Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo II – La guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1933

Capitolo II – La guerra

La Condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Laterza, Bari – Yale University Press, New Haven, 1933, pp. 27-130

 

 

 

 

1- Lo sforzo finanziario

 

14. Concezione stoica degli scopi di guerra di alcuni scrittori politici. – 15. Concezione economica, ugualmente stoica, della guerra che ne sarebbe derivata. – 16. Come la condotta reale sia stata diversa. Gli italiani non si fecero mai illusioni di indennità; e giustamente non vollero mettersi al soldo degli alleati. – 17. Non si vide in tempo o non si osò dichiarare la lunghezza della guerra. Ragioni politiche e sociali di debolezza: i neutralisti, i socialisti, i cattolici. Perciò la finanza di guerra fu incerta e debole. – 18. Una tabella riassuntiva del costo della guerra. – 19. Quanto si poteva con imposte da cittadini pienamente consapevoli fornire allo stato per la condotta della guerra e come siasi altrimenti dovuto provvedere. – 20. L’imperfezione del congegno tributario esistente. – 21. Infelice successo delle nuove imposte sui consumi e sugli affari. – 22. Le vecchie imposte sui redditi erano rigide e sperequate e le loro mutazioni furono per lo più di nome. – 23. Una tabella riassuntiva dei prestiti di guerra. – 24. Di una condotta tributaria della guerra che sarebbe stata possibile pur ricorrendo a prestiti. – 25. Insufficiente provento dei prestiti perpetui ed a lunga scadenza. – 26. Predilezione dei risparmiatori per i buoni del tesoro. – 27. Grandezza del prelievo compiuto con il prestito. – 28. Il gettito dei prestiti sarebbe stato, forse, minore senza l’inflazione monetaria.

 

 

14. – La guerra non avrebbe mutato notevolmente la struttura sociale del paese se le classi dirigenti, compresi in questi gli organizzatori degli operai e dei contadini, avessero avuto una esatta visione del suo costo e degli scopi per i quali volevamo entrare in guerra. Se tutti fossero stati persuasi che la guerra sarebbe stata «lunga e costosa», che per cagion di essa le imposte avrebbero dovuto essere «notevolmente aumentate» e «cadere massimamente sulle classi medie ed alte» e su «consumi voluttuosi e redditi superiori al minimo necessario all’esistenza», e che «scarso compenso diretto finanziario” potevamo riprometterci dall’annessione delle terre italiane soggette all’Austria»; se tutti fossero stati convinti, che «all’impoverimento economico diretto gravissimo, in vita e in denari, che noi subiremo in conseguenza della guerra» si potevano contrapporre soltanto benefici inestimabili bensì, ma puramente morali: «il compimento dell’unità nazionale sino ai suoi confini naturali» la «stima conseguita agli occhi del mondo» perché l’esercito italiano avrà dato prova «di saper vincere le asprezze e le difficoltà della guerra», il paese sarebbe stato in grado di far fronte, senza tremare, ai duri sacrifici che la guerra doveva imporre. Sarebbe stato d’uopo, per ridurre al minimo quel costo, sapere chiaramente che la guerra aveva fini ideali, che solo indirettamente ed in un lontano avvenire avrebbero potuto essere fecondi di qualche vantaggio materiale. «Chi crede sia un sentimentalismo vano preoccuparsi se l’Italia abbia ad essere una nazione libera, vivente di vita sua propria e collaborante con altri paesi, anche germanici, all’opera comune di civiltà, quegli riterrà denari spesi invano quelli di una guerra condotta anche per tutelare la libertà del Belgio e della Serbia. Quegli invece che freme di vergogna al solo pensiero di un paese intento unicamente ad aumentare i suoi beni materiali e contento di vivere all’ombra di un qualche grande stato mondiale, colui riterrà lievi i sacrifici sopportati per la difesa dei piccoli stati e compensati largamente dalla preservazione della indipendenza propria … In un’epoca nella quale si parla quasi soltanto di imperialismi, in cui l’avvenire sembra riservato ai paesi conquistatori, in cui è ridivenuto di moda il motto: il commercio segue le bandiere, noi asseriamo, colla nostra guerra contro l’Austria, voluta malgrado fosse di tanto più comodo e meno rischioso accettare le profferte degli antichi alleati, il valore supremo dell’imperativo categorico di non mancare all’appello dei fratelli trentini e triestini che vogliono venire con noi … «Noi vogliamo Trieste, non perché essa, sia uno dei maggiori porti del mondo, non perché essa possegga una flotta potente e traffici ricchi. La vogliamo perché i suoi abitanti sono italiani e perché essi vogliono unirsi a noi, prima che la sua nazionalità sia snaturata dalla marea slava, che in parte scende dalla montagna per ragioni naturali di inurbamento ed in parte vi è artificiosamente trapiantata dal governo austriaco per soffocare la nazionalità italiana. Per questo noi vogliamo Trieste, e non perché essa sia ricca. Anzi, noi siamo convinti di non avere alcun diritto di ipotecare per noi i vantaggi della posizione e della potenza economica di Trieste.

 

 

L’Italia è il solo paese il quale, dominando a Trieste per ragioni etniche, possa offrire alle altre nazionalità il modo di giovarsi senza ostacolo dei vantaggi economici del suo porto. Se l’Italia dopo averla conquistata, vorrà conservare Trieste, lo potrà fare soltanto a condizione di non volerne sfruttare il porto a vantaggio esclusivo degli italiani». Parole che sembravano fare dell’Italia il cavaliere errante dell’umanità e delle future generazioni: «Noi sappiamo che la guerra renderà la vita della nostra generazione più dura; noi sappiamo che essa crescerà la fatica nostra e scemerà i nostri godimenti. Ma appunto questo volemmo, mossi dall’ideale di apparecchiare ai nostri figli ed ai nostri nepoti una condizione di vita più elevata e sicura»[1].

 

 

15. – Alla stoica concezione degli scopi di guerra avrebbe dovuto corrispondere una altrettanto stoica condotta economica di essa. Oggi è possibile descrivere[2] quale avrebbe dovuto essere quella condotta.

 

 

Nessuno pensò in quel momento solenne, che la guerra potesse essere combattuta con uomini ancora da nascere; e dalle generazioni giovani e mature italiane fu perciò accettato serenamente il sacrificio della vita. Nessuno avrebbe parimenti dovuto immaginare che la guerra potesse essere combattuta con mezzi materiali diversi da quelli esistenti in paese nel tempo della battaglia.

 

 

Le vettovaglie, i vestiti, le tende, le munizioni, le armi consumate dall’esercito in campo sono quelle esistenti nel momento in cui si entra nella mischia e quelle prodotte di giorno in giorno mentre essa dura. I beni prodotti in passato ed investiti possono essere consumati in quella tenue proporzione in cui è dato trascurare temporaneamente le riparazioni, le sostituzioni, le migliorie ai terreni, alle case, alle macchine, alle scorte esistenti, per dedicare gli sforzi giornalieri alla produzione di beni di consumo. Né si possono consumare beni futuri, vita e lotta essendo impensabili con frumento nascituro e proiettili non ancor fusi, se non sotto forma di rinuncia al risparmio e cioè a costruire case nuove, a migliorare terreni, ad ampliare imprese, rinuncia decisa per consacrare tutte le opere disponibili alla fatica di produrre strumenti bellici.

 

 

Epperciò il flusso di ricchezza destinato alla condotta della guerra non doveva immaginarsi fosse altro dal flusso annuo del reddito nazionale; e se questo si valutava nel 1914 in 20 miliardi di lire annue[3], il problema economico della condotta della guerra stava tutto nel mutare il rapporto tra beni pubblici e beni privati nella ripartizione del flusso del reddito nazionale. Laddove, innanzi guerra, quel rapporto era di 17.5 miliardi dedicati al soddisfacimento di bisogni privati e 2.5 a quello dei bisogni pubblici, d’un tratto innalzavasi il grado finale di utilità dei beni destinati alla condotta della guerra e questi prendevano il passo sui beni privati non assolutamente necessari alla vita fisica dei cittadini. Scadono di pregio beni, per lunga consuetudine, reputati necessari. Si rinuncia al pane bianco e fresco per il desco famigliare per sapere provveduti i combattenti di cibo confortevole. La proporzione dei beni prelevati dallo stato sale da 2.5 a 5 ad 8 e poi a 10 milioni sui 20 del flusso di nuova ricchezza annualmente prodotta; ed il popolo consente e vuole la mutazione. La guerra è condotta crescendo via via le imposte in guisa da coprirne con esse il costo totale corrente. I prezzi delle cose consumate mediamente non crescono, poiché la quantità richiestane non è mutata; ché il potere di richiesta è stato semplicemente trasferito, senza crescere, dai privati consumatori allo stato. Urgendo mutare le cose prodotte, fa d’uopo mutare l’assetto industriale; ma la mutazione si opera tanto più rapidamente quanto più è vivo lo spirito di sacrificio dei cittadini. Non sorgono profitti particolari derivanti dallo stato di guerra, diversi per importanza da quelli che sono conseguenti ad ogni mutazione della domanda; ché lo stato non crea nuovi strumenti monetari né perciò offre moneta nuova contro un invariato flusso di cose e di servigi.

 

 

Il carico delle imposte diventa durissimo; ma continua ad essere ripartito secondo le regole classiche, e massimamente di quella secondo la quale per brevi periodi di guerra è lecito operare in maniere che sarebbero dannosissime nei lunghi periodi di pace. Se in tempo di pace il tributo gravante sui redditi alti non può essere cresciuto troppo più che su quelli bassi, essendo ragionevole il timore di scemare la spinta al lavoro ed al risparmio; in tempo di guerra le imposte possono essere senza pericolo spinte sui ricchi ad altezze durissime, il contribuente sapendo invero che il sacrificio è momentaneo, compiuto per la salvezza di tutti e propria.

 

 

Come il mercante fa volentieri gitto di preziose merci durante la burrasca e chi più ha più gitta, così il ricco e l’agiato danno i nove decimi e più, se occorre, del proprio reddito, mentre il mediocre ed il misero danno soltanto dal 20 al 10 per cento. La regola del minimo sacrificio della collettività assume in quei frangenti valore di imperativo categorico; e nessuno si adonta a veder tagliati gli alti papaveri. Dinnanzi alla salute della patria l’avaro si inchina; siccome durante la bufera imperversante sull’Ellesponto, dopo gittate le cose preziose, i grandi persiani, fatto inchino alla maestà di Serse, che volevano salva, impassibili si gettavano in mare per alleggerire il peso della navicella la quale portava le fortune dell’impero[4].

 

 

16. – La condotta della guerra non poté essere in Italia, come non fu in alcun altro paese, stoica. Il nostro popolo non abbandonò subito le arti della pace, non rinunciò ai consueti godimenti, non si privò di gran parte del proprio reddito per gittarlo sull’altare della patria per la salvezza dell’esercito in campo e per la grandezza della nazione. Qual popolo fece tanto? Solo un popolo di uomini ragionanti avrebbe attuato lo schema teorico; ma in un mondo popolato tutto di esseri razionali e ragionanti, la guerra non sarebbe sorta, i dissensi risolvendosi col ragionamento. Perciò la condotta della guerra fu assai varia, ricca di virtù, mirabile per sacrifici compiuti, ammonitrice per contrasto di colpe di egoismi di errori.

 

 

Essa durò a lungo, oltreché per ragioni militari e tecniche, delle quali nel presente volume non si discorre, anche perché in nessun paese si osò dir subito che sarebbe stata lunga. Fu più costosa del necessario, perché prevalse il timore di farne sentire il costo effettivo a tutti. Provocò il sorgere e il divampare di passioni politiche e discordie sociali, anche perché negli uomini di governo fu viva la preoccupazione di calmare gli animi e di conquistare alla guerra il favore delle moltitudini.

 

 

A differenza di tutti o quasi gli altri paesi, gli uomini politici e i pubblicisti italiani non soggiacquero all’illusione di poter riversare sul vinto il costo della guerra. Pochi fatui sognarono indennità di miliardi; ma non ebbero seguito. Contro la tesi del ministro tedesco delle finanze, dottor Hellferich, che le spese di guerra germaniche dovessero alla fine essere coperte dalle indennità pagate dai vinti nemici, si consentiva in Italia solo nell’altra tesi sua «che quanto più si prolunga la guerra, tanto meno facile riuscirà a qualunque dei due gruppi riesca vincitore, di far pagare una indennità al vinto»; e subito si aggiungeva, anticipando dimostrazioni poi divulgate, «come il pagamento possa farsi, è difficilissimo immaginare» (C.d.S., 26 agosto 1915).

 

 

Se al buon senso nostrano repugnò subito la speranza di far pagare la guerra al nemico, fu più diffusa l’illusione che le spese della guerra dovessero essere sostenute dagli alleati; ed ingiuste crudeli recriminazioni ebbero luogo contro il ministro del tesoro del tempo, il quale non si era fatto garantire dalle potenze alleate sussidi assai più larghi e durevoli di quel primo miliardo, in cui pare consistessero le iniziali promesse di prestito da parte della Gran Bretagna all’Italia. L’uomo concepiva la guerra all’Austria come l’ultima per l’indipendenza e si sarebbe vergognato di far comparire l’esercito italiano quasi prezzolata compagnia di ventura al soldo altrui per ideali non nazionali. I fatti dimostrarono poi che bene l’on. Carcano aveva operato a non chiedere sussidi gratuiti e vistosi; ché prolungandosi la lotta, le nazioni alleate non poterono mancare di aiutarsi l’un l’altra; e, se anche l’aiuto prese nome e forma giuridica di prestito rimborsabile, di fatto il rimborso non poté poi aver luogo[5]. L’aiuto fornito per necessità e non accattato con contratto preventivo, nulla scemò così alla dignità dell’intervento italiano.

 

 

17. – Taluno pretese, quando la guerra si prolungò, di averne antiveduto la durata; recriminazioni dettate dall’esperienza del poi. Prima, le previsioni pessimistiche erano armi usate da chi la guerra ad ogni costo avversava o non giudicava ancora venuto il momento di dichiararla. Era convinzione, invero, di gente non poca e non piccola che tra i grandi capi della politica italiana non si battagliasse tra il 1914 ed il 1915, pro e contro l’entrata in guerra, da tutti riconosciuta necessaria, ma si manovrasse per cogliere, a proprio vantaggio, il momento migliore per spiccare dall’albero la pera matura della partecipazione breve e vittoriosa alla lotta dell’intesa contro l’assalto degli imperi centrali. Gli eventi dimostrarono la vanità di siffatta manovra sul tempo; ché, se si fosse tardato ancora, l’intervento sarebbe stato poi deciso di fronte alle incalzanti sconfitte russe?

 

 

Trascorso un secolo dalle guerre napoleoniche e due da quelle per la successione spagnola, l’opinione dei paesi belligeranti stentava a persuadersi dell’impossibilità di risolvere in breve una contesa per l’egemonia dell’Europa; e sopratutto si esitava a dichiarare ai popoli la convinzione della durata lunga. Quello stesso scrittore il quale, ragionando pacatamente su riviste, prevedeva una guerra «lunga e costosa», nell’agosto del 1914 a calmare l’allarme di rapidi aumenti nel prezzo del pane, manifestava l’impressione che nella primavera del 1915 «anche l’immane conflagrazione europea sarà giunta nel suo svolgimento ad un punto tale da poter fondatamente far calcoli sull’avvenire» (C.d.S., 11 agosto 1914).

 

 

Anche quando, più tardi, la lunga esperienza ha assuefatto gli animi a pensare alla guerra come a qualcosa che non debba finir più, l’ipotesi è enunciata quasi a contraggenio: «a meno di supporre una durata della guerra sino al 1919 od oltre» (C.d.S., 27 gennaio 1917).

 

 

Si può far torto agli uomini di stato italiani di non aver dichiarato ciò che nessun uomo pubblico di paesi assai più antichi e saldi del nostro osò dire? Ribollivano tra noi passioni sociali e politiche e dissensi profondi che rendevano il governo del nostro paese difficilissimo. Industriali ed operai organizzati guardavano allo stato più come a provvidenza che come a tassatore spietato, e se imposte si dovevano pagare, pareva ovvio chiedere compenso di dazi. Gran parte delle classi alte, comprese quelle intellettuali, ammiravano la Germania come tipo di ogni perfezione, sopratutto militare ed economica, sicché era saldissimo il mito della sua invincibilità. I capi del movimento socialistico erano amanti della patria; ma per ricordo di vecchie battaglie contro le tendenze, dette utopistiche ed umanitarie, dei Saint Simon, dei Fourier, dei Blanqui, dei Blanc, dei Bakunine e per tradizione quasi semisecolare del mito della lotta di classe, la quale spregiava gli idealismi nazionali ed affratellava, aldisopra dei confini, i proletariati di diversi paesi contro l’internazionale dei capitali, ripugnavano a rinnegare la fede a lungo asserita, e pur stupefatti per la solidarietà del partito democratico sociale tedesco col governo del proprio paese, erano incapaci a predicar resistenza alle folle, alle quali fino a ieri si era tenuto altro linguaggio. Ubbidiente la gerarchia cattolica ad idealità sopranazionali ed esitante il partito popolare, il quale aveva assunto la rappresentanza politica degli interessi cattolici, a far dichiarazioni interventistiche, che si temeva potessero danneggiarlo presso le masse contadine e cattoliche di fronte alla concorrenza socialistica. I neutralisti, i socialisti, i cattolici, i mormoratori fecero poi bravamente il loro dovere nelle trincee e nella battaglia, nella consecuzione di medaglie al valor militare distinguendosi regioni che avevano fama di sorda opposizione alla guerra.

 

 

Ma la guerra si vince col valore del braccio, colla sfida al pericolo in campo, ed insieme colla resistenza spirituale. Questa da ultimo fu alla radice della vittoria. Perciò gli uomini del governo, uomini del loro tempo, e presi nella tempesta delle parti, non osarono essere stoici nella condotta economica della guerra e vissero giorno per giorno. La politica seguita fu del mettere imposte, ma non abbastanza; del preferire i prestiti all’imposte; e ad amendue i prestiti all’estero, che il popolo reputava non si sarebbero mai dovuti rimborsare; del distribuire pane e sale e carbone e via via ogni cosa necessaria all’esistenza a prezzi di impero cresciuti il meno che si poteva al disopra di quelli antebellici, indulgendo alle grida popolari contro gli accaparratori ed i profittatori della guerra e sforzandosi di castigarli con imposte fortissime sui guadagni di guerra; ma nel tempo stesso col condiscendere, misuratamente dapprima ed in misura via via più accentuata dipoi verso il metodo misterioso ed allettatore della provvista di merci di guerra con la carta moneta a corso forzoso.

 

 

18. – Quanto sia costata la guerra condotta così come si poté cogli uomini d’allora nel paese in cui essi dovevano agire, dirò, senza discussioni faticose e forse non conclusive intorno ai criteri metodologici più opportuni a fare la stima di quel costo, ricorrendo alla sola dichiarazione officiale che si conosca in materia e questa farò che sia commentata da alcuni calcoli.

 

 


 

 

ANNO

Pagamenti per spese di guerra in lire correnti[6]

Saggio medio del cambio[7]

Pagamenti per spese di guerra calcolati in lire oro antiche

Spese dello stato e degli enti locali calcolate in lire oro antiche

 

Proporzione percentuale della spesa pubblica al reddito dello stato

Totali

Coperti con debiti assunti all’estero[8]

Rimasti a coprire col reddito nazionale

Spese normali[9]

Pagamenti per spese di guerra rimasti a coprire all’interno

Totali

Reddito nazionale in lire oro antiche[10]

Spesa normale

Spesa bellica

Spesa totale

 

1

2

1-2 = 3

4

4 – 3 = 5

6

5 = 7

6+7=8

9

6-9=10

7-2=11

10+11=12

1914-15

2.249

1.08

2.082

2.082

2.5

2.1

4.6

20

12.5

10.5

23

1915-16

7.548

1.25

6.038

6.038

2.5

6.0

8.5

20

12.5

30

42.5

1916-17

13.086

1.35

9.619

5.303

4.316

2.5

4.3

6.8

20

12.5

21.5

34

1917-18

18.613

1.68

11.079

6.168

4.911

2.5

4.9

7.4

20

12.5

24.5

37

1918-19

22.280

1.39

16.028

7.735

8.293

2.5

8.3

10.8

20

12.5

41.5

54

1919-20

12.018

3.04

3.953

3.953

2.8

4.0

6.8

20

14

20

34

1920-21

9.208

4.57

2.014

2.014

3.2

2.0

5.2

21

15.2

9.5

24.7

1921-22

10.348

4.22

2.452

2.452

3.5

2.4

5.9

21

16.6

11.4

28

1922-23

25.621

4.15

6.173

6.173

4

6.2

10.2

21

19

29.5

48.5

1923-24

12.318

4.42

2.789

2.789

4

2.8

6.8

21

19

13.3

32.3

1924-25

3.923

4.60

853

853

3.8

0.8

4.6

22

17.2

3.6

20.8

1925-26

2.177

4.93

441

441

4.2

0.4

4.6

23

18.2

1.7

19.9

1926-27

1.882

4.56

412

412

5.1

0.4

5.5

24

21.2

1.6

22.8

1927-28

1.663

3.65

455

455

6.7

0.5

7.2

25

26.8

2

28.8

1928-29

1.630

3.68

443

443

6.2

0.4

6.6

24

25.8

1.6

27.4

1929-30

1.374

3.68

373

373

6.3

0.4

6.7

23

27.4

1.7

29.1

 

[11]

145.938

65.204

19.206

45.998

62.3

45.9

108.2

345

18.0

13.3

31.3

Primi10 eserc.

30

43

73

204

14.7

21

35.7

 

 

 

 

 

 

19. – La tabella dimostra come una nazione tutta composta di patrioti ragionatori, epperciò perfetti uomini economici, avrebbe potuto condurre economicamente la guerra. Il prelievo medio dal reddito nazionale operato lungo il quindicennio per le spese di guerra e per quelle normali si aggirò intorno al 31%; e nei primi dieci anni, in cui più duri furono i sacrifici, arrivò al 35% del reddito nazionale. Due punte sole si ebbero, di cui la seconda, del 1922-23, con un prelievo del 48.5%, fu di mera regolazione contabile di fatti avvenuti precedentemente e quella del 54% per il 1918-19, la sola veramente significativa, avrebbe potuto essere smussata, nella sua incidenza tributaria, con meri spedienti di tesoreria. Che gli italiani potessero sostenere un prelievo medio del 36% è dimostrato da ciò che essi, in tempi di tanto minore commozione patriottica, ne sostengono oggi uno che supera il 29% e per sole imposte (il resto è sostenuto con prestiti) soffrono una recisione tra il 26 e il 28% dei loro redditi[12]. Se si deducono i 73 miliardi di lire spesi nel decennio dai 204 miliardi di reddito nazionale, rimangono 131 miliardi disponibili nel decennio per le spese private degli italiani non viventi a carico dello stato. Calcolando a 36 milioni di abitanti la popolazione totale media nel decennio e stimando soltanto a 4 milioni l’esercito in campo e coloro che dipendevano in tutto od in parte dai bilanci pubblici[13], i 13.1 miliardi annui di reddito nazionale rimasti ai privati, se distribuiti sui 32 milioni residui della popolazione civile, danno un reddito individuale medio di 409 lire oro prebelliche, superiore dell’86% al reddito medio individuale dei 16 milioni di contadini italiani innanzi guerra [14]. Gli italiani avrebbero dunque potuto condurre la guerra senza strascichi di debiti, senza inflazioni monetarie, senza aumenti e diminuzioni di prezzi diversi da quelli inevitabili in ogni trapasso da uno ad altro indirizzo produttivo e senza turbamento grave di posizioni acquisite, se essi, vedendo chiaramente l’importanza dello scopo e la necessità dei sacrifici per ottenerlo, avessero deliberato di vivere per 10 anni con un tenor medio di vita superiore soltanto dell’86% a quello osservato alla vigilia della guerra dal contadino del loro stesso paese.

 

 

Operato con le regole del sacrificio minimo teorizzato dagli economisti e di nuovo esposte in quei frangenti da taluno tra i più insigni di essi[15] il prelievo di imposte avrebbe dunque dovuto partire da un terzo dell’eccedenza per i redditi appena appena superiori al minimo necessario all’esistenza secondo le esigenze dei contadini italiani, per giungere al 90 ed al 99% per le eccedenze massime.

 

 

Il duro prelievo non sarebbe stato insopportabile; e, con una distribuzione disordinata nel tempo e sperequata per le persone e per le classi sociali, esso fu operato di fatto. Quei 73 miliardi, che non poterono essere prelevati con imposte nel tempo voluto, e nelle proporzioni richieste a rendere minimo il sacrificio della collettività, furono tuttavia versati nel tesoro pubblico. Taluno, che non volle, od al quale non fu potuta chiedere imposta bastevole, diede invece parte cospicua del suo reddito a titolo di prestito volontario; e poi quei prestiti e con essi quelli antichi furono dimezzati e fin ridotti ad un quinto del loro antico pregio con lo spediente della svalutazione monetaria e così convertiti in imposta forzosa.

 

 

20. – Oltreché per la manchevole preparazione negli animi, l’impresa delicatissima di un prelievo tributario perequato e crescente di grado in grado non poté attuarsi per la imperfezione del congegno tributario esistente.

 

 

Lentissime a muoversi, e per salti inferiori a 100 milioni di lire all’anno, le entrate totali dello stato erano cresciute da 966.2 milioni di lire nel 1871 a 1.500 nel 1887-88, a 1.946,4 nel 1907-8 ed a 2.523,7 nel 1913-14. Di questi 230.7 milioni erano forniti dai servizi pubblici, 231.8 da cespiti diversi e 2.061,2 milioni dai tributi. Poco più di un quarto dei tributi era fornito dalle imposte sui redditi, un ottavo da quelle sui trasferimenti della ricchezza (successione e registro) e quasi cinque ottavi dalle imposte sui consumi, comprese le privative fiscali. Il prevalere delle imposte sui consumi dà una prima spiegazione della difficoltà del compito imposto alla finanza italiana: ben 679.1 milioni di lire erano forniti dai dazi doganali, dalle imposte di fabbricazione e dai dazi interni di consumo. Trasferiti questi ultimi praticamente ai comuni, guasti i dazi doganali e le imposte di fabbricazione, per quanto tocca la loro produttività fiscale, da gravi contaminazioni protezionistiche, non da essi poteva attendersi un adeguato sussidio alla finanza di guerra. Meglio promettenti i monopoli del sale, del tabacco e del lotto, passati da 222 milioni di lire nel 1870 a 550.3 nel 1913-14; ma l’aumento incontrava, in imposte al postutto volontariamente pagate, un limite insuperabile nella elasticità della domanda. Del pari le imposte sui trasferimenti, fatta eccezione di quella sulle successioni, sono pagate in seguito ad un calcolo sulla convenienza di fare acquisti di merci, di immobili, di costituire ipoteche, di trasformare imprese in società anonime; ma la convenienza muta col mutare dell’altezza del tributo.

 

 

21. – Infelice fu invero l’esito dei tentativi compiuti durante la guerra di inasprire le imposte sui consumi. Il provento crebbe a malapena da 1.229,4 milioni di lire nel 1913-14 a 7.509,6 nel 1923-24, moltiplicandosi per 6,18 coefficiente non troppo diverso da quello (5,38) dell’aumento dei prezzi per l’inflazione monetaria, nonostante si esplorassero vie nuove nella imposizione dei consumi. Le tasse di bollo sui biglietti di ingresso ai cinematografi e la trasformazione dell’imposta sugli spettacoli teatrali, sui trattenimenti sportivi, sulle corse di cavalli apersero (nel novembre 1914) la via alle imposte suntuarie, con successo, contrastato bensì, ma ragguardevole, il quale dimostrò l’esistenza di eccedenze di reddito appropriabili dallo stato. Travagliatissima fu invece la vita dell’imposta, istituita nei 1917, sulla vendita di gemme, gioielli, perle, vasellami e posaterie d’argento, orologi d’oro e in genere oggetti confezionati con materie preziose e di quella, creata nel 1919, sui tessuti in seta o nei quali la seta entrasse, anche in minima parte, e sui pizzi, merletti, strisce e sui guanti di pelle, di cotone, di lino e di lana. Non si ristettero i setaioli dal muovere lagnanze vivissime, finché non ottennero nel 1923 che quest’ultima imposta fosse abolita. Imitata nel 1919 da quasi contemporanei esperimenti francesi e tedeschi, l’imposta sul lusso e sugli scambi non trovò stabile assetto se non dopo essere passata attraverso a varie fasi, di cui la prima, quella di addizionale all’imposta di ricchezza mobile, non poté neppure avere inizio, la seconda fu caratterizzata da una bipartizione in una tassa di lusso del 12% sul valore dell’oggetto acquistato, e in una tassa di bollo del 0,30% sulle note, conti, fatture per lo scambio di materie prime ed altri prodotti fra industriali e commercianti. Eccessiva la prima e nonostante multe da 10 a 20 volte l’importo della tassa non pagata, largamente evasa, sì da indurre il legislatore a conglobarla, insieme con quella di bollo, e con l’altra sugli oggetti preziosi ed una terza, istituita nel 1916 con scala progressiva, epperò assurda per consumi frazionabili a libito del contribuente, sulle profumerie e specialità medicinali, in una nuova imposta generale di bollo del 0,50 e dell’1% sugli scambi commerciali. Vessatorie epperciò tormentate apparvero le imposte sulle spese sostenute negli alberghi, trattorie ed osterie (1917), a cui si aggiunsero variopinte addizionali per mutilati e turismo. Anche la imposta sulle bottiglie contenenti vino, liquori ed acque minerali (1918), ridotta ben presto ai soli spumanti ed acque minerali, fu conglobata poi nella tassa generale sugli scambi. Quante forme abbia assunto l’imposta sul vino, dal momento in cui nel settembre 1919 fu creata alla sua abolizione nel settembre 1924, attraverso la consueta vicenda di rimbalzi tra proprietari e viticultori, tra negozianti e consumatori, di privilegi ai proprietari diretti consumatori del proprio vino, di controlli costosi e fastidiosi, sarebbe lungo dire.

