Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo II – Le imposte sui consumi in particolare

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo II – Le imposte sui consumi in particolare

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 355-417

 

 

 

321. Classificazione delle imposte sui consumi. – Come si ebbe già occasione di dire, le imposte sui consumi in Italia attuano in maniera imperfetta il sistema che fu sopra delineato. Sovratutto sono quasi sconosciute dallo Stato le imposte suntuarie o sui consumi durevoli, delle quali una scarsa applicazione è fatta solo dai Comuni.

 

 

Volendo perciò trattare delle principali imposte sui consumi in particolare e volendo fare cosa utile anche praticamente, converrà seguire per la loro classificazione il metodo che è in uso presso l’amministrazione italiana.

 

 

Le imposte sui consumi sono cioè classificate non in base a criteri intrinseci, come appunto sarebbe la divisione in imposte sui consumi primari, sui consumi secondari e sui consumi durevoli, sibbene in base al criterio estrinseco della maniera che tenuta nella loro esazione. Seguendo questo criterio, le imposte sui consumi si possono classificare in quattro categorie:

 

 

  • a) imposte esatte con metodo del monopolio, ossia attribuendo allo Stato il monopolio della produzione o della vendita ovvero il monopolio della produzione e della vendita degli oggetti tassati;
  • b) imposte di fabbricazione, esatte cioè all’atto dell’uscita dell’oggetto tassato dalla fabbrica del produttore;
  • c) dazi doganali, che sono imposte esatte su certi oggetti quando vengono introdotti dall’estero;
  • d) dazi di consumo, che sono imposte esatte su certi oggetti quando vengono immessi nel consumo in un dato territorio comunale, all’atto del passaggio loro attraverso la cinta daziaria o della loro vendita al minuto.

 

 

Ai quali quattro gruppi si potrebbe aggiungere un quinto gruppo delle imposte suntuarie, assai scarsamente rappresentato nella legislazione italiana.

 

 

Sezione Prima.

Le imposte sui consumi esatte col metodo del monopolio.

A) In generale.

 

322. Concetto. – Fanno parte di questo primo gruppo le imposte sul sale, sul tabacco e sul giuoco del lotto, che lo Stato esige proibendo ai privati la fabbricazione e la vendita del sale, del tabacco e delle speranze di vincere al lotto, e esercitando l’industria ed il commercio relativi in assoluta privativa. Naturalmente lo Stato non esercita questa privativa pel vantaggio dei consumatori, ma anzi per gravarli con un imposta. La quale imposta si ottiene facendo ai consumatori pagare 40 centesimi quel chilogramma di sale che al fisco costa 6 centesimi, 10 centesimi quel sigaro che costa 2,5 e 1 lira quella speranza di vincita che allo Stato in media costa 50 centesimi. La differenza fra il costo per il fisco monopolista ed il prezzo fatto pagare ai consumatori può essere approssimativamente considerata imposta.

 

 

323. Vantaggio del monopolio rispetto al contrabbando. – Le imposte esatte col metodo del monopolio, presentano notevoli pregi, sovratutto perché si prestano al contrabbando di meno degli altri tipi di imposta. Se si mettono delle imposte di fabbricazione, una volta che sia permessa la fabbricazione, il produttore, malgrado ogni più assidua vigilanza, tenta e qualche volta riesce, sebbene sempre meno vi riesca, a fabbricare clandestinamente ed a frodare l’imposta. A tal uopo ha mezzi più facili di quelli che non abbia colui che assolutamente non può fabbricare, a causa della privativa e cade in violazione della legge per il solo fatto di produrre e di vendere. Il fisco può cioè più facilmente vietare senz’altro di coltivar tabacco o permettere la coltivazione sotto la sua sorveglianza e col diritto esclusivo di acquisto da parte sua del prodotto ottenuto, che non mettere un’imposta sulle foglie di tabacco prodotte dai privati, essendo evidente che col monopolio, dato il divieto di vendere ad altri, il produttore ha interesse a vendere al fisco tutta la foglia prodotta, mentre coll’imposta di fabbricazione avrebbe interesse ad occultare parte della propria produzione.

 

 

Così per il sale, è più facile e meno costoso proibire la fabbricazione privata e gerire alcune poche saline di Stato che sorvegliare le numerose saline che sorgerebbero se la fabbricazione fosse libera e solo colpita da imposta di fabbricazione.

 

 

324. Vantaggio rispetto alla ripartizione della imposta in ragione della ricchezza del contribuente. – Il monopolio si presenta meglio adatto anche dal punto di vista della distribuzione delle imposte in ragione della ricchezza dei contribuenti. La regia, che vende il tabacco, può differenziare i prezzi finché vuole e far pagare più le sigarette che il tabacco da fiuto, i sigari di pregio che non i sigari ordinari, ecc.

 

 

L’imposta di fabbricazione od il dazio doganale difficilmente può rendersi proporzionalmente al pregio della merce, perché i fabbricanti ed importatori avranno convenienza di introdurre la merce di qualità grossolane per pagare dazio minore, salvo poi a manipolarla in modo da farla diventare di forma ed apparenza più fine. Anche colle imposte di fabbricazione finora non si è riusciti a stabilire tariffe diverse per le qualità diverse della medesima derrata, perché i produttori hanno interesse ad architettare ogni espediente pur di pagare solo l’imposta più bassa. Quindi lo Stato non riesce ad esigere la tariffa relativa alle merci di maggior prezzo. Col monopolio questo inconveniente si riduce assai. Lo Stato infatti col monopolio stabilisce un prezzo di vendita variabile a seconda del pregio e della bontà dei diversi generi; in modo che contengano nel prezzo globale tanto maggiore ammontare d’imposta quanto più la merce è ricca ed è consumata da gente che si può presumere abbia reddito più elevato. Nei differenti prezzi entra in diversa proporzione l’imposta: per le sigarette da un centesimo l’imposta sarà solo il 50%, per le sigarette da 10 centesimi sarà il 90% del prezzo.

 

 

I prezzi minimi e massimi dei tabacchi venduti dalla regia italiana in Italia sono i seguenti:

 

 

TABACCHI NAZIONALI PREZZI MINIMI PREZZI MASSIMI
da fiuto

5,75

14,05

trinciati

7,15

46

sigari a foggia estera

11

54,05

sigari virginia alla paglia

22,05

27,55

sigari comuni

9,05

18,55

spagnolette

11,50

74,40

TABACCHI ESTERI

rapati

14

18,60

trinciati

23,30

37,20

sigari d’Avana

45,05

567

sigari del Messico

36,05

120,50

sigari manila

36,05

54,05

spagnolette

46

169,20

 

 

La differenza tra i prezzi massimi e minimi è troppo forte perché possa essere determinata soltanto la differenza nel costo della materia prima e della lavorazione. Questi elementi di maggior costo certamente contribuiscono ad elevare i prezzi delle qualità più fini d’ogni genere; ma la parte maggiore della differenza è dovuta al guadagno del fisco. Ossia l’imposta grava proporzionalmente assai di più sui tabacchi che si vendono ai prezzi massimi che su quelli che si vendono ai prezzi minimi. Ossia ancora il metodo del monopolio può essere un mezzo per far gravare maggiormente l’imposta sui consumatori più ricchi che su quelli più poveri; e compensare così la sproporzione inversa che si riscontra in altre imposte sui consumi; onde esso si chiarisce uno strumento prezioso di perequazione fiscale.

 

 

Né solo per il tabacco lo Stato può riuscire a graduare i prezzi; poiché anche per il sale lo Stato fa tre prezzi principali, oltre alcuni prezzi speciali per usi agricolo, pastorizio, industriale, ecc. e cioè: 40 centesimi al chilo per il sale comune da cucina, 60 per il sale macinato, 80 per il sale raffinato. È evidente che il costo per lo Stato non cresce in questa proporzione cosicché lo Stato ha un lucro maggiore, quanto più la merce è ricca.

 

 

  Prezzo di vendita Costo ipotetico Guadagno dello Stato ossia imposta
Sale comune

0,40

0,06

0,34

Sale macinato

0,60

0,07

0,53

Sale raffinato

0,80

0,08

0,72

 

 

 

È facile vedere che l’imposta è più grave per il consumatore ricco che per il meno agiato.

 

 

325. Limiti di applicazione del metodo del monopolio. – I pregi del metodo del monopolio non sono però tali che si debba concludere alla necessità di statizzare tutte quelle merci su cui lo Stato voglia mettere l’imposta.

 

 

Non è conveniente adottare il monopolio che per un numero ristrettissimo di voci. Da noi sono il sale, il tabacco e il lotto, né sarebbe opportuno che il monopolio si allargasse ancora perché allora entrano nella questione elementi che lo renderebbero poco conveniente. Finché si tratta di una elaborazione relativamente semplice come quella del sale e del tabacco, finché si tratta di materie prime che possono essere prodotte negli stabilimenti governativi (saline) o sono importate dall’estero a prezzi notori e nei quali non si può essere danneggiati fortemente, il monopolio può essere conveniente. Quando invece il monopolio si estendesse a un numero maggiore di merci lo Stato verrebbe a correre rischi industriali e commerciali gravi e, siccome l’amministrazione di Stato è sempre lenta e costosa, potrebbe facilmente rimanere danneggiata in operazioni per le quali non ha elasticità di organizzazione necessaria. È difficile che lo Stato fabbrichi sempre la qualità migliore di merce: in Francia i fiammiferi di Stato sono deplorevoli, tanto che fu calcolato che al Governo converrebbe ancora stipendiare gli operai perché non facessero nulla e comprare all’estero i fiammiferi; il costo sarebbe ancora minore per lui.

 

 

Abbiamo, del resto, veduto sopra che i pregi del monopolio in confronto agli altri tipi di imposta sui consumi sono due: maggiore efficacia della lotta contro il contrabbando, perequazione maggiore dell’imposta alla ricchezza dei contribuenti. Per ciò, dove si tratta di merce che viene soltanto o principalmente importata dall’estero, come il caffè ed il petrolio, il monopolio è inutile, perché esso non esime dall’obbligo di esercitare una stretta sorveglianza ai confini, precisamente come già accade pei dazi doganali e vi aggiunge l’inconveniente di spese di gestione all’interno, che sono inutili al fine di riscuotere l’imposta, quando questa si può percepire al confine. Così pure quando una merce è prodotta all’interno in grandi stabilimenti, il contrabbando è facile ad essere combattuto, bastando all’uopo sorvegliare quelle poche fabbriche.

