivono su imposte proprie o su sovraimposte che pongono alle imposte dello Stato. Orbene qual’è la massa di reddito su cui i 300 milioni di lire sterline possono cadere? È difficile poterlo calcolare; però si può dire all’ingrosso che la massa dei redditi non supera i due miliardi di lire sterline, di guisa che se l’aliquota fosse uniforme e vi fosse un’unica imposta sui redditi si dovrebbe applicare un’aliquota del 15 per cento. Si verrebbe così ad ottenere un provento di 300 milioni di lire sterline. Ma questa distribuzione uniforme per parecchi motivi è impossibile; senza dire che contraddirebbe al principio informatore dell’imposta qui esaminata che è quello di lasciare esente Tizio e colpire Cajo e Sempronio e più Sempronio che Cajo; esso urta contro il fatto che la grande massa dei redditi è composta di redditi piccolissimi, i quali sono per legge, e per necessità tecniche esenti da imposta. Questo minimo è per l’Inghilterra di 160 sterline pari a circa 4.000 lire nostre, limite molto elevato ma che corrisponde naturalmente al diverso grado di ricchezza di quel paese. La ragione tecnica dell’esenzione è questa: che i piccoli redditi non possono essere colpiti dall’imposta, perché, quando anche si compilasse un inventario dei presunti guadagni, come si potrebbe poi riscuotere l’imposta? Le leggi di tutti i paesi dichiarano che un certo numero di mobili necessari per l’uso della casa è esente da ogni sequestro. Ora come si potrebbe esigere l’imposta dai più modesti contribuenti? Il ruolo ci sarebbe, ma non servirebbe a nulla, poiché pochi sarebbero coloro ai quali si potrebbe sequestrare qualche cosa. E non solo si esentano i redditi piccoli per questa considerazione, ma anche per la difficoltà che vi sarebbe nel fare l’accertamento dei redditi. Per una parte si potrebbero accertare, ma non si potrebbe esigere l’imposta, per l’altra parte sarebbe difficile l’accertamento perché si tratta di redditi aleatori, mobili, vagabondi.
L’operaio oggi si sposta spesso all’uno all’altro industriale, da un luogo ad un altro senza che nessuna volontà del legislatore possa opporvisi.
Tutto considerato, tutt’al più si potrebbero accertare i redditi superiori al minimo nella cifra di un miliardo di lire sterline, onde l’aliquota percentuale dovrebbe essere portata al 30 per cento.
Una verità pratica finanziaria nota a tutti i finanzieri è che la massa dei redditi che si accerta è in rapporto inverso dell’aliquota. Quanto più l’aliquota è bassa tanto maggior numero di redditi è possibile accertare perché i contribuenti non fanno resistenza; ma il giorno in cui, invece del 6 per cento che si paga adesso in Inghilterra, si dovesse pagare il 30 per cento l’opposizione all’accertamento sarebbe molto più viva e si cercherebbe ogni maniera per sfuggirvi facendo dichiarazioni false, perché il premio a queste dichiarazioni false sarebbe fortissimo e la stessa opinione pubblica si sposterebbe in favore dei contribuenti frodatori per un senso di solidarietà con essi. In Italia dove l’aliquota è molto elevata si prova una grande ammirazione per chi riesce a frodare ed a eludere l’imposta. In Inghilterra invece, dove l’aliquota è bassa, sono guardati con disprezzo coloro che nascondono i propri redditi. Dovunque, man mano l’aliquota si eleva, la massa dei redditi accertati diminuisce di molto.
Ma supponiamo per un istante che la massa dei redditi rilevati non muti in rapporto inverso all’aliquota e che coll’aliquota del 30 per cento si accerti ugualmente un miliardo di lire di redditi imponibili. Si dovrebbe pur fare una graduatoria nell’aliquota. Non si potrebbe da zero di aliquota per i redditi sotto a 160 lire sterline passare al 30 per cento per redditi di 161 lire sterline. Bisognerà quindi passare dalla categoria con zero di aliquota, all’1 per cento di aliquota e procedere via via verso i gradi superiori. Ed allora e d’uopo tener conto della particolare forma che assumono i redditi. Se noi classifichiamo i redditi secondo la loro importanza, vediamo che è grandissimo il numero dei redditi bassi, finché si giunge a un numero esiguo per i redditi elevatissimi. La grande massa dei redditi imponibili si ha nelle categorie modeste e medie, poiché, malgrado che il reddito per ognuno di questi contribuenti sia relativamente piccolo, essendo il numero dei redditieri grandissimo, si ottiene un’enorme massa di reddito. Invece nei gradi più elevati malgrado che il reddito individuale sia elevatissimo, essendo pochissimi i contribuenti, la massa redditizia imponibile è infinitamente inferiore alla precedente. Quindi se vogliamo un’imposta che raggiunga la media del 30 per cento per redditi che sono al disopra del minimo imponibile, troveremo che l’aliquota dovendo essere piccola per la grande massa del reddito, l’aliquota corrispondente per i grandi redditi, la cui massa va fortemente diminuendo, dovrebbe diventare enorme. Se cominciamo dall’1 per cento per categorie basse che danno grosse masse di reddito, per compensare il 29 per cento che ivi si perde, bisogna aumentare a dismisura le aliquote sulle categorie più elevate che hanno una massa complessiva di reddito minore. Onde bisogna concludere che una riduzione dell’aliquota negli strati più bassi ed ampi porta ad un aumento enorme dell’aliquota negli strati più ristretti e più elevati.