 

 

Quanto ai monopoli, non si osò aumentare il prezzo del sale comune più che da 40 a 50 centesimi al chilogrammo, cosicché, quando i costi per la svalutazione della moneta crebbero, lo stato finì per produrre e distribuire sale a prezzi di costo[16]. Non bastando perciò l’aumento progressivo del prezzo dei tabacchi, si lanciò nel 1918 con strepito di promesse un grandioso programma di nuovi monopoli: caffè e suoi surrogati, tè, zucchero, petrolio, benzina, paraffina, ed altri oli minerali pesanti e leggeri, esclusi i lubrificanti, residui della loro distillazione, carbone fossile, escluso il coke prodotto in Italia, alcool denaturato, materie esplodenti, lampadine elettriche. Con la pretesa di una vera rivoluzione fiscale volevasi assidere la pubblica finanza sul provento netto dei grandi commerci monopolizzati dallo stato. Di pochissimi di quei monopoli si iniziò l’attuazione. Nessuno durò. Il monopolio dei fiammiferi si trasformò in un consorzio privilegiato tra le fabbriche esistenti di fiammiferi, e questo vive. Quello delle carte da gioco si ridusse all’acquisto all’ingrosso dai fabbricanti ad un dato prezzo, ed alla rivendita ai negozianti ad un prezzo cresciuto; e il fastidio per l’erario parve presto maggiore della semplice imposta di fabbricazione. Neppur si tentò di istituire il monopolio del caffè e dei suoi surrogati. Una direzione generale a bella posta creata presso il ministero comperava il caffè a prezzi correnti e lo rivendeva agli stessi negozianti consorziati a prezzi fissi. I negozianti recalcitravano, nonostante lo stato, fattosi quasi loro socio, garantisse un profitto «equo», ed obbiettavano che il guadagno era opportuno consistesse, come prima, nel sapere comperare a tempo, nell’utilizzare il metodo dei contratti a termine, concatenandoli e sovrapponendoli di continuo. Le obbiezioni e la contemplazione del danno arrecato al grande mercato di Trieste, approvvigionatore di caffè, oltreché per la monarchia danubiana, per il Levante ed i Balcani, valsero a far abolire l’ibrido congegno. Scompariva nel tempo medesimo il cosidetto monopolio dei surrogati del caffè, che si era subito ridotto ad un’imposta su industriali obbligatoriamente consorziati. Il monopolio delle lampadine elettriche s’era limitato fin dal principio al nome di «diritto di monopolio» dato ad una vera imposta di fabbricazione. Nel 1924, quando fu veduta l’inanità di moltiplicare nomi ed oggetto delle imposte sui consumi, queste si ridussero all’antico, coll’aggiunta di una moderata imposta sugli scambi.

 

 

22. – Costretto dalla elasticità della domanda dei beni e degli affari soggetti a tributo a domandare al contribuente imposte veramente obbligatorie, lo stato urtò contro ostacoli tecnici e psicologici. L’inettitudine tecnica dei vecchi tributi sul reddito a fornire gettito crescente fu presto chiara. L’imposta sui terreni, che nel 1872 aveva dato allo stato 131 milioni di lire, si era ridotta a gittarne appena 81.6 nel 1913-14. Nonostante un conguaglio provvisorio compiuto nel 1864 e la perequazione, meritamente celebre, ordinata dalla legge dell’1 marzo 1886, il catasto erasi rinnovato solo in poche province, quasi tutte settentrionali, che vi avevano interesse. La maggior parte era ancora tassata in base a 22 vecchi catasti sperequati; e sgravi di imposta sino al 30% del contingente erariale avevano cercato di alleviare le conseguenze delle crisi viticole, cerealicole e olivicole nel mezzogiorno. Le riduzioni concesse a far tacere lagnanze avevano cresciuto il disordine. Il quale era tollerabile, sinché l’imposta era tenue: 300 milioni di lire allo stato ed agli enti locali su 2.600 milioni di reddito fondiario[17]; ma se a fronteggiare le spese belliche il carico tributario fosse stato recato a 1.000 a 1.500 milioni di lire oro antiche, taluni contribuenti ad estimo alto, avrebbero dovuto pagare più del reddito ricevuto, mentre su altri l’onere sarebbe stato ancora lieve. Ugualmente viziosi erano gli estimi dei redditi dei fabbricati; i quali risalivano al 1890, sicché, essendo dopo d’allora intervenuti mutamenti di rilievo nei fitti, i nuovi fabbricati erano stati valutati sul fondamento di criteri via via mutati negli anni. Neppure la pupilla degli occhi del fisco, l’imposta di ricchezza mobile, la quale gittava nel 1913-14 ben 346.2 milioni di lire contro i 65.7 del 1865 e pareva, per la sua simiglianza di struttura con la inglese imposta sul reddito, la più pronta a seguire le variazioni del fabbisogno dell’erario, si sottraeva al peccato di rigidità. Quel gettito di 346 milioni di lire era fornito da aliquote di tributo che, per essere del tempo di pace, erano altissime: dal 7,65 al 20% del reddito effettivo; ed erano tollerate solo perché, per i redditi variabili, dei commercianti degli industriali dei professionisti, si era instaurato un tacito accordo fra la finanza ed i contribuenti, in virtù di cui non il reddito vero si accertava, ma un che di medio equitativo. In realtà non esistevano criteri uniformi per la ricerca dell’equità; e in molti casi gli estremi dei redditi giungevano al vero e lo toccavano perfettamente quelli dei redditi fissi degli impiegati pubblici, dei pensionati e dei creditori dello stato e degli altri enti pubblici. Come potevasi aumentare al 50 od al 70% l’aliquota dell’imposta quando l’incidenza ne sarebbe stata diversissima da caso a caso?

 

 

Alla difficoltà tecnica si aggiungeva la repugnanza psicologica. Lo stato, seguendo il principio del minimo sacrificio, può in tempo di guerra appropriarsi tutto il reddito eccedente il necessario all’esistenza; né distrugge lo stimolo al lavoro ed al risparmio, se il sacrificio stimasi di breve durata e necessario per ritornare a condizioni normali. Fa d’ uopo a ciò conoscere il reddito complessivo, netto da oneri di debito, di famiglia ed altri di ogni contribuente. Forse la previsione di gravi necessità nazionali è la sola ragione la quale può addursi per mantenere in vita lo strumento di tassazione detto «imposta progressiva sul reddito totale dei contribuenti», strumento che in tempi normali dovrebbero avere compito quasi soltanto estetico di coronamento di un sistema informato a più razionali principi[18]. In Italia non si era avuta la preveggenza di costruire in pace lo strumento tributario della guerra; ed il congegno tributario era, oltreché arrugginito, puramente «reale», ogni fonte di reddito essendo a sé accertata; né si potevano perciò far somme di redditi, ché l’unità monetaria usata variava da tributo a tributo: lira immaginaria di conto per i redditi fondiari; lira del 1890 per il grosso di quelli edilizi, lira corrente per il resto.

 

 

Nonostante le quali difficoltà di tassare equamente le persone, il legislatore, quando si decise ad aumenti di imposte, esitò a colpire egualmente tutti, poveri e ricchi. Lievissima la prima offesa arrecata al principio della proporzionalità quando si crebbe l’addizionale del 2% all’imposta erariale principale (detta del terremoto di Messina e di Reggio Calabria dall’occasione che l’aveva originata) al 5% solo per le quote di imposta erariali superiori a lire 10 per i terreni, a lire 15 per i fabbricati ed alle 1.500, 1.667 e 2.000 lire di reddito (rispettivamente per le categorie B, C, D). Ben presto le offese diventano più profonde. A partire dall’1 gennaio 1917 l’imposta sui terreni viene applicata in base ad aliquote dell’8,80, del 10, del 12, del 13 e del 14% per le quote d’imposta, le quali, calcolate in base all’aliquota uniforme del 10%, fossero rispettivamente inferiori a lire 10, tra lire 10 e 50, tra 50 e 300, tra 300 e 500 ed oltre 500 lire nello stesso distretto di agenzia. Progressività incongrua, perché non applicata a tutti i redditi del contribuente, ma solo a quello fondiario ed a questo nei limiti di ristretti territori detti distretti di agenzia, senza detrazioni di passività e senza attribuzione dei redditi intestati a ditte collettive ai singoli redditieri. Per timore di vederla traslata sugli inquilini non si osò dapprima crescere l’imposta sui fabbricati, creandosi invece un tributo del 5% sui canoni di fitto riscossi dai proprietari. Imposta decimante il reddito lordo con divieto legale di rivalsa sugli inquilini, con esenzione incomprensibile per i fabbricati abitati dai proprietari medesimi. Il doppione non durò l’anno; ché, istituito il 9 novembre 1916, era già abolito il 9 settembre 1917, quando la vecchia imposta sui fabbricati fu anch’essa ridotta a progressiva, con aliquote dal 16,25, del 18, del 20 e del 22%, per le crescenti categorie di reddito. Più tormentata di tutte l’imposta di ricchezza mobile, nella quale si incominciò nel 1916 a distinguere i redditi dei privati contribuenti inferiori da quelli superiori alle lire 3.000 nelle categorie B e C; e via via si moltiplicarono le distinzioni in sino a quando, con decreto dell’1 agosto 1918, i redditi degli industriali e commercianti privati (cat. B) apparvero distinti in quattro classi, quelli degli impiegati privati e professionisti (cat. C) in cinque classi di aliquote, ferma rimanendo un’aliquota unica per gli enti collettivi industriali e commerciali e per i loro impiegati accertati per rivalsa. Alla degenerazione piccolo bottegaia del congegno dei tributi sui redditi, per cui essi colpirono maggiormente non i contribuenti più facoltosi, ma le imprese più vistose, si aggiunsero minori stravaganze: esentati i caroviveri degli impiegati e trasportato per i ferrovieri, col divieto della rivalsa, l’onere dell’imposta a carico delle imprese esercenti; colpiti invece da tributo mobiliare i canoni enfiteutici, quasi ché non fossero già colpiti dall’imposta fondiaria; istituito uno speciale tributo, sotto forma di addizionale del 5 e poi del 15% su tutte le imposte sui redditi e le tasse di registro e bollo, di successione, di manomorta ed ipotecarie, che si disse a favore dei mutilati, invalidi e vedove di guerra, ma fu versato nelle casse del tesoro, alla pari di tutti gli altri tributi; tentata un’altra novità, detta del centesimo di guerra, per un verso imposta propria dell’1% su tutti i redditi già assoggettati alle altre imposte e per l’altro verso trattenuta dell’1% su tutti i pagamenti effettuati dallo stato, dalle amministrazioni statali, dalle province e dai comuni, ad eccezione degli interessi del debito pubblico, dei buoni del tesoro, dei pagamenti fatti a titolo di rimborso di capitale e di quelli fatti all’estero. Inane tentativo, quest’ultimo, di ridurre d’autorità l’ammontare dei pagamenti dovuti dallo stato per forniture e contratti, ché gli interessati, in previsione del tributo, aumentavano subito d’altrettanto, e, per precauzione, di parecchio più il prezzo delle nuove forniture. Divenuto partita di giro, il contributo del centesimo di guerra, cresciuto nel frattempo sino a tre centesimi, fu abolito a partire dall’1 marzo 1919.

 

 

Altro omaggio reso al principio di tassare maggiormente i redditieri più grossi in confronto ai medi ed ai piccoli fu l’imposta complementare sui redditi superiori a lire 10.000, che in apparenza cresceva dell’1% per i redditi fra 10 e 15 mila lire sino all’8%, per quelli oltre 75 mila lire, aliquote raddoppiate per il 1921 in virtù della legge per l’abolizione del prezzo politico del pane; ma in realtà era una mera addizionale gravante sul cumulo dei redditi già assoggettati per ruoli alle imposte normali sui redditi, esclusi perciò i redditi esenti da queste e non tassati per ruoli.

 

 

Il che voleva dire esenzione di quasi tutto il reddito proveniente dal possesso di titoli di debito pubblico, di quello degli impiegati di stato, degli enti pubblici minori e degli impiegati privati. Concessa la detrazione solo per gli interessi dei debiti ipotecari e non degli altri oneri, tassate non le persone fisiche, ma le ditte iscritte a ruolo; assoggettandosi così le ditte proprietarie di terreni e di fabbricati in comunione di parecchie persone fisiche, le società commerciali di fatto, e quelle in nome collettivo, in accomandita od anonime alle aliquote massime, nonostante il reddito fosse spezzato, per il godimento, tra molti contribuenti. Poche le eccezioni – a favore degli enti soggetti ad imposta di manomorta, delle imprese municipalizzate, delle società cooperative per la costruzione di case – all’assurda regola; e quelle poche non bastavano ad eliminare il vizio di sperequazione, di parzialità e di incapacità di questo, come degli altri spedienti fin qui richiamati[19], e risolvere il grosso problema di provvedere i miliardi di lire di entrata richiesti dalle esigenze della guerra.

 

 

23. – Poiché il congegno tributario era inetto a fornire il necessario alla condotta della guerra, fu giocoforza accattar denaro a prestito. Partendo, per gli anni dal 1914-15 al 1923-24, in cui ebbe luogo il grosso dei pagamenti, dai dati contenuti nella precedente tabella (parag. 18), si può ricostruire come segue l’indebitamento dello stato (in milioni di lire):

 


 

 

Anno

Pagamenti per spese di guerra rimasti a coprire col reddito nazionale calcolati in lire oro antiche[20]

Ammontare

in lire correnti dei debiti contratti con[21]

Ammontare

in lire oro antiche del

 

Prestiti consolidati

Prestiti redimibili ed obbligazioni delle Venezie

Emissioni di buoni del tesoro

Totale

totale controscritto[22]

totale medesimo ridotto al netto[23]

Eccedenza dei pagamenti (col. 1) sull’ indebitamento (col. 8)[24]

polienn.

annuali

 

1

2

3

4

5

6

7

8

9

1914-15

2.082

1.087

21

1.108

1.026

923

1.159

1915-16

6.038

3.864

384

4.248

3.400

3.060

2.978

1916-17

4.316

7.142

– 4.698

2.422

3.506

8.372

6.201

5.581

-1.265

1917-18

4.911

6.688

– 58

656

3.521

10.807

6.432

5.789

– 878

1918-19

8.293

– 238

– 46

2.757

7.242

9.715

6.989

6.291

2.002

1919-20

3.953

19.671

– 47

– 1.832

– 5.975

11.917

3.920

3.528

425

1920-21

2.014

1.107

– 49

1.606

10.820

13.533

2.961

2.665

– 651

1921-22

2.452

66

– 51

1.613

5.636

7.254

1.719

1.548

904

1922-23

6.173

125

– 176

3.509

– 582

2.876

6.930

6.237

– 64

1923-24

2.789

20

– 337

727

– 2.707

– 2.297

– 502

– 452

3.241

Totali

43.021

35.170

7.851

 

 

 

24. – La tabella qui costrutta non intende tanto a raffigurare la realtà storicamente accaduta, quanto quell’altra realtà che pur sarebbe stata possibile se l’anima della nazione fosse stata abbastanza salda e concorde.

 

 

Poiché nel decennio i pagamenti per spese di guerra rimasti a carico del reddito nazionale non superarono i 45 miliardi di lire oro prebelliche e poiché dai prestiti interni effettivamente si ricavarono 35 miliardi delle stesse lire, sarebbe bastato che le spese normali dello stato fossero rimaste contenute nei limiti antebellici ed i contribuenti avessero cominciato a pagare fin dall’inizio neppure 1 miliardo di lire di imposte nuove all’anno e lo avessero, a coprire l’onere di interessi sui debiti cresciuti, di anno in anno mediamente cresciuto di altri 200 milioni di lire, perché la guerra si chiudesse senza strascichi di emissioni cartacee e di svalutazioni monetarie. L’onere tributario di stato dai 2 miliardi antebellici sarebbe cresciuto subito a 3 miliardi e via via a 5 nel 1923-24 per ridiscendere e fermarsi su 4, col venir meno delle spese straordinarie di guerra. Grave sacrificio, ma non insopportabile; programma forte, ma non eroico come quello che si delineò sopra per una nazione di patrioti e di perfetti uomini economici. Che non si sia potuto attuare neppure questo più limitato proposito indica quanto fragile fosse nelle moltitudini e nelle classi dirigenti la volontà di guerra. La minoranza che dirige gli stati e trascina le masse ai grandi cimenti non osò mettere le masse e la classe dirigente medesima a troppo duro cimento con aumenti bastevoli di imposta. Non un centesimo di nuove imposte era stato il motto del governo del tempo della guerra di Libia; infausto precedente che pesò gravemente sull’ardire finanziario degli uomini sotto tanti rispetti degni, i quali governavano l’Italia all’aprirsi della guerra. Memori della fatica che si era durata a strappare al parlamento due soli centesimi addizionali al momento del terremoto di Messina e Reggio Calabria – erano stati cinque i centesimi proposti e si erano dovuti ridurre a due ché i cinque parvero un abuso pretestuoso – ci si baloccò nei primi anni della guerra europea con addizionali del 3 e del 5% e poi con le moltiplicazioni che sopra si sono descritte dei nomi e delle classi di imposta, gingilli tributari inetti a far sentire alla massa dei contribuenti, in Italia, per la povertà generale, necessariamente composta di gente mediocre, il peso dei pur necessari nuovi tributi.

 

 

25. – Neppure i prestiti trovarono, del resto, dapprima volonterosa accoglienza. Il primo, in obbligazioni redimibili non prima di 10 anni e non più tardi di 25 anni, fu emesso nel gennaio del 1915 al saggio di interesse del 4,50% che, tenuto conto del corso di emissione a 97 lire, parve usurario ai finanzieri di quell’epoca ancora ipnotizzati dalla conversione, avvenuta nove anni prima, del vecchio consolidato 5% lordo in un 3,50% netto. Non fu invece bastevole; e, nonostante si fosse istituito un consorzio tra istituti di emissione, casse di risparmio ed istituti di credito, in tutto oltre 200 enti, a garantire fino a 500 milioni il collocamento di quella parte del prestito che fosse rimasta scoperta dalla sottoscrizione pubblica, questa, durata dal 4 all’11 gennaio 1915 fruttò 881 milioni nominali di lire, abbastanza per liberare il consorzio dal maggior peso della garanzia prestata, pochi per i bisogni dello stato. Il secondo prestito, presto bandito dall’1 al 18 luglio 1915 nel regno e dall’1 luglio al 31 agosto per i residenti nelle colonie ed all’estero, conservò le caratteristiche precedenti, abbassandosi però il prezzo di emissione a 95. Per indennizzare i sottoscrittori del primo prestito del maggior prezzo pagato, si abbonarono loro 2 lire sulle nuove sottoscrizioni. Furono raccolti 922.4 milioni all’interno, 21.6 all’estero, e 200 milioni dal consorzio, in tutto 1.145,8 milioni di lire. Un terzo prestito, sempre in obbligazioni di 10-25 anni ma al saggio del 5% ed al prezzo di emissione di 97,50, consentita la conversione ai portatori dei primi due, raccolse dal 10 gennaio all’1 marzo 1916 ed all’1 maggio all’estero 2.633 milioni nel regno, 3.9 nelle colonie, 77.4 all’estero, oltre i 300 milioni assunti a fermo dal consorzio.

 

 

Nel gennaio 1917, in occasione del quarto prestito, si rinuncia al tipo di obbligazioni redimibili a favore di quello in rendita perpetua 5%; ed il prezzo di emissione ridotto a 90 lire, sicché il saggio di frutto, pur non tenendo conto del premio eventuale al rimborso, risulta del 5,55%, garantito per 15 anni contro il diritto di conversione con rimborso.

 

 

Al consorzio resta affidata la cura della sottoscrizione, senza obbligo di assumere a fermo alcuna parte del prestito, obbligo che si risolveva nella vendita a corsi ribassati delle partite non collocate. Accettati in pagamento i buoni ordinari, quelli pluriennali nuovi ed anche i quinquennali 4% che poco prima della guerra si era commesso l’errore di emettere invece di rendita perpetua; accettati i titoli esteri, e, a prezzo fisso, monete d’oro; ma queste si versano soltanto per spirito patriottico, essendo il prezzo stato fissato al di sotto del corso corrente dei cambi. Accettati i titoli del primo e del secondo prestito fruttiferi del 4,50%, a condizione di un versamento suppletivo di lire 2,50, e quelli del terzo, già del 5% contro un premio di 3 lire. Promesso ai nuovi titoli il godimento dei medesimi benefici e diritti che venissero accordati in occasione di nuovi prestiti di stato da emettersi nel corso della guerra a condizioni più favorevoli. Così si evitava il ripetersi delle querele dei sottoscrittori ai primi prestiti per le più laute condizioni offerte in occasione dei nuovi, querele le quali diffondevano il concetto convenisse aspettare per cogliere l’alea di futura migliore offerta. Le sottoscrizioni ammontarono a 3.612,2 milioni nominali nel regno, 4 nelle colonie, 182.2 all’estero, oltre a 3.185,6 milioni di conversioni.

 

 

Per il quinto prestito, emesso nel gennaio 19l8 sotto forma di rendita consolidata 5% inconvertibile, come il precedente, sino a tutto il 1931, fu ribassato il prezzo a 86,50, rimborsandosi così lire 3,50 ai possessori dei titoli del prestito precedente. Alle consuete agevolazioni si aggiunse quella dei versamenti assicurativi all’istituto nazionale delle assicurazioni con l’emissione di polizze miste quindicennali a condizioni largamente favorevoli. Le polizze superarono gli 875 milioni di lire ed il prestito fruttò 5.926,3 milioni di lire.

 

 

Nell’ora della vittoria non si osò lanciare un sesto prestito che avrebbe dovuto consentire, almeno in parte, il ritiro dei buoni del tesoro i quali crescevano pericolosamente. Erano cresciuti, in quell’entusiasmo, i corsi dei valori pubblici e forse sarebbe stato possibile interrompere la serie delle emissioni a prezzi decrescenti, la quale faceva diffidenti i risparmiatori. Al prestito di consolidamento ci si risolse solo nel gennaio 1920, fissandosi il prezzo di emissione a lire 87,50, eguali ad 85 a cedola dell’1 luglio staccata. Vantaggi speciali furono offerti per sollecitare la conversione dei buoni ordinari e di quelli pluriennali prossimi a scadenza.

 

 

Il risultato – 20.591 milioni nominali di lire, eguali a 17.502 milioni effettivi al corso di 85, di cui 8.759 in contanti, 5.578 in buoni ordinari e 3.393 in buoni poliennali – parve grandioso. Molte sottoscrizioni provenivano però, per dimostrazione patriottica, da persone ed enti sforniti di effettiva disponibilità di risparmio sia presente che prossima; epperciò i nuovi titoli vennero subito copiosamente offerti in vendita o recati agli istituti di emissione od alle banche per ottenerne anticipazioni. Se fu contenuta la fiumana dei biglietti di banca, la quale allora cominciò a restringersi in meno disordinato letto, riprese dopo breve respiro la emissione dei buoni del tesoro, veri biglietti in potenza, sicché la svalutazione monetaria giunse tra il 1920 ed il 1921 al peggio.

 

 

26. – Per tutto il decennio, la predilezione del risparmiatore italiano a pro dei prestiti brevi rimase ferma. Tra il 1914 ed il 1923 il valor nominale dei debiti perpetui e redimibili a lunga scadenza crebbe di 34.477 milioni di lire (da 14.840 al 30 giugno 1914 a 49.347 al 30 giugno 1923); di 10.741 milioni il valor nominale dei buoni poliennali e di 24.563 milioni quello dei buoni ordinari a scadenza non superiore all’anno. Non peculiare all’Italia questa predilezione verso i prestiti brevi, dovuti alla certezza del loro rimborso alla pari, la quale era presidio contro il rischio di deprezzamento dei valori perpetui o a lunga scadenza; ma segno che la fiducia nell’avvenire della pubblica finanza era malcerta.

 

 

27. – Fu meraviglioso, ciononostante, che un trapasso così vistoso di reddito si operasse dai privati allo stato, sia pure stentatamente e soggetto a richiesta di rimborso a breve scadenza. Nei tre anni di guerra più dura, dal 1916 al 1918, furono versati al tesoro, a titolo di prestito, in media quasi 6 miliardi di lire oro antiche, all’incirca il 30% del reddito nazionale; e ciò accadeva quando le imposte prelevavano dal 12 al 15% su quello stesso reddito.

 

 

28. – Degno, quel trapasso, di meditazione anche per il modo con cui fu conseguito, il quale dimostra quanto gli schemi teorici costruiti per uomini perfetti debbano modificarsi per tener conto del vivo materiale umano. In un mondo astratto, il tassatore implacabile avrebbe dovuto prelevare con imposte quella medesima quota del reddito nazionale. Ma poiché non fu storicamente possibile ridurre tutti gli italiani a porzion congrua poco superiore al tenor medio di vita prebellico del contadino, e fu d’uopo fare appello all’aiuto volontario dei risparmiatori, convenne ingrossare dapprima le correnti di risparmio disposte ad indirizzarsi allo stato. Se nulla fosse stato mutato nella distribuzione del reddito nazionale; se i poveri ed i mediocri ed i contadini avessero continuato a godere di quella frazione del reddito nazionale che possedevano in pace, l’attribuzione, con metodi volontari, allo stato di una bastevole frazione del flusso annuo del reddito nazionale avrebbe probabilmente incontrato maggiori ostacoli. I poveri, i mediocri ed i contadini non sono facilmente costretti a patire imposta, né i primi sono usati a risparmiare e gli ultimi a recare il loro risparmio allo stato contro consegna di carte per essi di ignoto significato. Fu dunque, siamo forzati a chiedere, necessità storica, che si svilisse la moneta circolante, si impoverissero i poveri ed i mediocri con l’imposta surrettizia del rincaro della vita, si impedisse, coi calmieri e colle requisizioni, ai contadini di trarre tutto il partito possibile dai conseguenti rialzi dei prezzi; affinché i redditi si concentrassero in classi meno numerose, più atte ad essere obbligate a restituire allo stato i facili guadagni con imposte eccezionali sui profitti di guerra o con prestiti d’indole quasi commerciale, come sono gli acquisti di buoni del tesoro? Fu davvero necessario usare questo processo contorto, costoso, socialmente pericolosissimo; fu necessario esasperare, collo spettacolo delle subite fortune, il malcontento del popolo e spingerlo alla rivolta, in nome della salvezza del paese? Arduo sarebbe dare risposta all’angoscioso problema, che nessuno del resto tra i governanti pose, allora, così. Qui basti narrare gli avvenimenti ed analizzare le circostanze le quali condussero il paese a quel punto.