 

 

Taluni a questo proposito dicono che il monopolio sia conveniente quando l’industria, lasciata a sé, cadrebbe in mano di monopolisti privati, che estorcerebbero ai consumatori dei prezzi di monopolio. Noi abbiamo veduto, parlando dei prezzi pubblici (Parte I, capitolo II, sezione II) che questo è un buon motivo per creare una impresa pubblica, gerita direttamente dallo Stato o per delegazione da privati. Ma l’impresa è gerita nell’interesse dei consumatori, allo scopo di vendere loro un servigio al costo; mentre il monopolio fiscale ha lo scopo opposto di far gravare un’imposta sui consumatori. Certo però, in tesi generale, ove un’industria sia caduta in mano a monopolisti privati può essere opportuna l’assunzione statale per devolvere al fisco quel profitto di monopolio che andrebbe ai privati. Con ciò si lascia irresoluta la questione, che ora si discute, ed è se a tal fine meglio giovi il metodo dell’esercizio diretto (monopolio) o dell’esercizio per delegazione (imposta di fabbricazione o dazio doganale).

 

 

È la stessa questione già discussa sopra per le imprese pubbliche (loco citato, sezione terza). Può essere cioè che lo Stato trovi più conveniente assorbire il guadagno di monopolio dei monopolisti privati colpendoli con un’imposta di fabbricazione, che non assumendo direttamente l’esercizio in monopolio dell’industria. A decidere la questione in un senso o in un altro giovano le considerazioni esposte nel luogo già ricordato (sez. terza cit.). L’esercizio in regia del sale e del tabacco può, ad esempio, essere poco pericoloso politicamente perché i salinieri sono pochi e nelle manifatture di tabacchi sono impiegate principalmente donne, le quali finora non sono elettrici. Del resto tutta questa discussione sul possibile monopolio privato è in gran parte inutile, perché lo Stato assunse il monopolio del sale, del tabacco e del lotto non già perché quelle industrie minacciassero di cadere nelle mani di monopolisti privati (l’assunzione avvenne in secoli in cui i governi non combattevano, ma creavano essi i privilegi, le privative private in fatto di industrie), ma perché trattasi di merci o servizi, che per la universalità del loro consumo, per la facilità di spingere i prezzi all’insù, si prestano ad ottenere forti redditi, e, per assicurare codesti altri redditi, il metodo del monopolio si presenta come adattatissimo.

 

 

Dove però il secondo vantaggio – migliore perequazione dell’imposta alla ricchezza dei contribuenti – non si può ottenere neanche col metodo del monopolio, perché trattasi di merce che non ammette prezzi molteplici, a che prò allora adoperare quel metodo che diventa inutile? Per esempio, non si può far pagare lo zucchero, lo spirito, il gas, l’energia elettrica per illuminazione a prezzi gran fatto diversi ai diversi consumatori privati. Se si differenziasse il prezzo sensibilmente, tutti acquisterebbero la quantità a prezzo minore. In questi casi sono evidentemente più semplici i metodi del dazio doganale o della imposta di fabbricazione, che risparmiano allo Stato responsabilità e rischi industriali e commerciali.

 

 

326. Inconvenienti di un eventuale monopolio degli spiriti. – Le nozioni ora esposte si possono applicare alle proposte che ogni tanto si fanno per introdurre in Italia il monopolio degli spiriti, ad imitazione di quanto si opera in Svizzera ed in Russia.

 

 

Sarebbe, a parer nostro, un’operazione di assai dubbia riuscita, per le seguenti ragioni:

 

 

  • a) non si vede come il monopolio possa più efficacemente dell’alta imposta di fabbricazione combattere l’alcoolismo. Questo si reprime coll’alta imposta, non col metodo ( ed il monopolio è solo un metodo di esazione) di esigere l’imposta. C’è anzi pericolo che il governo, come accade in Russia, diventi fautore dell’alcoolismo, perché i suoi incassi diventano più forti, se egli meglio sa attrarre il consumatore a bere. Laddove, coll’imposta di fabbricazione, il fisco è relativamente un po’ più indifferente ai guadagni degli industriali privati.
  • b) gli spiriti non tendono, se lasciati all’industria privata, ad essere prodotti in regione di monopolio. Fabbriche di spiriti ce ne sono fin troppe; e, senza la sorveglianza fiscale, diventerebbero un flagello per la loro abbondanza. Basta un alambicco, un fornello e qualche rudimentale strumento per fabbricare spiriti, atti ad avvelenare più o meno il pubblico.
  • c) gli spiriti sono materie che non si adattano a prezzi molteplici. Le differenze di prezzo esistono, ma in ragione della qualità; il monopolio non potrebbe far variare troppo i prezzi, ove non volesse spingere al consumo delle sole qualità scadenti. A meno che il fisco non fabbricasse, oltre lo spirito greggio, anche i liquori di diretto consumo, cosa che per certe qualità correnti si può immaginare, ma sembra difficile e complessa per le svariate qualità più fini e di marca.
  • d) sovratutto deve dar pensare la questione delle materie prime. Lo spirito di fabbrica in parecchie maniere, con cereali guasti, con vino andato male, coi residui della fabbricazione dello zucchero di barbabietole, con melasse diverse, con fecole, con vinello, con vinacce, ecc. Naturalmente finché si tratta di fabbricanti privati, essi scelgono la materia prima più conveniente con cui si può ottenere l’alcool migliore e più a buon mercato. Essi certamente non comporterebbero materie prime care solo per far piacere ai produttori. Quando invece lo Stato si assumesse il monopolio di aggraverebbero alcuni fattori che purtroppo già esercitano grande influenza nell’assetto attuale dell’imposta di fabbricazione sugli alcools. Lo Stato dovrebbe comperare non la materie prima che è a più buon mercato, ma la materia prima che conviene di più ai produttori elettori. Si sa che i più numerosi produttori italiani di materia prima per l’alcool sono essenzialmente i produttori di vino. Già ora quando non sanno come vendere il loro vino, così grandemente si lagnano perché la loro materia prima non viene acquistata a prezzi rimuneratori per loro dai produttori di alcools.

 

 

Se – essendovi il monopolio – il vino non venisse comperato a prezzi sufficientemente alti dallo Stato, i produttori di vino farebbero pressioni sui deputati e ne troverebbero moltissimi disposti a farsi loro paladini e costringerebbero lo Stato a comperare il vino ad un prezzo superiore a quello a cui potrebbe comperare il cereale o altra materia prima. Si comincierebbe a dire che il governo deve agire come buon padre di famiglia dei suoi cittadini, che deve preferire il vino nazionale al grano, granone e fecole stranieri; che, inoltre, deve comprare il vino nazionale a prezzi «giusti», ossia tali da far vivere i produttori nazionali, ecc. Quel governo parlamentare potrebbe sottrarsi a simili pressioni? è quello che accade in Svizzera dove si è stabilito il monopolio dell’alcool. Il periodo ivi, se non è per il vino, vale per le patate, produzione nazionale dei contadini svizzeri. Per le patate, poiché l’alcool si fabbrica anche con la fecola di patata, vi sono due prezzi: il prezzo delle patate ordinarie e il prezzo delle patate di Stato, che è il doppio o il triplo delle patate ordinarie e al quale pure lo Stato, deve sottostare; per non aver imbarazzi e noie elettorali. In Italia, già ora con il sistema degli abbuoni, di cui si dirà parlando delle imposte di fabbricazione, il fisco incoraggia i fabbricanti di spirito a comperare più il vino, che le vinacce e il vinello, più questo che le frutta, e più queste del grano, melassi, fecole, ecc.. Ma il pericolo forse crescerebbe, se i produttori nazionali privilegiati potessero direttamente contrattare col governo.

 

 

Quando fosse istituito il monopolio, si potrebbe forse avere lo spettacolo di veder vendere allo Stato il vino cattivo a un prezzo maggiore di quello cui si vendo ai privati il vino buono di prima qualità. Né è escluso che simiglianti pericoli elettorali si possono un qualche giorno verificare anche per il tabacco. L’estensione della cultura del tabacco in paese può essere sotto molti rispetti conveniente, trattandosi di cultura rimunerativa; ma c’è anche il pericolo che, se i produttori di tabacco potessero moltiplicarsi, si vedrebbe subito sorgere un’associazione fra i produttori di foglia di tabacco che si agiterebbe per ottenere dallo Stato un prezzo elevato per la propria produzione. Se compera foglia estera, il fisco ha tutto l’interesse di pagarla a buon mercato; ma se dovesse comprare molta foglia nazionale e se i produttori fossero elettoralmente influenti, ci sarebbe il pericolo per il fisco di essere costretto, contro sua voglia, a comprarla a caro prezzo.

 

 

B) Il monopolio del sale.

 

327. Difetti gravi dell’imposta sul sale. – Sappiamo già che l’imposta, esatta col monopolio sul sale, tassa un consumo di primissima necessità.

 

 

Tutti consumano press’a poco la stessa quantità di sale: per questo l’imposta sul sale è imposta non rispondente al canone della proporzionalità al consumo totale dei contribuenti. Trattasi di uno dei consumi che più hanno il carattere di essere dei consumi risparmio, come quello che è indispensabile alla vita delle giovani generazioni ed è necessario altresì alla conservazione della capacità produttiva dell’uomo adulto.

 

 

Si aggiunga che l’imposta sul sale tende a diminuire, presso le popolazioni molto povere, il consumo di una sostanza che igienicamente è necessaria, donde diffusione della pellagra e di altre malattie; onde si comprendono le numerose lagnanze di molti scrittori e delle popolazioni contro questa impopolarissima imposta.

 

 

Le lagnanze erano più gravi in passato, quando l’obbligo di comprare il sale presso la regia si aggiungeva l’obbligo di comprarne una certa quantità. Nel secolo XVIII specialmente v’erano Stati in cui si obbligava ogni suddito a comperare una quantità, per quei tempi non esigua, di 35 Kg di sale, a prezzi varianti da 70 cent. a 1,29; con vessazioni infinite, obbligo di denuncia dei membri della famiglia, dei capi di bestiame – molti censimenti dei secoli andati hanno la loro origine nell’obbligo della levata del sale – cosicché si comprende l’odio delle popolazioni contro questo balzello. Odio che si conserva abbastanza ragionevolmente benché l’obbligo della levata sia stato abolito, dove il prezzo del sale è troppo elevato e le popolazioni, trovandosi vicine al mare od alle saline, possono paragonarne il prezzo alto con il basso costo di produzione. Gioverebbe perciò che il prezzo del sale fosse abbassato a più tenue misura, almeno per il sale comune da cucina.

 

 

328. Di alcuni vantaggi dell’imposta sul sale. – D’altro canto non è possibile ignorare il fatto che l’imposta sul sale per sua universalità, facilita di percezione, tenuità in somma assoluta, mancanza di succedanei, difficoltà di falsificazioni rende al fisco cospicue somme. Il tributo netto che ogni italiano paga al fisco, detratto il costo in 6 cent., può ragguagliarsi a 34 cent. per 6,60 Kg di consumo medio, all’incirca lire 2,25 a testa; onde un gettito netto di 75/80 milioni di lire. Finché il paese era povero, era vano sperare nella abolizione di questo balzello. Dove gli abitanti non hanno redditi che bastino a permettere consumi superiori, è giuocoforza colpire i consumi necessari. Necessità che viene meno quando la ricchezza ed i consumi si elevino.