Ora la media del 30 per cento non si può raggiungere se non andando sino ad aliquote altissime, oltre il 50 per cento. Secondo una statistica di 10 anni fa, su circa 4 milioni di contribuenti in Inghilterra c’erano:
74.000 di reddito superiore a 400 lire sterline
54.000 di reddito superiore a 500 lire sterline
42.000 di reddito superiore a 600 lire sterline
34.000 di reddito superiore a 700 lire sterline
29.000 di reddito superiore a 800 lire sterline
26.000 di reddito superiore a 900 lire sterline
6.000 di reddito superiore a 1.000 lire sterline
ossia appena 6.000 contribuenti si erano potuti accertare per un reddito superiore a 25.000 lire nostre. Quindi, dato questo numero ristretto, si vede subito, che volendo colpire di meno i redditi più piccoli e volendo pure arrivare alla media del 30 per cento bisognerebbe per i vari redditi superiori arrivare ad un’ aliquota del 50 per cento, dell’80 per cento e più. Ora, queste aliquote enormi sono impossibili praticamente; nessuno è mai riuscito ad esigerle.
In Francia sotto il Terrore, ad onta della ghigliottina e delle affermazioni di Robespierre che ad ogni buon francese bastavano 3.000 lire all’anno per vivere, non si riescì ad esigere quasi nulla con l’imposta confiscatrice e le casse restarono vuote. Ché, alla peggio, non potendo occultare i redditi, si cessa di produrli, quando si devono produrre solo per l’esattore delle imposte.
195. Esempio della Francia. – Passiamo alla Francia d’oggi. Si possono fare qui considerazioni analoghe. Discutendosi verso il 1910 in Francia intorno alla riforma del sistema tributario, si è dovuto fare un rilievo preliminare dei redditi, il quale presenta un certo interesse. Si è calcolato dal governo che in Francia i redditi possono essere distinti in quattro categorie: piccoli, medi, alti, altissimi. Piccoli sono quelli in provincia fino a 2.800 lire; a Parigi fino a 3.500 lire; distinzione che sembra ragionevole. Medi sono quelli in provincia da 2.800 a 14.000, a Parigi da 3.500 a 17.500. Alti in provincia da 14.000 a 140.000; a Parigi da 17.500 a 200.000. Altissimi, in provincia quelli superiori a 140 mila, a Parigi se superiori a 200 mila.
Fatta questa ripartizione, si è calcolato quanti contribuenti spettassero a queste categorie. Nella prima categoria i contribuenti sarebbero 11.500.000 per l’ammontare di 12 miliardi e 420 milioni di franchi, cioè il 50 per cento del reddito globale. Nella categoria dei redditi medi rientrano 1.300.000 contribuenti che riuniscono un reddito di 7 miliardi e 40 milioni, il 29 per cento del reddito globale. I redditi alti sono posseduti appena 160.000 contribuenti con un reddito di 4 miliardi e 860 milioni, il 19 per cento del reddito globale. I redditi altissimi sono in numero di 1.000 per l’ammontare di 300 milioni. Certo il reddito per ciascuno di costoro è grandissimo; circa 380.000 a testa, ma il totale è relativamente alle altre categorie scarso; non più del 2 per cento sul reddito globale ch’è di 25 miliardi di lire. Ora supponendo che questi 25 miliardi di reddito potessero essere accertati, quale sarebbe l’aliquota che dovrebbe esser posta? è difficile che il fabbisogno dello Stato possa essere ridotto a meno di 4 miliardi annui; probabilmente è anche superiore, ma facciamo pure l’ipotesi benigna di soli 4 miliardi. Aggiungendo almeno 1 milardo per gli enti locali sarebbe necessaria un’aliquota del 20 per cento sui contribuenti in genere. Anche qui si può ripetere l’osservazione già fatta a proposito dell’Inghilterra: ci sono i piccoli contribuenti che danno il 50 per cento del reddito sui quali, per le cose già dette, l’accertamento sarebbe difficilissimo, tantoché molti propugnano larghe esenzioni e forti attenuazioni di aliquota. Supponendo di esentare i redditi più bassi, e di tassare gli altri con un’aliquota crescente dall’1 al 15 per cento, ed in media di tassare tutta la categoria con il 10 per cento otteniamo un prodotto tributario di 1.242 milioni di lire. Restano a distribuirsi 3 miliardi e 758 milioni su 12 miliardi circa, quanti sono quelli che hanno un reddito superiore al 2.800 – 3.500 lire. L’aliquota media dovendo essere all’incirca del 30 per cento, e dovendosi cominciare del 15 per cento circa per i redditi appena superiori alla classe precedente, si vede a quali altezze bisognerebbe arrivare. Riproduciamo in uno specchietto il risultato a cui all’incirca si sarebbe forzati a giungere:
Classi di reddito | Numero contribuenti | Masse di reddito | Aliquote imposte | Provento imposta | ||
Estreme | Medie | |||||
Piccoli | Provincia fino a 2.800 | 11.500.000 | 12.420.000.000 | 0-15% | 10% | 1.242.000.000 |
Parigi fino a 3.500 | ||||||
Medi | Provincia da 2.800 a 14.000 |
1.300.000 |
7.040.000.000 | 15-30% | 20% |
1.408.000.000 |
Parigi da 3.500 a 17.500 | ||||||
Alti | Provincia da 14.000 a 140.000 |
160.000 |
4.860.000.000 | 30-60% | 40% |
1.944.000.000 |
Parigi da 17.500 a 200.000 | ||||||
Altiss. | Provincia sopra a 140.000 |
11.000 |
380.000.000 | 60-150% | 107% |
406.000.000 |
Parigi sopra a 200.000 | ||||||
12.961.000 | 24.700.000.000 | 5.000.000.000 |
È evidente che da simili distrette è impossibile sfuggire. Dato un reddito complessivo accertabile (supposta il quasi assurdo e cioè la possibilità dell’accertamento di 25 miliardi circa, supposto un fabbisogno dello Stato di circa 5 miliardi, dato di fatto purtroppo sicuro, mentre è incertissima la possibilità dell’accertamento dei redditi; ammesso, ciò che non si può non ammettere, che i redditi piccoli sono tecnicamente intassabili, negli scalini più bassi e devono essere tassati con aliquote miti in ossequio al principio del sacrificio minimo e sovratutto in ossequio alla necessità di non far nascere rivoluzioni; ammesso ciò nonostante che si possa infliggere a codesti piccoli contribuenti un’aliquota oscillante tra i due estremi del 0 e del 15 per cento, con una media del 10 per cento, ipotesi assurda in pratica, ammesso tutto ciò, l’imposta sulla massa dei redditieri frutta appena 1 miliardo e un quarto; tre miliardi e 3/4 rimangono da coprire dalla minoranza dei redditieri. Lo specchietto mette in luce fin dove devono arrivare i giri di torchio per spremere la somma necessaria. Sono aliquote folli, del 15 – 30 per cento sui redditi medi, dal 30 al 60 per cento sui redditi alti, dal 60 al 150 per cento sui redditi altissimi. È il regno della pazzia instaurato nel mondo dei tributi.
L’imposta unica progressiva sul reddito, quale logicamente si deduce dal principio del minimo sacrificio per la collettività, è, dal punto di vista finanziario, mera pazzia ragionante. Chi la propone – oramai nessuno fra gli studiosi ne parla, sebbene l’idea, semplice ed attraente per gli ignoranti, ancora si mantenga tenace nei comizi elettorali – dimostra di non avere riflettuto all’enormità delle sue conseguenze.
196. Esempio dell’Italia. – Per l’Italia si possono fare le medesime osservazioni. In occasione di un disegno di legge presentato dagli on. Carmine e Boselli per la riforma dell’imposta sulla ricchezza mobile, si fece uno scandaglio dei redditi. Nella categoria B che comprende industriali e commercianti che hanno capitale di lavoro misto, i redditi inferiori alle 1.100 lire erano 373.000, mentre quelli superiori erano 69.950. Nella categoria C al disopra delle 1.300 lire c’erano appena 17.000 contribuenti mentre al disotto c’erano 114.000 contribuenti. Ciò dimostra che anche da noi vige la stessa legge per la distribuzione dei redditi che altrove. Il fabbisogno dello Stato non è di 4 miliardi come in Francia, ma supera pure i 2 miliardi e con le spese degli enti locali non sta al disotto molto dei 3 miliardi. Quanto alla massa dei redditi che si può presumibilmente credere esistenti in Italia, essa si aggira intorno alla dozzina di miliardi di lire. Cifra incerta, largamente approssimata; ma forse non troppo lontana dal vero.