 

 

 

2- Lo sforzo tecnico

 

29. Il grandioso fabbisogno bellico. – 30. Mutazione avvenuta nel motivo dell’operare economico. La consecuzione del profitto non più determinato da un confronto fra costo e prezzo. Produrre in fretta ad ogni costo. – 31. La mancanza di un piano di mobilitazione industriale. La necessità dell’improvvisazione fa repugnare ai controlli su costi e guadagni. – 32. La guerra sottomarina mette in luce l’inettitudine dei dazi protettivi a pro della siderurgia. – 33. I metalli minori, lo zolfo, i marmi, decadono. – 34. La guerra e l’industria meccanica. – 35. Il meraviglioso contributo dell’industria alla produzione delle artiglierie. – 36. E dei velivoli. – 37. Delle autovetture, degli autocarri, delle trattrici e dei motocicli. – 38. I prodotti minori della metallurgia e della meccanica. Le vie teleferiche, i materiali telegrafici e telefonici, gli apparati fotoelettrici. – 39. Gli impianti ed i materiali per le ferrovie, i ponti, le strade e le costruzioni diverse. – 40. Gli approvvigionamenti di legname ed i guasti alle foreste. – 41. La difficoltà dei trasporti fa preferire nell’industria chimica l’importazione dei prodotti intermedi a quella delle materie prime. Insufficienza della produzione interna di esplosivi. – 42. L’industria conciaria e quella delle calzature; ed il forte incremento della lavorazione della gomma elastica. – 43. Le fortissime esigenze belliche di tessuti: juta, seta, canapa e cotone se ne giovano, ma più l’industria laniera. – 44. La ridotta importazione dei carbon fossili ed il trascurabile contributo delle ligniti e dei petroli nazionali. Ma compie grandi progressi l’industria idroelettrica. – 45. L’industria agricola, nonostante la sottrazione di mano d’opera, non scema il suo prodotto lordo. – 46. La imponente mutazione nel commercio internazionale: le esportazioni scemano e le importazioni crescono giganti; mutano i paesi fornitori e gli acquisti son fatti per ragion pubblica su crediti aperti dagli alleati. – 47. Il traffico ferroviario voltasi dall’adriatico al Tirreno, dai valichi alpini orientali a quelli occidentali, il traffico civile cede il passo a quello militare; i trasporti di carbon fossile a quelli di granaglie e di merci varie. Le mobilitazioni, le offensive, la ritirata sul Piave impongono nuovi indirizzi all’esercizio e sottopongono a forte usura il materiale. – 48. La navigazione interna e le nuove vie acquee aperte, per le merci pesanti, a sussidio della rete ferroviaria. – 49. La navigazione marittima, la crisi dei noli e la guerra sottomarina. Nonostante i grandi sforzi per le nuove costruzioni, all’armistizio la flotta italiana ha subito gravi perdite.

 

 

29. – La compressione dei bisogni privati aveva per iscopo di provvedere alle esigenze belliche. E queste erano grandiose. Alla fine del 1916 si valutava già quel fabbisogno a 17 mila quintali al giorno di frumento, 300 quintali fra pasta e riso, 1.000 quintali di formaggio, 1.500 di patate, 7.500 poi ridotti a 6.000 quintali di carne, pari a 2.000 capi di bestiame, quasi l’intiero consumo nazionale prima della guerra; e vi si dovevano aggiungere il caffè, lo zucchero, il vino, gli agrumi, la frutta fresca e secca; i liquori, il latte condensato, la cioccolatta che si dispensavano ogni giorno od in circostanze speciali ai soldati. Enorme il consumo dei materiali: per la sola costruzione delle trincee o di altre difese si erano già (fine 1916) consumate oltre 100 mila tonnellate di cemento, parecchie decine di milioni di sacchi, oltre 60 mila tonnellate di paletti metallici e rotoli di filo spinoso ed a milioni si contavano gli strumenti necessari a lavori di scavo.

 

 

Solo per la costruzione di baraccamenti adatti alla campagna invernale 1916-17 si impiegarono più di 30 mila metri cubi di legname e di 20 mila tonnellate di materiali metallici vari; furono allestiti lettini di ferro o legno per circa un milione di posti, fornite 20 mila stufe, 6 milioni di metri quadrati fra stuoie, cartoni catramati, feltri coibenti, lastre eternit, lamine zincate. In quel solo inverno, a trasportare i materiali e gli approvvigionamenti necessari, le linee del Veneto vennero percorse da 34 mila treni militari, oltre gli ordinari e perciò furono costruite alcune centinaia di km. di nuovi binari di corsa, di raddoppio e di raccordo, impiantati nuovi piani caricatori, migliaia di cambi, ampliate e costrutte alcune centinaia di stazioni, sviluppati i trasporti per via acquea, dato impulso alle ferrovie decauville, ai trasporti mediante autocarri, carri comuni, slitte, teleferiche e someggio; migliorata ed estesa la rete stradale, aperte gallerie, gittato ponti. (Bachi, 1916, 261).

 

 

Indice della grandiosità dello sforzo industriale compiuto è l’incremento nelle armi. La dotazione delle mitragliatrici, di cui se n’avevano due per ognuno dei reggimenti di fanteria, bersaglieri ed alpini all’aprirsi della guerra, giungeva a 36 nell’ottobre 1917; le artiglierie da pochi pezzi di grosso calibro, di cui una trentina di obici da 280 e da 305,246 di medio calibro, compresi 112 obici pesanti campali da 149, e 1.772 pezzi di piccolo calibro, passano nell’ottobre 1917 a ben 2.933 pezzi di medio calibro e quasi 5.000 di piccolo calibro dopo aver sostituito circa 4.000 bocche da fuoco fra perdute, scoppiate e logore. Nei giorni di Caporetto si perdono d’un tratto più di altre 4.000 bocche da fuoco; ma nel maggio 1918 erano di nuovo in linea e ai depositi circa 7.000 pezzi, oltre 264 per l’aeronautica e 525 pei posti di rifugio, ritrovandosi all’armistizio la dotazione a 7.709 pezzi. Frattanto dall’inizio della guerra al giorno dell’armistizio, ridotti gli antiquati fucili modello 70-87 Wetterli da 1.317.000 a 610.819, quelli modello 91 erano cresciuti da 956.000 a 2.206.181, oltre a 5.000 fucili automatici prima ignoti, i moschetti modello 91 passano da 201.000 a 290.587, le mitragliatrici da 617 e 25.084, le bombarde ed i lanciabombe da zero a 6.584, le bombe a mano da zero a 12.000.000, le munizioni per mitragliatrici da zero a 393.800.000[25]. Anche da queste poche parziali cifre si vede quanto sia stato immane lo sforzo necessario a creare, accanto all’esercito in campo, un altro esercito non meno ricco di intelligenza e non meno dotato di mezzi, vibrante di patriottismo, saldo nelle energie morali e nelle braccia laboriosamente operanti»[26].

 

 

30. – A conseguire lo scopo dovevano profondamente mutare nel tempo stesso l’assetto industriale ed il motivo dell’operare economico. Questo era prima e ritornò di poi ad essere la consecuzione di un profitto. I capi di impresa ponevano e dalla concorrenza erano costretti a porre attenzione a non spender male o troppo per non cadere in perdita e fallire, l’interesse inducendoli perciò a restringere i costi entro i limiti del prezzo. La guerra non abolì per i produttori il desiderio e la speranza del profitto; ma ne rese indipendente la consecuzione del costo. Unico scopo delle industrie attinenti alla guerra essendo il raggiungimento della vittoria, si doveva produrre ad ogni costo; e su questo costo forzato si regolavano i prezzi pagati dallo stato. Ma secondo le regole ordinarie economiche, il costo risulta di un dato ammontare, perché il produttore incapace a contenerlo entro i limiti del prezzo fallisce; reso ora il prezzo dipendente dal costo, chi può indicare i limiti del costo? Un cronista contemporaneo così enunciava pochi mesi dopo l’inizio della guerra italiana, gli effetti della mancanza di limiti economici all’azione bellica:

 

 

«Il programma della economicità del mezzo non può sussistere, né per la limitazione del costo al minimo né per la ricerca di svolgere l’assorbimento dei mezzi (materiali ed umani) lungo il tempo, attraverso lo spazio e fra i vari tipi, in guisa da apportare il minimo turbamento possibile alla rimanente sezione dell’economia nazionale. Compirebbe un’azione delittuosa contro la patria il generale che lasciasse sfuggire la vittoria rinunciando a un largo rapido trasporto di truppe su autocarri per la preoccupazione dell’alto costo; sarebbe atto parimenti riprovevole quello dell’ammiraglio che rinunciasse a tenere unità navali sotto alta pressione, di fronte all’evenienza di improvvise azioni, per la preoccupazione del danno che deriva alle industrie nazionali dal soverchio consumo militare di combustibile» (Bachi, 1915, 218). Ai relatori della commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di guerra la condotta economica della guerra apparve ispirata al concetto di raggiungere lo scopo «con ogni sforzo e senza badare alle formalità, purché si facesse presto» e «della necessità assoluta di produrre a qualunque prezzo ed in qualunque modo e con qualunque mezzo». Era questo «il concetto dominante che ispira tutte le varie circolari, istruzioni, rapporti, ecc. del capo dell’amministrazione delle armi e munizioni, generale Dallolio, da quella 27 marzo 1915, n. 19.167, diretta all’ispettorato delle costruzioni di artiglieria, in cui si diceva che «in definitiva il fattore tempo doveva avere la precedenza su qualsiasi altra considerazione» e si autorizzava a concedere premi per anticipare le consegne, alla circolare 21 settembre 1916, n. 4.109, in cui si ripete ai direttori degli enti locali che «debbono astenersi da qualsiasi comunicazione burocratica … che non è il caso di citare paragrafi di regolamenti fatti per i bisogni di pace, che la guerra odierna richiede mezzi, continuamente mezzi, e i tecnici debbono essere pronti, atti e vigilanti per fornirli in qualsiasi momento». E bensì dal generale Dallolio subito «enunciato il concetto che insieme al fattore “tempo” nelle forniture militari dovesse aversi riguardo al fattore “prezzo”; ma di questo secondo elemento in verità è da ritenersi che nessun conto si sia tenuto» (Commissione, II, 85).

 

 

31. – Non esisteva in Italia un piano di mobilitazione industriale che assomigliasse a quello che si affermò allora fosse stato predisposto in Germania; «anzi è da ritenersi mancasse del tutto o quasi presso di noi prima della guerra una esatta concezione di tutto ciò che attenevasi alla creazione di quell’esercito industriale, che doveva agire in modo non meno poderoso, intelligente ed energico accanto all’esercito combattente, per fornire a questo tutto quanto occorreva per vivere ed operare» (Commissione, II, 8). L’improvvisazione fu inevitabile essendo estremamente difficile prevedere e la durata e le forme eccezionali che avrebbe assunto la guerra e la partecipazione inaspettata che ad essa avrebbero dato la scienza, la meccanica, la fisica, la chimica»[27]; e fu probabilmente vantaggiosa a sfruttare ed applicare «nel miglior modo possibile, di momento in momento, tutto ciò che il progresso scientifico e la tecnica potevano dare», così da produrre «instancabilmente ed ininterrottamente armi, munizioni e materiali di ogni genere in quantità, qualità e proporzioni tali che, pochi mesi prima della guerra, sarebbero sembrate fantastiche e favolose»[28]. Ai capi dell’amministrazione italiana delle armi e munizioni l’improvvisazione, ossia la creazione giorno per giorno di strumenti e metodi tecnici nuovi, consigliati da esigenze belliche di momento in momento mutevoli, non parve tollerare requisizioni di fabbriche e minuziosi controlli contabili rispetto agli industriali e lavoro coattivo rispetto agli operai. Si tenta bensì con analisi di costo di porre un freno alle pretese dei fornitori e si instaurano arbitrati per regolare le remunerazioni degli operai. Ma forte domina, pure in ufficiali avvezzi al comando imperioso dell’uomo di guerra, il concetto che più di ogni controllo e di ogni diritto di impero valesse, ad apprestare rapidamente mezzi bellici, lo stimolo del guadagno. Repugnavano i capi responsabili ad «imporre controlli diretti contabili e tecnici all’industria privata, per ciò che riferivasi all’accertamento dei suoi procedimenti tecnici e sopratutto dell’effettivo costo dei suoi manufatti e volevano evitare ingerenze che turbassero la libertà degli industriali nel funzionamento tecnico e contabile delle loro aziende … nella speranza così di ottenere il massimo rendimento … e di indirizzare alla soluzione del problema dell’armamento tutto l’organismo industriale, allo scopo di raggiungere il massimo effetto con mezzi indubbiamente all’origine assai scarsi» (Commissione, Il, 9-10).

 

 

32. – L’esperienza dimostrò inetto il presidio della fortissima protezione doganale che innanzi alla guerra si era istituito allo scopo di sottrarre il paese a quella che dicevasi servitù straniera nell’approvvigionamento della ghisa e dell’acciaio, materie prime fondamentali dell’armamento; materie che si riteneva potessero essere elaborate dagli arsenali statali, coadiuvati dalle pochissime officine private già provveditrici dell’esercito e della marina. Invano era stato fatto osservare[29] che in guerra sarebbe stato ben più difficile trasportare due tonnellate di minerale di ferro ed una e fino una e mezza tonnellata di carbon fossile che non una sola tonnellata di ghisa già ridotta. Si rispondeva che i belligeranti stranieri avrebbero tenuto per sé ghisa ed acciaio a gran fatica prodotti, pur continuando a vendere carbone e minerali sovrabbondanti. La scarsezza di mano d’opera avrebbe vietato ad essi quella trasformazione che a noi sarebbe stata agevole. Si sarebbe dato impulso, occorrendo, allo scavo del minerale di ferro dell’isola dell’Elba, della Nurra in Sardegna e di Cogne in val d’Aosta, ed a risparmiar carbone si sarebbero sfruttati i giacimenti sardi e toscani di lignite. La guerra dei sottomarini dimostrò quanto urgesse risparmiare la pur minima parte del tonnellaggio navale; sicché i relatori parlamentari sulle spese belliche così poterono esporre il decisivo insegnamento della guerra: «La grande guerra ha insegnato che, specialmente per noi, il problema più assillante e di più difficile soluzione è quello dei trasporti marittimi. Malgrado i più rosei sogni l’Italia non poté mai mantenere una colossale flotta mercantile perché, a tacer d’altro, non ha un abbondante traffico in uscita: quella che potrà assicurarsi non può superare le proporzioni richieste dai traffici dei tempi normali. Quindi prima necessità dei tempi di guerra sarà sempre di diminuire, quanto più sarà possibile, la quantità di materiale da ricevere per mare: ciò tanto più per l’avvenire, dopoché l’arma sottomarina e l’arma aerea, in via di prodigioso perfezionamento, renderanno sempre più difficile ed aleatoria la navigazione. In tale stato di cose, sembra di tutta evidenza questa conclusione: alla eventualità di dover trasportare in Italia il carbone, il minerale e la ghisa per i nostri stabilimenti siderurgici, è preferibile l’altra di dover trasportare l’acciaio, che in volume ed in peso rappresenta quantità infinitamente minori» (Commissione, II, 231). Crebbe sì la estrazione dei minerali di ferro: da 334 mila tonnellate in media nel quinquennio 1909-13 si passò a 706 mila nel 1914, a 680 mila nel 1915, a 942 nel 1916, a 999 nel 1917 ed a 694 nel 1918. I giacimenti sardi diedero un massimo di 180 mila tonnellate nel 1918, quasi nulla le miniere di Cogne, laddove da un energico sfruttamento delle antiche riserve dell’Elba si cavò fino ad un massimo di 840 mila tonnellate nel 1916. Ma l’industria siderurgica non poté spingere la produzione mensile dell’acciaio dalle 75 mila tonnellate mensili di media prebellica oltre il massimo di 110 mila toccato nel 1917; accentuatasi la deficienza dei carboni e la difficoltà di procacciarsi rottami all’estero, la produzione mensile si ridusse nell’ultimo anno di guerra sulle 100 mila tonnellate. Il consumo totale dei prodotti siderurgici che nel 1914 era coperto per il 73% o dalla produzione nazionale, nel 1917 e nel 1918 era per tal modo coperto solo per il 62 e 63%.

 

 

33. – Anche per gli altri metalli il progresso nello scavo fu stentato. Contro una media di 81 mila tonnellate di minerali di rame prodotti nel 1911-13, negli anni dal 1914 al 1918 non si andò sotto le 74 ma non si superarono le 89 mila tonnellate; e queste di basso tenore. Si provvedeva al bisogno di una varia e fiorente industria nazionale di tubi, fili e lamiere con importazione di rame in pezzi ed in rottami dall’estero. La guerra crebbe il fabbisogno nazionale per l’enorme richiesta di parti di proiettili, bossoli, fili telegrafici e telefonici; sicché l’importazione da 30 mila tonnellate nel 1913 crebbe a 59 nel 1917, a 85 nel 1917 ed a 76 mila nel 1918. Lo scavo dei minerali di zinco che era di 149 mila tonnellate nell’ante guerra quasi tutte esportate, non variò nel 1914, ma poi cadde di anno in anno ad 81, 94, 79,67 mila tonnellate perché l’esportazione era resa difficile dalla mancanza di mezzi di trasporto e l’industria interna non riusciva a cavare dal minerale più di 1.200 tonnellate di zinco. Invece il ricco minerale di piombo argentifero, che già prima si lavorava all’estero, continua a scavarsi in quantità oscillante tra 38 a 41 mila tonnellate all’anno. Invariata del pari (fra 985 e 1.093 tonnellate annue) la produzione del mercurio; e continua la decadenza nella estrazione dello zolfo che dalle 397 mila tonnellate antebelliche (1911-13) scende a 212 mila tonnellate nel 1917 ed a 234 mila nel 1918, nonostante i prezzi salissero da 102 lire la tonnellata nel novembre 1914 a 391 lire nel 1918; ma l’industria si avvantaggia per la riduzione nelle giacenze da 286 mila tonnellate al 31 luglio 1914 a 57 mila al 31 luglio 1918. L’acido solforico si poté cavare a minor costo dalle piriti di ferro, la cui estrazione crebbe perciò da 253 mila tonnellate medie nel 1911-13 a 501 e 482 mila tonnellate nel 1917 e nel 1918. Grazie ai ricchi giacimenti di bauxite ed alle agevolezze di energia elettrica raddoppia la produzione dell’alluminio da 800 a 1.700 tonnellate.

 

 

Inutile agli scopi di guerra, l’industria del marmo decade. La esportazione, che è la maggior parte della produzione totale, scende per il marmo greggio da 200 mila tonnellate nel 1912 a 20 mila nel 1918, per le tavole inferiori a 16 cm da 111 a 22 mila, per i lavori diversi da 16 a 3.

 

 

Alla fine della guerra le montagne del carrarese sono divenute solitarie, i cavatori di marmo essendo scemati da 12 mila nel 1911 a 3 mila al principio del 1919 nel solo comune di Carrara; e quei pochi faticano ad ingrossare i depositi. Ma i più tra i produttori hanno venduto velieri, macchine, freni, attrezzi, bestiame da tiro a prezzi vantaggiosi; sicché al momento dell’armistizio l’industria del marmo deve ricostruire i propri impianti per rispondere alla rinnovata domanda.

 

 

34. – Qual fosse il genio dell’Italia nelle industrie di guerra è manifesto dal crescere dell’importanza proporzionale della importazione dei prodotti delle industrie minerarie e metallurgiche di prima e seconda lavorazione in confronto a quella dei prodotti delle industrie meccaniche. Erano nel 1913 quei pesi il 35 ed il 65% rispettivamente; diventarono nel 1918 il 58 ed il 42%[30]. Varie le ragioni per le quali se all’Italia fu costosissimo e talora impossibile acquistare carbone e minerali grezzi riuscì «relativamente più agevole provvedersi di prodotti metallurgici di prima e di seconda lavorazione che di prodotti dell’industria meccanica: i paesi stranieri alleati o neutri, produttori di materie prime e di combustibili, poterono dare incremento alla produzione della ghisa, dell’acciaio, dei laminati e dei profilati, che sono prodotti tipici, producibili in massa a costi decrescenti, ben oltre il fabbisogno interno. Invece i prodotti dell’industria meccanica sono specializzati e meno fungibili; né sempre i tipi del paese produttore potevano adattarsi alle esigenze del paese consumatore. L’Italia priva di minerali e di carbon fossile, aveva convenienza ad acquistare all’estero ghisa, ferro ed acciaio; ricca di dirigenti e di lavoranti abili od addestrabili, poté, dedicare sforzi intelligenti e fortunati all’industria meccanica. Dei cui prodotti del resto i grandi paesi industriali alleati erano gelosi per le esigenze dei propri eserciti. Confrontando le medie del 1909-13, con quelle dal 1914-18, mentre l’importazione dei lavori in ghisa, ferro ed acciaio, in cui sono compresi i getti ed i pezzi fucinati e stampati, cresceva dal 18,65 al 49,06% dell’importazione totale dei prodotti siderurgici e meccanici e cresceva altresì dall’1,26 al 3,50% l’importazione del rame e sue leghe, scemava dal 42,14 al 26,10% l’importazione delle macchine ed apparecchi e dal 17,31 al 6,30 quella degli strumenti scientifici; ed aumentava dal 24 al 32% l’esportazione delle automobili e dei velocipedi. (Rostagno, 31). La guerra fece fare un gran passo all’industria meccanica, la quale riuscì a provvedere il macchinario per la produzione di forza motrice, le macchine operatrici, le macchine e gli apparecchi per la produzione e la utilizzazione dell’elettricità, che altre industrie chiedevano per la loro espansione in numero rapidamente crescente.

 

 

35. – Sopratutto fu meraviglioso quanto l’industria meccanica fece per l’artiglieria; la produzione durante la guerra essendo salita ad 11.789 pezzi, numero sei volte superiore a quello con cui si era entrati in campagna; «numero che tanto più deve apparire degno di alto rilievo quando si considerino le difficoltà, che al nostro rifornimento di artiglieria in ispecie venivano opposte non solo dalla nostra notoria condizione di deficienza di materie prime, ma dalle pretese degli stessi alleati che il nostro esercito dovesse essere fornito di dotazione di artiglierie proporzionalmente inferiore alla loro. Malgrado ciò, alla data dell’armistizio gli eserciti alleati avevano rispettivamente in linea i seguenti cannoni: Francia 11.608, Italia 7.709, Inghilterra 6.690, Stati Uniti 3.308. Se si aggiunga a tali cifre quelle delle mitragliatrici (entrati in campagna con appena 613 maxim alla fine del 1917 ne risultano inviate al fronte ben 19.701) si rileva tutta l’idea dello sforzo compiuto e dei grandi risultati ottenuti per la difesa e per la vittoria» (Commissione, II, 52).

 

 

Così grandi risultati erano ottenuti da un’industria giovanissima. Ancora nel 1906 l’esercito si provvedeva quasi in tutto presso stabilimenti governativi militari, ma avevano modesta capacità, sicché in tempo di guerra, oltreché a fabbricare qualche materiale caratteristico, a riparare bocche da fuoco, ed a costruire parti semplici di affusto, dovettero dedicarsi quasi in tutto a produrre fucili e moschetti, di cui fornirono in vero ben 2.423.350, e le relative munizioni, portate da 1.400.000 cartucce nel 1915 a 3.400.000 nel 1918. Quel che non davano gli stabilimenti stabili, si doveva acquistare dall’estero e specialmente dalla casa Krupp.

 

 

Solo alla vigilia della guerra si riuscì a costruire cannoni di grosso calibro ed obici. Nei sei mesi dopo la ritirata sul Piave (dicembre 1917 a maggio 1918) si allestirono oltre 2.500 bocche da fuoco ed il crescendo produttivo era così grande che ben 1.368 bocche erano state costruite nel solo mese di maggio 1918. Per recare la dotazione delle mitragliatrici da 613 all’inizio a 19.904 al momento dell’armistizio, fu d’uopo che l’industria nazionale provvedesse 31.030 mitragliatrici all’esercito e 5.537 all’aeronautica, passando da una produzione mensile di 25 mitragliatrici nel 1915 ad una di 1.200 nel 1918. A far fronte all’enorme aumento nel consumo delle munizioni: dai 861.668 colpi sparati nella prima e nella seconda battaglia dell’Isonzo (giugno-luglio 1915) ai 3.525.738 colpi della battaglia del Piave (15-25 giugno 1918), l’industria crebbe la propria fornitura da 10.400 a 88.400 colpi giornalieri e complessivamente fornì 70 milioni di proietti per artiglieria, 7.300.000 per bombarde e lanciabombe e 880.830 proietti di caduta per l’aeronautica. Ristretta, per le spolette, l’attività degli stabilimenti governativi, che prima ne erano esclusivi fornitori, ai tipi più complicati ed al completamento e montaggio degli altri, l’industria privata fornì 35.635.000 spolette, mancanti solo delle parti incendiarie ed 11.859.500 serie di parti, grazie alle quali gli stabilimenti militari riuscirono a consegnare all’esercito, dal luglio 1914 al novembre 1918, oltre 75 milioni di spolette complete.

 

 

36. – Quasi non esisteva innanzi guerra l’industria della fabbricazione dei velivoli; e quel che s’era tentato pareva morto. La dotazione era appena di 70 apparecchi terrestri e 15 idrovolanti, inetti a portare armi, a volare al disopra dei 200 metri e ad innalzarsi a tale quota in meno di 45-60 minuti primi. Appena tre autocarri disponibili per ogni squadriglia; e talune ne erano prive perché destinate a rimanere fisse. Limitate le parti di ricambio; inesistente la seconda linea; scarso l’allenamento dei piloti per la preoccupazione di mantenere in buono stato gli aeroplani. Fallite quasi tutte le fabbriche, quasi inattive, per mancanze di ordinazioni, le altre, a pena 30 operai vi erano addetti nel luglio 1914, con capi-tecnici e capi-operai francesi, richiamati in patria allo scoppio della guerra. Le materie prime: tele, vernici, fili, corde metalliche, tenditori, tubi, ruote, acciai speciali, lamiere di metalli diversi, accessori, strumenti di bordo, erano tutte acquistate all’estero. Una sola officina costruiva motori di aviazione, insignificanti per numero, scadenti per qualità.

 

 

Solo alla fine del 1914 – ed il ritardo era dovuto allo scetticismo verso la nuova arma, per cui alti capi reputavano fosse inutile «dedicarvi energie di persone e denari» (Commissione, I, 252) – si incominciano i primi apprestamenti, si riorganizza la officina costruttrice di motori, si induce la Fiat a specializzarsi in questo ramo, si aumentano a sei le fabbriche di velivoli, e da 60 all’1 gennaio gli operai diventano 1.500 al 31 maggio 1915. Il 1917 è «l’annata aurea dell’aviazione italiana» (Rostagno, 43); si forniscono Caproni all’Inghilterra; ed una fabbrica Caproni è impiantata negli Stati Uniti. La ditta Marelli arriva nel 1916 a produrre 3.290 magneti; e nel primo semestre 1917 ben 4.710. La produzione giornaliera arriva verso la metà del 1917 a 16 apparecchi e 21 motori al giorno. Furono allora possibili le azioni di bombardamento ripetute, di notte e di giorno, su Pola, le azioni su Esling, Idria, Tarvis, Cattaro, il largo impiego dei velivoli nell’offensiva di agosto sul Carso con 85 apparecchi di bombardamento operanti in un sol giorno, il contributo, a rincalzo della fanteria, di stormi di velivoli, come i 275 impiegati alla Bainsizza in un sol giorno.

 

 

Se lo smarrimento seguito alla ritirata sul Piave e la nomina a commissario per l’aeronautica di chi era stato critico vivacissimo della direzione tecnica e dell’industria privata arrestarono per un istante il progresso di questa, il cammino fu presto ripreso. Gli apparecchi prodotti che erano saliti da 382 nel 1915 a 1.255 ne] 1916 ed a 3.871 nel 1917 salgono ancora a 6.523 nel 1918, ed i motori da 606, 2.248 e 6.726 progrediscono a 14.820 Numerosi gli scarti; ma tuttavia il numero degli apparecchi attivi passa da 143 nel maggio 1915 a 2.693, di cui 638 idrovolanti, nel novembre 1918.

 

 

L’armistizio sorprese l’industria con 2 miliardi e 900 milioni di forniture in corso e 620 milioni di materiale da costruzione nei magazzini. Le cifre dimostrano per se stesse quanto si facesse in guerra astrazione dai rapporti fra costo e possibile ricavo. La pace costringendo nuovamente i produttori a guardare quel rapporto, fece si che gli animi si accasciassero e l’industria quasi venisse meno.