 

 

Ad attenuare alquanto il biasimo che questa imposta si merita, gioverà ricordare ancora che essa consente, grazie al metodo di esazione col monopolio, una certa graduazione di imposta secondo la ricchezza dei contribuenti. Sul sale comune ci saranno 34 centesimi di imposta per Kg, sul sale macinato 53 cent. d’imposta, sul sale raffinato 72 cent. di imposta.

 

 

Quindi l’imposta cresce proporzionalmente e anche assolutamente passando da una qualità all’altra e siccome si può presumere che quelli che comprano sale raffinato siano più ricchi di quelli che comperano sale comune, l’imposta risulta così grossolanamente graduata secondo il reddito consumato dei contribuenti.

 

 

329. Se l’abolizione o la riduzione dell’imposta sul sale sia preferibile ad altre riduzioni. – L’abolizione di questa imposta, anche per chi ne ammetta la sperequazione, non si presenta agevole, pur tenendo conto che la ricchezza media degli italiani è cresciuta e consente consumi veri di tabacco, spiriti, ecc., che sono largamente tassabili. Bisognerebbe che tornassero in auge le tendenze all’economia nella gestione della cosa pubblica, che purtroppo furono in onore solo per breve periodo di tempo: dal 1896 al 1902-3. Inoltre è necessaria una osservazione quasi di precedenza nell’ordine delle abolizioni. L’imposta sul sale non è la sola imposta cattiva che esista in Italia; c’è l’imposta sul grano, v’è, per quanto proporzionalmente ridotta, l’imposta sul petrolio, tutte imposte sui consumi di prima necessità; vigono le imposte sul ferro e l’acciaio ecc., ecc. Or dato che lo Stato non possa abolire d’un tratto tutte queste imposte, il problema non è d’ordine assoluto ma relativo: si tratta di vedere quale delle tre imposte debba essere ridotta prima.

 

 

330. Fu preferibile la riduzione del dazio sul petrolio. – Ora, guardando ai dati fondamentali del problema, vediamo che lo Stato ha fatto bene a ridurre per prima l’imposta sul petrolio e non quella sul sale. Infatti è opportuno che venga abolita per prima l’imposta che grava di più sulle classi povere che sulle ricche, quella cioè che costituisce un gravame specifico sulle classi meno abbienti, ed è appunto l’imposta sul petrolio. Le classi più agiate hanno oramai altri metodi di illuminazione – luce elettrica, gaz, acetilene -; le classi nullatenenti si servono invece esclusivamente del petrolio. Poiché si tratta di imposte sui consumi risparmio e di imposte sperequate, è meglio cominciare a ridurre quella che è più sperequata; e che oltre a gravare sui consumatori per somme assolute uguali e non proporzionali al reddito consumato, grava a preferenza su coloro che hanno minor ricchezza. Ora, l’imposta sul petrolio, indubbiamente viene pagata a preferenza delle classi povere, mentre l’imposta sul sale viene invece pagata da tutti, agiati e poveri; e in somme assolute maggiori, come si dimostrò, dai ricchi che dai poveri.

 

 

Ci sono poi oltre questo principale altri argomenti. L’imposta sul petrolio è un’imposta che colpisce una merce che è elastica nel consumo, nel consumo della quale cioè si verifica un aumento o una diminuzione ad ogni diminuzione od aumento del prezzo corrispondente. Abbiano veduto che il sale invece è una merce a consumo essenzialmente rigido, alle cui variazioni di prezzo cioè non corrispondono sensibilmente variazioni di consumo. Appunto in Italia dove variazioni di prezzo hanno avuto luogo (da 30 a 55 poi a 35 e poi a 40 cent.) le variazioni di consumo sono state insensibili. Questo è un carattere che dovrebbe, per la teoria da noi svolta nella prima sezione del presente capitolo, consigliare alla riduzione di una imposta così poco reattiva. Ma non possiamo fare astrazione dal fatto che purtroppo l’imposta c’è e costituisce una delle colonne del bilancio. E poiché ancora il bilancio – per la ripugnanza a fare economie, che sarebbe la miglior cosa, – non presenta margini larghi per sgravi di imposte, si presenta il quesito: quale riduzione prima di due imposte, ugualmente cattive, di cui l’una, quella sul petrolio, è peggiore di quella sul sale?

 

 

Se si sceglie il sale, il fisco subisce una perdita netta, uguale alla riduzione; di circa 10 milioni di lire per ogni soldo di riduzione nel prezzo, non essendovi speranza che il consumo abbia sensibilmente ad aumentare. Invece se lo Stato diminuisce l’imposta sul petrolio, siccome il consumo del petrolio è elastico, ne viene che alla diminuzione di prezzo segue un aumento del consumo, onde lo Stato può rifarsi in parte della perdita verificatasi. È perciò che lo Stato ha ridotto l’imposta sul petrolio prima da 48 a 24 nel 1906 e poi a partire dall’1 gennaio 1911 a 16 cent. per Kg. A questa riduzione di imposta avendo corrisposto un aumento nel consumo non solo per illuminazione ma anche per scopi industriali, ne venne che, mentre si supponeva che lo Stato dovesse perdere molto, perse di meno, cioè si produsse un vantaggio notevole per i consumatori, ed un piccolo danno per lo Stato. E poiché, riducendo il dazio da 48 a 24 lire, si poteva temere di perdere 16 milioni ossia la metà di 32 milioni, che era il gettito precedente; essendosene perduti solo 6 circa, si può calcolare che il fisco abbia fatto un guadagno di 10 milioni, avendo già provveduto all’eventualità di perdere 16 milioni. Perdendone solo 6, si trova ad avere 10 milioni di entrate di più di quello che sperava di avere. Con questo fondo si poteva procedere ad ulteriori riduzioni di dazio. E così infatti poté ridurre coll’1 gennaio 1911 il dazio ancora da 24 a 16 centesimi per Kg e non ci sarebbe da meravigliarsi che in avvenire lo Stato potesse procedere ad ulteriori riduzioni perdendo meno di ciò che si era calcolato come perdita originaria.

 

 

331. Sarebbe preferibile una riduzione del dazio sul grano. – Vi è poi da fare un’ultima considerazione ed è che, a parità di perdita finanziaria, è preferibile ridurre un’imposta che sia pur essa di consumo necessario ma che dia allo Stato un provento assai minore di quello che costi ai contribuenti. Sotto questo punto di vista sarebbe preferibile la riduzione del dazio sul grano alla riduzione del prezzo del sale. Una riduzione del prezzo del sale arreca allo Stato una perdita netta precisamente uguale alla riduzione del prezzo. Il consumatore guadagna soltanto ciò che lo Stato perde. Riducendo il suo prezzo da 40 a 20 tutto il vantaggio del consumatore è in questa riduzione e lo Stato perde tutti i 20 cent. della riduzione.

 

 

Riducendo invece il dazio sul grano da 7,50 a 5 lire, se lo Stato perderebbe 2,50 per ogni quintale, il consumatore guadagnerebbe forse soltanto 2,50? Non è così: lo Stato perde 2,50 solo su 10 milioni di quintali importati dall’estero, cioè 25 milioni di lire; viceversa il consumatore guadagna 2,50 per ogni quintale di grano che consuma e questo è costituito non solo dal grano introdotto dall’estero, ma insieme da quello prodotto in Italia.

 

 

Poiché si calcola in 50 milioni il grano prodotto in Italia e in 10 milioni quello importato dall’estero, abbiamo che i consumatori guadagnerebbero lire 2,50 X 60 milioni di quintali cioè 150 milioni.

 

 

Il calcolo non è in tutto esatto perché bisognerebbe tener conto di quelli che consumano il grano che producono da sé sui propri fondi ed a cui la riduzione del prezzo non reca nessun vantaggio. Certo però lo Stato perderebbe solo 25 milioni e i consumatori di grano ne guadagnerebbero se non 150, una somma certo superiore ai 100 milioni. I consumatori hanno in questo caso un beneficio molto superiore alla perdita che fa lo Stato.

 

 

Come mai accade questo fatto che uno perda 25 e l’altro guadagni 100? Deriva il fatto che gli altri 75 milioni, che guadagnano i consumatori, non li perde lo Stato, bensì li perdono i produttori di terre a grano, i quali ora possono vendere il loro grano ad un prezzo aumentato di 7,50 (che è il dazio protettivo, senza di cui il grano estero non può entrare, cosicché il produttori italiani possono di altrettanto aumentare il prezzo del loro grano nazionale, sicuri di non essere disturbati dalla concorrenza estera) e dopo lo potrebbero vendere aumentato solo di 5 lire, se il dazio protettore fosse appunto ridotto da 7,50 a 5 lire.

 

 

La riduzione del dazio si può fare tanto più tranquillamente in quanto i produttori nazionali possono sopportare la perdita, perché i prezzi del grano sono adesso aumentati in modo da permetterne la coltivazione, anche con questa riduzione; perciò è lecito concludere che a parità di circostanze è preferibile la riduzione del prezzo del grano a quella del prezzo del sale.

 

 

C) Il monopolio del tabacco.

 

332. Pregi di questa imposta. – L’imposta sul tabacco dà luogo a brevi osservazioni. Abbiamo già spiegato prima quali siano i vantaggi di questa imposta, la migliore forse di quante ora esistano in Italia.

 

 

Vi è in essa facilità grande di esazione, graduazione di imposta a seconda della ricchezza di voglia di spendere; indice insomma di redditi che si vanno consumando; ed è perciò l’ideale delle imposte sui consumi.

 

 

Il suo gettito poi è largo e crescente; cominciò a dare 20 milioni verso il 65: ora dà più di 220 milioni di reddito netto.

 

 

Lo Stato trae da questo monopolio un lucro rilevantissimo e niuno pensa perciò ad una sua abolizione; si dovrà pensare anzi ad un aumento sui prezzi col crescere della ricchezza nazionale. Se l’imposta rimanesse sempre eguale verrebbe ad un certo momento ad essere una proporzione minore del reddito dei consumatori. È d’altra parte confermato da esperimenti che se si procede ad aumenti moderati, corrispondenti al crescere dei redditi consumati dai contribuenti, non c’è pericolo di provocare riduzioni di consumo. Le quali si verificano, ed allora sono utilissime, quando si vogliono aumentare i prezzi, in un momento in cui la ricchezza dei privati sia stazionaria o persino diminuisca.

 

 

D) Il monopolio del lotto.

 

333. Posizione del problema. – Al gruppo delle imposte sulle privative appartiene anche l’imposta sul lotto, che è assai malfamata, ma lo è più per il fatto che si tratta d’un giuoco che in quanto è imposta. I due fatti «giuoco» ed «imposta sul giuoco» vanno infatti distinti accuratamente, per una posizione esatta del problema. Molti hanno infatti immaginato di aver criticato vittoriosamente il monopolio del lotto, quando invece avevano soltanto compiuto una critica efficace e vera del vizio di giuocare.