Supponendo all’incirca la stessa distribuzione che in Francia, possiamo costruire il seguente specchietto, puramente immaginario, ma in ogni caso immaginato in modo da esagerare favorevolmente alla causa dell’imposta unica:
Classi di reddito | Numero Contribuenti | Massa Redditi | Aliquota imposta | Provento Imposta | |
Estreme | Media | ||||
Piccoli fino a 2000 | 10.000.000 | 6.000.000.000 | 0-15% | 10% | 600.000.000 |
Medi: da 2.000 a 10.000 | 600.000 | 3.800.000.000 | 15-35% | 25% | 950.000.000 |
Alti: da 10.000 a 100.000 | 100.000 | 2.500.000.000 | 35-70% | 50% | 1.250.000.000 |
Altissimi: sopra 100.000 | 500 | 200.000.000 | 70-200% | 100% | 200.000.000 |
10.700.500 | 12.500.000.000 | 3.000.000.000 |
La maggiore povertà dell’Italia, tenendo conto del numero non troppo inferiore di abitanti in confronto alla Francia, conduce a risultati ancora più grotteschi. Se si vogliono ottenere i 3 miliardi, ed ottenerli è indispensabile, occorre tassare dal zero al 15 per cento i redditi inferiori a 2.000 lire all’anno, redditi che difficilmente potrebbero essere accertati e costretti a pagare; occorre percuotere col 15-35 per cento i redditi medi; andare sino al 70 per cento sui redditi elevati e finire con i vaneggiamenti del 200 per cento sui redditi altissimi. Tutto ciò è incredibile e impossibile; ma sarebbe la conseguenza logica del sistema dell’imposta unica sul reddito dedotta dal principio del minimo sacrificio collettivo.
197. L’imposta unica progressiva non è mobile. – L’imposta ripartita in maniera progressiva va poi anche incontro all’inconveniente della poca mobilità. La mobilità dell’imposta è necessaria perché il fabbisogno dello Stato non dipende solo da fattori fissi e costanti, ma anche da fattori variabilissimi. L’individuo ha pur esso bisogni variabili dipendenti dal variare quantitativo della famiglia, dal suo stato di salute e da mille altre cause, ma egli può adattarsi a questi bisogni variabili risparmiando danaro o intensificando il suo lavoro. Lo Stato vede pure variare il suo fabbisogno ogni anno; per un terremoto in Sicilia, od in Calabria, per un’inondazione nell’Italia Settentrionale, per lo stanziamento di nuove navi da guerra, e per infiniti altri motivi come sarebbero: guerre nazionali o coloniali (Tripolitania). Le variazioni del fabbisogno possono dunque essere molto grandi. Ora: lo Stato non ha a sua disposizione i mezzi che ha l’individuo per far fronte a queste variazioni. Non può intensificare il proprio lavoro, non ha a sua disposizione il reddito del risparmio passato poiché gli enti pubblici sono sempre stati refrattari al risparmio. Quindi lo Stato per far fronte alle spese pubbliche accresciute, non ha normalmente altro mezzo che quello di accrescere l’imposta. Può far debiti: ma anche questi, portando interessi passivi da pagare, sono cagione di aumenti di imposte. Perciò un buon sistema di imposte deve essere molto mobile.
Ora, quando è che un sistema finanziario è elastico? Quando in esso si abbiano ordinariamente delle aliquote (dicesi aliquota dell’imposta la proporzione dell’imposta alla base imponibile, che può essere il reddito, il capitale, l’unità di misura metrica; ad es., il 10 per cento del reddito, l’1 per cento del capitale, 10 lire per quintale) molto basse; perché soltanto le aliquote molto basse in tempi ordinari, possono venire innalzate in tempi straordinari. In caso contrario, pur se le imposte sono cresciute, non si otterrebbe alcuno o troppo meschino risultato, perché i contribuenti cercherebbero di sottrarsi alla nuova imposizione. Se un’imposta normalmente è solo del 3, 4 e 5 per cento; in tempi di guerra, calamità, ecc. potrà portarsi fino al 10 per cento ed i contribuenti potranno essere indotti a pagare il doppio; ma se già in tempi normali l’aliquota è del 10 per cento sarà difficile poterla accrescere di molto, poiché l’imposta aveva già raggiunto un limite elevatissimo. Se si tratta di aumento dell’imposta sui redditi, l’aliquota si eluderà frodando il fisco durante gli accertamenti dei redditi; se si tratta d’imposta sui consumi, come sugli zuccheri o sul caffè, ecc. che hanno già un prezzo elevatissimo, si verificherà probabilmente una diminuzione di consumo. Il sistema ottimo è adunque quello delle aliquote basse in tempi normali.