 

 

37. – Sorta nel 1899 con un capitale di lire 800 mila, l’industria automobilistica erasi irrobustita così da potere rispondere alle richieste nostre ed insieme a parte di quelle degli alleati. Già nel periodo della neutralità, l’industria nazionale aveva fornito all’esercito 450 chassis di tipo medio, 2.000 autocarri, oltre ad un primo nucleo di trattrici e di autoveicoli speciali. Continuò a rifornirlo senza tregua, cosicché l’esercito, entrato in guerra con 400 autovetture, 3.400 autocarri, autoambulanze, 150 trattrici, 1.100 motocicli, ultimava le operazioni nell’ottobre 1918 con una dotazione complessiva, per il solo esercito mobilitato, di 2.500 autovetture, 27.400 autocarri ed autoambulanze, 1.200 trattrici, 6.000 motocicli, nonostante che spaventoso fosse stato il consumo durante la guerra e gravissime le perdite durante la ritirata sul Piave. Frattanto, se per i motocicli l’Italia doveva continuare ad importare da 774 a 2.691 motocicli all’anno durante i cinque anni dal 1914 al 1918 l’importazione delle autovetture e degli autocarri si riduceva da 1.360 nel 1913 a 30 nel 1918 e l’esportazione che fu di 3.291 nel 1914 in complesso crebbe a 824 autovetture e 5.639 autocarri nel 1916, 702 e 8.032 nel 1917, e fu ancora di 1.071 e 1.867 nel 1918. Prova questa, se non di capacità a competere economicamente sui mercati internazionali, ché le commesse dei governi esteri erano dettate dalla necessità e non dalla convenienza, almeno di capacità a superare la difficoltà grandissima della fornitura della materia prima e della loro trasformazione tecnica. Al momento dell’armistizio la Fiat, divenuto uno tra i più notevoli complessi industriali del mondo, occupava in Europa il primo posto per la produzione su vasta scala di apparecchi per la motocultura. La insistente domanda dei nuovi ricchi per vetture di gran pregio e la preparazione di schemi per piccole vetturette a poco prezzo, e per carri ad uso industriale, parevano presidio sufficiente contro la concorrenza nord americana, che già si annunciava vivissima; talché la grande impresa poteva con orgoglio annunciare nel 1919 che essa aveva potuto accettare solo una parte delle ordinazioni pervenute sia dall’Italia che dall’estero. Le riserve prudentemente accantonate negli anni delle forniture belliche consentivano alla Fiat di acquistare la maggioranza delle azioni della Alpinen Montangesellschaft, la maggiore società metallurgica dell’Austria, assicurandosi così sicuri rifornimenti nelle ricche miniere della Stiria: primo e cospicuo pegno, si pensava allora, di ben più larghe future partecipazioni della banca e dell’industria italiana all’attività economica degli stati eredi della monarchia austro-ungarica.

 

 

38. – L’urgenza della guerra, l’impossibilità di provvedersi all’estero, la certezza del guadagno qualunque fosse il costo, diedero incremento grandissimo ad altre industrie viventi al margine della metallurgia e della meccanica. Imponenti le cifre delle forniture richieste dall’esercito: corda spinosa tonn. 313.434, paletti di ferro per reticolati 78.312, ferri a doppio T 29.735, lamiere ondulate e lisce 41.521, filo d’acciaio 26.750, funi metalliche 2.347, reti metalliche 16.676, tubi di ferro ed acciaio 11.370, arpioni, bulloni, chiodi, caviglie, punte di Parigi, viti, 22.205, elementi curvi di trincea 290, un nono della produzione italiana di ferro ed acciaio durante la guerra. La difficoltà dei trasporti, specie durante l’inverno, nella montagna che fu tanta parte del nostro teatro di guerra, impose l’uso di teleferiche, risparmiando così, per 3.289.600 tonn. di materiale, ben 330 mila carri ferroviari di 10 tonn. ognuno. Perdute nella ritirata dell’ottobre 1917 ben 566 sulle 918 teleferiche allora in attività, all’ora dell’armistizio ne erano nuovamente in esercizio 743, di cui 467 a motore; ed in Albania e in Macedonia anche i nostri alleati ricorsero per provvedersene all’industria italiana. Risultati disadatti per i rapidi avanzamenti in caverna i gruppi perforatori inviati dagli Stati Uniti, altri ne sperimentammo, sino a che si riuscì a costruire moto compressori ad altissima velocità, e ne fabbricammo 3.395 dal febbraio 1916 al novembre 1918, di cui 111 ceduti agli eserciti alleati.

 

 

Alla necessità di rapide comunicazioni tra i comandi, da quello massimo al più piccolo osservatorio o posto di trincea – per cui lo stato aggiunse alla sua rete permanente km 5.200 di circuiti telegrafici e 41.170 di circuiti telefonici e per quella ausiliaria militare gli apparecchi in dotazione alle compagnie telegrafisti passarono da 250 nel 1915 a 33.300 nel 1918; e si dovettero fare rifornimenti per 114.503 apparecchi telefonici, 18.076 centralini a più linee, 3.708 apparecchi telegrafici, di 10.122 km di cavi telegrafici, kg 1.430.492 di filo di ferro ed acciaio, hm 747.945 di cordoncino telegrafico, km 25.373.950 di filo telegrafico leggero, 320 stazioni radio per l’esercito e 1.200 per l’aviazione l’industria paesana non poté soddisfare se non in parte, dovendosi in specie per gli apparecchi telefonici ricorrere agli Stati Uniti ed alla Francia. Ma parve miracoloso quello che si poté fare; e si deve segnalare il fatto che l’industria nostra abbia potuto inviare ben 1.300 apparati per stazioni fotoelettriche, di diverso tipo, dal someggiato all’autocarreggiato, in zona di guerra.

 

 

39. – Allo scopo di allacciare tra loro e con la linea di operazione le stazioni di testa della rete ferroviaria si costrussero, dall’inizio della guerra sino al ripiegamento sul Piave, 110 km di linee a scartamento 0,75 e 400 km con scartamento 0,60. Rimasti in nostro possesso solo 50 km di linee a 60 cm si costrussero nuovamente 20 km di linee a scartamento 0,75 e 200 km a quello 0,60, oltre i 60 km tra la base di Valona ed i magazzini avanzati della fronte albanese. Salvo 265 locomotive acquistate negli Stati Uniti e qualche materiale ricavato dallo smontaggio di tranvie e ferrovie secondarie, il materiale: 1.660 km di binari per ferrovie, 4.800 scambi ed accessori vari, 1.640 km per binari decauville, 2.500 vagoncini e 300 locomotive fu prodotto in paese. Oltre gli 800 ml di ponti metallici, già pronti nei magazzini del genio militare, si costruirono e si inviarono in zona di guerra oltre 600 ml di ponti, 250 frantoi e 800 compressori stradali per la pronta cilindratura del pietrisco necessario a costruire e mantenere le strade ordinarie.

 

 

Poiché si ricordano gli sforzi per le forniture di materiali all’esercito, giova qui ricordare che, a consentire la costruzione di baracche ed edifici provvisori, nel solo 1918 si dovettero provvedere oltre 1.000.000 di mq. di lastre eternit e circa 1.500.000 mq di tela olona, spendendo mezzo miliardo di lire per l’acquisto dei varii materiali da costruzione e circa 85 milioni di lire per il cemento. Salvo trascurabili ordinazioni all’estero, spesso perdute per siluramenti, fu provveduto dall’industria italiana, la quale seppe provvedere allo sforzo richiestole con celerità grande, divenuta vertiginosa dopo gli avvenimenti dell’ottobre 1917. Sempre nel campo dei materiali costruttivi, le industrie dei laterizi, dei cementi e delle vetrerie, fortunatamente quasi disoccupate per l’arenarsi naturale delle costruzioni civili e per quello artificiale determinato dai vincoli nei fitti, poterono provvedere all’esercito 3.040.000 mattoni comuni, 135.000 mattoni refrattari, 1.935.200 mq. di eternit, 157.990 tonn. di cemento a lenta presa, di cui solo il 30 per cento fu chiesto all’estero, 75.400 tonn. di cemento a rapida presa, 78.650 tonn. di calce idraulica e comune. Di arelle furono acquistati mq. 200.000, di cartone catramato mq. 6.815.450, di feltro catramato mq. 1.396.400, questo importato quasi per intero dagli Stati Uniti, di tela olona mq. 3.165.900 e di vetro mq. 220.850.

 

 

40. – Gravissimo fu il problema degli approvvigionamenti di legname, per cui, a causa dei vincoli forestali e della mancanza di strade, innanzi al 1914 l’Italia approvvigionavasi quasi interamente in Austria e in Svizzera e negli Stati Uniti. Si ottennero, è vero, dal governo federale svizzero, 500 mila mc. di legname in cambio di merci italiane e se ne acquistarono 120.000 nel golfo del Messico; ma presto le difficoltà dei noli ed i prezzi altissimi rese difficoltoso il rifornimento oltre mare. La richiesta cresceva rapidamente: da 100.000 mc. nel 1915 l’esercito giunse a chiederne più di 2 milioni nel 1918 e ben 2.225.500 mc. furono di fatto forniti nel corso della guerra, oltre gran numero di paletti per reticolati: richiesti 20 milioni subito dopo la ritirata sul Piave e 25.625.000 effettivamente forniti durante la guerra. Cessata la guerra, la richiesta non venne meno, avidissime essendo di legname le terre devastate. Poiché nel 1915 il mercato interno aveva fornito appena 15.000 mc., la salvezza del paese impose la requisizione e la distruzione di boschi comunali, di enti morali e di privati, prima nell’Alta e nella Media Italia, e poi, quando alla fine del 1917 la direzione generale delle foreste vietò si seguitasse la devastazione iniziata, nella regione Silana; di dove, i forti dislivelli, la mancanza di strade e la grande lontananza dai nodi stradali e ferroviari consentirono di spedire all’esercito solo 190.000 mc.; ma in compenso l’opera compiuta non fu solo di distruzione, ma anche di prima dotazione di strade ed impianti industriali in una regione inaccessa.

 

 

41. – La guerra, se, cogli altissimi prezzi, riduceva ad un terzo la domanda dei concimi chimici e quella del sapone per la popolazione civile, creava una domanda nuova, quasi illimitata di esplosivi, e degli elementi essenziali di essi, oltreché di acido nitrico e solforico, di oleum, di soda caustica, di ammoniaca, di acido formico, di glicerina, di benzolo, di aspirina, di fenacetina, di antipirina, di salolo, di sodio metallico e simili. Già alla fine del 1917 il cronista narrava: «Nei principali gasometri sono sorti impianti per il recupero del benzolo e del toluolo e nuove grandi distillerie di catrame forniscono largamente tali due prodotti, oltre a fenolo, naftalina, antracea. Risulta assai promettente la fabbricazione dei colori e delle materie connesse: cloro, soda caustica elettrolitica. Continua l’incremento nella produzione dell’acido solforico, e del solfato di rame. I bisogni militari hanno ulteriormente dilatata quella del carburo di calcio, della cianamide. Si va affermando più largamente l’industria dei preparati farmaceutici» (Bachi, 1917,197). Ma, nonostante la guerra avesse abolita la necessità di badare al costo, l’industria chimica, prediletta, al par di quella siderurgica, dal legislatore antebellico con larghe protezioni doganali, difesa dalla guerra medesima contro la concorrenza germanica, mai poté riuscire a far fronte alle esigenze dell’esercito. Vi ostava la necessità di rifornirsi per intero all’estero di carbon fossile. L’ostacolo del costo, comparativamente assai più alto, del trasporto della materia prima (carbon fossile) in confronto ai prodotti finiti sarebbe stato superato; ma non si poterono avere le navi necessarie a trasportare 100 tonnellate di carbon fossile invece delle 10 e 18 tonnellate di prodotti volatili e di olio di catrame.

 

 

A differenza dell’industria meccanica, nella quale il peso della materia prima è piccolo e talvolta minimo in confronto a quello del lavoro, nella industria chimica il fattore lavoro ha un’importanza minima in confronto alle materie prime. Perciò, a somiglianza di quanto accadde all’industria siderurgica, fu giocoforza importar gran copia di prodotti intermedi ed anche finiti. La produzione nazionale degli esplosivi da lancio, da scoppio e da mina dalle 2359 tonn. nel gennaio 1917 giunse a 4050 nel luglio di quell’anno; ma, raggiunto il regime determinato dalla disponibilità di materie prime, oscillò tra quella cifra e le 4600 tonn. scendendo in un mese (febbraio 1918) a 3400 tonn. L’acido solforico poté passare da 40 a 50 mila tonn. annue, l’oleum da 4800 a 3600 e l’acido nitrico da 18 a 84 mila, perché le materie prime – le piriti di ferro per i primi, il nitrato di sodio e l’azoto atmosferico per l’ultimo – non fecero difetto.

 

 

Fu sempre costosa la importazione delle fibre corte di cotone (linters) e dei cascami di cotone necessari per la fabbricazione degli esplosivi. Ne compravamo in media 50.000 tonnellate all’anno, sopratutto negli Stati Uniti; ma le difficoltà del tonnellaggio ci indussero a tentare l’impiego della cellulosa di paglia, delle fibre del gelso, dello sparto, con sperimenti utili all’industria, divenuta poi fiorente, della seta artificiale. Alla deficienza degli idrocarburi aromatici prodotti dalla distillazione del carbon fossile si provvide in parte obbligando le officine del gas al recupero parziale del benzolo e del toluolo, recandone la produzione annua a 2645 tonn. Quella della glicerina crebbe da 1000 a 2300 tonn. annue; quella dell’acetone da 270 a 400. Importazioni fortissime dall’estero furono ciononostante necessarie. Ardua fu sempre la provvista della balistite, per cui la produzione interna riuscì solo a fornire 1750 tonn. contro un fabbisogno di 2850 tonn. I due principali esplosivi di scoppio, l’acido picrico ed il tritolo, provenivano prima della guerra dalla Germania; né, malgrado gli sforzi compiuti a Cengio, si evitò di dover provvedersi all’estero prevalentemente, da altri fornitori. E come questi non possedevano impianti di distillazione bastevoli anche per noi, dovemmo adattarci a sostituire ai due esplosivi classici, miscele e tipi diversi, non sempre scevri di pericolo. Contro 2900 tonn. mensili di esplosivi da scoppio prodotti all’interno, quasi altrettanto, 2700 tonn., dovemmo continuare a chiedere all’estero. Invece fu bastevole la produzione degli esplosivi da mina, anche se, invece della gelatina esplosiva, adoperammo chedditi di fabbricazione più rapida e per cui avevamo disponibili le materie prime. Al momento dell’armistizio gli stabilimenti italiani producevano, quanto a gas di combattimento, solo cloro e fosgene per un terzo e un quinto del rispettivo fabbisogno. Stavamo ancora, al momento dell’armistizio, sperimentando come fabbricare l’iprite e non si conoscevano i gas derivati dall’arsenico, dal bromo e dall’anilina, che il nemico usava contro di noi o contro i nostri alleati[31].

 

 

Come l’affine industria chimica, quella farmaceutica trovò nella cessazione della concorrenza germanica un possente impulso; nuovi stabilimenti sono sorti e molte nuove sostanze e specialità terapeutiche recate sul mercato; si è tentata la fabbricazione di alcune sostanze purissime che finora erano poste in commercio solo da ditte militari (Bachi, 1916, 183). Alle esigenze dell’esercito e della popolazione civile l’industria interna finì per soddisfare pienamente; ma, dati i costi, a prezzi altissimi.

 

 

42. – Sul mercato chiuso creato dalla guerra, l’industria conciaria e quella delle calzature riuscirono, meglio la prima e in gran parte la seconda, a soddisfare una domanda alla quale le forniture estere non erano, allora, sempre adatte. Quella poca esportazione di pelli gregge che, nonostante la protezione concessa alle concerie, ancora aveva luogo, (25.200 tonn. nel 1913 e 17.600 nel 1914) si ridusse subito (7.700 tonn. nel 1915) e scomparve poi del tutto; e con la cresciuta produzione interna di pelli e qualche introduzione dall’estero, l’industria conciaria poté provvedere per intiero al consumo interno (l’importazione di pelli conciate si tenne al di sotto dell’anteguerra) ed uscire dalla guerra fornita di robuste riserve, rinnovata ed ingrandita nei suoi impianti. Stentò invece ad organizzarsi l’industria delle calzature, che balzata da 395.950 paia nel giugno 1915 ad oltre il milione di paia mensili nel luglio-ottobre, si ridusse, per ingordigia di guadagno che spingeva a confezioni imperfette respinte dai collaudatori, per conseguenti denuncie penali, per scioperi di operai fatti inquieti dai grossi lucri dei fabbricanti, a 480.000 paia mensili nel febbraio-marzo 1916. Poi risalì verso il milione nel settembre. L’importazione che dalle 100.000 paia mensili dell’anteguerra aveva quasi toccato le 400.000 nel 1916, ridiscese a 250.000 nel 1917 ed alle normali 100.000 nel 1918.

 

 

La forte organizzazione e la perfezione tecnica, a cui era giunta prima consentirono all’industria della gomma elastica di fornire masse non mai pensate di prodotti diversi. Il solo esercito dall’1 gennaio 1915 al 31 ottobre 1918 chiese 109.350 anelli di gomma piena per autocarri, 338.500 coperture per autoveicoli, 41.500 coperture per motocicli, 222.400 camere d’aria per autoveicoli, 79.200 camere d’aria per motocicli, 110.000 pneumatici per biciclette, 400.000 anelli pieni per biciclette. La maggiore impresa produttrice aumentò dell’80% la produzione nel 1917; e, nonostante la necessità di sopperire ad improvvisi vuoti e ad affannose richieste dell’esercito, mai fu sospesa l’esportazione di pneumatici all’estero; ridotta bensì da 3960 tonn. nel 1915 e da 3430 nel 1916 a 1920 tonn. nel 1917 ed a 830 nel 1918, ma non cessata del tutto.

 

 

43. – Mutava profondamente la domanda dei tessuti per causa della guerra: ancora per un terzo delle truppe sotto le armi da compiersi la trasformazione dalla vecchia uniforme turchina alla nuova grigio verde; i vestiti soggetti ad inusato fortissimo logorio per la guerra di trincea; indumenti speciali invernali ed equipaggiamenti intieri richiesti dalla guerra di montagna; fabbisogno enorme di coperte da campo e da casermaggio, di oggetti letterecci, di feltri, di iuta per i sacchi a terra usati nelle trincee. Di questi ultimi oltre 271 milioni furono chiesti dall’esercito e per oltre a 56.303 mq. fu distribuita tela juta in pezze.

 

 

Finché fu possibile importare juta greggia, la fabbrica italiana se ne giovò: 60.2 mila tonn. nel 1915 e 43.3 nel 1916 contro 42 e 29.6 nel 1913 e 1914. Ma nel 1917 l’importazione cade a 28.5 mila tonn. e nel 1918 a 10.

 

 

Perciò si importano a risparmio di spazio, prezioso contro le insidie sottomarine, 7574 tonn. di sacchi già confezionati nel 1916, 1841 nel 1917 e 7191 nel 1918. Come per la siderurgia e la chimica, gli ostacoli all’espansione dell’industria interna, che erano economici prima della guerra, divengono nudamente tecnici nel periodo bellico. Epperciò vieppiù insormontabili.

 

 

Si poteva pensare che l’industria serica dovesse essere danneggiata dalla guerra; e certamente non poté esportare verso i nemici, che ne avrebbero tratto pro nelle operazioni belliche. Ma l’austerità del costume non essendo stata favorita dalle vicende belliche, la domanda di tessuti di seta per un certo verso crebbe. Venuta meno la provvista del lino greggio dalla Russia, i linifici agevolmente si voltarono alla lavorazione della canapa, la quale, insieme con i suoi prodotti, toccò prezzi altissimi per la forte domanda militare.

 

 

Pur vissuta ai margini della guerra, l’industria cotoniera trasse dalla relativamente modesta domanda militare – 600 milioni di metri di tele di cotone, 37 milioni di fazzoletti, 15 milioni di calze di cotone – il vantaggio di smaltire le scorte le quali erano caratteristiche delle crisi di sovraproduzione in che da anni essa si dibatteva. Cresciute anzi nel 1915 e nel 1916 le importazioni del greggio a 291.3 e 253.7 mila tonn. (erano state 201.9 e 190.6 nel 1913 e 1914), i cotonieri poterono, nonostante le perdite dei mercati balcanici e turchi, quasi raddoppiare le esportazioni dei filati: 27.0 e 25.1 mila tonn. nel 1915 e 1916 contro 14.5 e 14.2 nel 1913 e 1914 e mantenere alte quelle dei tessuti: 57.1 e 48.3 mila tonn. nel 1915 e 1916 contro 53.2 e 39.5 nel 1913 e 1914. I lucri ingenti in tal modo ottenuti non si poterono in tutto mantenere nel 1917 e nel 1918 quando l’importazione dell’ingombrante cotone greggio si ridusse a 179.4 e 130.3 mila tonn. e le esportazioni dei filati e dei tessuti, soggette a divieti e licenze, dovettero ridursi, pur non scomparendo del tutto mai. Un censimento eseguito alla fine del novembre 1918 dall’associazione cotoniera rilevava la esistenza nei depositi di 499 milioni di metri di tessuto, pari a 70.327 tonnellate; prova che il consumo interno si era fortissimamente contratto di fronte a prezzi tenuti alti nella speranza della ripresa delle vietate vendite all’estero.

 

 

La domanda bellica operò, sopratutto, a favore dell’industria laniera. La quale disponeva, prima, di 30 mila tonn. di materia prima, tra nazionale e forestiera. La guerra duplicò e triplicò il consumo interno. Nel 1917 presumevasi occorressero 38.000 tonn. di lane naturali al consumo della popolazione civile e 92.000 a quello dell’esercito. Fu d’uopo aumentare l’importazione della lana greggia da 20.950 tonn. nella media del 1909-13 a 64.200 tonn. nel 1915 a 67.970 nel 1916 ed ancora a 48.390 nel 1917 ed a 42.050 nel 1918, pur tra le difficoltà della guerra sottomarina. E fu giocoforza importare lana naturale e non filati o tessuti per cui i paesi esteri produttori a mala pena provvedevano a se stessi. L’industria italiana che poco esportava prima, riuscì anzi, salvo che nel 1918, ad approvvigionare forestieri, sopratutto alleati, con 1.850 tonn. di tessuti nel 1914, 4.510 nel 1915, 3.500 nel 1916 e 1.000 nel 1917. Il contributo dato dall’industria laniera alle forniture militari dall’1 maggio 1915 al 31 dicembre 1918 fu imponente: metri 102.507.000 per il valore totale di 1.326 milioni di lire. Il grosso delle forniture fu dato dal Piemonte (m. 82.830.000), e specialmente dai lanifici del Biellese, i quali da soli assorbirono i sette decimi delle commesse statali. Del resto, 7.733.000 metri furono forniti dalla Lombardia, 9.488.000 dal Veneto e 2.455.000 dalla Toscana.

 

 

Tanto sforzo fu compiuto, più che con l’incremento degli impianti – i fusi di cardato crebbero, è vero, da 300.000 nel 1915 a 470.000 nel 1918, ma i fusi di pettinato solo da 400.000 a 420.000 ed i telai meccanici da 14.000 a 17.000 – con l’intensissimo sfruttamento degli impianti esistenti; e con l’attenuazione delle esigenze tecniche richieste per le forniture militari. Vista la impossibilità di riuscire a soddisfare la domanda di oltre 3 milioni di metri di panno militare al mese, se esso avesse conservato tutte le qualità richieste dai regolamenti, fu limitata dapprima e nel dicembre 1915 abbandonata del tutto la produzione del panno regolamentare e furono creati altri tipi di panno che dal normale differivano principalmente per l’abbassamento dei requisiti essenziali della resistenza e della lunghezza della fibra e del numero di fili per cmq., distribuendosi le ordinazioni per 30.8 milioni di metri a pro del tipo economico col 15% di cotone, per 25.9 del tipo pura lana cardato e per 45.8 milioni di quello pura lana pettinato.

 

 

Oltrecché alla produzione del grigio verde, l’industria laniera provvide anche ad altre forniture minori, come farsetti a maglia e coperte, raggiungendosi a circa metà del 1917 un massimo di produzione mensile di 150.000 coperte da campo, 30.000 coperte da casermaggio, 200.000 metri di tessuto di flanella, 400.000 camicie e 500.000 farsetti a maglia.

 

 

44. – Tanto sforzo industriale non era possibile se un grande sforzo non fosse stato al tempo stesso compiuto per apprestare agli opifici la necessaria forza motrice. Purtroppo la guerra sottomarina riduce alla metà l’importazione di quella che era sempre stata la fonte principale di forza per l’industria italiana: da una media di 10.5 milioni di tonnellate negli anni dal 1911 al 1313 l’importazione del carbone scende a 9.8 nel 1914, ad 8.4 nel 1912, ad 8.07 nel 1916, a 5.04 nel 1917 ed a 5.8 nel 1918.

 

 

Scarsissimo fu l’aiuto porto dalla coltivazione dei giacimenti di lignite, sebbene lo scavo annuo da 608 mila tonnellate nel quinquennio antebellico progredisse a 953 nel 1915, a 1.306 mila nel 1916, a 1.122 mila nel 1917 ed a 2.171 mila nel 1918. Ma l’uso ne fu limitato quasi in tutto al riscaldamento ed alla cucina. Persino nel gennaio del 1918, quando il carbone straniero maggiormente scarseggiava, le ferrovie dello stato non ne consumarono più di 25.000 tonnellate. Le ferrovie reali sarde, costrette a bruciare ligniti del luogo, videro in un anno bruciate altresì tutte le locomotive dallo zolfo che vi era contenuto. Dopoché l’erario ebbe spesi 14 milioni di lire per iniziare la lavorazione dei giacimenti lignitiferi detti di Tavernelle nell’Umbria e si sperava di cavarne 3000 tonn. al giorno a pro delle ferrovie dello stato, queste ne dichiararono l’impiego «affatto impossibile all’esercizio ferroviario» e tutt’al più tollerabile sino al massimo di 500 tonn. mensili (11.677). Nullo fu parimenti il contributo dei pozzi nazionali di petrolio, come facilmente era stato preveduto[32]; anzi, invece delle poche 10.000 tonn. di petrolio fornite dall’Emilia nel 1911, durante il periodo bellico si produssero appena 5.000 tonn. all’anno in media, e se ne ricavarono 1.000 tonn. di benzina; altre 1.000 tonn. di oli minerali essendo state tratte dalla distillazione degli scisti bituminosi e dalle rocce asfaltiche. Cifre irrisorie, se confrontate colle importazioni dall’estero, le quali, in migliaia di tonnellate, scendono sì, per il ridursi del consumo e la concorrenza dell’illuminazione elettrica, tra i due estremi del 1914 e del 1918, da 116.3 a 72.2 per il petrolio da illuminazione; ma crescono da 60.9 ad 85.2 per gli oli minerali pesanti, da 2.7 a 3.9 per quelli leggeri, da 41.3 e 205.8 per la benzina, e da 36.1 a 79.3 per i residui della distillazione. Il solo esercito mobilitato dal 30 giugno 1915 al 31 ottobre 1918 assorbì il 48% della benzina disponibile; e con le richieste della marina e dell’aviazione si supera il 50 per cento.

 

 

Anche dei lubrificanti l’esercito e le altre armi fecero un consumo grandissimo, di 25.044 tonn., dal giugno 1915 al novembre 1918; sebbene a scemarne alquanto il fabbisogno, si desse incremento all’importazione dell’olio di ricino, passata da 20 tonn. nel 1914 a 700 nel 1917 ed a 2200 nel 1918 e sebbene, iniziatasi nell’inverno del 1918 la coltivazione della pianta del ricino su 1400 ettari di terreno, se ne ottenessero in quel primo anno 700 tonn. di seme. Ma il sussidio maggiore alla mancanza del carbon fossile fu dato dalla estensione e migliore sfruttamento degli impianti idroelettrici: il consumo dell’energia elettrica, il quale ammontava a 2.3 miliardi di kw-ora nel 1913-14 crebbe a 2.5 nel 1914-15, a 2.8 nel 1915-16, a 3.6 nel 1916-17 per raggiungere nei momenti della più intensa crisi di rifornimento dei carboni fossili i 3.8 miliardi di kw-ora nell’esercizio 1917-18 ed i 4.1 nel 1918-19. Nel biennio 1917-18 le concessioni di forze idrauliche salgono a ben 222 per 500.611 HP. Mentre si sviluppano grandemente le speciali imprese produttrici e distributrici di energia, si moltiplicano gli impianti propri di aziende metallurgiche, meccaniche, chimiche per impieghi termici, di trazione, di elettrochimica.

 

 

45. – Se le industrie manufatturiere dovettero sforzarsi a crescere ed a mutare l’oggetto dei loro sforzi, l’industria agricola fu costretta sopratutto a lottare contro la mancanza di braccia. I richiami sotto le armi, l’attrazione degli alti salari e degli esoneri concessi a coloro i quali accorrevano agli stabilimenti militari furono causa di grande rarefazione nella mano d’opera agricola. Se non si può agevolmente misurare in cifre quell’attrazione, si sa invece che la guerra tolse ai campi 2.6 milioni di uomini adulti superiori ai 18 anni su 4.8, cosicché la terra poté giovarsi soltanto dei restanti 2.2 milioni di uomini adulti, 1.2 milioni di ragazzi giovani tra i 10 e i 18 anni, e 6 milioni di donne di più di 10 anni. Poiché i ragazzi d’ambo i sessi sotto i 10 anni, in numero di 4.5 milioni poco valevano, si poté dire che la guerra aveva ridotto le unita lavoratrici, calcolate a 7.66 milioni, a 5.06 milioni[33].