 

 

334. Danni del giuoco. – Non è dubbio che il giuoco produce danni economici e morali gravissimi, distrugge ricchezza, toglie stimolo al lavoro, perturba le famiglie dei giuocatori. L’opinione che l’agiatezza, la ricchezza possano provenire soltanto dal caso, è perniciosa perché sconsiglia dal fare sforzi continui, perseveranti per raggiungere lo stesso fino col lavoro.

 

 

Dovunque il triste vizio del giuoco è diffuso, si rallenta l’abitudine al lavoro. L’economista è pienamente d’accordo col moralista nel condannarlo acerbamente.

 

 

335. Vantaggi dell’imposta sul giuoco. – La condanna del gioco logicamente ci porta però non a condannare l’imposta sul giuoco stesso; ma ad affermare che il tributo sulle vincite al giuoco non solo è moralissimo, ma è tra le migliori imposte del nostro sistema finanziario. Quando si mette un’imposta, perché scoraggia un consumo che essi ritengono inutile e vizioso; gli igienisti la esaltano, perché contrasta il consumo di una derrata dannosa alla salute dell’uomo; ed i finanzieri la lodano perché percuote un consumo secondario, che sicuramente non è consumo risparmio, anzi è un tipico consumo di ricchezza imponibile. Ciascuno per il suo verso, tutti trovano lodevolissima quella imposta. Le stesse osservazioni valgono ed anche più per l’imposta sugli spiriti. I moralisti che fanno la predica contro il monopolio del lotto sono quegli stessi che predicano a favore dell’imposta sugli spiriti. Siccome costoro sono nimicissimi delle bevande alcooliche, e le ritengono cagione di molti mali fisici e morali del popolo, affermano che è necessaria la diminuzione del consumo e perciò invocano l’imposta. E bisogna riconoscere che essi ragionano correttamente. Insegnano infatti i principi dell’economia politica che ad ogni aumento di prezzo corrisponde, per molte derrate ed entro certi limiti di prezzo e di variazione, una diminuzione di consumo; ed in questo caso l’effetto della diminuzione del consumo pare ottimo come quello che consiste in un minore avvelenamento alcoolico del popolo. Nessuno ha mai messo in dubbio ciò.

 

 

Ora: proclamata la moralità da un lato e la convenienza economica finanziaria dall’altro dell’imposta sulle bevande alcooliche, non si capisce come logicamente si possa proclamare poi l’immoralità della imposta sul giuoco. Come l’aumento del prezzo delle bevande alcooliche a causa dell’imposta ha per effetto la riduzione del consumo, così l’aumento del prezzo delle speranze di vincita al gioco ha per effetto la riduzione del gioco. Chi giocava 10 volte all’anno quando pagava 1 lira la speranza di vincere una certa somma, giocherà meno di 10 volte quando a causa dell’imposta, paghi 2 lire la medesima speranza d vincere la stessa somma.

 

 

Il che è un risultato moralmente, economicamente e finanziariamente utilissimo.

 

 

Il ragionamento si può fare da un altro punto di vista. Ciascuno si sente più stimolato a fare uno sforzo per raggiungere un certo risultato quanto più il risultato è grande. Quando uno ha la speranza di guadagnare 100 lire al giorno, lavora molto, mentre se la speranza è solo per 10 lire lavora di meno. Quanto più il lucro diminuisce, tanto più diminuisce la spinta al lavoro. Così se un titolo, a parità di sicurezza, ha la possibilità di rendere il 10% lo si compra più avidamente, che non se rende solo il 5% o meno. Lo stesso fenomeno non v’è ragione che non si verifichi per le imposte sui giuochi.

 

 

Che cosa fa lo Stato quando esercita questa industria del giuoco? La esercita in monopolio ed ha quindi la possibilità di restituire ai giocatori non le 100 lire che teoricamente dovrebbero guadagnare, secondo il calcolo delle probabilità, con una data posta, ma una somma minore: in media 50 lire sulle 100 teoricamente vinte. Siccome i contribuenti non si possono rivolgere altrove per giuocare e vi sono per i contravventori del giuoco piccolo o giuoco clandestino delle penalità abbastanza elevate che lo Stato è interessato a fare applicare, si può ritenere che il giuocatore normalmente giuocherà presso lo Stato, il quale, come si disse, invece di restituire al vincitore tutte le 100 lire versate dai molti giuocatori ne restituirà in media soltanto 50. Detratte le spese, tutto il rimanente è profitto netto. Il che vuol dire che i giuocatori, invece di avere la speranza di vincita per 100 lire quale a loro teoricamente spetterebbe, grazie al monopolio dello Stato hanno solo la speranza di guadagnare 50. Siccome 50 lire sono evidentemente una quantità piccola di 100 lire e quindi sono una ricchezza meno appetibile, la spinta a giuocare tende evidentemente a diventar minore a cagion dell’imposta messa sui giuochi col monopolio di Stato. Non è chiaro che i moralisti debbono giudicare non il giuoco, ma l’imposta sul giuoco, come moralissima e gli economisti come utilissima, essendo dimostrato che essa ha per effetto di rendere meno diffuso il giuoco? Per concludere diversamente bisognerebbe che gli uomini ragionassero in tema di giuoco alla rovescia di come normalmente ragionano.

 

 

Poiché siamo sul parlare di moralità, notisi che l’imposta sui giuochi è anche morale sotto un altro punto di vista ancora. I legislatori scrivono nei loro codici la proibizione di giuocare d’azzardo, ma intanto si giuoca ugualmente; la polizia essendo occupata in molte altre faccende e non potendo esercitare altro che una sorveglianza saltuaria e poco efficace.

 

 

Ciò per i giuochi d’azzardo che si tengono nei circoli e in altri luoghi di ritrovo. Invece per il giuoco piccolo o lotto clandestino, lo Stato è nel suo interesse spinto a sorvegliare i giuochi privati e a impedirli perché essi danneggiano direttamente il suo monopolio; ha quindi interesse a far spese di polizia, a sorvegliare costantemente ed attentamente ed a fare osservare le leggi che vietano il giuoco. Non le farà osservare perfettamente, ma le farà meglio che se non vi avesse un interesse diretto.

 

 

Insomma l’imposta sul giuoco tende ad interessare lo Stato ad impedire il lotto piccolo privato, meglio di quanto non avvenga per i giuochi d’azzardo nelle bische, che fanno appello ad un altro pubblico e non fanno direttamente concorrenza al monopolio.

 

 

336. Inconvenienti della sua applicazione. – Certamente l’imposta sul giuoco del lotto, così come è da noi applicata, non è scevra di inconvenienti.

 

 

Il principale consiste nel fatto che è organizzata in modo da colpire le classi sociali inferiori, le piccole giuocate della povera gente piuttostoché i giuochi d’azzardo dei ricchi. Non si può però affermare che il giuoco sia diffuso solo tra i poverissimi poiché le statistiche dimostrano come il giuoco non sia sovrattutto diffuso nelle regioni più povere, ma anzi in certe determinate regioni che possono essere considerate relativamente ricche, e non poste sicuramente ai più infimo grado di ricchezza. Se si pensa che le provincie di Napoli, Palermo, Livorno, Genova, Roma, Porto Maurizio, Venezia sono le provincie in cui maggiormente si giuoca, non ci si può sottrarre all’impressione che non le popolazioni più povere diano maggior contributo al lotto; ma quelle in cui il danno scorre più facilmente, in cui la vita di mare o dei grandi porti o delle capitali imprime un carattere avventuroso alla psicologia del popolo, il quale ama l’azzardo, l’ignoto, la speranza del nuovo.

 

 

Si vede che il giuoco è un’abitudine che dipende da moltissime ragioni e non si può dire che sia particolare ai poveri. Gli uomini giuocano perché sono giuocatori si nascita od hanno acquistato questa pestifera abitudine. I moralisti si lamentano che lo Stato ricavi dal lotto 80 milioni all’anno; ma 80 milioni non sono se non una parte di ciò che si scommette in Italia nelle diverse specie di giuochi, alle corse di cavalli, di biciclette, di atletismo, podismo, lotterie, ecc., ecc.

 

 

Finché la voglia di giuocare c’è, bisogna gravarla d’imposta.

 

 

Il monopolio del lotto non e condannabile per essere un’imposta, piuttosto in quanto lo strumento, il mezzo scelto per esigere l’imposta, ossia il monopolio, sebbene forse il migliore possibile, è tale da incitare esso medesimo al giuoco. È innegabile che la facilità di trovare la bottega aperta agli angoli delle vie, i richiami dei tenitori di banco, la sicurezza e la pubblicità delle giuocate, la periodicità settimanale, la legalità stessa del giuoco, che viene quasi sancito dallo Stato sono degli incitamenti al giuoco. L’imposta che dovrebbe essere, ed è, un freno al giuoco si converte, sotto un certo aspetto, in uno sprone alla passione già troppo radicata nel cuore degli uomini.

 

 

Laonde converrebbe che ogni allettativa fosse tolta al giuoco: proibiti i richiami dei tenitori del banco, trasportate le botteghe dal piano terreno ai meno comodi primi piani, negli stessi uffici delle esattorie od agenzie delle imposte, onde rendere repellente il giuoco, diminuiti i banchi nelle città, ed aboliti nei piccoli comuni, onde obbligare i giuocatori a fare lunga strada, diradate le estrazioni ad ogni due settimane ecc., ecc. Il carattere dell’imposta dovrebbe essere messo in evidenza, calcolando la vincita teorica e mettendovi di fronte la vincita effettiva; talché, senza nulla mutare allo stato di fatto odierno, il giuocatore si irriterebbe a vedere quanto di meno gli dà lo Stato in confronto a ciò che teoricamente gli spetterebbe. Con vantaggio, forse, si potrebbe rendere obbligatoria la ritenuta di una decima parte delle vincite, facendone versamento su libretti vincolati di cassa di risparmio o su libretti di assicurazione di pensioni per la invalidità e la vecchiaia.

 

 

L’imposta non verrebbe abolita, essendo in sé medesima correttissima; ma si metterebbe meglio in evidenza la sua natura di tributo, come si deve in un paese finanziariamente progredito; e si toglierebbero quei vizi che rendono il monopolio incitatore del vizio del giocare.

 

 

337. Come l’imposta sul lotto sia un’imposta progressiva. – L’imposta sul lotto deve essere segnalata per un altro motivo che è assai elegante. Tutti i democratici, i radicali, i socialisti e gli altri progressisti sociali che vogliono l’imposta progressiva, sono ostilissimi all’imposta del lotto.

 

 

Irragionevolmente. Infatti l’imposta sul lotto è una delle due imposte, che hanno potuto applicare il sistema di tassazione progressiva, senza debolezze e senza concessioni, in maniere così recise che sarebbe follia credere di poterla applicare più recisamente. (Vedi sopra paragrafo 191 pag. 218). Ed ecco costoro che vogliono la progressività quando sarebbe una novità condannabile, la condannano quando è lodevole ed antichissima.