Esempi classici di esso si ebbero in Inghilterra dieci anni or sono: Prima della guerra anglo – boera si aveva la buona abitudine di tenere l’aliquota bassissima (3 o 2,5 per cento); ecco, che venuta la necessità dell’aliquota maggiore, si poté ottenere facilmente l’intento, senza che si verificasse una diminuzione del reddito colpito; tanto che mentre nel 1891-92, quando l’aliquota era di 6 pence per ogni lira sterlina (in Inghilterra l’aliquota dell’imposta si esprime in scellini e pence di imposta per ogni lira sterlina di reddito; e 6 pence per lira sterlina, equivalendo a 63 centesimi nostri circa il 2,50 per cento, come è l’abitudine italiana di esprimersi), il provento di ogni pence era di 2 milioni 900 mila sterline, nel 1902-903, quando l’aliquota aumentò ad 1 scellino e 3 pence per ogni lira sterlina, triplicando quasi cioè l’aliquota, il provento aumentò nella stessa misura, anzi in misura un poco superiore all’aumento dell’aliquota cosicché il reddito dell’imposta fu proporzionatamente ancor maggiore.
Mentre prima ogni pence rendeva 2 milioni 900 mila sterline, dopo l’aumento dell’aliquota venne a rendere 3 milioni e 500 lire sterline. Bisogna notare che l’accrescimento era il prodotto dell’aumento di ricchezza del paese. Ma, astraendo da questo fatto, possiamo almeno ammettere la costanza del reddito. Questo perché si era cominciato da un’aliquota molto bassa; che se invece dal 2,50 per cento si fosse cominciato ad aumentare dal 6,80 per cento i risultati sarebbero stati un poco diversi e il provento non sarebbe aumentato nella stessa misura. Di ciò s’ebbe la riprova da noi, in Italia. Con legge del 1894 si aumentò l’aliquota nominale dell’imposta dal 13,20 per cento al 20 per cento; e l’aliquota reale in misura variabile. L’aumento di reddito dell’imposta però non corrispose, cioè non fu nelle stesse proporzioni dell’aumento dell’aliquota o meglio aumentò, ma solo per quelle categorie che non potevano sfuggire all’imposta, e principalmente per i redditi su cui l’imposta era esatta per ritenuta. Per queste categorie il provento aumentò da 106 a 145 milioni, mentre per gli altri contribuenti per cui l’imposta non è esatta col metodo della ritenuta, ma della dichiarazione, l’imposta crebbe appena da 128 a 140 milioni. Si verificò anche il fatto interessante, che mentre da prima il provento era aumentato rapidamente, in seguito si ebbe una diminuzione. Dal 1893-94 al 94-95 il provento aumentò a 142 milioni; dal 1895-96 al 97-98 ci fu una reazione; forse la frode fiscale ebbe campo ad agire e il provento discese a 140 milioni. Il che vuol dire che quelli che prima avevano pagato, nascosero forse in seguito i loro redditi per pagare di meno. Questo perché si era partiti da una aliquota meno alta.
Ora: il sistema di cui si è parlato fin qui dell’imposta unica contraddice a questo canone della mobilità, perché per potersi applicare deve ricorrere ad aliquote che sono altissime. Data la distribuzione dei redditi, quale essa è, dato il fabbisogno dello Stato, ed essendo impossibile imporre aliquote alte ai redditi piccolissimi, bisognerebbe mettere aliquote enormi ai redditi maggiori e quindi sarebbe impossibile, in date circostanze, raddoppiare l’aliquota stessa. Questo sistema adunque, che già fallisce in tempi normali, fallirebbe anche più nei momenti di crisi.
E) Conclusione.
198. Quale sia il valore pratico delle obbiezioni mosse al principio del minimo sacrificio. – A questo punto si può obbiettare: la dimostrazione della assurdità psicologica, economica e finanziaria dell’imposta unica progressiva sul reddito fondata sul principio del minimo sacrificio è una lotta contro i mulini a vento, perché è oramai pacifico che l’imposta unica è pura follia e nessuno studioso serio la invoca, come nessun legislatore si sogna di applicarla. Il che è verissimo; ma non rende inutile l’indagine fatta perché:
- 1) essa ha dimostrato che i tentativi di dare un fondamento razionale alla ripartizione delle imposte ricorrendo al sapiente dosaggio di pene e piaceri che caratterizza alcune scuole economiche – finanziarie e principalmente la scuola austriaca ed in genere tutte le scuole che fondano l’imposta sull’idea dell’uguaglianza o proporzionalità o minimo del sacrificio (scuole utilitarie che derivano dal Bentham) sono tentativi destinati a fallire. Se perseguite nelle loro deduzioni logiche, si vede che conducono a conseguenze perniciose ed assurde. È tanto di guadagnato l’averle messe da parte.