 

 

A tanto sacrifizio di forza di lavoro non si giunge d’un tratto, limitandosi esso alla mete di quei 2.6 milioni nel primo periodo della guerra sino alla fine del 1915, toccando i tre quarti alla fine del 1916, ed il massimo alla fine del 1917. (Serpieri, 53). A sminuire il danno furono cresciuti gli esoneri agricoli, da 6887 nel giugno 1917 a 23.144 nel settembre 1917, a 61.417 nel dicembre, a 134.543 nel marzo 1918, a 163.690 nel settembre ed a 229.098 nel dicembre 1918 (id., 64). Pericolosa era stata altresì la requisizione del bestiame bovino, scemato perciò, tra il 1914 ed il 1918, da 7.1 milioni di capi per un peso vivo di quasi 27 milioni di quintali a 6.1 milioni di capi per meno di 21 milioni di quintali di peso vivo. L’incetta aveva portato via circa 2.5 milioni di capi a 10.5 milioni di quintali, in parte strumento di produzione per i lavori del suolo; né la perdita, aggiuntasi a quelle normali, aveva potuto essere colmata dalle nascite (id., 71).

 

 

Nonostante siffatta diminuzione della forza umana ed animale di lavoro la produzione agricola quasi non scemò. Calcolato in 8 miliardi di lire il valore medio antebellico di essa, il Serpieri (id., 95) supponendo invariati i prezzi, così riassume, in milioni di lire, le variazioni assolute e percentuali della produzione agraria lorda per grandi categorie di prodotti.

 

 

 

Media antebellica

1915

1916

1917

1918

Cereali (grano, granoturco, risone, avena, segala, orzo)

2247

2260

2099

1815

2191

100

100

95

81

97

Culture erbacee esclusi i foraggi(fave, fagioli, patate, ortaggi, bietole, lino, canapa, tabacco)

897

871

765

789

807

100

97

85

88

90

Culture legnose (vino, olio, agrumi, frutta, bozzoli,legna e legname)

2605

1740

2557

3062

2674

100

67

98

117

103

Produzione animale

2242

2142

2142

2142

2142

100

95

95

95

95

Totale

7991

7013

7563

7808

7814

Indici

100

88

95

98

98

 

 

I tagli eccezionali dei boschi, la diminuzione del patrimonio zootecnico, le più stentate restituzioni delle fertilità accumulate nel suolo, lo sfruttamento più intenso degli altri valori capitali accumulatisi nel suolo attraverso i secoli ed i decenni crebbero bensì il reddito a spese del patrimonio fondiario. Di un terzo e forse più diminuirono le spese di anticipo di sementi, concimi, quote di ammortamento e deperimento, con danno dell’avvenire. La importazione dei concimi chimici e perfosfati da 856.2 mila tonnellate nel 1913 scemò a 353.4 nel 1917, quella del solfato di rame da 30.4 mila nel 1913 a zero nel 1918, e quella delle macchine agrarie da 18.5 milioni di lire nel 1917, nonostante il gran rialzo dei prezzi unitari, a 7.4 milioni nel 1917. Significativi, come indice della tendenza a depauperare il patrimonio fondiario, sono due fatti: l’aumento della produzione di legna e legname da 12 milioni di tonnellate nell’anteguerra all’anno, a 25 milioni nel 1917 e nel 1918, indice dell’abbattimento di alberi e della distruzione di foreste e la tendenza alla diminuzione nella produzione dei foraggi: 23.4 milioni di tonnellate nell’anteguerra e 19.1 nel 1918, segno di improvvido passaggio dalla cultura a prato e pascolo a quella dei cereali, immagazzinatrice di fertilità la prima, e, ove ecceda i limiti indicati dall’esperienza, depauperatrice del terreno agrario la seconda.

 

 

46. – Di imponenti variazioni fu causa la guerra nel commercio internazionale. Profondamente mutato, innanzi tutto, il rapporto fra importazione ed esportazione, la quale dall’81.4% delle importazioni nel 1900-906 era già caduta al 64.2% nel 1907-13. L’incremento nella entità relativa del cosidetto sbilancio commerciale in parte era dovuto ad un’ascesa più pronunciata nei prezzi delle merci di importazione (del 27.8% tra il 1897 e il 1913) che in quelli delle merci di esportazione (del 23.6% tra le medesime date)[34], ma in parte forse maggiore al rigoglio della vita economica nazionale la quale, per il suo attrezzamento progressivo, chiedeva maggior copia di macchine ed altri beni strumentali e poteva, con i servizi, detti invisibili, resi agli stranieri, procacciarsi masse crescenti di beni di consumo senza essere costretta a pagarle in tutto con merci e denaro nazionali. Il principale di questi servizi invisibili era il lavoro prestato all’estero dagli emigranti italiani, dal quale venivano le rimesse, origine prima della risurrezione economica della montagna e del mezzogiorno. La guerra nel primo momento capovolge la tendenza; ed il rapporto tra esportazioni ed importazioni risale nel 1914 al 75.6 per cento.

 

 

L’Italia arricchisce, nell’opinione comune; ma presto la tendenza antica riprende e si accelera anzi fortissimamente: nel 1915 il rapporto tra esportazioni ed importazioni scema al 53.9%, nel 1916 al 36,8 e cade al 21.9 ed al 20% nel 1917 e nel 1918. L’Italia più non vende, perché tutto lo sforzo della nazione è teso allo scopo di produrre i mezzi di vita per la popolazione civile e per l’esercito in campo. Si esportano ancora beni in gran copia, ma non compaiono nelle statistiche commerciali, perché prendono la via delle trincee entro cui si difendono i confini dello stato. Si acquista anche all’estero più di prima e si paga, invece che con le rimesse di emigranti o di viaggiatori forestieri, con promesse di pagamento sottoscritto dallo stato. Il paese diventa un mercato chiuso, in cui l’unico limite ai rialzi dei prezzi da parte dei produttori interni è l’indebitamento dello stato verso l’estero. Facendo pari a 100 i dati relativi al 1912, le importazioni diminuiscono per quantità nel 1918 solo a 95,43, laddove le esportazioni precipitano a meno della metà (45,96%). Il mutamento fisico è mascherato dalle variazioni dei prezzi, che provocano aumenti a 454,01 e 303,60, cosicché la variazione complessiva, per quantità e prezzi, fu da 100 a 433,25 e 139,54 rispettivamente. Le merci comperate aumentarono di prezzo più di quelle vendute, sopratutto a causa dei rialzi dei noli – il quale fu assai vivamente sentito da noi, essendo la più gran parte delle merci importate di provenienza oltremarina – e della mancanza di elasticità nella domanda di derrate alimentari e di forniture militari, la quale ci vietò di ridurre la quantità delle merci importate in ragione dell’aumento dei prezzi. Fatti eguali a 100 i valori nel 1912, le esportazioni nel 1918 risultano aumentate in quantità in sole due categorie, delle bevande e degli olii (150.7) e dei veicoli (107); ma in tutte le altre scemano. Talvolta fortissimamente: le pelli a 21.1, i minerali e i metalli a 27.5, la gomma elastica a 33.5, i cereali e le farine a 27, gli animali a 18.4, la lana, il crino e i peli a 4.4. L’Italia serba al consumo interno quasi tutta la sua produzione; e pur cercando di limitare le importazioni nelle categorie non indispensabili: legno e paglia all’11.5%, seta al 27.1, carta e libri al 25.3, oggetti diversi al 26.9 e di ridurre il consumo anche di merci urgenti, come la canapa, il lino e la juta al 49.1, il cotone al 64.5, i veicoli al 50.6, le pietre e le terre al 50.3%; ve ne sono talune, in cui l’aumento stragrande dei prezzi non riesce a limitare la richiesta: di bevande ed olii chiedendosi il 36.4% in più, di coloniali droghe e tabacchi il 28.7, di colori e generi per concia il 30.4, di lana, crino e peli il 21.9, di gomma elastica il 24.8, di cereali e farine il 31.1, di animali il 63.8, di prodotti chimici e medicinali il 197.5% in più.

 

 

L’osservata mancanza di elasticità nella domanda delle merci di importazione era cagionata in parte dalla peculiare psicologia dello stato, unico compratore ed importatore, premuto da un lato dalla necessità urgente di far fronte ai bisogni dell’esercito e persuaso dall’altro che un gran taglio si sarebbe operato nei prezzi delle forniture di guerra al momento della liquidazione dei debiti interalleati. Il taglio non si poteva operare per le compre dirette operate nei paesi neutrali, ma poiché i massimi fornitori divennero i nostri alleati e anche dai neutrali comperammo attraverso prestiti alleati, la speranza non si chiarì infondata. Laddove, innanzi alla guerra la Germania primeggiava tra i nostri fornitori, ed essa, insieme con l’Austria Ungheria, ci inviava quasi il quarto delle merci da noi importate, durante la guerra il primo e di gran lunga maggior posto è preso dagli anglo sassoni e dai domini inglesi. L’Inghilterra, l’Egitto, l’India inglese ci forniscono dal 25.9 al 28.3% e gli Stati Uniti dal 40.7 al 42.7% delle nostre importazioni totali; in tutto, e senza contare gli altri domini britannici, più dei due terzi del totale. Tra gli altri paesi tiene gran posto l’Argentina, accaparrandosi, invece che il 4.6, dal 6.6 al 10.3% della nostra domanda di merci estere. Al contrario, la nostra esportazione, tanto scemata per quantità (nel 1918 appena il 46% di quella del 1912) non riesce a sostenersi sui mercati alleati; se si eccettui la Francia, a cui noi forniamo materie utili in qualche modo alla guerra, e la Svizzera, costretta ad approvvigionarsi per la propria alimentazione e per la propria industria (seta) presso i paesi dell’interno, essendole preclusa l’assediata Germania.

 

 

Commercio di guerra, dunque, e, si può aggiungere, di stato, governato dalla ragione suprema di non vendere nulla di ciò che poteva essere utile alla difesa del paese ed alla vita fisica della popolazione e di acquistare quanto era necessario alla resistenza e ci poteva venire assegnato dai consessi alleati, i quali, entro i limiti delle aperture di credito anglo sassoni e dei fabbisogni relativi dei vari paesi, provvedevano a distribuire tra gli alleati la massa totale dei prodotti via via disponibili. Vendemmo poco e comperammo assai, non perché a ciò ci spingesse la convenienza economica; ma perché a tanto ci costringeva la ferrea necessità militare e sociale della guerra. Anche sociale, poiché importammo in masse che in commercio libero non avremmo certamente importato per mancanza di mezzi di pagamento, ma divenivano convenienti perché il desiderio della tranquillità sociale spingeva i governi a mantenere i prezzi di talune derrate, pane, zucchero, carni, latte, ecc. a livelli così bassi in moneta svalutata da mantenere invariato e talvolta crescente il consumo.

 

 

47. – Lento era, innanzi alla guerra, il ritmo dell’aumento del traffico ferroviario: 578.9 milioni di lire nel 1911-12, 603.7 nel 1912-13 e 614.6 nel 1913-14; ed un calcolo, forse ottimista, della direzione generale delle ferrovie dello stato prevedeva nel 1913 che nel dodicennio fino al 1924-25 i prodotti aumentassero di 20 milioni di lire all’anno, che le maggiori spese di esercizio assorbissero il 61% delle maggiori entrate, ed essendo il resto sufficiente al servizio del capitale richiesto per nuovi investimenti, non scemasse il versamento al tesoro, esiguo compenso, contratto, nonostante fossero ridotte le assegnazioni al fondo di riserva, da 50.8 milioni di lire nel 1906-7, quando si iniziava l’esercizio statale, a 28.1 milioni nel 1913-14, al capitale di 5.484 milioni di lire investiti dal tesoro nella rete ferroviaria passata allo stato nel 1905. Le rosee previsioni del tempo di pace, già messe in forse dalle crescenti richieste del personale, e dal rialzo dei prezzi del materiale mobile e dei combustibili, furono presto annullate dalle prime imponenti ripercussioni della guerra: essendosi nel semestre luglio-dicembre 1914, nonostante il crescere dei trasporti militari, il prodotto dei viaggiatori ridotto, in confronto dello stesso semestre del 1913, da 120.9 a 105.7 milioni di lire, quello dei bagagli da 5.3 a 4.6, delle merci da 174.4 a 134, ed in tutto da 300.6 a 264.4.

 

 

Turbavano forte le variazioni improvvisamente avveratesi nella direzione del traffico: ridotto il transito internazionale, deviato il traffico dai porti dell’Adriatico a quelli del Tirreno, cessata la navigazione dell’Adriatico e rese necessarie agevolazioni di tariffe a favore del retroterra dei porti abbandonati, frequenti le sospensioni di treni per i viaggiatori, gravi gli spostamenti nel servizio a causa dei trasporti di truppe, di rifornimenti, di materiali militari. Si erano dovuti concedere treni speciali a tariffe ridotte per il trasporto dei profughi; ed agevolazioni per attenuare le difficoltà annonarie, la deficienza di mano d’opera rurale, e per facilitare lo spaccio di talune derrate agrarie. Nel frattempo era scemato il trasporto dei forestieri. Si ingombravano linee e magazzini, si accentuavano le riparazioni. Lo sconvolgimento più ragguardevole dal punto di vista tecnico fu nei punti di origine del traffico. Già nel 1914-13 il carico ferroviario aumenta rispetto al 1913-14 del 2,12% a Savona, dell’11,89% a Livorno, del 24,08% alla Spezia, del 36,98% a Napoli. Genova, dopo alcuni mesi di stupefatta inazione, di colpo si trasforma da emporio nazionale in internazionale; al carbone, merce ingombrante, ma di facile manipolazione, si aggiungono cereali e cotoni, merci ricche, rischiose e bisognose di ampi spazi per la marcatura e la campionatura. Crescono perciò le giacenze in porto, così da raggiungere tonn. 327.857 in dicembre, 403.400 in febbraio, 452.831 in marzo 1915, quasi il doppio del totale del marzo 1914. Se anormali gli arrivi, pure le partenze mutano indole, essendo Genova divenuta per alcun tempo scalo dell’Europa centrale; ma, poiché non v’era attrezzata, né per mezzi di trasporti terrestri, né per depositi, né pei trasporti navali, crebbe enormemente l’ingombro dei carri carichi sulle calate dei porti e nelle vicine stagioni. (Bachi, 1915, 166-7). La dichiarazione della guerra italiana riduce a quello svizzero il traffico internazionale; ma accentua il movimento bellico, divenuto preponderante su quello civile, a cui si negano ormai agevolezze di trasporti di merci e si sospendono treni viaggiatori.

 

 

Il rovesciamento dei traffici tra l’Adriatico ed il Tirreno è compiuto: tra il 1914-15 ed il 1915-16 la diminuzione del carico è dell’84,24% a Venezia, dell’84,77% ad Ancona, dell’83,75 a Brindisi, laddove per i porti del Tirreno si osserva un aumento del 28% a Genova, del 14,17 a Savona ferrovia, del 67,36 a Savona funivia, del 49,37 a Livorno, del 33,72 alla Spezia, del 47,43 a Civitavecchia, del 43,36 a Napoli, del 29,26 a Torre Annunziata. A Genova le giacenze, scemate a 270.501 tonnellate nel luglio 1915, risalgono per l’afflusso dei carboni, cereali, lane, cotoni, juta, pelli, rottami di ferro e raggiungono le 678.345 tonnellate il 20 novembre. Con uno sforzo energico si riesce a riorganizzare il servizio ferroviario del porto, sì da mantenere il numero dei carri caricati nei giorni lavorativi fra un minimo di 1417 carri nel dicembre ad un massimo di 1520 nell’aprile; e così si riduce nuovamente la giacenza delle merci a tonn. 338.389 alla fine del giugno 1916. Il porto di Savona viene sfruttato, anche con la migliore utilizzazione della funivia, per l’approvvigionamento del Piemonte. Vado, Spezia, Livorno sono richiamati a nuova vita. Nella rada di Vado si costruiscono tre pontili adibiti allo scarico dei carboni e dei petroli; nel porto della Spezia, trasformato, con opportuni impianti e nuovi allacciamenti ferroviari, da porto militare in porto misto, si scaricano esplosivi, cereali, carni congelate; si avviano cereali al porto di Livorno, alleggerito, per mezzo del canale di Navicelli, di merci ingombranti depositate a Pisa.

 

 

La guerra sottomarina scema il lavoro dei porti; ma la trasformazione avvenuta nell’indole del traffico li sottopone ad altre, non meno gravi, prove. Esclusi i carichi per l’amministrazione ferroviaria, il carbone caricato nei porti per l’interno scema da 4.681.900 tonnellate nel 1913-14 a 3.780.100 nel 1915-16 per precipitare a 1.033.200 nel 1917-18: ma i cereali per l’interno crescono da 758.600 tonnellate nel 1913-14 a 2.136.700 nel 1918-19 e vi si aggiungono quelli destinati all’estero, che oscillano tra minimi di 1000 (1917-18) e massimi di 284.200 nel 1914-15 e di 269.000 nel 1918-19. I cotoni per l’interno da 172.900 tonnellate nel 1913-14 fanno una punta a 265.800 nel 1915-16, scendono a 89.300 nel 1917-18 per risalire a 136.500 nel 1918-19; mentre quelli per l’estero oscillano tra minimi di 1400 tonnellate nel 1917-18 e massimi di 92.700 nel 1914-15. Il petrolio si mantiene sempre al disopra della media antebellica, fin del 40%; le merci varie, che erano di 2.200.400 tonnellate nel 1913-14, giungono a 3.035.600 nel 1916-17 e si mantengono a 2.690.600 nel 1918-19. Poiché il carbone che nell’anteguerra dava più della mete del carico nei porti (nel 1913-14 sono 4.681.900 tonnellate su 8.741.800) si riduce ad assai meno di un sesto (1.057.900 tonnellate nel 1918-19 su un totale di 6.843.000) ed il suo posto è preso dai cereali e più dalle merci varie, di assai più difficile maneggio, la gestione dei porti e delle ferrovie ne è resa grandemente più ardua.

 

 

Frattanto, a crescere la pressione sull’esercizio ferroviario, le merci importate attraverso i valichi alpini, se scemano, e non in tutti gli anni, di volume, si spostano verso occidente e colla loro variabilità sottopongono le ferrovie ad un lavoro sussultori: da 4.5 milioni di tonnellate nel 1913-14 scendono a 2.7 nel 1915-l6 per risalire a 4.3 nel 1917-18 e ridiscendere a 3.6 nel 1918-19. Ed il carico interno, meno soggetto a variazioni, non si attenuava, oscillando da 24 a 27 milioni di tonnellate. Il traffico militare, che nel 1914-15 non fruttava l’1% del prodotto totale del traffico, nel 1915-16 fornisce il 28% del prodotto viaggiatori ed il 30% di quello merci, nel 1916-17 il 34 ed il 49% e nel 1917-18 il 42 ed il 56% rispettivamente. «Le punte del traffico militare durante la guerra – osserva il Rostagno – corrispondono a tre momenti caratteristici: mobilitazione iniziale, offensiva austriaca nel Trentino (17 maggio-5 giugno 1916), affluenza dei rinforzi franco inglesi dopo il ripiegamento sul Piave, (novembre 1917), nei quali fu raggiunta, con la massima estensione, anche la massima intensità nei trasporti. La mobilitazione richiese 2500 treni per mobilitazione propriamente detta e 4500 per la radunata. Fu questo il massimo sforzo eseguito dalle ferrovie durante la guerra. Per l’offensiva austriaca del 1916 è invece notevole l’intensità raggiunta: in poco più di 20 giorni furono trasportate 15 divisioni di fanteria e 1 divisione di cavalleria, impiegando 566 treni, in una media di 43 treni giornalieri. Il trasporto dell’armata franco inglese in Italia (6 divisioni francesi, 5 inglesi) e la costituzione delle basi relative richiese un totale di 1413 treni e di 600 carri» (op. cit., p. 94). Mirabile cosa fu che la rete abbia saputo adattare di giorno in giorno i mezzi agli scopi da raggiungere, facendo fronte ai trasporti per conto degli alleati, all’arretramento della fronte dopo la ritirata sul Piave, alla necessità delle successive offensive, senza che agli impianti fissi ed al materiale mobile si fosse potuto dare ragguardevole incremento. Lo sbalzo in avanti dello schieramento dell’esercito dal Tagliamento, che era la linea prevista in caso di conflitto coll’Austria Ungheria, all’Isonzo costrinse a riparare alle deficienze delle linee e delle stazioni ferroviarie intermedie e poi a portare la potenzialità massima di affluenza a scarico della rete ferroviaria veneta da 100 a 130 treni giornalieri. Si misero in opera per raddoppio di linee e per nuove linee 230 km. di binari; si costrussero 40 km. di raccordi fra linee esistenti ed altri 780 km. furono condotti per ampliamento di stazioni, in tutto 1050 km. di linee in più nella zona di guerra. Altrove, all’infuori di qualche minore lavoro sulle linee Modena-Torino-Genova, e Napoli – Foggia-Bari-Brindisi-Otranto, affaticate dal transito dei treni interalleati in servizio per le truppe in oriente e, dopo il ripiegamento sul Piave, delle opere necessarie per portare al massimo la possibilità di affluenza nella zona fra il Mincio e il Po, nulla si fece.

 

 

Quanto al materiale mobile, dei 13.000 carri ordinati nel 1916 negli Stati Uniti la consegna non era ancora ultimata al momento dell’armistizio; ed appena iniziate quelle relative ad altri 13.500 carri ordinati all’industria nazionale. Dal 1914 al 1919 le locomotive a vapore crescono solo da 5153 a 5263, le automotrici elettriche da 152 a 239, i bagagliai da 3641 e 4193, i carri merci da 103.072 a 109.662 laddove le carrozze viaggiatori scemano da 10.078 a 10.002. Dell’usura crescente, alla quale il materiale, stazionario per numero, fu assoggettato, si ha un indizio nella riduzione della percorrenza totale dei treni da 117.118 milioni di treni/km. nel triennio 1913-16 a 92 milioni nel 1918. L’amministrazione cerca di compensare la fortissima diminuzione con il più intenso sfruttamento del materiale e la maggiore potenzialità dei treni. Ma se il numero complessivo degli assi/km. saliva perciò da 3710 milioni nel 1912-13 a 4300 nel 1917-18, l’incremento era accompagnato da un contemporaneo balzo del numero medio degli assi/km. per treno merci da 31.7 nel 1912-13 a 47 nel 1917-18. Il carro che nel 1913-14 percorreva 9800 km. carico e 2700 a vuoto, nel 1915-16 ne percorre 11.200 carico e 3800 a vuoto, nel 1916-17 12.400 carico e 4300 a vuoto e, nonostante l’ingorgo per il ripiegamento sul Piave, nel 1917-18 ancora 10.800 carico e 3700 a vuoto. La migliore, sebbene non piena, utilizzazione dei carri ferroviari, è cagione di usura grandissima. Al momento dell’armistizio il materiale mobile è invariato per quantità, ma invecchiato e logoro. Il bottino di guerra, che secondo i calcoli del tempo, doveva consistere in 469 locomotive a scartamento ordinario ex-austriache e 172 ex-germaniche, 850 carrozze, 285 bagagliai, 14.250 carri a scartamento normale, 38 carrozze, 8 bagagliai e 235 carri a scartamento ridotto, era anch’esso vecchio e logoro; né in tutto utilizzabile. La crisi del dopoguerra, la quale trovò altre industrie dotate d’impianti esuberanti, vide l’industria ferroviaria tecnicamente logora.

 

 

48. – Aiuto notevolissimo alle ferrovie, durante la guerra, diede la mirabile rete dei fiumi, i quali intersecano la pianura padana ed il Friuli. Se si dové, per la soverchia lentezza dei trasporti, abbandonare il proposito di utilizzare le vie acquee per l’avviamento dei feriti e degli ammalati agli ospedali, si poté invece, favoriti dal senso prevalente in che le acque si muovono verso il Po e questo verso l’Adriatico, utilizzare largamente la rete navigabile, fino al ripiegamento sul Piave per il rifornimento e lo sgombro di materiali e di derrate per e dal settore carsico, e nel secondo periodo della guerra, per il rifornimento, dai laghi lombardi e dal Po, degli stabilimenti e depositi di seconda linea a sud della linea dell’Adige e talvolta di quelli sul basso Brenta e sul basso Bacchiglione situati sul lato destro della fronte di schieramento. Si alleggerì la ferrovia dall’ingombro di paglia, fieno, legna da ardere, legname di costruzione ed altre merci povere; si moltiplicarono i ponti di scarico e carico; ed anche si rifornirono di grano la provincia di Venezia e di materia prima gli zuccherifici del Polesine e del Ferrarese. Col taglio del delta del Tagliamento si collegò direttamente la laguna di Caorle a quella di Murano e di Grado, evitando ai convogli fluviali i pericoli della navigazione marina e di eventuali attacchi nemici; si aperse un canale di collegamento fra la laguna veneta e il Po; si migliorarono le condizioni navigabili del fiume Sile e si rese navigabile il corso del Bacchiglione tra Padova e Vicenza; si raccordarono a Piacenza, Cremona, Mantova e Pontelagoscuro gli scavi fluviali con le stazioni ferroviarie. Utilizzando pochi burchi militari e un numero maggiore di burchi, trabaccoli, peote, vaporini requisiti ai privati, non disdegnando i quadrupedi da alaggio lungo le rive dei canali si crebbero le tonnellate di merce trasportata da 38.526 nel 1915 a 483.226 nel 1917 e, dopo il ripiegamento sul Piave, con un più intenso sfruttamento delle più brevi linee fluviali percorse, si giunse a 748.339 tonnellate.

 

 

49. – La guerra sorprese la navigazione marittima in un momento di crisi di noli iniziatosi nel 1913, ed oltre gli effetti generali subito derivati dal blocco della flotta mercantile dei due imperi centrali, ebbe il particolare effetto di separare l’Italia, dagli stati, Russia e Rumenia, che normalmente ci rifornivano di cereali e per la chiusura del nostro principale mercato di scambio continentale, la Germania, ci obbligò a cercare quasi in tutto al di là dei mari, anzi al di là degli Oceani, i mercati rifornitori delle materie prime essenziali all’industria ed alla alimentazione del paese.

 

 

I percorsi più lunghi, la necessità di evitare le zone pericolose, l’impossibilità di fare scalo in porti più comodi e l’ingombro dei pochi porti disponibili, la moltiplicazione delle soste, le requisizioni militari e civili, il rincaro del carbone, e la guerra sottomarina fanno aumentare i noli nel 1915 a quattro e cinque volte l’anteguerra, nel 1916 al decuplo ed oltre. La media mensile del nolo per trasporto del grano e del granturco da Buenos Ayres a Genova passa da lire oro 0,80 per quintale nel gennaio 1913, a 15,33 sempre in lire oro nel gennaio 1915, a 13,87 nel gennaio 1916 ed a 15,20 nel dicembre 1916. Aumenta grandemente il prezzo delle navi. Il piroscafo tipico da 7.500 tonnellate che nel 1909-10 era sceso a 36.000 lire sterline, ed alla fine del 1914 si negoziava a 42.000 lire sterline, giunse rapidamente alla fine del 1915 al prezzo che pareva inverosimile di 150.000 lire sterline, ma continua tuttavia a salire: a marzo 1916 era a 160.000, a giugno a 180.000, a dicembre a 187.500 lire sterline. (Bachi, 1915, 174-76, 1916, 198 e segg.). Solo alla fine del 1916 la necessità urgente e la convenienza economica consigliano a dare impulso alle costruzioni marittime ed all’acquisto di navi all’estero. L’organizzazione economica dell’industria tende a concentrarsi: al luogo di costruttori navali, armatori e noleggiatori distinti, con interessi discordanti e talvolta in aperto contrasto, sorgono flotte consacrate ai trasporti di particolari ditte o di qualche pubblica azienda, le quali tentano così di sottrarsi alle alee dei noli oscillanti e crescenti, e si vedono compagnie di navigazione impiantare cantieri propri per la costruzione di navi. Nel 1917, nonostante la dichiarazione di guerra sottomarina, avvenuta nel febbraio, i crescenti interventi statali colle requisizioni, colla disciplina dei noli, con acquisti e noleggi, con vincoli ai trapassi di proprietà e di bandiera, frenano il mercato delle navi, sicché il prezzo della nave tipica discende alla fine del 1917 a 165.000 lire sterline, e cioè a 22 lire sterline per tonnellata. Per l’alto costo dei combustibili rifioriscono i velieri e su di essi si installano motori ausiliari. Se nel 1916 erano stati varati appena sette e nel 1917 appena quattro piroscafi di stazza superiore a 100 tonnellate, alla fine del 1917 erano in costruzione 29 piroscafi a scafo metallico della stazza lorda di 150.000 tonnellate, di cui la data approssimativa del varo cade nel 1918. Si è accentuato «il fenomeno della “integrazione economica” che collega strettamente l’industria siderurgico – meccanica, la navale e la marittima con l’unità di fatto delle aziende, velata appena dalla parvenza di una giuridica separazione in distinte società. Sono così venuti a giganteggiare nel mutato assetto delle industrie navali e marittime, specialmente i possenti nuclei dell’Ansaldo, dell’ Ilva e della Navigazione generale, con la sequela degli interessi bancari che loro sono connessi. È caratteristico anche il fenomeno, che talune grandi aziende industriali o colleganze di aziende abbiano assunto la posizione di armatori procurando una propria flotta per i propri trasporti: così sono sorte speciali società di navigazione costituite dagli industriali del cotone e della lana per il trasporto delle materie prime» (Bachi, 1917, 137 e segg.). L’inverno del 1917-18 si apre con assai fosche previsioni, sopratutto nel nostro paese dove lo scarso tonnellaggio navale disponibile è sottoposto ad uno sforzo penoso in seguito alla ritirata sul Piave. Ma per il mirabile progresso nella cattura e nella distruzione dei sottomarini nemici ed il crescente successo dei viaggi in convogli vigilati da navi armate, si ha prima della metà del 1918 la sensazione «che la flotta alleata affondava un numero di sottomarini superiore a quello dei sottomarini che il nemico poteva costruire e che gli alleati in complesso costruivano una quantità di naviglio mercantile superiore a quello che il nemico poteva affondare … I noli, per quintale di frumento del Plata, salgono ancora da 16,69 franchi oro alla fine del 1916 al massimo di 27,92 nei mesi dal maggio all’ottobre 1918». Ma l’attività dei cantieri è grande; e già pare agli osservatori inutile ai fini della guerra e pericolosa per il futuro: «L’attività costruttiva si è svolta assai tardiva, ma con un flusso di iniziative probabilmente soverchio. I nuovi cantieri sorti o predisposti durante la guerra sono assai numerosi: si ricordino quelli dell’Ilva a Bagnoli, della Navigazione generale a Bari, degli armatori liberi riuniti a Voltri, della Società cantieri navali ed acciaierie a Venezia; altri sono ancora predisposti a Piombino, a Mestre, a Volta, a Messina; e parecchi cantieri anteriori (Napoli, Muggiano, Riva Trigoso) sono oggetto di ampliamento. Questa vasta attività navale, congiunta con quella dei potenti cantieri della Venezia Giulia, potrà nei prossimi anni recare rilevanti aggiunte al nostro naviglio. La prospettiva economica di questa industria navale, in parte notevole coordinata o fusa con l’industria siderurgica, è però assai incerta, dati i costi elevatissimi delle costruzioni» (Bachi, 1918, 170).