 

 

Per vedere la progressività dell’imposta sul lotto basta osservare la gravezza dell’imposta a seconda dei diversi tipi di giuocate. A parità di somma giocata la vincita è sempre più forte passando dall’estratto e dall’ambo al terno, dal terno alla quaterna. A parità di somma giocata si guadagna una somma maggiore negli ultimi casi quantunque si guadagni sempre di meno di quello che teoricamente si dovrebbe guadagnare. Infatti nell’estratto semplice la vincita è uguale a 10 e 1/2 volte la posta, nell’estratto determinato a 52 e 1/2, nell’ambo a 250, nel terno a 4250 e nel quaterno a 60.000 volte al posta. Ora la nostra imposta sul lotto è così consegnata da colpire in proporzione più elevata la vincita teorica quanto più la vincita è elevata. Per l’estratto semplice e determinato e l’ambo la vincita effettiva che lo Stato paga è uguale all’incirca, al 60% della vincita teorica che dovrebbe esser pagata. Il che vuol dire che teoricamente ai giocatori di estratto e di ambo dovrebbero spettare 100 lire e su queste 100 lire lo Stato dà solo 60 lire, onde l’imposta è di 40 lire. Per il terno accade il rapporto quasi inverso, cioè questo: lo Stato per ogni 100 lire di vincita teorica, vi è un’imposta dell’88 per cento e una vincita effettiva di 12 lire. Si vede chiaramente come questa imposta sia rapidamente progressiva; né in tal caso la progressività fa male ad alcuno, mentre la stessa progressività sarebbe senza dubbio dannosissima se applicata alle imposte sul reddito. La progressività nell’imposta sul lotto reprime soltanto la tendenza a giuocare, scoraggia solo dal compiere il lavoro inutile dello strologare sulle cabale dei numeri vincitori. È anzi questo uno dei pochissimi casi in cui la tassazione progressiva e progressiva sul serio non sia dannosa, anzi sia utilissima. Appunto forse perciò, con logica politica, in questo caso la progressività viene condannata, mentre la si vuole a grandi grida istituire là dove apporterebbe danni gravi.

 

 

Sezione Seconda.

 

Le imposte sui consumi esatte col metodo della tassazione all’atto della fabbricazione (imposta di fabbricazione)

 

A) In generale.

 

338. Concetto. – Il secondo gruppo delle imposte sui consumi comprende le imposte che si esigono col mezzo della tassazione all’atto della produzione o fabbricazione delle merci. Perciò si dicono imposte di fabbricazione[1].

 

 

La tassazione della merce, meglio che all’atto della produzione propriamente detta, avviene nel momento della estrazione del prodotto dell’industria dai magazzini dove l’industriale, finita la fabbricazione, l’aveva depositato in attesa della vendita. Nei quali magazzini il prodotto rimane, dal momento della fabbricazione finita a quello dell’estrazione per la vendita, sotto la vigilanza degli uffici tecnici di finanza esercitata per mezzo del proprio personale subalterno e delle guardie di finanza.

 

 

La vigilanza si esplica non solo sui magazzini ma anche sui singoli stadi e procedimenti della fabbricazione, per evitare che una qualsiasi parte del prodotto finito o semi lavorato venga ad essere sottratta al tributo. La ragione di ciò è che il contribuente di diritto è bensì il fabbricante; ma egli in sostanza anticipa solo l’imposta al fisco per conto del consumatore, che è il contribuente di fatto. Essendo incomodo e troppo costoso esigere l’imposta direttamente dei moltissimi consumatori, si è creduto opportuno di anticipare il momento della sua percezione all’atto dell’uscita della merce dai magazzini del fabbricante; ma è chiaro che se il fabbricante riesce a sottrarre la merce al tributo e ad immetterla franca nel commercio, non perciò la merce costerà ai consumatori meno di quella che ha pagato il balzello; onde il consumatore pagherà ugualmente l’imposta e questa andrà a beneficio del fabbricante e non del fisco. Utilissima è perciò la vigilanza della finanza, rivolta ad impedire che un tributo pubblico si trasformi in un tributo privato.

 

 

399. Condizioni per l’opportuna applicazione di questo metodo di tassazione: industria esercitata in spazio limitato e facilmente sorvegliabile. – Poiché il successo fiscale dell’imposta dipende dalla buona sorveglianza; è evidente che non sarebbe possibile di mettere un’imposta su un’industria che si esercitasse per necessità tecniche nei campi, all’aperto, o su spazii amplissimi di terreno o sotto tettoie nel chiuso. Occorre uno stabilimento chiuso da muri, finestre con inferriate e grate, poche porte di uscita all’esterno, così che sorveglianza sia possibile.

 

 

340. Merci prodotte da grandi e pochi stabilimenti. – Anche questa imposta ha dei limiti alla sua applicazione. È necessario che la merce sia fabbricata da grandi stabilimenti; se è fabbricata da molti piccoli produttori, la sorveglianza per l’applicazione dell’imposta provoca spese di esazione che possono rappresentare il 40 o il 50% dell’imposta stessa, il che, come sappiamo, va contro i canoni fondamentali di un buon tributo. È opportuno quindi preferire le merci che sono prodotte da pochi fabbricanti, i quali hanno accentrato la produzione e tendono ad accentrarla facendola passare al tipo di grande intrapresa. Quando le fabbriche produttrici sono poche e grosse, allora con poca spesa e con la sorveglianza di pochi stabilimenti si può raggiungere l’esazione di forti somme d’imposta. Su questo punto e sugli effetti che l’imposta di fabbricazione ha sulle dimensioni dell’imposta e sulla costituzione dei consorzi industriali già ci siamo intrattenuti dianzi (paragrafo 312-315); né occorre ritornarci sopra.

 

 

341. Connessione tra le imposte di fabbricazione sulla merce nazionale e il

dazio di importazione sulla merce estera. – Oltre queste condizioni tecniche, se col sistema tributario nel suo complesso si vuol raggiungere un fine fiscale, occorre soddisfare ad una condizione economica: le imposte di fabbricazione devono colpire cioè coll’identico peso tutte quelle merci producibili in Italia, le cui concorrenti estere sono colpite da un dazio d’importazione: e viceversa se una merce è colpita all’interno da un’imposta di fabbricazione la similare merce estera deve essere colpita da un ugual dazio di importazione. Se l’imposta cadesse solo sugli zuccheri prodotti in Italia, e non vi fosse dazio sullo zucchero estero, tutti comprerebbero zucchero estero e quelli nazionali non si smercerebbero, quindi lo Stato nulla incasserebbe come imposta. Perciò all’imposta di fabbricazione sugli zuccheri interni deve corrispondere razionalmente, un sistema d’imposte che vogliono dare rendimento fiscale, un uguale dazio doganale sulle merci importate dall’estero. Il dazio deve essere uguale all’imposta, perché, se fosse inferiore, anche di poco, varrebbe sempre il ragionamento precedente, tutti avendo convenienza a provvedersi all’estero. E vale la reciproca. Se esiste dazio doganale su merci provenienti dall’estero bisogna che vi sia un’uguale imposta di fabbricazione sulla merce italiana, se si vuole che il dazio produca qualche cosa, perché imponendo il dazio sulla merce proveniente dall’estero e non su quella prodotta in Italia, avverrebbe che tutti i consumatori comprerebbero sempre la merce nazionale. Quindi, se si vuole che il dazio frutti fiscalmente all’erario, bisogna che a questo dazio doganale corrisponda una uguale imposta di fabbricazione. Il sistema contrario sarebbe dannoso, perché il fisco introiterebbe sempre la minore delle due imposte, dazio sulla merce estera o imposta sulla fabbricazione della merce nazionale; mentre il consumatore, nel caso che l’imposta sia minore – ed è il solo caso pratico, non verificandosi mai di fatto che il dazio sia minore dell’imposta – pagherebbe sempre il maggior dazio, essendoché gli industriali dell’interno, protetti dal dazio elevato contro la concorrenza estera, eleverebbero il prezzo all’interno non del solo ammontare dell’imposta, bensidi quello del dazio. Dazio doganale e imposta di fabbricazione sono due fratelli siamesi; mancando uno dei due, scompare il reddito dell’altro per lo Stato.

 

 

342. Deviazioni dal canone ora posto. – Nella realtà accade che solo in pochi casi i due fratelli siamesi si accompagnino, o si accompagnino per tutta la strada che insieme dovrebbero percorrere. In Italia invero le imposte di fabbricazione colpiscono soltanto le seguenti merci: alcool, acque gassose, birra, acido acetico, cicoria, olio di cotone, oli minerali, fiammiferi, polveri piriche, gas ed energia elettrica, glucosio, zucchero; mentre invece i dazi doganali colpiscono forse più di mille voci. La ragione di ciò è che il nostro sistema tributario doganale non ha solo intenti fiscali, ma anche protettivi: vuole cioè colpire certe merci provenienti dall’estero, non collo scopo di tassarle sul serio, ma di impedirne l’introduzione nello Stato. Perciò è necessario colpirle col dazio doganale, ma non colpire le similari interne coll’imposta di fabbricazione.

 

 

Il medesimo criterio protezionistico vale a spiegare come anche le poche imposte di fabbricazione siano inoltre quasi sempre inferiori, nei casi in cui l’importazione dall’estero è possibile, al dazio doganale sulla similare merce estera. Si vuole promuovere la produzione interna e perciò il fisco si contenta della minore imposta di fabbricazione (76.15 per lo zucchero [nel 1916], 270 per gli spiriti) e rinuncia all’esazione del maggior dazio doganale (99 per lo zucchero e 270 + 50 per gli spiriti).

 

 

Queste deviazioni protezionistiche hanno grande importanza di fatto; ma non turbano in nulla la verità dei principi che sopra furono esposti e che si impongono quando si supponga che il sistema fiscale debba essere costruito esclusivamente per procacciare entrate al fisco e non a gruppi di industriali protetti. La quale ipotesi è indispensabile per noi che ragioniamo di imposte pubbliche e non di tributi stabiliti per scopi protettivi a favore di privati industriali.

 

 

343. I periodi di applicazione delle imposte di fabbricazione in Italia. – Il gruppo delle imposte di fabbricazione in Italia si è andata sviluppando in parte sotto la pressione di motivi fiscali ed in parte sotto quella di motivi protezionistici. Alcuni principali periodi si possono segnalare.