- 2) ha dimostrato del pari quali sono le ragioni dottrinali e tecniche per cui il cosidetto ideale dell’imposta unica è un ammasso di incoerenze e di assurdità. Scrittori e legislatori, pur riconoscendo che nella cosidetta pratica l’imposta unica non funziona, la considerano però come un ideale teorico a cui sarebbe bello avvicinarsi. Come se fosse possibile considerare come «ideale» un sistema che attuato nella sua interezza produce conseguenze perniciose e grottesche! Come se fosse lecito di chiamar «teoria» qualunque idea balzana venuta in testa a chi strogola sulla migliore distribuzione delle imposte; e come se le teorie «vere», non fossero quelle esclusivamente che sono conformi ai fatti, che li spiegano, che li sistematizzano; mentre tutte le altre sono teorie «false» da respingere senza alcun riguardo!
- 3) ha dimostrato implicitamente che il principio dell’imposta progressiva, che molti scrittori e legislatori considerano come la concezione più moderna in materia tributaria non è un principio per sé medesimo razionale. Tutti i ragionamenti cosidetti teorici che si fanno per legittimare l’imposta progressiva sono variazioni più o meno eleganti delle teorie del sacrificio. Chi preferisce il sacrificio uguale, chi il proporzionale, mentre altri vuole il sacrificio minimo; ma appare difficile che fuori della cerchia dei principii ricavati dall’arsenale della filosofia utilitaria si possono trovare argomenti per dimostrare la necessità razionale dell’imposta progressiva. Caduti i fondamenti dottrinali, anche l’imposta progressiva rimane in aria. E noi la lascieremo volentieri in questa posizione incomoda, finché nel prosieguo del discorso non ci venga fatto di dimostrare che la progressività dell’imposta non che potere aspirare alla dignità di principio teorico, se vuol vivere deve rassegnarsi alla posizione subordinata e contingente di espediente tecnico che talvolta può essere usato dal legislatore, in concorrenza con altri, forse migliori, per attuare il principio di ripartizione che vedremo essere stato dimostrato corretto dall’esperienza.
- 4) ha messo in luce quali siano i dannosi effetti economico – finanziari dei cosidetti principii di giustizia tributaria, quando si consenta ad essi di sprigionare tutta la virtù di che sono capaci. Per fortuna, salvo casi rarissimi, i legislatori sanno fermarsi in tempo. Essi, pur ragionando sul fondamento del principio del minimo di sacrificio (o degli altri due canoni subordinati dell’uguaglianza e della proporzionalità del sacrificio), ragionano solo a metà. Fondano su di essi una imposta, di solito quella sul reddito, al più due, e cioè anche quella sulle successioni, si limitano a chiedere loro un provento uguale ad una quarta parte, spesso solo ad una decima parte od anche meno del fabbisogno dello Stato. In tal modo essi possono tenersi moderati nelle aliquote; dare larghe esenzioni ai redditi bassi, concedere attenuazioni rilevanti ai redditi modesti, e non andare tuttavia al di la del 5-10 per cento per i redditi elevatissimi o del 20 per cento per le successioni più vistose. E poi, trionfanti, dicono: vedete come funziona bene la progressività delle imposte, come sono infondati i timori catastrofici di danni che i paurosi ci mettono dinnanzi. E non s’avveggono che cotal pretesa dimostrazione della bontà del principio della progressività dedotta dal minimo di sacrificio è la dimostrazione invece chiarissima che il principio è inapplicabile ai tre quarti od ai nove decimi delle imposte esistenti; che esso può diventare sopportabile soltanto quando rinunci ad essere sé stesso e si converta invece in un canone empirico di applicazione limitata. E dimostreremo poi che entro questi limiti esso ha valore non per sé; ma in quanto serve all’attuazione di un canone tecnico fondamentale delle imposte e cioè del canone dell’esenzione del risparmio.
- 5) dal che si può dedurre che il principio del minimo di sacrificio e quello della progressività e gli altri principii teorici dello stesso calibro che dalla fondamentale proposizione utilitaria, secondo cui l’imposta deve cagionare il minimo sacrificio possibile alla collettività, possono, ragionando alla svelta, dedursi, hanno un valore sopratutto politico: servono cioè a conseguire il fine illusorio di persuadere i popoli che le imposte sono ripartite con giustizia. A chi obbietta che un sistema tributario è consegnato in modo che produce effetti economici o finanziari o sociali dannosi, lo studioso ed il legislatore possono rispondere tirando fuori dall’arca di Noè delle imposte esistenti – di moltissime delle quali la ragion d’essere è ben lontana dall’essere dedotta dal principio del minimo di sacrificio – l’imposta progressiva sul reddito o sulle successioni e dicendo: che cosa volete di più da noi? Forseché noi ci siamo rifiutati di applicare i principii della scienza, di far opera di democrazia, di ugualitarismo livellatore? Il qual sollazzo dei governanti può non produrre alcun danno ai popoli, essendoché può darsi che le imposte progressive, così utili per lo sbandieramento siano congegnate nei modi che sotto vedremo essere consigliati dalla tecnica tributaria. E così senza danno si ottiene il beneficio grande, sebbene intrinsecamente illusorio, di persuadere i popoli che in terra regna, mirabile fatto, quella incognita che ha nome di giustizia tributaria.