 

 

Attraverso alle vicende così riassunte e in relazione all’intervento statale, a freno dei noli e ad incoraggiamento di nuove costruzioni, di cui si dirà poi (cfr. parag. 77, 78, 106, 125) non si poté evitare nel fortunoso quadriennio 1915-18 una riduzione cospicua del tonnellaggio navale italiano. Per le sole navi aventi una stazza netta superiore a 50 tonnellate, la flotta italiana alla fine del 1914 comprendeva 644 piroscafi, della stazza lorda di tonn. 1.534.738 e netta di 934.396 (D. W. C. 1.958.838). L’incremento del tonnellaggio fu di 24 navi stazzanti al lordo 112.000 tonnellate per acquisti all’estero e di 32 navi stazzanti al lordo 210.000 tonnellate per nuove costruzioni; ma furono perdute 29 unità da tonn. 103.267 per sinistri marittimi, 30 da tonn. 32.766 per vendite all’estero o passaggio alla marina di guerra, 42 da tonn. 92.153 per demolizione; e 218 della stazza lorda di 677.205 tonn. per causa di guerra.

 

 

In tutto le perdite ammontarono a ben 336 navi da 905.393 tonnellate lorde e 556.205 nette (D. W. C. 1.231.496) equivalenti in portata lorda al 59% del naviglio esistente alla fine del 1914. Le perdite dovute al nemico accaddero per 36.405 tonn. nel 1915, per 190.385 nel 1916, per 312.242 nel 1917 e per 138.175 nel 1918. Il colpo più grave fu recato dal nemico nel 1917. Alla perdita delle navi si deve aggiungere quella di 420.382 tonnellate di carico, di cui 151.642 di carbone, 133.069 di cereali, 37.266 di metalli, 52.505 di merci varie, e 45.900 di minerali.

 

 

Qualche aiuto diedero alla marina mercantile le 69 navi sequestrate al nemico nel 1915 per 251.188 tonnellate lorde, ridotte in fine della guerra per affondamenti a 44 per 159.063 tonnellate. Cosicché, di tutto tenendo conto, perdite, acquisti, nuove costruzioni, e sequestri netti, la flotta nazionale e sequestrata alla fine della guerra si era ridotta a 408 unità da 1.039.720 tonnellate lorde di cui 364 unità da 880.657 tonnellate lorde (531.736 nette e 1.051.357 D. W. C.) formavano la flotta nazionale. Appena il 57% della consistenza iniziale; inclusi i sequestri i due terzi. Poiché il residuo naviglio era inadeguato ai bisogni dei rifornimenti dopo la guerra, al principio nel 1919 lo stato teneva ancora in servizio 120 piroscafi esteri per circa 620.000 tonnellate D. W. C. noleggiati a tempo e 160 piroscafi per circa 1.100.000 circa noleggiati a viaggio. Era infine utilizzata, anche a profitto degli alleati, la flotta già austro ungarica con 202 unità per 773.000 tonnellate D. W. C., e della quale un quarto circa trovavasi in riparazione.

 

 

3- la organizzazione coercitiva delle industrie belliche

 

50. Dell’uomo che fu a capo dell’organizzazione industriale per la guerra: il generale Alfredo Dallolio. – 51. Dubitoso intorno alla capacità dell’industria italiana siderurgica e meccanica, il capo concepisce dapprima l’industria privata come ausiliaria di quella governativa. – 52. Prime norme di requisizione di cose e di persone e di coercizione sui produttori privati. Il comitato centrale ed i comitati regionali per la mobilitazione industriale. Ma la requisizione degli stabilimenti privati non si attua, perché il capo vide subito che l’iniziativa privata meglio rispondeva alle urgenze della guerra. – 53. La dichiarazione di ausiliarietà desiderata dai produttori per il vantaggio di disporre di maestranze sufficienti e sottoposte a disciplina militare. – 54. L’istituto dell’esonero, sua organizzazione e critiche ad esso rivolte. Le cautele contro l’imboscamento. Dimostrazione della necessità di trarre parte degli operai delle industrie belliche da ceti non operai. – 55. Il reclutamento delle maestranze belliche fra prigionieri di guerra, coloniali, detenuti militari, donne e ragazzi. – 56. La coercizione disciplinare del lavoro, il servizio segreto di informazioni ed i risultati ottenuti. – 57. La tutela del lavoro e le assicurazioni a favore degli operai di guerra. – 58. La regolazione d’impero dei salari e delle condizioni del lavoro. Il malcontento nelle trincee contro gli operai. Impossibilità di remunerare gli operai ed i tecnici al paro dei soldati. – 59. La distribuzione d’impero delle maestranze. Difficoltà della selezione degli imprenditori più adatti ad occupare operai. – 60. La determinazione dei costi, in assenza di prezzi di mercato. La commissione consultiva per la revisione dei prezzi e la eliminazione delle rendite di produttore. – 61. Ai compiti nuovi assunti dallo stato non si estendono le vecchie guarentigie giudiziarie ed amministrative. Lo stato si sottrae all’autorità giudiziaria e cresce con suo danno le alee dei privati industriali. – 62. L’abolizione del controllo della corte dei conti per le gestioni belliche. Il disordine contabile che ne seguì. – 63. Di alcuni casi di frodi nelle forniture e lavorazioni belliche: i buoni cuoiami e pelli, la gestione sacchi, la fornitura di vergelle da parte di amministrazioni diverse, i residui di lavorazione di metalli ricchi. – 64. Le lievi ombre del quadro della organizzazione dello sforzo tecnico per la condotta della guerra non sarebbero bastate a cagionare sconvolgimenti sociali.

 

 

50. – Direttore generale di artiglieria e genio presso il ministero della guerra, durante il periodo della neutralità e fino al luglio 1915, sottosegretario di stato per le armi e munizioni dal 9 luglio 1915 al 16 giugno 1917, ministro per le armi e munizioni fino al 15 marzo 1918[35], il capo della organizzazione dello sforzo bellico italiano fu il generale Alfredo Dallolio. La commissione parlamentare per le spese di guerra, la quale si indugiò a lungo in critiche minutissime intorno alle maniere con le quali si spesero circa 29 miliardi di lire in armi e munizioni, parte cospicua del costo totale della guerra, non volle sciogliersi senza aver nella sua ultima seduta votato unanime quest’ordine del giorno: «La commissione parlamentare di inchiesta per le spese di guerra, dopo aver partitamente e scrupolosamente esaminate le singole gestioni dell’amministrazione delle armi e munizioni, alla quale fu preposto durante la guerra il generale Alfredo Dallolio, reputa suo preciso ed altissimo dovere indicare il nome di lui alla gratitudine ed alla ammirazione nazionale; poiché in quella sua urgente, immensa, difficile opera, non solo seppe far tutto ciò che si poteva per apprestare le armi alla difesa, alla riscossa, alla trionfale vittoria, ma con esemplare illibatezza e con appassionata diligenza procurò che il denaro pubblico non andasse malamente disperso; ed invita il governo a considerare se non sia da rendere onore e premio adeguati ad uno degli uomini, che, con senno e probità incomparabili, efficacemente contribuirono alle sorti gloriose della patria» (II, 99).

 

 

51. – Caratteristica creazione del generale Dallolio fu la «mobilitazione industriale»; e fu creazione rinnovata continuamente per rispondere a mutevoli esigenze della guerra. Nel periodo della neutralità, il capo dedica sopratutto cure assidue agli stabilimenti militari: arsenali, officine, polverifici, fabbriche d’armi, laboratori e direzioni di artiglieria» (cfr. 35).

 

 

L’industria privata ancora concepita semplice ausiliare di quella statale; ed il generale Dallolio è scettico sulla capacità di essa a far fronte alle esigenze belliche: «Il concetto – così leggevasi in una relazione dell’allora direttore generale dell’artiglieria e genio al ministro della guerra – di valersi dell’industria privata come di aiuto e di complemento dell’industria militare di stato è sempre propugnato, senza rinunziare alle tutele ed alle garanzie che di fianco e di fronte all’industria privata può offrire uno stabilimento militare, quando sia servito da una buona maestranza, educata con criterio veramente pratico e militare.

 

 

Disgraziatamente in Italia la preparazione industriale tecnica non è all’altezza delle grandi industrie d’oltr’alpe, meravigliosamente organizzate. Esiste invece un’industria metallurgica fittizia, giacché mancano le relative materie prime che sono un fattore di capitale importanza tra gli elementi meno appariscenti della organizzazione dell’esercito.

 

 

Vivono, è vero, alcune industrie meccaniche, perché hanno per principale cliente lo stato; ma appena manca il carbone, il rame, il nickel, l’antimonio, il ferro manganese, il cromo, ecc. tutto si arresta per fare delle dolorose constatazioni (Commissione, III, 108). Durava chiaramente l’impressione che sugli stabilimenti di stato dovesse gravare il peso maggiore degli apprestamenti militari.

 

 

52. – Soltanto nell’aprile 1915 si prescrivono da un lato norme per regolare la requisizione e la esecuzione forzata su cose mobili ed immobili e su prestazioni personali per provvedere ai rifornimenti militari ed ai bisogni dei relativi servizi e si prevede d’altro canto l’esonero temporaneo dal servizio militare dei richiamati alle armi addetti a stabilimenti ed imprese private le quali provvedano materiale e lavori per conto dell’amministrazione militare. Primi accenni ad un’organizzazione che lo scoppio della guerra subito ingigantisce. Un decreto del 26 giugno 1915 conferisce al governo poteri atti ad assicurare il rifornimento del materiale, durante lo stato di guerra, all’esercito ed alla marina; gli dà facoltà di imporre e far eseguire le opere occorrenti a crescere la potenzialità degli stabilimenti privati la cui produzione giovasse alla difesa del paese e di assoggettarne, ove facesse d’uopo ad assicurare la continuità della produzione, il personale alla giurisdizione militare; ed impone agli industriali di fabbricare e fornire il materiale necessario agli usi di guerra, a prezzi fissati d’impero se l’amministrazione reputi eccessivi quelli richiesti dagli industriali, lecito il reclamo solo dinnanzi ad arbitri inappellabili.

 

 

Ad attuare poteri tanto vasti, i decreti dell’1 luglio, 22 agosto e 26 settembre 1915 creano un «comitato centrale di mobilitazione industriale», alla cui dipendenza sono posti prima sette e poi undici comitati regionali istituiti nelle zone dove più ferveva l’opera per la preparazione bellica.

 

 

Se il ministro della guerra, persuaso che uno stabilimento privato o un suo reparto era atto, per i suoi impianti e macchinari, a produrre materiale necessario per i rifornimenti bellici, lo dichiarava «ausiliare», tutto il personale dai gestori ai proprietari e dai dirigenti agli impiegati amministrativi e contabili ai capitecnici ed agli operai, passava sotto la giurisdizione militare. I comitati regionali dovevano, con informazioni e pareri, con provvedimenti ed ispezioni, assicurare il progresso della produzione; e ad essi fu, a partire dall’agosto del 1917, affidato anche il compito della sorveglianza disciplinare, a cui prima attendevano i comandi militari. È significativo che né subito né poi, il ministro ritenne opportuno dar norme per l’attuazione dei principii, affermati dai decreti fondamentali, di requisizione degli stabilimenti e delle prestazioni intellettuali di lavoro. Il capo, che già vedemmo scettico sull’efficacia dei mezzi d’impero ad apprestare i mezzi materiali della vittoria (cfr. parag. 31), volutamente si astiene dal formulare quelle norme: «poiché sono convinto che non si arriverà mai a questo estremo. La requisizione avverrebbe quando gli industriali si rifiutassero di fare e produrre di buona voglia quanto fosse loro richiesto dal governo. Coi poteri conferitigli, il governo assumerebbe allora l’amministrazione e la direzione tecnica ed amministrativa dello stabilimento, sostituendosi all’industriale.

 

 

Ora non c’è da illudersi. Per necessità di leggi contabili o per inevitabili congegni burocratici, il governo è fatalmente un industriale più lento e forse anche meno efficace dei privati, cosicché nelle sue mani la produzione, invece di aumentare, probabilmente diminuirebbe e sarebbe più costosa. Si conseguirebbe così, in un primo periodo, un risultato diametralmente opposto a quello desiderato. Per questi motivi e certo del patriottismo degli industriali e degli operai, non ho disciplinato le requisizioni, né le imposizioni d’opera da parte del governo. Ove occorresse si potrà farlo rapidamente» (Commissione, II, 111). Non fu necessaria, perché gli industriali privati, ove si faccia astrazione dai prezzi richiesti e pagati, risposero alla fiducia in essi riposta da chi, con pronto intuito, aveva visto che l’antica sua predilezione verso gli stabilimenti di stato male si adattava alle esigenze nuove della guerra.

 

 

Deciso a lasciare agli industriali privati piena responsabilità per la loro azione, il generale Dallolio prepose ad essi capi gruppo, militari e borghesi, non per dirigerne l’opera ma per ripartire tra di essi le ordinazioni a seconda della potenzialità e capacità produttive.

 

 

53. – La dichiarazione di ausiliarietà, vista con sospetto quando sulle prime vi si addivenne d’imperio e si temevano ingerenze dello stato nella gestione interna delle imprese, divenne presto ambitissima. Imprese di apparati elettrici, telegrafici, telefonici, lanifici, vestifici, calzaturifici, fabbriche di cuoiami e di calzature l’ottennero quando l’istanza venne presentata dall’ente militare o civile interessato alla loro produzione. Talune amministrazioni statali, preoccupate per la mancanza crescente di mano d’opera e di materie prime e persuase di potere più facilmente ottenere l’esonero di operai dal servizio militare o la fornitura di materie prime se richiesta a favore di stabilimenti ausiliari, ne vollero il beneficio per miniere di zolfo e di lignite, per mulini di grano e risifici, per gasometri ed altre industrie ritenute interessanti la economia pubblica. Una remora alla ressa delle domande si ebbe quando la requisizione delle prestazioni d’opera personali, e perciò l’obbligo di permanenza nelle officine e di soggezione alla giurisdizione militare, furono estese (D.L. 1 ottobre 1916, n. 1576) alle prestazioni d’opera «presso le officine che non possono essere dichiarate stabilimenti ausiliari, ma a cui sono connesse lavorazioni che interessino l’esercito e la marina»; ausiliarietà di secondo grado, senza solennità di decreto del ministro della guerra, per deliberazione del comitato di mobilitazione industriale. Di nuovo crebbe il numero degli stabilimenti ausiliari quando la dichiarazione fu estesa a favore delle imprese agricole e forestali interessanti i rifornimenti delle amministrazioni militari o di stato o comunque l’economia nazionale.

 

 

Divennero ausiliarie numerose imprese di conservazione e manipolazione di cereali e dei prodotti animali: silos, pilerie, molini, pastifici, panifici, fabbriche di marmellate, industria della conservazione della carne congelata; di lavorazione dei minerali: raffinerie di zolfo, fornaci di gesso, cemento, fabbriche di laterizi, vetrerie, e poi distillerie, zuccherifici, oleifici, consorzi idrovori, ecc. ecc. Da 797 al 30 giugno 1916, in gran parte, 454, dediti a lavorazioni meccaniche: bocche da fuoco, proiettili, bombe e bombarde, bombe a mano, cartucce da fucile, materiale da aviazione ed automobilistico, gli stabilimenti ausiliari un anno dopo erano diventati 1463, ed al 31 dicembre 1918 toccavano il numero di 1976, di cui 762 lavoravano ed utilizzavano metalli: 302 nel distretto del comitato di Milano, 191 in quello di Torino, 86 di Genova, 43 di Napoli, 43 di Roma, 34 di Firenze, 22 di Bologna, 17 di Venezia, 15 di Palermo, 5 di Bari, e 4 di Cagliari. Degli altri, 292 riguardavano industrie estrattive, 228 utilizzavano prodotti dell’agricoltura, della caccia e della pesca, 126 lavoravano minerali, 75 fibre tessili, 35 si riferivano ad industrie chimiche ed elettrochimiche e 135 a servizi collettivi e generali. Molte domande di ausiliarietà erano state respinte: 230 nel solo distretto di Torino. Collo scarseggiare delle materie prime, del carbone, dei mezzi di trasporto e delle maestranze militari, furono revocate talune dichiarazioni, le quali cagionavano inutile dispersione di forze; anzi, alla vigilia dell’armistizio, il 4 ottobre 1918 un dispaccio del commissario generale alle armi e munizioni ordinava una revisione generale delle concessioni di ausiliarietà.

 

 

Grandi erano per gli industriali i vantaggi dell’iscrizione nel ruolo degli stabilimenti ausiliari: ottenere che all’esercito combattente fossero, con opportuni esoneri, sottratti gli uomini necessari alla produzione bellica; sottomettere le maestranze così ottenute ad una rigorosa disciplina d’indole militare; sopprimere gli scioperi e le agitazioni operaie; determinare i salari e le condizioni di lavoro ad opera arbitrale dei comitati regionali di mobilitazione.

 

 

54. – Vivissima fu sempre tra gli industriali e più tra i dirigenti l’esercito l’ansia del disporre di mano d’opera bastevole alla produzione bellica. Fin dal periodo della neutralità si era data (R.D. 22 aprile 1915) facoltà ad alti comandi militari di poter requisire prestazioni personali d’opera e si erano (R.D. 29 aprile 1915) emanate norme per l’esonero dal servizio dei militari richiamati alle armi, di qualunque classe e categoria, appartenenti agli stabilimenti militari ed alle officine ed imprese che già lavoravano per conto dell’esercito e della marina. Ad evitare abusi una commissione locale, controllata da una commissione centrale, doveva constatare la temporaneità dell’esonero, ed insieme la necessità di esso e la insostituibilità dell’opera prestata dal richiamato alle armi, di cui si richiedeva l’esonero. Revocabile questo, quando ne fosse venuta meno la ragione o questa si chiarisse insussistente. Deferiti ai tribunali militari coloro che avendo, per virtù del proprio ufficio, facoltà di far richiesta di esonero e di rilasciare ad occasione di esso attestazioni, dichiarassero circostanze false; reputati disertori i militari che scientemente fruissero dell’illecito esonero. Esteso (D.L. 17 giugno 1915, n. 887) l’esonero ai direttori, capitecnici ed operai specializzati quando dall’allontanamento di costoro potesse derivare la cessazione del lavoro od un grave turbamento nella normale attività degli opifici. Data (D.L. 30 giugno 1915) al ministro della guerra facoltà di ordinare ispezioni per assicurarsi della regolarità e della uniformità dei criteri seguiti dalle commissioni locali ed agli ispettori di revocare gli esoneri indebiti. Potere il ministro autorizzare e revocare esoneri per il personale delle amministrazioni dello stato o private, a cui fossero affidati servizi pubblici di interesse nazionale. Non avendo nel primo anno le commissioni locali fatto buona prova, si sopprimono nell’agosto 1916 e se ne affida il compito ai comitati regionali per la mobilitazione industriale, i quali vi provvedono a mezzo di speciale commissione, con effetto immediato e provvisorio. Esteso, a poco a poco, l’istituto dell’esonero ai militari richiamati alle armi addetti ai servizi di navigazione e pilotaggio (D.L. 9 dicembre 1915), ai direttori e capi addetti alla marina mercantile, purché iscritti alla milizia territoriale (D.L. 13 aprile 1916), ai direttori di aziende agrarie e di industrie direttamente attinenti all’agricoltura, quando appartengano a classi anteriori a quelle del 1882 (D.M. 28 febbraio 1917); ed in via temporanea, ai militari necessari alla cultura agricola e principalmente granaria e persino alla pesca, esso divenne presto oggetto di critica.

 

 

L’accusa di imboscamento fu frequente. «Mezzo principale di imboscamento all’interno fu – osserva la commissione di inchiesta su Caporetto – nell’opinione generale la ingiusta concessione degli esoneri. Le maestranze fittizie venutesi a formare, i lauti guadagni dei militari esonerati e di quanti erano riusciti ad accaparrarsi un buon posto, il conseguente stato di egoistico benessere e lo spensierato godimento della vita di cui si avevano troppi esempi in paese, erano fatti ben noti ai militari della fronte, che lamentavano tutto ciò, affermando che con la mobilitazione sarebbe stato necessario sottoporre gli operai alle medesime condizioni o quasi dei combattenti, invece di lasciarli lungi dal rischio a godere lauti guadagni. Saltavano agli occhi gli esoneri concessi a professionisti fattisi passare per operai, il rinvio in paese per i lavori agricoli di militari che non erano contadini, – poco innanzi» (Inchiesta, II, 405) erano stati ricordati «giovani delle classi abbienti, riusciti a sottrarsi al servizio militare, trasformandosi in capi di officine o di aziende e anche in semplici operai», con effetto di «odio e rancore» sollevati contro «coloro che riunivano in sé il duplice vantaggio egoistico di essersi sottratti a qualunque menomo rischio e di essersi assicurati vantaggi, benessere, ricchezza prima loro sconosciuti ed insperati: non solo imboscati insomma, ma pescicani al tempo stesso» – e il ripetersi di fatti consimili diffondeva la dannosa persuasione che gli esoneri non si concedessero per constatato bisogno dell’agricoltura e dell’industria, ma per raccomandazioni, per favoritismi, per interessi personali. Il militare che, dopo molti e molti mesi trascorsi in mezzo ai disagi ed ai pericoli, andava in licenza e rivedeva la famiglia nella maggior parte dei casi in cattive condizioni finanziarie o che ne riceveva per iscritto notizie, dapprima si turbava, si addolorava, ma alla fine si inaspriva, constatando che molti, i quali avrebbero dovuto essere da tempo in trincea, non solo erano esonerati, ma guadagnavano lauti salari, si avvantaggiavano della guerra, della quale si giovavano anche e in misura molto maggiore fornitori ed imprenditori, realizzando guadagni favolosi» (Inchiesta, II, 405-406).

 

 

Affinché l’animo dei combattenti non fosse turbato dall’eccesso e dalle ingiustizie degli esoneri, si prescrissero indagini ed accertamenti, per assicurare il migliore rendimento industriale della mano d’opera disponibile; si ordinarono controlli e revisioni generali degli esoneri (circolari 24 gennaio e 13 dicembre 1917) ed una particolare revisione degli esoneri dei proprietari delle piccole officine (circolare 17 agosto 1917) volle eliminare gli incapaci, i superflui, e gli irregolari, ricercare e punire coloro che dal lavoro nell’industria avessero tratto pretesto per sottrarsi ai disagi ed ai pericoli della guerra; si aggregarono alle commissioni di esonero padri di famiglia aventi figli al fronte e mutilati di guerra; si iniziò un graduale scambio di operai specializzati della zona di guerra con quelli dell’interno, sostituendo a mano a mano gli esonerati di classi meno anziane con altri di classi più anziane che prestassero servizio al fronte (circolare 2 agosto 1917). Divenuto urgente, dopo il ripiegamento sul Piave, ridonare all’esercito giovani energie, si provvide ad eliminare dagli stabilimenti i militari nati dopo il 1892 ed a revocare le assegnazioni di mano d’opera militare eccettoché per i direttori, capi tecnici ed operai addetti esclusivamente alla produzione delle armi, delle munizioni e degli esplosivi negli stabilimenti di stato e in quelli ausiliari e requisiti. Al 30 settembre 1918 i militari di truppa nati dopo il 1892 lasciati a disposizione delle industrie diverse da quelle delle armi e munizioni erano appena 165, contro 125.544 nati dal 1874 al 1892; ed anche nelle industrie di armi e munizioni i giovani esonerati si ridussero grandemente: al 30 maggio 1918 appena 2037 contro 155.468 appartenenti alle classi più anziane. Al momento dell’armistizio gli esonerati in virtù di mobilitazione industriale erano 165.000, compresi 7500 rinviati dalla zona di guerra; e di essi solo l’8% appartenevano alle classi giovani dei nati dopo il 1890. Eliminarli del tutto non si poté, incontrandosi, osservano i commissari dell’inchiesta sulla rotta di Caporetto, «gravi resistenze a togliere uomini che se in un primo tempo si erano effettivamente imboscati negli stabilimenti, successivamente, sia per la intelligenza dimostrata, sia per la effettiva grande capacità acquistata, erano divenuti operai assai produttivi». Non si doveva «al solo scopo di perseguire il diboscamento, mettere la dissoluzione negli stabilimenti di produzione del materiale bellico» (Inchiesta, II, 414). L’avvicendamento tra operai e combattenti, allo scopo di distribuire egualmente fra tutti i pericoli della trincea, era, osservò il Dallolio, «del tutto incompatibile con la continuità e l’abbondanza della produzione. Sarebbe stato di fatto possibile ad un solo patto: che il paese avesse potuto disporre di operai, nei singoli mestieri, in numero maggiore di quello occorrente alle industrie di guerra, ché solo in tal caso si sarebbero potuti organizzare dei turni sostituendo sistematicamente coloro che avevano già fatto servizio in una officina con altri di capacità presso a poco equivalente provenienti dalla fronte. Ma da noi, come negli altri paesi, avvenne precisamente il contrario; il numero degli operai necessari all’industria di guerra fu maggiore di quello degli operai effettivamente esistenti … Anteriormente alla guerra, il numero degli operai meccanici in Italia poteva valutarsi in circa 350.000, mentre il numero degli operai meccanici necessari alle industrie della guerra poteva valutarsi, fin dai primi mesi del 1916, in circa 950.000 … L’esercito mobilitato non poteva dunque fornire che delle “braccia” per così dire, cioè degli uomini che avrebbero dovuto imparare il mestiere al momento dell’ingresso in officina.

 

 

E questi elementi non avrebbero potuto sostituire che elementi di scarsa capacità professionale; cioè, essenzialmente, donne e ragazzi, sostituzione che evidentemente non conveniva fare. È dunque mancata la possibilità effettiva di sostituire con elementi combattenti una parte notevole degli operai militari, senza venir meno a quello che era il primo dei doveri del ministero delle armi e munizioni: garantire all’esercito il massimo di produzione bellica ottenibile in paese. È da aggiungere che, a causa dell’accrescimento continuo e rapido delle industrie di guerra e dell’esodo continuo dalle fabbriche di operai, che si verificava appunto a causa dei provvedimenti intesi ad eliminare gli elementi più giovani e delle periodiche revisioni di esoneri, vi fu costantemente una notevole deficienza di mano d’opera rispetto alle richieste delle industrie; deficienza che in qualche momento speciale, a causa dello sviluppo delle industrie aeronautiche, raggiunge i 50.000 operai. In queste circostanze, come sarebbe stato possibile rinnovare più largamente le maestranze operaie senza causare nella produzione i più grandi turbamenti?» (Inchiesta, II, 408, 409).