 

 

Il primo periodo va dall’unificazione sino all’83 ed è caratterizzato dall’esistenza di una sola grande imposta di fabbricazione in mezzo ad alcune altre trascurabili, la famosa imposta sul macinato che colpiva i cereali all’atto della macinazione, ossia la farina all’atto della fabbricazione. Questo tributo diede frutti cospicui alle finanze dello Stato: era arrivato a dare in fine quasi 100 milioni di lire annue. Fu abolito in parte nel 1883 e completamente a partire dall’1 gennaio 1884 per opera della sinistra, (partito che nel 1876 andò al potere cacciandone la destra) non ostante le forti opposizioni del senato che non vedeva con qual altro mezzo si potessero avere dei proventi così cospicui, come quelli che allora erano forniti dal macinato. Non ci sarebbe niente da osservare contro l’abolizione del macinato, essendo dessa un contributo scorrettissimo, come quello che colpiva i consumi risparmio e doveva essere soppresso appena il miglioramento finanziario del paese lo avesse consentito. Senonché la stessa sinistra che aveva operato l’abolizione del macinato, pochi anni dopo stabilì un dazio doganale sul grano che a poco a poco progredì da L. 1,50 a 3 a 7,50 per quintale, cifra che vige tuttora e produsse un aumento fortissimo del prezzo del grano, molto più forte di quello che era frutto dell’imposta sul macinato, anzi quasi quadruplo. Il vecchio macinato colpiva con L. 1,50 ogni quintale di frumento; mentre il dazio sul grano è di L. 7,50 per quintale. Né soltanto l’odierno «simpatico» dazio sul grano è quadruplo dell’antico «odiatissimo» macinato; ma vi è un’altra differenza tra l’imposta sul macinato e il dazio doganale sul grano e non ridonda certo a favore del dazio. L’imposta sul macinato invero aveva il pregio di andare ad accrescere intieramente i proventi dello Stato, serviva ciò per fini pubblici. Invece, siccome il dazio doganale è esatto soltanto per il grano che viene dall’estero, sono soltanto 75 milioni in media che lo Stato riscuote sui 10 milioni di quintali di frumento che provengono dall’estero; ed i consumatori sopportano, come già si dimostrò in altra lezione, un aumento di prezzo non solo sul grano estero ma anche sull’interno, perché tutti i produttori interni crescono il prezzo di tutto l’ammontare dell’imposta. Supponendo che il grano prodotto all’interno sia di 50 milioni e supponendo anche che un terzo sia consumato in natura dai piccoli proprietari, mezzadri, piccoli affittavoli, ecc., i consumatori pagano il tributo sui 10 milioni di quintali introdotti dall’estero più sui due terzi dei 50 milioni prodotti all’interno, ossia su 33, in tutto su 43 milioni, ossia pagano più di 300 milioni. Il cambio del macinato col dazio sul grano ha fatto siche i contribuenti paghino 300 invece di 120 milioni, quanto avrebbero oggi pagato su 60 milioni di quintali a 2 lire per quintale; e il fisco incassi 75 invece di 120, la differenza andando a favore dei proprietari di terre a grano. Senza alcun dubbio l’imposta sul macinato era molto da preferirsi fiscalmente all’attuale dazio doganale.

 

 

In un secondo periodo, che va dall’81 al 94, predomina in questo gruppo d’imposte quella sugli spiriti: l’intero gruppo rende una trentina di milioni allo Stato. Di questi 30 milioni 24 o 25 provengono dall’imposta sugli spiriti.

 

 

Nel 1894 cominciò il terzo ed odierno periodo. L’Italia attraversa allora un periodo storico sfortunato; è il tempo della guerra d’Africa; si verificano disavanzi fortissimi nel bilancio dello Stato; onde è necessario cercare nuove entrate. Nuove imposte di fabbricazione vengono cercate e risalgono a quel tempo le imposte sui fiammiferi, sulla luce elettrica, sul gas luce, ond’è che ora il provento delle imposte di fabbricazione non può attribuirsi prevalentemente ad una voce sola ma deve distribuirsi tra parecchie voci. Insieme esse rendono dai 180 ai 200 milioni di lire, di cui circa 100/110 son dati dall’imposta sugli zuccheri, 40 da quella sugli spiriti, 11 dall’imposta sui fiammiferi, 14/15 da quella sul gas luce e sulla luce elettrica, 8 dall’imposta sulla birra ed il resto dalle altre imposte sulla cicoria, sulle acque gazose, ecc.

 

 

B) Dell’imposta sugli spiriti in particolare.

 

344. Ragione del parlare degli spiriti e degli zuccheri in particolare. – Di tutte queste imposte non mette conto, data la ristrettezza del corso, di parlare in modo particolare. Sarà però opportuno spendere poche parole sulle imposte dello zucchero e degli spiriti, perché queste due imposte che per sé sarebbero ottime – quella sugli spiriti sopratutto – se l’aliquota non fosse elevata, sono guastate per la degenerazione dell’imposta in istrumento protettivo in favore di tali e tal altre classi di produttori; ed anche perché danno modo di accennare alle principali maniere tenute nell’accertamento della materia imponibile.

 

 

345. Bontà dell’imposta degli spiriti. – L’imposta sugli spiriti insieme a quella sui tabacchi, sarebbe l’ideale delle imposte sui consumi, anzi di qualunque tipo d’imposta, perché colpisce un consumo voluttuario e può in certa misura esercitare un’efficacia morale sul consumatore parallelamente a un vantaggio dell’erario se l’aliquota non sia né troppo bassa né troppo elevata. Quindi non solo nell’interesse del fisco, ma anche dell’igiene l’aliquota non deve essere spinta troppo in là; ma ci può essere un punto, indicato dall’esperienza, per l’Italia oggi probabilmente tra 250 e 300 lire al quintale, in cui si ha il massimo rendimento per lo Stato conciliato col beneficio massimo per l’igiene.

 

 

346. Errori tecnici di applicazione e graduale perfezionamento metodi dell’abbonamento, della tassazione indiziaria e della tassazione sulla quantità effettiva. – Nell’applicazione però di questa imposta si sono commessi errori che prima erano inevitabili e solo dopo assunsero altra forma, perché furono voluti. Gli errori che dapprima si commettevano erano errori di tecnica di esazione.

 

 

Nel 1870-71 l’imposta sugli spiriti era bassa, di 20 lire per ettolitro e si esigeva inoltre con un sistema poco perfetto, cioè per abbonamento. Il fisco faceva cioè un abbonamento cogli industriali contrattando per una certa quantità di produzione. Naturalmente gli industriali cercavano di fare un abbonamento minore della quantità di merci realmente prodotta, onde venivano a pagare un’imposta minore di quella cui avrebbero dovuto sottostare.

 

 

Perciò nel 1875, quando l’imposta fu portata a L. 30, si ricorse al metodo della tassazione indiziaria, che certo fu un progresso. Non si facevano più abbonamenti e neppure si accertava la quantità effettiva di merce prodotta da ogni fabbricante, si accertava invece la quantità di materia prima introdotta dai fabbricanti nello stabilimento; quindi la quantità di vinacce, di melassa, di fecole, di cereali guasti, ecc. e poi si calcolava la quantità di spiriti che da quelli si poteva estrarre. Il sistema poteva essere considerato corretto se si fossero potuti fare calcoli presuntivi precisi; ma in realtà questi coefficienti si erano stimati troppo bassi: si stimava infatti il coefficiente di resa per certa materia prima intorno al 3,90%, mentre in realtà se ne estraeva il 7,8%; ecco quindi che i fabbricanti avevano metà dei propri prodotti in franchigia di qualsiasi imposta. Ad ogni modo il sistema aveva accresciuto i proventi. Mentre nel 71, quando vi era il sistema degli abbonamenti, l’imposta rendeva 540 mila lire, nel 79, ultimo anno dell’applicazione del sistema per accertamento indiziario, il provento era già arrivato ai 2 milioni. In seguito si perfezionò ancora il sistema. Si applicarono misuratori meccanici e la tassa fu esatta in genere non più sulla quantità presunta, ma sulla quantità effettivamente prodotta di spiriti. Ciò permise di aumentare, senza troppi timori di frode, l’imposta, che fu portata a L. 60 nell’80, a 100 nell’83, nell’85 a 150. Nell’87 il provento fu di 32 milioni e si sarebbe dovuto fare una pausa nell’aumento della imposta. Invece si continuò ad aumentare l’aliquota. Nell’87 fu aumentata a 180 lire, nell’88 furono aggiunte 60 lire d’imposta di vendita, totale dell’imposta 240 lire.

 

 

I risultati furono disastrosi; dai 32 milioni dell’86-87 si discese a 26 nell’87-88, ed a 18 nell’89-90; ciò dimostra che si esercitava felicemente il contrabbando; e che il consumo legale erasi grandemente ridotto. Allora si nominò una delle solite commissioni che non poté che dimostrare che l’aliquota era stata troppo elevata. Onde l’imposta fu ribassata di nuovo a 140 lire. In questo periodo che si può dire dei perfezionamenti tecnici, l’esperienza persuase: 1) che l’imposta non poteva essere efficacemente esatta col metodo per abbonamento, né col metodo indiziario, ma che si doveva ricorrere all’accertamento diretto, mediante contatori meccanici. Non in tutti i casi si riuscì nell’intento; né dappertutto la sorveglianza è perfetta. Ma molto cammino si è già percorso su questa via; 2) che l’altezza dell’imposta non poteva sorpassare un certo segno, se non si voleva far sorgere il contrabbando. Nel 1889, come fu detto, l’aliquota fu dovuta ridurre a 140 lire, perché da una tassa più elevata il consumo risultava troppo danneggiato. In seguito l’aliquota fu riportata a 180 nel 1895, a 200 nel 1905 e a 270 nel 1910 (decreto catenaccio 21 settembre).

 

 

Questi aumenti non furono dannosi al fisco, sia perché in realtà, dato il sistema degli abbuoni, di cui parleremo subito, il gravame dell’imposta è in realtà minore, sia perché nel frattempo la ricchezza italiana è cresciuta e quell’imposta che prima sembrava incomportabile, è ora divenuta tollerabile ai consumatori.

 

 

347. Gli abbuoni protezionistici di imposta a favore di talune categorie di produttori di materia prima per l’alcool. – nel 1890 entra in scena un nuovo elemento. Si cominciarono a verificare in quel torno di tempo le crisi vinicole; nell’87 si era rotto il trattato di commercio colla Francia. Le Puglie si trovarono con un’enorme quantità di vino invenduto che dovevano vendere nell’alta Italia. Di qui crisi dei produttori di vino che pensarono di riuscire a vendere il loro prodotto trasformandolo in spirito. Soltanto volevano ottener questo con favori dati dallo Stato e perciò si inventarono gli abbuoni alle imposte sugli spiriti. La condotta dello Stato rispetto a quest’imposta avrebbe dovuto essere una sola. Mettere cioè l’imposta sugli spiriti senza riguardo alla materia prima adoperata, perché l’oggetto della tassazione è lo spirito consumato e nulla importa si consumi spirito di vino o di patate.

 

 

Invece si volle fare un favore ai viticultori concedendo gli abbuoni. Lo spirito apparentemente è tassato con 270 lire all’ettolitro, ma poi si danno abbuoni diversi ai produttori a seconda della materia prima adoperata.

 

 

Il pretesto addotto è quello che occorre tener conto dei cali, dispersioni ed ogni altra passività, comprese anche le perdite provenienti da temporaneo imperfetto funzionamento del misuratore.

 

 

Trattasi di un pretesto; poiché la tassazione essendo fatta sullo spirito effettivamente prodotto, non c’è ragione di indugiare con che spese e con che processi produttivi sia stato ottenuto. Ci pensino i produttori a scegliere i metodi meno costosi e più redditizi. In realtà si è voluto dare un premio alla distillazione di certe materie prime a preferenza di certe altre.