Sezione quinta.
Il principio della equivalenza o delle controprestazioni o del beneficio.
199. Concetto del principio delle equivalenza. – Visto l’insuccesso dei tentativi di fondare la ripartizione dell’imposta su un principio analogo a quello su cui si fonda l’economia edonistica, alcuni scrittori ripiegarono indietro; e misero innanzi il concetto che le imposte, essendo pagate affinché lo Stato provveda a certi pubblici servigi, devono essere riparte in modo che i cittadini siano gravati da imposte nella misura in cui traggono beneficio dai pubblici servigi. La teoria si dice della equivalenza o delle controprestazioni, a mettere in luce che l’imposta deve trovare il suo equivalente nei servigi pubblici; ed è detta, sovratutto dagli inglesi, del beneficio (benefit theory) ad indicare che il contribuente deve ricavare dai servigi pubblici un beneficio almeno uguale alla pena, al costo imposte i criteri informatori del sistema dei prezzi privati, quasi privati, prezzi pubblici, tasse e contributi. Per tutti questi è chiaro che il pagamento dell’utente contribuente deve corrispondere ad una presentazione di vantaggi, di servigi da parte dell’ente pubblico. Sempre quando si tratta di servigi indivisibili, è un continuo confronto tra costi e prezzi, tra la convenienza di continuare a pagare in confronto ai vantaggi che si ottengono dalla merce o dal servigio che si ottiene in cambio.
Ma tutte le cose già dette a proposito della indivisibilità dei servigi a cui si provvede con le imposte, bastano a mettere in luce che in questo campo la ricerca dell’equivalenza fra imposta pagata dai singoli contribuenti e benefici da essi ricevuti singolarmente in virtù dei pubblici servizi è assurda. Se la ricerca fosse possibile, sarebbe inutile discorrere di imposte; perché saremmo nel campo dei prezzi pubblici o delle tasse. Lo studio della ripartizione delle imposte è necessario appunto perché non si conoscono i benefici arrecati ai singoli da certi servizi pubblici. Se si conoscessero non si parlerebbe di imposte. A che giova dunque introdurre in questo argomento criteri, dai quali bisogna fare astrazione, trovandosi dinnanzi all’ostacolo insuperabile dell’ignoranza?
200. Entro che limiti il concetto della equivalenza è ammissibile. La equivalenza tra imposta e servigi pubblici in blocco. – Tuttavia il criterio delle controprestazioni o del beneficio non è privo di qualche virtù illuminante in materia di imposta. Esso giova a mettere in luce che, se non tra quote singole di imposte e quote individuali di servizi pubblici corrispondenti, deve almeno esistere una equivalenza tra massa totale di imposte e massa totale dei servigi pubblici. Ad esempio, possiamo affermare che, in prima approssimazione, data una massa totale di imposte di 2.000 milioni di lire nell’Italia del tempo presente, deve ad essa corrispondere una massa totale di servizi pubblici ritenuta dai consociati del valore complessivo di 2.000 milioni di lire. L’equivalenza in blocco non ci porta molto in là nello studio; ma è utile sia affermata, come quella che corrisponde all’esigenza che i consociati hanno verso i loro rappresentanti o governanti, che questi non sprechino il provento delle imposte a fini che sono inutili per la collettività. Esigenza modestissima; ma che, se fosse osservata, sarebbe feconda di benefici incalcolabili, come quella che assicurerebbe ai consociati imposte moderate e, perché tali, facilmente repartibili con soddisfazione di tutti.
Il guaio si è che cotal verità è vera solo in prima approssimazione. Poiché, se si studiano ad una ad una le spese che di fatto sono compiute dagli Stati antichi e moderni subito si vede come ve ne siano talune che alla collettività non converrebbe affatto di compiere; mentre convengono ai gruppi o ceti governanti od a talune ragioni o città influenti. Di ciò già si parlò nel capitolo primo della parte presente, ragionando dei servizi propri spuri; ed è inutile ritornarvi sopra. Qui basti osservare che l’esigenza dell’equivalenza in blocco rimane teoricamente solida ed è la meta a cui si tende anche di fatto, perché ogni violazione di essa equivalenza è cagione di danni, i quali alla lunga scuotono i governanti e li inducono a ristabilire l’equilibrio rotto.