 

 

55. – Né potevasi impedire che professionisti, impiegati, commercianti, contadini col diventare, mutato mestiere, operai meccanici, ottenessero l’esonero. I 200.000 mancanti a completare le maestranze necessarie dovevano pure, fattane la scelta fra le classi più anziane, essere tratti da ceti non operai. A scemare il numero dei militari addetti a lavori di fatica, i comitati impiegano detenuti militari e circa 20.000 prigionieri di guerra. Verso la metà del 1917 si reclutano indigeni della Tripolitania e della Cirenaica, dei quali 5480, divisi in 23 scaglioni, erano adibiti, al momento dell’armistizio, a caricare e scaricare navi, a tagli di boschi, a lavori di sterro e manovalanza, specie nelle fonderie. Chiamavansi a raccolta ragazzi: a 60.000 ammontavano i minori d’età impiegati all’1 agosto 1918 nelle industrie di guerra. Ed in queste potevano essere accolti anche taluni mutilati.

 

 

Lo sforzo maggiore fu rivolto a sostituire a quella maschile la mano d’opera femminile nei lavori di meccanica leggera: produzione di spolette, detonatori, diaframmi, proietti di piccolo calibro. Volevasi (circolari 23 agosto e 11 ottobre 1916) giungere all’80 per cento. In seguito (circolare 19 marzo 1917) si ordinò che la mano d’opera femminile e minorile fosse adoperata anche ai lavori più grossi: un sesto per la lavorazione dei proietti di grosso calibro, un terzo per quella delle bombe da 240 mm. e nella fonderia in serie di pezzi del peso da 5 a 30 kg., la metà per la lavorazione dei proietti di medio calibro e nella fonderia di pezzi di peso non superiore a 5 Kg., i quattro quinti per la lavorazione delle bombe da 58 mm. Dove lo sforzo non fosse eccessivo e l’attrezzatura supplisse all’abilità professionale, si usassero donne. A poco a poco il numero delle donne impiegate negli stabilimenti militari (officine di costruzioni di artiglieria, laboratori pirotecnici, spolettifici), in quelli ausiliari di produzione bellica e nei non ausiliari dediti esclusivamente alla produzione di armi e munizioni, crebbe da poche migliaia all’inizio della guerra a 23.000 alla fine del 1915, ad 89.000 alla fine del 1916, a 122.000 al 30 giugno 1917, a 175.000 al 31 dicembre dello stesso anno, e nell’ottobre del 1918 toccò le 200.000. Lo spezzettamento delle commesse di guerra fra molte piccole officine, ostacolando la lavorazione in serie, impedì un impiego più ampio di maestranze poco esperte e poco valide.

 

 

Tuttavia lo sforzo di scemare negli stabilimenti utili alla guerra l’impiego di militari esonerati, comandati ed a disposizione, non fu vano: solo il 36% (331.000) su un totale di 905.000 operai occupati appartenendo a questa categoria. I restanti 574.000 (64% del totale) si dividevano in 304.000 operai adulti senza obblighi militari, 196.000 donne, 60.000 ragazzi, e 14.000 coloniali e prigionieri. (Inchiesta, II, 408).

 

 

Ad assicurare la continuità del lavoro il personale appartenente agli stabilimenti ausiliari fu assoggettato alla giurisdizione militare (articoli 15 e 22 del regolamento sulla mobilitazione industriale, approvato con D.L. 2 agosto 1915). «Tutto il personale», e cioè gli operai, i dirigenti, i tecnici, ed amministratori, i proprietari, gli stranieri, le donne, i vecchi ed i fanciulli. Col dicembre 1916 la disciplina militare fu estesa alle officine non ausiliarie con maestranza requisita ed ai militari operai ed esonerati delle minori aziende non ausiliarie, la cui produzione integrava o sussidiava quella degli stabilimenti ausiliari. Obbligato il personale ad usare particolare distintivo, di forma e colori diversi, a seconda del grado nella gerarchia di fabbrica.

 

 

56. – Duplice fu il contenuto di questa che fu comunemente detta militarizzazione: di coercizione disciplinare, e di tutela igienica, sociale ed economica. Affidata dapprima ad ufficiali dipendenti direttamente dai comandi di divisione militare (dall’agosto 1915 all’agosto 1917) la sorveglianza disciplinare fu poi trasferita ai comitati regionali per la mobilitazione industriale, meglio competenti a curare la disciplina del lavoro.

 

 

Incerte le prime applicazioni da parte dei tribunali militari della legge penale speciale a persone e casi diversi da quelli a cui esso normalmente si riferiva. Fu d’uopo stabilire una gerarchia chiaramente determinata di dirigenti (proprietari, dirigenti, amministratori delegati, direttori generali, procuratori, capi ufficio, cassieri), di tecnici (direttori di fabbrica, ingegneri, capi reparto, capi tecnici, capi ufficio), di operai (capi operai, capi reparto, capi squadra, operai) rispetto alla quale si dovevano constatare i reati di rifiuto di obbedienza, di insubordinazione, di abuso d’autorità. Considerati dapprima come diserzione ed abbandono di posto l’allontanamento arbitrario dagli stabilimenti ed il passaggio senza autorizzazione dall’uno all’altro stabilimento, anche se i colpevoli fossero donne, fanciulli o stranieri, ed impunite invece le mancanze rispetto alle quali il codice penale militare non conteneva specifiche sanzioni, contraddittorie per le mancanze minori le sanzioni applicate nei territori dei diversi corpi d’armata; fu necessario con nuove norme stabilire adeguate sanzioni disciplinari per il personale militarizzato. Distinte le colpe in: infrazioni lievi, per le quali parvero sufficienti le sanzioni disciplinari e particolarmente le multe contemplate dal regolamento interno di ogni stabilimento, evitando il più possibile la sospensione del lavoro ed il licenziamento, che avrebbero scemata la produzione; mancanze disciplinari di maggior gravità, per le quali si ritennero applicabili le punizioni (arresti, sala di disciplina, prigione) portate dal regolamento di disciplina per l’esercito se trattavasi di militari o soggetti a servizio militare, e, con qualche temperamento, anche di operai ed apprendisti di età superiore ai 16 anni ma non soggetti ad obblighi di servizio militare, ovvero le punizioni previste dal regolamento per gli operai borghesi dipendenti dal ministero della guerra, se trattavasi di adulti non più soggetti ad obblighi militari, di stranieri o quelle portate dal regolamento interno dello stabilimento, applicate con rigore, se di donne o ragazzi di età inferiore ai 16 anni; e mancanze gravi, aventi aspetto di reato di competenza del tribunale militare. Per questi un nuovo codice, ricalcato su quello penale per l’esercito, venne promulgato con D.L. del 5 novembre 1916; ed in esso si definivano i reati di abbandono del lavoro (eventualmente anche solo dopo 24 ore di effettiva assenza dal lavoro), di passaggio arbitrario da stabilimento a stabilimento, di rifiuto di obbedienza, di insubordinazione e di abuso di autorità, di ostruzionismo nel lavoro. Punito l’abbandono del lavoro col carcere militare da 2 mesi ad 1 anno, il passaggio arbitrario col carcere da 2 a 6 mesi, il rifiuto di obbedienza col carcere non superiore ad 1 anno, l’insubordinazione con vie di fatto contro il superiore colla reclusione da 15 a 94 anni, se seguita da morte, e con pene minori proporzionate, negli altri casi, alla gravità delle lesioni, colpito l’ostruzionismo col carcere militare, estensibile alla reclusione militare, se il danno fosse stato grave.

 

 

Sottoposti gli stabilimenti di stato e quelli ausiliari interessanti i materiali necessari per la difesa del paese a severa vigilanza militare esterna, mediante drappelli di truppa con appositi corpi di guardia e sentinelle fisse, con pattuglie e ronde di soldati e carabinieri, si provvide alla vigilanza interna mediante un servizio segreto di informazioni affidato ad «operai fiduciari scaltri e capaci di informare di ogni anomalia che avesse potuto direttamente o indirettamente connettersi colla sicurezza degli stabilimenti più importanti per la qualità e la quantità della produzione»[36]. Iniziato a Torino ad opera delle locali autorità militari, il servizio segreto fu trasferito nel settembre 1917 al comitato regionale di mobilitazione ed esteso in tutta Italia. Prevenire gli atti di sabotaggio e gli attentati criminosi, assicurare alla giustizia i colpevoli di essi; conoscere a tempo i preparativi di agitazioni operaie, verificare se gli imprenditori trattassero equamente gli operai, vigilare sugli abusi nelle forniture militari, ecco gli scopi del servizio segreto.

 

 

I risultati ottenuti con i metodi di coercizione disciplinare furono ragguardevoli. Le assenze dal lavoro, che toccavano l’8,40% prima della militarizzazione, scesero al 4,88% subito dopo. Sui 600.000 operai occupati allora verso la metà del 1917, si ottenne un guadagno di 3.600.000 giornate lavorative all’anno, pari all’opera di 12.000 operai. Più particolareggiate notizie si hanno per i 10 mesi dal gennaio all’ottobre del 1918 quando il servizio disciplinare aveva raggiunto il massimo grado di efficacia.

 

 

     
 

%

Maestranza media giornaliera

583.159

Giornate lavorative totali

258.7

Giornate di assenza:

per ragioni collettive:

per mancanza di lavoro

2.048.725

1.37

Per astensione dal lavoro

356.855

0.23

per ragioni individuali:

per infortuni

1.665.728

1.10

per altri motivi giustificati

7.189.962

4.73

per altri motivi non giustificati

932.627

0.61

Totale

12.193.899

8.06

Numero delle persone punite con:

multa

1.649.050

1.08

prigione semplice

9.522

0.0062

prigione di rigore

19.018

0.0126

rinvio al corpo per motivi disciplinari di esonerati

1.297

0.0008

rinvio al corpo di comandati e a disposizione

2.071

0.0013

Deferimenti ai tribunali militari

1.698

0.001

 

 

Le percentuali delle giornate perdute per astensione dal lavoro: 2.3 per mille, e per motivi individuali non giustificati: 6.1 per mille e quelle bassissime dei puniti con prigione, dei rinviati ai corpi e dei deferiti ai tribunali militari, dimostrano come la disciplina fosse salda. Unica agitazione importante fu quella dell’agosto 1917 in Torino, la quale diede luogo a numerosi rinvii al fronte di militari, i quali avevano turbato il lavoro nelle officine belliche. I condannati per abbandono di lavoro furono appena 2.796, compresi 650 lavoratori nelle retrovie condannati dai tribunali di guerra delle intendenze di armata.

 

 

57. – Accanto alla coercizione, la tutela. Un servizio di sorveglianza igienico sanitaria controllava le giustificazioni di assenza per malattia, e nel tempo stesso vegliava all’applicazione di norme tutrici dell’igiene nelle maestranze. Dodici ufficiali ispettori del lavoro furono assegnati nel maggio 1917 ai comitati regionali; e dal giugno 1917 al novembre 1918 compirono 3580 ispezioni visitando 2575 stabilimenti. Datano da allora i decreti del 29 aprile e del 24 luglio 1917, i quali, per le maestranze addette agli stabilimenti ausiliari ed assimilati, resero obbligatoria l’assicurazione per la invalidità e vecchiaia, prima facoltativa, e divenuta obbligatoria per tutti gli operai solo dopo l’armistizio.

 

 

58. – Se il regime di militarizzazione costringeva gli operai quasi a lavoro forzato, non si voleva perciò danneggiarli economicamente: «Criterio dominante fu sempre quello di commisurare il trattamento economico in relazione alla capacità di lavoro, al costo della vita ed alla condizione della mano d’opera nelle diverse regioni ed in ciascun momento»

(Commissione, II, 125). Vietato all’operaio militare o militarizzato l’abbandono del lavoro, come al combattente l’abbandono al posto, fu riconosciuto all’operaio il diritto alla continuità del compenso, come non interrotta era la provvista di alimenti, casa e vestito al militare.

 

 

Perciò, quando per difficoltà di approvvigionamento o per mancanza di energia elettrica fu necessario sospendere il lavoro negli stabilimenti ausiliari, si assicurò mezza paga alle maestranze, finché ad esse non fosse concesso, se chiesto, il licenziamento. Se fisso il salario, variabile l’aggiunta pel caro viveri a seconda delle esigenze del crescente costo della vita; né dipendente dalla situazione particolare, se sfavorevole, dell’impresa. Il vantaggio dei cottimi lucrosi non poteva essere tolto all’operaio col trasferirlo ad altro lavoro. D’altro canto non doveva essere premiata l’astensione dal lavoro con retroattività dei miglioramenti economici concessi.

 

 

Questa giurisprudenza, a poco a poco, formatasi per regolare i rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, era la logica conseguenza di un regime di autorità, il quale non consentiva la libera contrattazione dei salari e delle altre condizioni di lavoro né ai singoli interessati, né alle loro associazioni, ma l’attribuiva a comitati, organi della pubblica autorità. Le vertenze economiche insorte tra le parti erano decise dai comitati regionali ed, in sede di ricorso, dal comitato centrale: 2 vertenze composte e 5 decise nel 1915; 91 composte e 24 decise nel 1916; 362 composte e 142 decise nel 1917; 493 composte e 287 decise nel 1918; in tutto 948 vertenze composte e 458 decise. La massima litigiosità si ebbe nel distretto del comitato di Milano con 595 vertenze; subito dopo vengono Palermo con 227, Genova con 187, Torino con 102. La litigiosità crebbe col tempo, a causa del crescere del numero degli stabilimenti e delle maestranze; ma più forse per il crescere rapido del caro della vita e per la tendenza ad usare, dopo la ritirata sul Piave, più la persuasione che la forza. Il cambiamento eccitò a presentare eque richieste.

 

 

Che il regime coercitivo e la fissazione d’autorità dei salari non avessero partorito effetti dannosi per gli operai militari e militarizzati era convinzione forte dei combattenti e dei molti pubblicisti, male affetti verso la guerra, i quali contrapponevano le paghe che si dicevano altissime e continuamente crescenti degli operai al disagio ed al rischio della vita dei combattenti. I commissari inquirenti sulla ritirata dall’Isonzo al Piave, persuasi dell’esagerazione grande di quelle querele, lamentarono che il comando supremo avesse troppo tardi (circolare 12 aprile 1917) deliberato di dimostrare alle truppe «con bella forma e con convincenti argomenti» le esigenze imprescindibili della produzione bellica. Né erasi provveduto tempestivamente «a far visitare a gruppi di combattenti scelti tra i più valorosi e designati a ciò come premio, alcuni degli stabilimenti ed aziende di produzione, dei quali avessero a constatare, assai meglio che nelle descrizioni dei superiori, l’enorme difficoltà di funzionamento e il grande rendimento ai fini della guerra. Avrebbero in tal guisa riconosciuto quei combattenti e diffuso tra i compagni, come taluni degli operai, a mo’ di esempio, quelli addetti alla fabbricazione ed al maneggio degli esplosivi e dei gas e quelli addetti a talune miniere e fonderie, corressero dei rischi per nulla minori a quelli della fronte e ne riportassero per di più nell’organismo lesioni lente, ma talvolta insanabili» (Inchiesta, II, 421). Con risultati stupendi di rinnovata coscienza della solidarietà tra tutte le classi sociali, tra lavoratori e combattenti, fu, dopo l’ottobre 1917, compiuta efficace propaganda mercé divulgazioni cinematografiche dell’opera grandiosa della mobilitazione industriale.

 

 

Contro la pretesa di taluno che gli operai dovessero condurre economicamente vita pari a quella dei soldati si elevò efficacemente il generale Dallolio: «Si poteva certamente pensare a retribuire tutti i militari impiegati come operai colla stessa mercede data ai militari non operai; a patto, s’intende, di dare loro anche alloggio e vitto. Ma ragioni gravissime di opportunità pratica hanno impedito di accogliere quest’ordine di idee. A parte alcune gravi difficoltà materiali relative alla scarsezza delle caserme esistenti in paese, le quali non avrebbero certo sopportato la immissione di altri 300.000 operai, come si sarebbe potuto praticamente retribuire col solo stipendio militare direttori di officine, capo tecnici di prim’ordine, aventi oramai acquistata una posizione cospicua nel mondo industriale, lasciandoli sempre, si noti bene, nelle stesse funzioni precedenti alla guerra? Come si sarebbero potuti conciliare i vincoli della gerarchia, naturalmente affatto diversa, che vige nelle industrie? Come sarebbe stato possibile conciliare i turni di notte, che per molto tempo hanno costituito la risorsa delle nostre industrie di guerra, con l’assoluta impossibilità pratica di far dormire i soldati di giorno nelle caserme? Potrà forse obbiettarsi che si tratti di difficoltà modeste. Modeste si, ma non per questo di poca importanza … Il presupposto implicito di molte delle osservazioni … è che la condizione dell’operaio appunto perché quasi sempre esenti da rischi, sia già una condizione di favore fatta all’individuo. Ora, la cosa cambia aspetto se guardata da un punto di vista più generale e più elevato. Il punto di partenza deve essere che la guerra moderna, nella sua formidabile complessità, richiede bensì che molti cittadini affrontino la morte; ma esige pure che altri compiano lavori sussidiari e complementari, del tutto indispensabili, meno rischiosi; e questi altri, nell’interesse stesso del paese, dovranno naturalmente essere coloro che a questi lavori ed a questi uffici sono i più adatti. Non deve dunque essere interpretato a sfavore dei non combattenti il fatto, accessorio, che essi non corrono rischio; la necessità vuole che sia così; e quando i non combattenti hanno fatto tutto ciò che il paese ha loro chiesto, essi non hanno meritato meno dei loro compagni combattenti … Per la stessa via, si giungerebbe pure a concludere a sfavore dei meriti, rispetto al paese, dei comandanti degli eserciti; i quali, appunto perché debbono comandare, sono indubbiamente meno esposti alla morte dei semplici soldati. Né può darsi importanza al fatto, del quale è stata molto esagerata la frequenza, che nella folla di coloro ai quali il paese ha ordinato di servirlo nelle officine, qualche individuo si sia infiltrato per fini scorretti; si tratta infatti di casi rari, dai quali non sarebbe equo trarre conseguenze generali» (Inchiesta, II, 410-12).

 

 

Le mercedi altissime, di cui si faceva correre la voce nelle trincee, erano eccezionali. Una accurata rilevazione condotta dal professor Redenti, allora capo del servizio del trattamento economico, sociale e disciplinare delle maestranze, conchiuse che la media generale dei salari degli operai maschi, uomini e ragazzi, compresi i cottimi, il caro viveri e ogni altra specie di retribuzione, sul finire del 1917 a stento toccava le 9 lire al giorno negli stabilimenti metallurgici e meccanici e solo per la categoria più alta era di lire 27,42 al giorno[37]. La mercede antebellica era per gli stessi operai di lire 3,90 al giorno. L’ufficio ministeriale del lavoro di Milano constatava dall’agosto 1913 al marzo 1919 un aumento del triplo del salario medio, pagato in un grande stabilimento produttore di materiale ferroviario; da lire 4,70 a 5,50 nel 1913 a lire 12,15 nell’ottobre 1918 per operai qualificati, da lire 4,80 nel 1910 a 10,20 l’1 novembre 1918 per i muratori; da lire 4,32 – 6,36 nel 1911 a lire 9,22 – 13,87 l’1 luglio 1918 per i fornai; da lire 35,10 la settimana secondo il concordato del 1915 a lire 63,96 nel dicembre 1918 per i compositori tipografi; da lire 0,60 – 0,70 nel luglio 1914 a lire 1,10 – 2,50 all’ora nel gennaio 1918 per i lavoranti maschi qualificati nei calzaturifici. Non dunque condizioni di favore per gli operai militari o militarizzati, ma equiparazione agli operai dell’industria privata. Sarebbe stato prudenza politica pagare prezzi più bassi? Di nuovo chieggasi la risposta al capo responsabile delle provviste di armi e munizioni all’esercito combattente: «Qualche cosa è trapelato nel paese del tenace, intenso lavorio fatto dai nemici, direttamente o indirettamente, presso le maestranze operaie. Ebbene, malgrado ciò, le maestranze operaie italiane hanno mantenuto la più grande tranquillità, a differenza di quanto è accaduto in taluni paesi alleati. Ma è indubitato che le maestranze avrebbero tenuto un contegno ben diverso se il governo non avesse sempre cercato di eliminare preventivamente tutte le ragioni giuste di agitazione; è stata appunto la convinzione, nelle masse, che il governo si era messo per questa via e che intendeva rimanervi, la quale ha potentemente contribuito a rendere sterili le manovre degli agitatori. Ora, nella mentalità, rudimentale sì, ma non sprovvista del senso della giustizia, dell’operaio, quando due persone compiono nell’officina lo stesso lavoro, essi sono due operai, i quali vanno trattati allo stesso modo, indipendentemente dal fatto che uno dei due abbia obblighi militari. E lo stesso operaio, il quale accetterebbe senz’altro di essere retribuito come tutti gli altri soldati quando fosse inviato a combattere, ritiene di dovere invece essere trattato come un operaio, allorché viene impiegato in officina e deve utilizzare la sua capacità professionale» (Dallolio, in Inchiesta, II, 412).

 

 

Lo stato di guerra, trasformando i cittadini in soldati, persuadeva agevolmente ad accettare la coercizione, non stimolava a fornire lavoro efficace. Sarebbe stato necessario che tutta la popolazione si fosse persuasa a condurre la vita del soldato. Sinché non si potranno attuare le premesse ideali della condotta di guerra[38], farà d’uopo, oltreché al senso del dovere ed allo spirito di cavalleria, ricorrere sempre allo stimolo economico, a salari e guadagni uguali a quelli ottenuti nelle occupazioni libere, a cottimi di lavorazione, a premi di produttività e di intensità di lavoro.

 

 

59. – Più arduo era il problema di attribuire coercitivamente la mano d’opera militare a pro di quegli stabilimenti i quali dimostrassero di essere meglio capaci di utilizzarla. Nel gioco normale della concorrenza, le ordinazioni sono accaparrate da quegli imprenditori i quali producono a costi minori. In tempo di guerra, quando l’urgenza suprema è il produrre molto e subito e ad ogni costo, le ordinazioni sono assegnate anche a stabilimenti poco bene attrezzati, improvvisati, aventi dimensioni diverse da quelle ottime e per i loro prodotti si pagano spesso prezzi altissimi, commisurati ai loro eccezionali costi di produzione. Sola arma di selezione: il rifiuto di operai militari da parte dell’amministrazione.

 

 

Indagini interessanti furono compiute[39] per scoprire criteri di valutazione della produttività comparativa dei diversi stabilimenti industriali. Laddove in alcuni stabilimenti nel 1918 si producevano 7.8 bossoli per proietti da 75 mm. per giorno e per operaio addetto alla lavorazione, in altri la produzione era inferiore a mezzo bossolo per giorno e per operaio. Da uno scarto di lavorazione del 1,2% dei bossoli lavorati si giungeva al 5%. Per le granate da 70 fu rilevato che di fronte ad una produzione «normale» di 15 granate per operaio militare e di 5 per operaio in genere, militari e militarizzati, uomini, donne, ragazzi, la produzione media effettiva fu appena di 11 e di 2.4 rispettivamente, con massimi di 15 e 3.5 e minimi di 8 e 1.5. Invece dei teorici 300 operai militari e 1400 operai in genere si erano dovuti impiegare 561 operai militari e 2400 operai complessivi. I risultati dell’indagine persuasero i comitati ad invitare le officine scarsamente produttive a raggiungere entro 20 giorni il minimo regolare di produzione ed in seguito il limite medio: pena il ritiro della mano d’opera militare eccedente. La guerra giunse al termine a questo punto, quando l’ordinamento industriale si avviava a diventare sempre più coercitivamente e rigidamente controllato. Se a ridurre i costi non opera la concorrenza sui prezzi, fa d’uopo agire direttamente su questi ultimi, favorendo nella concessione delle materie prime e delle maestranze quegli imprenditori, i quali producono, ossia guadagnano maggiormente per unità di coefficienti di fabbricazione: utensile, macchina, operaio. Poi si sarebbe passati a resecare sui prezzi argomentando dai bassi costi dei fornitori preferiti ai lauti guadagni.

 

 

60. – L’urgenza del produrre e la inesperienza intorno ai dati di produzione – prodotti in parte nuovi, di cui non si conoscevano i costi, prodotti vecchi ottenuti in condizioni tutt’affatto diverse da quelle ordinarie – crearono nuove schiere di produttori marginali lavoranti a costi altissimi; e poiché il prezzo era necessariamente unico per le medesime forniture, sorsero anormali rendite di produttore, che nel linguaggio comune presero subito nome di sopraprofitti di guerra. Soltanto al principio del 1917 si riuscì[40] ad esercitare un controllo efficace sulla composizione dei costi di produzione ed a stipulare contratti a prezzi non jugulatori per lo stato. Su 405 contratti stipulati dal gennaio 1917 all’aprile 1918 con l’amministrazione delle armi e munizioni, del genio, dell’automobilismo e dell’aeronautica, ne furono rigettati dalla commissione consultiva a ciò delegata, ben 203; ed altri molti non giunsero neppure alla definitiva formulazione. A partire dal momento in che la commissione cominciò ad operare furono adottati «criteri e sistemi contrattuali improntati a maggior tutela degli interessi dell’erario e si notarono sensibili riduzioni di prezzo. … Purtroppo però tale azione non poteva avere effetto pel passato, né poté comprendere tutta la enorme massa dei contratti; ma costituì indubbiamente un freno e valse … a confermare quanta efficacia ed utilità avrebbe avuto il sistema delle indagini dirette sugli stabilimenti se fin dal principio della guerra, senza debolezze od errate concezioni di riguardi alla libertà degli industriali si fosse attuato a mezzo di competenti tecnici un controllo rigoroso sulla produzione, sui costi, sui metodi di lavorazione, congiuntamente all’esame dei contratti con criterio giuridico ed all’azione contabile ed amministrativa» (Commissione, II, 82-83).

 

 

L’opera della commissione consultiva fu proseguita anche dopo il suo scioglimento e il ritorno del servizio delle armi e munizioni al ministero della guerra. Concentrate in un unico ufficio detto servizio centrale acquisti le attribuzioni relative alla determinazione di prezzi di costo di ciascun prodotto da acquistarsi direttamente dall’amministrazione centrale o dagli enti locali, si tentò sistematicamente di riordinare la materia contrattuale in ordine ai prezzi delle forniture[41].

 

 

61. – Così si organizzava razionalmente lo sforzo tecnico per la vittoria; ma, purtroppo, la necessità di un calcolo razionale dei costi e dei prezzi, sostituito a quello automatico della concorrenza, venuto meno per la necessaria organizzazione coercitiva dell’industria, fu vista tardi ed il controllo fu voluto ad intermittenza.

 

 

La urgenza e la grandezza del compito facevano nel frattempo mettere in non cale le guarentigie giuridiche ed amministrative che una lunga esperienza aveva dimostrato vantaggiose a tutela dei privati e dello stato tra di loro contraenti. Nell’atto in cui aumentava smisuratamente i suoi compiti, lo stato distrusse, con suo danno, le guarentigie concesse ai privati i quali con lui contrattavano, e abolì i controlli amministrativi creati a tutela del pubblico denaro. Pur nel campo delle sole industrie di guerra si possono a dovizia recare esempi del disordine insorto quando instaurandosi il regime coercitivo si rinunciava alle vecchie guarentigie senza che nuovi, appropriati organi di controllo fossero sorti a prenderne il luogo. Da un lato lo stato pretese di assolvere se stesso dalle conseguenze a lui dannose, della guerra. Erasi bensì dichiarato «che la guerra è considerata caso di forza maggiore non solo quando rende impossibile la prestazione, ma anche quando la rende eccessivamente dannosa» (decreto 27 maggio 1915); ma la equa dichiarazione, già limitata alle obbligazioni assunte anteriormente alla dichiarazione dello stato di guerra, fu posta nel nulla da una norma posteriore (decreto 20 giugno 1915) la quale escluse «ogni domanda di risoluzione di contratto fondata sulle condizioni create dallo stato di guerra, quando i contratti stessi abbiano rapporto con pubblici servizi ed opere pubbliche». Lo stato non solo obbligò i privati alla piena esecuzione dei contratti, ma diede «facoltà alle pubbliche amministrazioni di sostituire con apprezzamento insindacabile altre clausole o pattuizioni a quelle che non siano più eseguibili a causa dello stato di guerra». Come si costringevano gli uomini a combattere per la difesa del territorio nazionale, così era logicamente ammissibile si requisissero uomini e cose per il servizio dello stato. Gli effetti furono dannosi, così come sarebbe stato dannoso retribuire gli operai ed i dirigenti delle industrie di guerra con il salario del soldato. Chi aveva ben veduto il danno di usare del diritto di impero rispetto alle prestazioni umane, non vide il danno medesimo rispetto alle prestazioni di cose. Dopo, si constatò che dietro alle cose stavano sempre e soltanto uomini: «Col dichiarare che permane l’obbligo del fornitore ad adempiere alla sua obbligazione, anche quando un avvenimento di forza maggiore obbiettivo, diverso dalla guerra, glielo rende impossibile, con la imposizione di cautele esagerate, di pene severe e non solo pecuniarie, con la responsabilità anche penale in dipendenza del fatto di altre persone, con l’attribuire costantemente ad un organo dell’amministrazione interessata la decisione della controversia di ordine tecnico, col togliere nel maggior numero dei casi alla ordinaria autorità giudiziaria la possibilità della reintegrazione del diritto violato della parte, si è certamente creduto di tutelare meglio gli interessi dello stato, si è senza dubbio avuta la intenzione di assicurare maggiormente la esecuzione dei contratti e delle forniture, ma si è certamente raggiunto un effetto opposto, perché quando le condizioni legislative o contrattuali impongono alee così esorbitanti non vi è possibilità di scelta: o il contraente tiene conto di queste alee per aumentare il corrispettivo della sua obbligazione e l’amministrazione ha un danno economico; o il contraente sa di poterle rendere inefficaci mediante illecite manovre ed in questo caso lo stato ne ha danno oltreché economico anche morale» (Commissione, I, 21).