 

 

Ecco qual era il sistema vigente al principio del 1913.

 

 

Lire

IMPOSTA NOMINALE PER ETTOLITRO

 

270

  I CATEGORIA che producono alcool di sostanze amidacee, ³ residui di zuccheri, melasse, uva secca, ecc.

270

IMPOSTA EFFETTIVA per le fabbriche II CATEG. che producono alcool di frutta, vino e materie vinose  

Con misuratore

che distillano miele o radici

260

che distillano esclusivamente frutta, vinacce od altri cascami della vinificazione non cooperative

240

cooperative

230

Senza misuratore ossia tassate in base alla produttività giornaliera dei lambicchi che distillano esclusivamente vino anche guasto o vinello non cooperative

220

cooperative

200

non cooperative  

260

cooperative  

254

 

 

Si vede che lo Stato predilige e quindi tassa di meno il vino ed il vinello delle frutta, e vinacce, e preferisce queste in confronto al miele, e questo in confronto ai cereali, fecole e melasse che sono più tassati di tutti. Onde in tal modo diventa conveniente, estrarre lo spirito dal vino, perché è meno tassato. Così lo Stato predilige le cooperative in confronto agli industriali che non sono cooperatori, intendendo per cooperative quelle legalmente costituite da proprietari e coltivatori di fondi, e purché le materie della distillazione provengano dalle uve prodotte nei fondi posseduti e coltivati dai soci; onde molti per incanto diventarono grandi cooperatori, perfino delle persone che avevano migliaia di ettari coltivati a vite.

 

 

Gli abbuoni dati allo spirito di vino e vinello dovrebbero essere un modo per rimediare alle crisi vinicole. Ma alle crisi non si rimedia che in un sol modo: lasciando fallire quelli che hanno prodotto più merce che non fosse necessario. Così avvenne a Torino per la crisi delle automobili. Se lo Stato non avesse lasciato fallire i fabbricanti di automobili meno solidi, essi avrebbero continuato a produrre la stessa quantità di automobili colla certezza di venderli allo Stato. Invece, falliti i nove decimi dei fabbricanti, quelli che restarono hanno ormai assestati i loro affari. Se i produttori di vino in caso di crisi sono sicuri di venderlo trasformandolo in spirito privilegiato di fronte alle imposte, essi continuano a produrre le stesse quantità di vino e le crisi continuano all’infinito. Del resto non è necessario che i viticultori vadano in rovina, per rimediare alle crisi. L’esperienza ha dimostrato che ai raccolti abbondantissimi di uve succedono i raccolti scarsi, e quindi i viticultori potrebbero sottrarsi alle conseguenze delle crisi organizzando meglio la produzione e la conservazione alle annate scarse. Certo, per ottenere ciò, è necessaria una migliore organizzazione, energia di risparmio e perseveranza nella condotta dell’industria. Ma è la sola via buona. Disgraziatamente, finché nelle annate di crisi il governo interviene ed offre abbuoni nell’imposta sugli spiriti a spese dei contribuenti i viticultori troveranno sempre che è molto più comodo non preoccuparsi dell’avvenire e fidarsi nella paterna tutela governativa.

 

 

Il governo non può seguitare a mettere delle imposte a carico dei contribuenti per far comperare la merce prodotta da coloro che si trovano in crisi; poiché crisi ce ne sono sempre, e si verrebbe acquistando a poco a poco il diritto di vivere a carico del governo. Rimedio dunque per le crisi non ci fu, bensì danno grave per il fisco, insieme con la perpetuazione delle cause (mancanza di organizzazione e di previdenza) che in passato furono la causa delle crisi.

 

 

348. Le restituzioni di imposta per esportazione. – Un’altra maniera con cui l’imposta sugli spiriti è guasta, come strumento fiscale, ed è trasformata in uno strumento protettivo, è la restituzione dell’imposta pagata.

 

 

L’imposta di fabbricazione, come non si può scindere dal dazio doganale, così non si può immaginare senza l’accompagnamento della restituzione dell’imposta all’atto della esportazione. Tizio, fabbricante italiano di spiriti di prima categoria, ha pagato 270 lire di imposta di fabbricazione per ogni ettanidro di spiriti da lui prodotto all’estero e se le 270 lire pagate non gli fossero restituite all’atto dell’esportazione, egli si troverebbe impossibilitato a resistere ai concorrenti esteri; perché a questi, sui mercati internazionali, lo spirito costerebbe, ad es., 100 lire all’ettanidro (l’ettanidro è l’ettolitro di spirito a 100 gradi), mentre a lui costerebbe 100 + più l’imposta 270 = 370. La restituzione del resto è logica perché l’imposta di fabbricazione grava sul consumo interno e non sul consumo degli stranieri, essendo un’utopia volere gravare questo e risultando il tentativo solo a danno dell’industria nazionale, a cui viene assolutamente vietato di esportare all’estero.

 

 

Se però la restituzione dell’imposta pagata è un corollario logico e necessario di un buon sistema di imposte di fabbricazione, deve essere «restituzione» pura e semplice e non «premio». Si ha «premio» quando la finanza restituisce una somma maggiore di quella che ha riscossa a titolo di imposta. Per gli spiriti si ha, ad esempio, (norme vigenti al principio del 1913) una limitata applicazione del sistema del premio perché:

 

 

  • 1) fino a 50.000 ettanidri di spirito ottenuto con la distillazione di vino e vinacce si restituiscono 270 lire effettive per ettanidro; mentre in realtà, come sappiamo, l’alcool di vino non cooperativo ha pagato 220 lire soltanto a quello cooperativo L. 200 e l’alcool di vinacce ha pagato L. 240 e 230 a seconda che è, diremo così, «capitalistico» o «cooperativo». Sono 70, 50, 40 e 30 lire di premio di esportazione date all’alcool a seconda della qualità; premi che il fisco paga, a carico dei contribuenti in genere, senza averli prima riscossi, allo scopo di incoraggiare l’esportazione dell’alcool di vino e vinacce;
  • 2) per successivi 50.000 ettanidri di spirito esportato, derivante da qualunque materia, si restituiscono 250 lire per ettanidro, sebbene l’alcool di vino e vinacce abbia pagato somme un po’ inferiori. Il premio è un po’ minore, ma tuttavia rilevante;
  • 3) per tutta la quantità di spirito esportata in più, oltre il secondo limite dei 50.000 ettanidri, si restituisce solo la tassa effettivamente pagata. Questa è vera restituzione, non quella dei due primi gradi, per cui vi è premio. Il qual premio consiste in un sacrificio che il tesoro, o meglio i contribuenti sono chiamati a fare affinché i produttori di alcool di vino e di alcool possono vendere all’estero più facilmente il loro alcool. Vendere più facilmente vuol dire vendere a sotto costo, vendere cioè a meno del costo agli stranieri, perché la differenza è pagata dai contribuenti italiani. Siccome il favore è fatto, in sostanza, solo ai distillatori di vino e di vinacce, così evidente che tutto questo armeggio è fatto per permettere ai produttori di vino di svendere all’estero, sotto forma di spirito, il vino che, in tempi di crisi non riescono a vendere all’interno.

 

 

I premi di esportazione degli spiriti sono condannabili:

 

 

  • 1) perché non rimediamo alle crisi vinicole ed anzi le aggravano, addormentano i viticultori ed alienandoli dalla ricerca di quei metodi industriali e commerciali che solo potrebbero risanare l’industria;
  • 2) perché sono un gravame ingiusto per i contribuenti chiamati a salvare certi industriali dalle crisi dovute alla loro imprevidenza;
  • 3) perché, col sacrificio dei contribuenti nazionali, si avvantaggiano i consumatori esteri, i quali hanno la fortuna di comprare 100.000 ettanidri di spirito a sottocosto.

 

 

C) Dell’imposta sugli zuccheri in particolare.

 

349. Indole dell’imposta sugli zuccheri. – L’imposta di fabbricazione sugli zuccheri sarebbe anch’essa tra le buone se non fosse guasta da scopi che non sono fiscali. Lo zucchero è una discreta materia tributaria, sebbene non eccellente come gli spiriti. Non si può negare che lo zucchero, sia nel nostro paese ancora considerato per lo più come un consumo non di primissima necessità, ma secondario. Altrove, come in Inghilterra, il consumo dello zucchero è forse decuplo di quello italiano (50 Kg contro 5 circa) ed è oramai considerato come un consumo di prima necessità, un consumo risparmio. Ha applicazione, per lo zucchero che come per altre derrate, l’osservazione altrove fatta (paragrafo 303 e 304) che il minimo di esenzione sia una quantità non fissa, ma variabile a seconda dei tempi, dei popoli e delle classi sociali. L’imposta sugli zuccheri, per essere produttiva e corretta, deve essere moderata nel suo ammontare ed essere congegnata in modo che il suo prodotto totalmente fluisca nelle casse dello Stato. Per avere perduto di vista questo concetto che l’imposta sullo zucchero deve servire soltanto allo Stato e deve essere regolata in modo da non deprimere troppo i consumi, lo zucchero da un secolo a questa parte è diventato, come diceva Sir Stafford Nerthcote, antico cancelliere dello scacchiere (ministro del tesoro) dell’Inghilterra e storico della finanza inglese, «l’eroe di tanti bilanci e il tormento di tanti ministri».

 

 

350. Il protezionismo allo zucchero interno e l’imposta. – La questione della tassazione dello zucchero si può dire sia sorta con Napoleone, perché è all’epoca del blocco continentale ordinato da lui per isolare l’Inghilterra, che si dovette dare sviluppo alla fabbricazione dello zucchero di barbabietola. Anche noi Italiani nell’ultimo trentennio seguimmo la viziosa corrente universale e cercammo di incoraggiare la produzione interna dello zucchero di barbabietole, mettendo dei dazi di importazione sullo zucchero estero, superiori all’imposta che grava sullo zucchero interno, e lo zucchero che si importava sopportava un dazio di 20,80 se grezzo e 28,85 se raffinato. Chiamiamo raffinato, per seguire il linguaggio comune, quello zucchero che meglio la legislazione nostra chiama di prima classe, il quale ha un rendimento in raffinato superiore al 94% e prezzo quello che la legislazione chiama di seconda classe, perché ha un rendimento in raffinato inferiore al 94 per cento. Poi si mise l’imposta anche sullo zucchero interno, imposta che andò crescendo, conservandosi però sempre inferiore di 20,80 e 28,85, rispettivamente per le due qualità, al dazio doganale.