201. La equivalenza territoriale tra imposte e servigi pubblici. – Il principio delle controprestazioni riceve applicazioni ulteriori e particolari quando giova a limitare l’incidenza di una imposta a quelle classi o quelle regioni che sole trarranno beneficio dai relativi pubblici servigi. Innanzitutto ha applicazione territoriale. Esso non serve a spiegare l’imposta che grava su Tizio o Caio; ma serve a dividere le imposte in taluni grandi categorie: erariali, quando si sa che i servizi pubblici forniti col loro provento giovano o si suppone giovino a tutti gli abitanti dello Stato; provinciali, quando esse sono destinate a pagare servigi la cui utilità non si estende oltre i limiti territoriali della provincia: od il cui costo convenientemente può essere ripartito solo sugli abitanti della circoscrizione provinciale; comunali, quando la spesa si compie nella località ed esaurisce in essa i suoi effetti benefici. È innegabile che la distribuzione dell’imposta tra lo Stato ed i vari enti territoriali è una conseguenza logica del principio delle controprestazioni largamente inteso.
202. La equivalenza per classi sociali tra imposte e servizi pubblici. – Se ne può fare applicazione anche nelle classi sociali. Vi sono imposte chiamate appunto speciali perché gravano su quei gruppi di persone che traggono vantaggio particolare (distinto per il gruppo, sebbene indistinto per i singoli componenti il gruppo) da un servizio pubblico. Per esempio la imposta camerale colpisce soltanto quei commercianti ed industriali che fruiscono o si suppone fruiscano dei servizi delle camere di commercio, che sono un organo statale coattivo. La imposta sul trasporto degli emigranti è pagata solo in apparenza dai vettori ed in realtà dagli emigranti che si può credere traggono loro prò dei servigi del commissariato dell’emigrazione. E molte sono le imposte sociali di tal fatta, intorno a cui si può leggere il bel libro di P. Jannaccone su I tributi speciali nella scienza della finanza e nel diritto finanziario italiano (Torino, Bocca 1904).
Ma anche all’infuori di esse, il criterio dell’equivalenza per gruppi speciali di persone si applica pure in molte imposte che appaiono generali.
Anzi, ogni qualvolta si deve far fronte ad una spesa nuova, si studiano quali sono le classi che dalla spesa si suppone traggono vantaggio e si cerca far gravare su di esse l’imposta. E la spesa delle pensioni agli operai? E subito si dice che deve essere messa un’imposta sugli industriali, perché questi si avvantaggiano per l’esistenza di una classe operaia sicura dell’avvenire; mentre agli vorrebbe una imposta sulle successioni dei ricchi, in quanto la proprietà e la ricchezza sono più sicure e si trasmettono più tranquillamente da una generazione all’altra, laddove esiste una classe operaia contenta, e, per la ricchezza della vecchiaia, poco proclive ai torbidi rivoluzionari. Vuolsi provvedere alle spese di una conquista coloniale? Gli operai affermeranno subito che deve scegliersi un’imposta progressiva sui redditi, perché le colonie giovano sovratutto alla espansione del capitalismo della madrepatria nei nuovi paesi, mentre i capitalisti e gli imprenditori opporranno le equivalenza tra una imposta su tutti e quindi anche sulle masse operaie ed il vantaggio di un più ampio e sicuro mercato nazionale aperto ai lavoratori dalla madrepatria. Ragionamenti tutti il cui valore è discutibile, ma che riposano sulla constatazione, più o meno esatta, di una esigenza di bilancia tra il dare delle imposte e l’avere dei pubblici servizi.
203. Conclusione sulla applicabilità del principio della equivalenza. – Tal che si può, concludendo, affermare che il principio dell’equivalenza, o delle controprestazioni o del beneficio non è in tutto inutile.
Inapplicabile alla propria distribuzione dei carichi tra gli individuali, esso giova a stabilire l’equilibrio fra spese ed entrate nel complesso, fra il costo delle imposte ed il vantaggio dei pubblici servizi complessivamente considerati, e persino fra gruppi di imposte e gruppi di pubblici servizi.
L’aiuto che il principio della equivalenza – traduzione grossolana e vaga delle regole del prezzo in un campo dove tutto è incertezza e trabocchetti – dà alla ripartizione delle imposte, non è dunque inutile. Esso traccia le grandi linee di confine e le demarcazioni territoriali e sociali entro cui devono muoversi le imposte. Sarebbe già un beneficio inestimabile non sconfinare colla guida del principio dell’equivalenza. Il compito rude della ripartizione sugli individui rimarrebbe in tutta la sua complessità ma un po’ di strada sarebbe compiuta.