 

 

62. – La reazione frodolenta contro il diritto illimitato d’impero dello stato era resa agevole e quasi incoraggiata dalla facoltà data (R.D. 4 agosto 1914) ai ministeri militari di derogare alla legge ed al regolamento di contabilità generale dello stato nella stipulazione dei contratti e nei pagamenti. Rimase così soppresso, per affermata necessità di guerra, il controllo della corte dei conti non solo per i ministeri militari ma anche per tutte le amministrazioni connesse alla condotta di guerra e per le gestioni fuori bilancio, principalissima quella annonaria. Era ben logico, osservano i commissari delle spese di guerra «che il comandante di un reparto al fronte, sotto l’imperversare dell’azione bellica nemica, non tenesse conto dei moduli che la contabilità gli inviava per la sua gestione»; ma non logico né lecito «che i funzionari rimasti al ministero non tenessero conto dei milioni che spendevano per conto dello stato» (Commissione, I, 23).

 

 

Giova riprodurre in parte le conclusioni generali di quei commissari intorno agli innumerevoli casi singoli sottoposti al loro esame: «Per quasi tutte le missioni all’estero è stato seguito il sistema dei mandati di anticipazione ai funzionari ed anche alle persone estranee all’amministrazione residenti all’estero. Nessun riscontro contabile di queste anticipazioni: i rendiconti dei gestori all’estero in parte pervenuti con grandissimo ritardo, taluni non ancora pervenuti nel 1923, sono stati in minima parte sottoposti a revisione. La vastissima azienda degli approvvigionamenti e consumi fece contratti per centinaia di milioni senza che per esso fosse istituita una ragioneria, se non nel 1918; … per il periodo anteriore è pressoché impossibile ricostruire una contabilità, in mancanza di scritturazioni contabili meritevoli di questo nome. Nell’esaminare le vecchie carte contabili in una amministrazione, i funzionari della commissione hanno trovato persino un assegno bancario, che avrebbe dovuto essere versato alla tesoreria dello stato, e che nessuna registrazione contabile accertava essere stato pagato. Enti centrali ed enti periferici hanno troppo spesso dimenticato che la contabilità è la guida di ogni azienda e che il dispregio in cui i funzionari militari e civili hanno tenuto la ragioneria, come troppo umile ausilio alla grandezza delle loro concezioni, è solamente la prova della assoluta deficienza in loro di capacità organizzativa … Per nessuna delle branche dell’amministrazione, fatta forse eccezione per quella della marina, non si è potuto fare a meno di rilevare il danno …; le conseguenze sono state così gravi per l’erario da dare il convincimento che molta parte delle spese di guerra avrebbe potuto subire importante falcidia, che molti degli scopi propostisi dallo stato avrebbero potuti essere meglio, più prontamente e più sicuramente raggiunti, se della organizzazione dell’azienda si fosse avuto cura, se una volontà decisa avesse potuto e saputo coordinare i vari elementi di ogni amministrazione, se bene ordinati controlli avessero subito rilevato le manchevolezze e i difetti della organizzazione statale. In tutto il vasto servizio della fabbricazione delle armi e munizioni, la fornitura delle materie prime alle officine produttrici fu fatta con tale disordine, con tale mancanza di uniformità di criteri e sopratutto con tale violazione di norme contabili, da far ritenere con ogni fondamento che, nella liquidazione delle forniture, occorreranno anni parecchi prima di potere recuperare allo stato le quantità esuberanti di materie prime che i fornitori debbono ancora restituire. La materia prima si forniva sulla semplice richiesta del fabbricante, senza nemmeno un riferimento al contratto per il quale si forniva, senza alcun criterio per determinare il prezzo di quella che non sarebbe stata impiegata. Vi furono fornitori che, avendo avuto anticipato solo l’80% del prezzo delle commesse, non hanno curato di chiedere il saldo per non dare conto dell’eccesso di materia prima ricevuta. Vi sono fornitori che negano l’avvenuto ricevimento della materia prima, perché nessuno si curò mai di richiedere il documento attestante la ricezione. Vi sono fornitori, coi quali da anni si trascinano le liquidazioni per la impossibilità di determinare la entità ed il valore della materia prima … e dei residui di lavorazione … Lo stato anzi ha dovuto fare pubblica confessione della sua disorganizzazione, quando ha emanato un decreto col quale fa obbligo ai fornitori di presentare la loro contabilità per procedere alla liquidazione dei rispettivi crediti» (Commissione, I, 23-24).

 

 

63. – I mezzi di controllo ideati dall’amministrazione non di rado erano fatti strumento di nuova frode: «L’organizzazione della fornitura delle pelli ai fabbricanti di calzature avveniva mediante il rilascio di buoni bianchi, rossi e verdi, secondo che essi si riferivano a ritiro di cuoiami, da parte dei fabbricanti e presso le concerie, per lavorazioni diverse in pelli (riparazioni, buffetterie ed altre) o per le calzature o al trasporto gratuito della merce così lavorata. La speculazione del commerciante privato si svolse sopratutto per la caccia ai buoni rossi, a mezzo dei quali si poteva prelevare presso le concerie ottimo cuoio a prezzo di calmiere, cuoio che era poi rivenduto e trafficato ai prezzi favolosi del mercato libero, mentre era sostituito nella fabbricazione delle calzature destinate all’esercito da merce di scarto … Il commercio, lucrosissimo, continuò, nonostante le sanzioni punitive[42], diminuendo di intensità solo quando si pensò a rendere nominativi i buoni per controllare chi fosse il commerciante che ritirasse il cuoiame» (Commissione, I, 429).

 

 

L’inesperienza ed il sospetto persuadevano a futili costosi controlli, come accadde per i sacchi, senza i quali lo stato non avrebbe potuto adempire all’ufficio assunto dell’approvvigionamento del grano al paese. Con circolare 10 febbraio 1915 si era messo in evidenza la necessità di tener conto delle tele, e si era fatto assegnamento sullo spirito di iniziativa dei delegati ministeriali ai centri sbarco affinché essi adottassero il servizio alle esigenze locali. A poco a poco sorse una vera «gestione sacchi» e «si costituirono uffici per l’acquisto, per la scelta, per il controllo, per l’immagazzinamento e per le riparazioni dei sacchi, determinando così una gravissima spesa per l’erario, mentre bastava esaminare l’organizzazione di una qualunque delle aziende private che si occupano del commercio di grani per arrivare alla proposta, che solo sullo scorcio del 1920 l’ufficio distribuzione cereali faceva» per concludere che «i sacchi avrebbero dovuto per l’avvenire essere ceduti insieme alle derrate con diritto di prelevazione da parte del commissariato soltanto in relazione a quelli che avessero risposto alle sue necessità. L’industria privata aveva, dal suo nascere, trovato la formula «tela per merce», ma lo schema di decreto proposto fin dal 13 novembre 1920, giudicato buono ed utile dagli altri direttori generali, non fu attuato che il 24 giugno 1921, con decorrenza dall’1 agosto 1921 e soltanto dopo cessò il grave danno dell’erario e furono impedite ingenti frodi» (Commissione, I, 26).

 

 

Mancava spesso l’affiatamento tra le diverse amministrazioni dello stato, persino tra i diversi uffici del medesimo ministero. Esempio singolare quello delle vergelle: «Un industriale trafiliere assumeva, suppongasi, dalla aeronautica un’ordinazione di 100 tonnellate di cavi ad alta resistenza. Poiché non tutta la vergella somministrata dall’amministrazione ed occorrente per la fornitura resisteva alle successive trafilature, il quantitativo medio della vergella concessa per 100 tonnellate di cavi era da 250 a 300 tonnellate; la differenza era rappresentata da filo che non era adatto pei cavi di aeronautica, ma poteva essere adatto per altri cavi. Lo stesso industriale si dava cura di assumere un’altra fornitura, ad esempio di 100 tonnellate di cavi di marina, di minore resistenza di quelli di aeronautica, ma ottenendo dalla marina altre 200 tonnellate di vergella. Un’altra ordinazione lo stesso industriale poteva ottenere, a esempio dal genio militare, per 100 tonnellate di cavi da teleferiche, di ancor minore resistenza e pei quali sarebbero occorse 150 tonnellate di vergella. In tutto lo stesso industriale veniva così ad ottenere da tre distinte amministrazioni dello stato, ad insaputa forse l’una dall’altra, 650 tonnellate di vergella per fabbricare 300 tonnellate di cavi di diversa resistenza; sicché, pur calcolando un massimo di calo effettivo …, egli otteneva come avanzo di lavorazione ben 280 tonnellate di vergella, che poteva impiegare o per altre forniture militari o per il suo commercio privato, nel quale, notisi, la vergella pagata in media dallo stesso industriale allo stato a lire 1,50 al chilogramma, era salita a prezzi anche dieci volte superiori» (Commissione, II, 95).

 

 

Sopratutto rispetto ai metalli ricchi, ottone, bronzo, rame, alluminio, ecc., il problema dei residui di lavorazione presentò particolare importanza. Forniti dall’amministrazione a titolo di vendita, quei materiali rimanevano di proprietà del fornitore. Proprietà apparente, poiché l’importo ne era detratto, per addebito, dall’ammontare complessivo del prezzo convenuto. I residui, soggetti a requisizione, avrebbero dovuto essere restituiti, al medesimo prezzo di addebito; ma per difficoltà di trasporti e resistenze dei fabbricanti, la restituzione non avveniva quasi mai.

 

 

Rilevantissimi erano i residui. Una spoletta 1911, le cui varie parti (corpo, tappo, innesco, portaspilli, viti, disco) finite pesano 299 grammi, richiedeva 800 grammi di materia prima. Una spoletta modello 160, le cui parti finite pesano 152 grammi, richiedeva 500 grammi di materia prima. Pur supponendo che si anticipasse soltanto, tenendosi conto dei probabili residui, metà della materia prima occorrente, ingenti utili furono ottenuti dal 1916 al 1918 dai fornitori; tanto più ingenti quanto più l’impresa difettava di macchinario e di capacità e produceva maggior quantità di scarti. Perciò, laddove dal 1916 al 1918 i prezzi degli altri manufatti erano in continuo aumento, solo i prezzi delle spolette scemarono notevolmente, nonostante l’aumento dei prezzi della materia prima, della mano d’opera e delle spese generali, per la concorrenza ad accaparrarsi una così vantaggiosa lavorazione. Soltanto nell’ottobre 1918 l’amministrazione provvide a fare sperimenti di fusione e rifusione dei residui di lavorazione delle spolette per determinare quale dovesse essere la effettiva quantità di metallo da somministrare alle ditte fornitrici tenendo conto dei successivi e varii residui e reimpieghi. La fine della guerra non consentì che i nuovi calcoli avessero applicazione, o si ritornasse al contratto di somministrazione, per cui la materia prima rimaneva dello stato, con obbligo di resa di conto da parte del fornitore consegnatario; sistema che la esperienza aveva consigliato in tempo di pace e la marina, meno pressata dall’urgenza di produrre, aveva seguitato ad usare con buon frutto.

 

 

64. – Gli errori, che per imparzialità di cronista si vollero brevemente ricordare, sono lieve ombra sul quadro dello sforzo tecnico sostenuto per la condotta della guerra. Lo sforzo sostenuto fu grande e di mese in mese venne più sapientemente ed efficacemente sostenuto. Se lo stato, sorretto dalla consapevole concorde volontà della nazione, si fosse ristretto a sottoporre a dura disciplina coercitiva industriali ed operai addetti alla produzione delle cose direttamente necessario all’esercito in campo, quegli errori non sarebbero stati capaci di originare sconvolgimenti sociali. Il congegno tributario esistente, pure tanto imperfetto, e l’attitudine del paese ad assorbire prestiti pubblici avrebbero bastato a coprire le spese di guerra, senza strascichi di svalutazioni monetarie. Ed il dopo guerra sarebbe stato profondamente diverso da quello che fu.

 

 

 



[1] Le parole chiuse fra virgolette nel testo si lessero, subito dopo dichiarata la guerra italiana, in uno studio intitolato Guerra ed economia in «La Riforma Sociale» del luglio-agosto 1915 da p. 456 a p. 482.

[2] La descrizione è già stata fatta, principalmente sotto l’aspetto annonario, da Riccardo Bachi nelle chiare pp. 504 a 506 della conclusione al volume su L’alimentazione e la politica annonaria in Italia, compreso nella presente raccolta.

[3] Si può far l’ipotesi che la diminuzione di reddito dovuta alla sottrazione alle arti pacifiche di milioni di uomini nei fiore dell’età fosse compensata dal lavoro più intenso dei rimasti, da quello dei vecchi delle donne e dei fanciulli e dalla sospensione dei lavori di riparazione e rinnovazione degli impianti esistenti.

[4] Erodoto, libro VIII, 118, citato da F.Y. Edgeworth in A Levy on Capital for the discharge of Debt, Oxford, 1919, p. 8.

[5] Non bisogna farsi ingannare dalle forme poi tenute per la cancellazione dei debiti di guerra, che furono di riconoscimento giuridico del debito e sua compensazione, quasi per mero accidente di fatto, con le riparazioni tedesche. Storicamente il fatto è che il debito non è rimborsato a spese dell’Italia. Se la compensazione con le riparazioni tedesche non si fosse potuta o non si potesse in avvenire operare, il fatto non muterebbe. Sarebbe cambiata solo la motivazione giuridica di esso.

[6] Questa stima dei pagamenti per spese di guerra leggesi nell’appendice seconda alla Nota preliminare del rendiconto generale dell’esercizio finanziario 1928-29, pubblicata in Atti parlamentari, legislatura XVII Sessione 1929-31, Parte I, vol. I, pp. CXLVIII – IX. Le cifre assolute contenute nella tabella sono tutte espresse in miliardi di lire.

[7] Il saggio del cambio è stato calcolato sulla base del corso del cambio del dollaro, secondo le Prospettive economiche del Mortara, 1923, p. 409, e 1931, p. 459. Poiché il M. calcola il corso predetto a semestri, dalla media aritmetica dei corsi dei due semestri corrispondenti si dedusse il corso medio dell’esercizio finanziario.

[8] Dalla notizia preliminare all’allegato n. 156 ai Documenti sulla condizione finanziaria ed economica dell’Italia pubblicati dall’on. Alberto De Stefani in appendice al discorso tenuto nel teatro alla Scala di Milano il 13 maggio 1929, si desume (p. 351) «che i debiti all’estero furono assunti quasi interamente in tre esercizi (quelli in cui si manifestò il maggiore sforzo bellico) 1916-17, 1917-18 e 1913-19, poiché nei successivi esercizi l’aumento è essenzialmente dovuto al pagamento degli interessi passivi effettuato mediante consegna di nuovi buoni speciali». Dalla medesima notizia si ricava che i debiti stessi sono calcolati alla pari, sicché il loro ammontare risulta omogeneo con le cifre dei pagamenti indicati nella colonna 3 della tabella. L’eventuale errore derivante: 1) dal non aver tenuto calcolo dei debiti contratti all’estero in altri esercizi; 2) né detratti gli interessi figurativi pagati con buoni speciali nei tre esercizi ora detti, non ha peso rilevante ai fini del ragionamento condotto nel testo.

[9] Per calcolare l’ammontare delle spese «normali», dello stato e degli enti locali mi attenni per gli esercizi 1922-23 al 1927-28 e per le spese dello stato ai dati, già diligentemente elaborati dalla tabella a p. 131 dello studio di Ernesto Rossi su La gestione della tesoreria dello stato nel fascicolo del marzo-aprile 1930 della rivista La Riforma sociale, aggiungendovi una somma crescente da 3.3 a 4.8 miliardi di lire correnti per le spese degli enti locali. Per gli anni dal 1914-15 al 1921-22, data la difficoltà estrema di conoscere i dati delle spese locali, assunsi per il 1914-15 la cifra di 2.5 miliardi di lire correnti dati dal Mortara (Prospettive, 1931, p. 484) come quella delle entrate tributarie statali e locali, ipotesi plausibile poiché, senza le spese di guerra, lo spareggio in quell’anno sarebbe stato irrilevante, la mantenni invariata sino al 1918-19, quando le spese normali erano contenute per il durare della guerra, e la feci poi crescere gradatamente sino ad incontrarsi con quella calcolata per il 1922-23 secondo i criteri sopra esposti. Per il 1928-29 e per il 1929-30 dall’ammontare delle spese effettive ordinarie e straordinarie dei consuntivi dedussi i pagamenti per spese di guerra, già compresi nella colonna 1 della tabella; e quanto alle spese locali le supposi eguali ai 5 miliardi di entrate tributarie locali calcolate per il 1929-30 dal Mortara (Prospettive, 1931, 483). Si è assunta, invece di quella del carico tributario, la cifra delle spese, reputandosi che ai fini del presente ragionamento, giovi sapere quanto lo stato e gli enti locali prelevarono sul reddito nazionale anno per anno. Che il prelievo sia stato operato con imposte o con prestiti o con emissioni di carta moneta, non monta, tutte tre le maniere sopradette essendo strumenti per distogliere dal flusso annuo del reddito nazionale una parte più o meno alta a pro degli enti pubblici.

[10] Per il calcolo del reddito nazionale italiano mi sono attenuto alla valutazione, per consenso di insigni uomini autorevole, di 20 miliardi di lire prebelliche per il 1914; a quella, ufficialmente presentata dalla delegazione italiana alla conferenza di Washington per il regolamento dei debiti di guerra verso gli Stati Uniti, di 100 miliardi di lire correnti per il 1925 ed a quelle di 90 ed 85 miliardi di lire oro attuali supposte rispettivamente per il 1928-29 e per il 1929-30 dal Mortara (Prospettive, 1931, 483). Tutte queste cifre, come quelle delle spese pubbliche, ridussi a lire oro prebelliche in conformità del coefficiente di riduzione della colonna 2.

[11] Si scrive questa nota invece della parola «Totali e medie generali» allo scopo di far presente che il totale di 145.938 milioni di lire dei pagamenti per le spese di guerra dal 1914-15 al 1929-30 ha un valore aritmeticamente esatto ed un’utilità contabile per la resa dei conti degli amministratori della cosa pubblica; ma è privo di significato economico razionale, essendo composto di lire aventi valore diverso di anno in anno. Sarebbe stato necessario, per attribuirvi la desiderata significazione, trasformare quelle lire correnti in lire aventi una costante potenza di acquisto, ma mi sarei lasciato trascinare su terreno grandemente controverso ed infido. Preferii contentarmi di una approssimazione più grossolana e convertire anno per anno le lire correnti (col. 1) in lire oro prebelliche (col. 3) usando il coefficiente di riduzione del saggio medio del corso del cambio (col. 2). Il totale dei pagamenti per spese di guerra risultò così di 65.204 milioni di lire, omogenee per contenuto di oro, sebbene eterogenee quanto a potenza d’acquisto dell’oro. Ma dai 65.204 milioni conviene dedurre i 19.209 milioni, procurati a mezzo dei debiti contratti con l’Inghilterra e gli Stati Uniti, per trattarsi di spese le quali non pesarono durante la guerra, né poi sul reddito nazionale. Non allora, ché quelle spese furono pagate dagli stati alleati; né poi, perché le annualità dovute agli alleati a saldo dei prestiti sono interamente compensate dalle riparazioni tedesche. Le altre colonne non richiedono spiegazioni particolareggiate. Dalla somma delle spese annuali statali e locali (col. 6) e quelle interne di guerra (col. 7) si dedusse (col. 8) il totale prelievo il quale dovette essere operato, con imposte, prestiti ed emissioni cartacee, sul reddito nazionale (col. 9). Dal confronto della quantità delle spese (colonne 6, 7 ed 8) con la quantità del reddito nazionale (colonna 9), risultano le proporzioni percentuali delle colonne 10, 11, 12. Tutte le cifre contenute nella tabella possono essere tacciate di arbitrarie ed approssimative. A renderle perfettamente omogenee sarebbero stati necessari calcoli lunghissimi, fondati su ipotesi incerte, con risultati dubbi. Del resto colla tabella non si è voluto rispondere alla domanda: quanto costò la guerra all’Italia concepita come nazione nel suo complesso di stato e di enti pubblici, di uomini privati e di successive generazioni; ma all’altra: quanto spesero in lire lo stato, le province ed i comuni per scopi di guerra e per quelli ordinari nel periodo considerato e quanto prelevarono essi di fatto sul reddito nazionale? La risposta, anche larghissimamente approssimativa, consente di porre nel testo il particolare problema del giudizio, anch’esso approssimativo, da darsi intorno ai mezzi adottati per fronteggiare quella spesa.

[12] Al 25.9% nel 1929-33 ed al 28.1% nel 1930-31 calcola il Mortara la pressione tributaria propriamente detta (Prospettive, 1931, 483-84).

[13] La stima appare bassa, se si pensa che i 4 milioni comprendono l’esercito in campo, le guarnigioni ed i corpi d’armata nell’interno, gli impiegati civili, statali, locali, ferrovieri e quelli di tutte le imprese pubbliche e, in parte, le famiglie dei richiamati che ricevevano sussidi a carico del bilancio pubblico, compresi nei 73 miliardi di spese pubbliche.

[14] Si assumono come reddito dei 15.9 milioni di lavoratori agricoli e delle loro famiglie milioni 2.950 di loro compenso, più di 550 milioni di rimesse ricevute dall’estero, e si ottiene un quoziente individuale di lire 220 all’anno. Cfr. A. Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, alle pp. 17-18, già utilizzate sopra (cfr. paragr. 6) sotto altro rispetto.

[15] F.Y. Edgeworth, A Levy on Capital, già citato (sopra paragr. 15), p. 7 sgg; traduzione italiana in La Riforma sociale, maggio-giugno 1919. Vol. XXX, p. 231.

[16] Il consumo del tabacco aumentò progressivamente, se si eccettua una flessione a 175.355 quintali nel 1915-16, da 186.695 quintali nel 1913-14 a 199.503 nel 1918-19; ma il gettito aumentò in misura ben superiore, da 350 a 1.175 milioni di lire. Tenendo conto della svalutazione della moneta avvenuta nel frattempo e dell’aumento del consumo, il gettito avrebbe dovuto crescere da 350 a 520.

[17] Così calcolato dal Serpieri, op. cit., p. 17.

[18] Quali siano, a parere dello scrivente, siffatti principi, è in parte detto in Contributo alla ricerca dell’ottima imposta, in Annali di economia, Vol. V, 1929.

[19] Un’ampia dimostrazione della inettitudine delle imposte sui consumi sugli affari e sui redditi a provvedere alle esigenze belliche si legge da pp. 1 a 106 del volume La guerra ed il sistema tributario italiano, incluso, ad opera di chi scrive, nella presente raccolta.

[20] Dalla colonna 5 della tabella contenuta nel paragrafo 18. (pagina 37)

[21] Dal documento n. 96 dei Documenti sulla condizione finanziaria ed economica dell’Italia comunicati al parlamento da ministro delle finanze A. De Stefani il giorno 8 dicembre 1923 e dalla tavola VIII del cap. XIII del Compendio statistico pubblicato dall’Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, a. III, p. 256.

[22] I totali in lire correnti della col. 6 furono ridotti in lire oro antiche applicando il coefficiente di riduzione del saggio di cambio scritto nella col. 2 della tabella contenuta nel paragrafo 18 (pagina 37 del presente scritto).

[23] I totali della colonna 7 danno l’indebitamento nominale dello stato. Per ottenere il ricavo del tesoro bisogna dedurre le provvigioni, le spese di emissione e la perdita del corso effettivo di emissione sul prezzo nominale dei titoli. Assumendo il totale delle deduzioni al 10%, l’errore nel calcolo del ricavo netto per il tesoro si presume non rilevante.

[24] Il segno – (leggi meno) indica eccedenze dell’indebitamento sui pagamenti.

[25] Cifre ricavate da Commissione, II, 55-56, e da Inchiesta, II, 30-31.

[26] Sono parole del rapporto su I comitati regionali di mobilitazione industriale (1915-18) compilato per incarico della segreteria del Comitato di mobilitazione civile dal prof. Vittorio Franchini, Roma, s. d. (ma 1930), p. 7, in nota.

[27] Così il citato rapporto su I Comitati regionali di mobilitazione industriale, p. 6.

[28] Rapporto citato su I comitati, p. 7, nota.

[29] Cfr. dello scrivente I fasti italiani degli aspiranti trivellatori della Tripolitania. Continuando la battaglia contro i siderurgici, e di nuovo dello scrivente e dell’ing. P. Riboni, Polemizzando coi siderurgici, in «La Riforma Sociale» del 1912, vol. XIII, rispettivamente a pp. 161 e 850; e la letteratura ivi citata.

[30] Il raggruppamento dei dati stato compiuto dal Dott. Carlo Rostagno, maggiore d’artiglieria. in Lo sforzo industriale dell’Italia nella recente guerra, estratto dalla «Rivista d’artiglieria e genio», dicembre 1926 e gennaio, febbraio o marzo 1927, p. 29.

[31] Sull’industria chimica deve leggersi tutto il capitolo V dell’opera citata del maggiore Rostagno, p. 52 e segg.

[32] Dallo scrivente in I trivellatori di Stato, in La Riforma Sociale, 1911, volume XVIII, p. 1 e segg.

[33] Cfr. Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane nella presente raccolta, a pag. 50.

[34] Le percentuali d’aumento sono calcolate sugli indici di Achille Necco come da lui assunti in I prezzi delle merci in Italia nel 1913, in «La Riforma Sociale», 1915, p. 375.

[35] Nel marzo 1918 il ministero delle armi e munizioni viene affidato per interinato al ministro della guerra, con un particolare sottosegretario, e nel settembre 1918 sino al 21 novembre 1918 trasformato in commissariato dipendente dal nuovo ministro delle armi e dei trasporti. All’armistizio, i servizi ritornano al ministero della guerra e la loro liquidazione è affidata, fino al marzo del 1920, prima ad un comitato interministeriale per la sistemazione delle industrie di guerra, e poi ad un comitato liquidatore presso la ragioneria generale dello stato.

[36] Comitato per la mobilitazione civile. La sorveglianza disciplinare sul personale degli stabilimenti produttori di materiale bellico durante la grande guerra (1915-1930), Roma, 1930, p. 77. Questo volume compilato dal capitano dott. Sebastiano Interlandi, è fonte autorevole per la materia del presente capitolo.

[37] Bollettino dei comitato centrale di mobilitazione industriale, ottobre 1918, p. 388.

[38] Delineate sopra nel paragrafo 15.

[39] Dal comitato centrale e da quello regionale lombardo per la mobilitazione industriale, efficacemente esposte e commentate da Vittorio Franchini in Di alcuni elementi relativi alla maggiore utilizzazione delle

maestranze durante il periodo bellico in «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari», anno XXXVIII.

[40] Ad opera della Commissione consultiva per la revisione dei prezzi, una delle pochissime commissioni la cui opera sia stata feconda di bene per la cosa pubblica; epperciò si vogliono ricordare a titolo di onore i nomi dei senatori Cencelli e D’Ancona successivamente presidenti di essa e sopratutto dei commissari gen. Grillo, professori Merlini e Panetti e sostituto avvocato erariale Caretto. Oltreché con controlli sui contratti e con istruzioni ispirate a sensi pratici, sia per le analisi dei prezzi, sia per i collaudi, la commissione esercitò, sopratutto per opera dei professori Merlini e Panetti, un efficace controllo diretto sui singoli stabilimenti.

[41] Al servizio fu preposto un uomo energico, tratto dall’industria, l’ing. Oscar Sinigaglia (Commissione, II, 21-22).

[42] Comminate dall’art. 6 del D.L. 3 dicembre 1916, n. 1693.

Torna su