 

 

Nel 1877 l’imposta sullo zucchero interno era di 21,15 mentre sullo zucchero estero il dazio doganale era di 21,15 più 20,80 ossia di 41,95. Per lo zucchero raffinato: imposta interna 21,15, dazio sull’estero 50. Nel 79 l’imposta interna sul greggio fu aumentata a 32,20 e il dazio doganale a 53 lire. Cosicché la differenza continuava a essere sempre la stessa, di 20,80. Sul raffinato i due valori erano 37,40 e 66,25. Con legge dell’8 agosto 1895 finalmente l’imposta interna fu portata a 67,20 ed il dazio doganale a 67,20 più 20,80, ossia a 88 lire. Per lo zucchero raffinato l’imposta interna fu fissata a 70,15 ed il dazio sul raffinato estero a 70,15 più 28,85, ossia a 99 lire. Questo sistema protezionistico diede luogo a uno sviluppo notevole della produzione interna. E si comprende, perché i consumatori interni devono pagare lo zucchero al prezzo internazionale che è, ad esempio, di lire 31 per quintale più l’intero ammontare di L. 99 del dazio doganale, cioè 130 lire al quintale. I fabbricanti interni, sebbene paghino meno l’imposta, non vendono più a buon mercato di 130 lire, essendo sicuri che, se i consumatori volessero comperare lo zucchero altrove, non lo troverebbero a meno di 130 lire.

 

 

351. La protezione ed i metodi indiziari di tassazione. – Si aggiunga a ciò, che per lunghi anni e cioè sino alla legge 2 luglio 1902 la protezione effettiva era anche maggiore di quella detta sopra di 28,85 ogni quintale. E ciò perché il dazio sullo zucchero importato si è sempre esatto sulla quantità di zucchero effettivamente importata, mentre invece non tutto lo zucchero interno veniva colpito dall’imposta, in quanto anche per lo zucchero si applicava il sistema della tassazione indiziaria di cui abbiano già parlato dicendo degli spiriti. Si riteneva cioè che fosse troppo complicato tassare il prodotto reale e si tassava la quantità di zucchero che si credeva dovesse essere prodotta sulla base di certi coefficienti di produzione. Si accertava cioè la produzione prima ch’essa fosse giunta all’ultimo stadio della fabbricazione. Si misurava, ad es., la quantità di liquido nelle caldaie e si faceva la presunzione che si estraessero 1.500 grammi di zucchero per una certa quantità di sughi purificati, a un certo grado di calore. Invece i produttori con metodi sempre più perfezionati producevano molto di più di quanto indicassero le presunzioni, anche 2.000 e 2.200 grammi invece di 1.500. L’imposta veniva quindi a lasciare esente magari una terza parte del prodotto; in apparenza si pagavano 67,20 per quintale; ma in realtà si finiva di pagar di meno, forse 50 lire; e quindi i fabbricanti avevano un margine di produzione che era eguale alla differenza tra 50 e 99 (dazio doganale). La protezione era quindi enorme; onde la produzione nazionale si sviluppò fortissimamente.

 

 

Le cifre esterne sono le seguenti:

 

 

Nell’esercizio 1897-98 vi erano 4 fabbriche di zucchero nazionale; esse producevano 38.000 quintali, quantità insufficienti per il consumo nazionale, onde bisognava importare dall’estero 742.000 quintali di zucchero, cioè i 19-20 del consumo nazionale. Nell’esercizio 1900-901 le proporzioni si sono rovesciate. Dall’estero invece che 742.000 vengono soltanto 400.000 quintali e la produzione interna da 38.000 è salita a 600.000 quintali.

 

 

352. Il protezionismo zuccheriero europeo e la politica dei premi. – A questo punto la questione si complica e diventa internazionale. Ciò che avevano fatto noi, avevano fatto tutti i paesi stranieri; i quali anch’essi avevano stabilito dazi protettori contro l’importazione estera, perché ogni nazione potesse avere la soddisfazione di consumare zucchero nazionale.

 

 

Soltanto l’Inghilterra non aveva protezione.

 

 

Il fisco cominciò ad allarmarsi; e con legge dell’1 marzo 1900 aumenta da 1.500 a 2.000 grammi il coefficiente di resa, così da diminuire la protezione larvata concessa in tal maniera. Ma siccome i fabbricanti invece di 2.000 grammi ne ricavavano di più, forse 2.200 o 2.300 grammi, così la loro protezione è ancora superiore a 28,85 lire al quintale; e così la produzione italiana continua a crescere e nel 1902-903, essendo le fabbriche attive 33, giunge a 954 mila quintali, mentre l’importazione dall’estero diminuisce a 100 mila quintali.

 

 

Nessuno avrebbe avuto a lagnarsi di questo incremento di una grande industria nazionale, se desso non fosse avvenuto a spese dei consumatori, i quali pagavano il prezzo aumentato di 99 lire, mentre il fisco incassava 30 e forse più lire di meno, la qual differenza costituiva un vero tributo pagato agli zuccherieri.

 

 

A poco a poco sotto lo stimolo degli alti dazi, i paesi europei produttori di zucchero avevano superato con la loro produzione interna il punto di saturazione del mercato interno. S’intende, «punto di saturazione» supponendo che i produttori interni volessero vendere all’interno ad un prezzo uguale al prezzo internazionale (supponiamo, per mantenere i dazi di prima, 31 centesimi per Kg) aumentato del dazio protettore (supponiamo 99 centesimi), ossia in tutto ad un prezzo interno di L. 1,30 all’ingrosso e forse 1,50 al minuto. Se durava così, che cosa sarebbe accaduto in Francia, Germania, Austria, ecc.? Che i fabbricanti nazionali, producendo un enorme quantità di zucchero, maggiore di quella che la nazione non potesse assorbire, avrebbero dovuto ridurre il prezzo per i consumatori nazionali, di guisa che avrebbero dovuto finire per stabilirsi prezzi relativamente bassi. È quello che accade sempre nella protezione. In Italia, siccome si vende solo la quantità necessaria al consumo e cioè circa 1.500.000 quintali nel 1913, si può mantenere il prezzo di L. 1,30 all’ingrosso e 1,50 al minuto; (30 centesimi prezzo internazionale, 1 lira d’imposta e 20 centesimi costo della rivendita al minuto); ma, se si producessero 1.800.000 quintali invece di 1.500.000, i produttori dovrebbero ridurre ed anche di parecchio il prezzo interno e non godrebbero più dell’intiera protezione doganale. Ciò si verificò all’estero per lo zucchero, ma era naturale che ciò non piacesse ai produttori e allora si inventò il sistema dei premi di esportazione. Dissero costoro: noi non abbiamo più profitti sufficienti, è necessario poter esportare all’estero (l’estero non era poi che l’Inghilterra) per potere liberare il mercato interno dalla produzione sovrabbondante e tenervi sostenuti i prezzi. Purtroppo parecchi governi stranieri cominciarono a stabilire premi di esportazione allo scopo di liberare il mercato dall’eccedenza nella produzione dello zucchero.

 

 

353. Diverse specie di premi all’esportazione. – I premi all’esportazione possono essere di due specie principali.

 

 

  • a) premi pubblici e questi alla loro volta si dicono:
    • 1) diretti o palesi, quando il governo di uno Stato palesemente dà 5, 10, 15 lire di premio per ogni quintale di una merce o derrata, ad es., zucchero, la quale venga esportata all’estero;
    • 2) indiretti o larvati, quando il governo in apparenza non dà premi, ma restituisce però una imposta di fabbricazione maggiore di quella effettivamente pagata. È il caso degli spiriti di cui si è parlato sopra (paragrafo 348): e poteva essere il caso, prima della legge 2 luglio 1902, degli zuccheri in Italia. Infatti il contribuente, a causa del sistema indiziario di tassazione, di fatto pagava L. 67,20 solo sui nove od otto o sette decimi della quantità effettivamente prodotta; ossia pagava solo i nove, gli otto, i sette decimi di L. 67,20, mentre all’atto dell’esportazione avrebbe avuto diritto di riscuotere tutte le L. 67,20 come se le avesse tutte effettivamente pagate. In Italia l’esportazione non aveva luogo, perché allora (1902) i produttori non producevano abbastanza zucchero per il mercato interno, e trovavano assai più conveniente utilizzare il mercato interno, che offriva prezzi assai convenienti. Ma altrove invece, che poteva verificarsi a prezzi alti (ad es., L. 1,30 all’ingrosso), i produttori preferivano di esportare il sovrappiù godendo del premio larvato di esportazione.

 

 

  • b) premi privati, i quali non sono distribuiti dallo Stato; ma dagli stessi industriali privati. Suppongasi che in un paese al prezzo di L. 1,30 all’ingrosso al Kg (L. 1,50 al minuto) i consumatori comprino 1.500.000 quintali. Supponiamo che la protezione doganale sia di 25 lire al quintale, differenza tra 100 lire dazio doganale e 75 lire imposta interna. I produttori se producono e vendono solo 1.500.000 quintali, incassano 130 lire al quintale, spendono 75 lire di imposta, 30 lire di costo della merce e guadagnano 25 lire, uguali alla protezione doganale; ossia guadagnano in tutto L. 25 X 1.500.000 = L. 37.500.000.

 

 

Se, disgraziatamente per essi, a causa di buoni raccolti di barbabietole o per il cresciuto numero delle fabbriche, la produzione sale a 2 milioni di quintali, i produttori interni si trovano di fronte al dilemma:

 

 

  • vendono all’interno tutti i 2 milioni di quintali e li potranno vendere solo a prezzo ribassato, ad es., di L. 110 al quintale. Il guadagno, rimanendo fissa l’imposta a L. 75 ed il costo dello zucchero a L. 30, si riduce a L. 5 per quintale, che su 2 milioni di quintali fa 10 milioni di lire. La perdita è fortissima per i produttori;
  • ovvero costituiscono un consorzio (trust, sindacato, «unione zuccheri») fra di loro; e si obbligano a vendere all’interno solo 1.500.000 quintali, al prezzo solito di L. 130 e col guadagno solito di 25 lire per quintale e di L. 37.500.000 in tutto; Da questo lucro complessivo di L. 37.500.000 il consorzio per la vendita preleva, supponiamo, 7.500.000 lire e le distribuisce in altrettanti premi di L. 15 per quintale a coloro tra i consorziati che esportano all’estero i 500.000 quintali che sono di troppo all’interno. Di troppo, intendiamoci, non in via assoluta, ma relativamente al desiderio dei fabbricati di conservare i prezzi interni a L. 130 al quintale. Esso il premio privato, distribuito cioè non dal governo ma dal consorzio degli stessi produttori. L’esportazione dei 500.000 quintali è facile a farsi; perché il produttore ha speso 30 lire come costo dello zucchero (non teniamo qui conto delle 75 lire d’imposta, la quale viene rimborsata all’atto della esportazione), ne riceve 15 di premio dal consorzio; e può, senza perdere e senza guadagnare, vendere la merce all’estero a L. 30 costo meno 15 di premio ossia a L. 15 per quintale. Chiamasi questa vendita a sottocosto, ed è innocua per il venditore, il quale guadagna sulla vendita interna, e vantaggiosissima per il consumatore straniero. Questa seconda via è più utile della prima per i produttori interni, perché colla prima il loro guadagno veniva ridotto a 10 milioni di lire, mentre con questa seconda guadagnano ancora 30 milioni di lire. Che ne va di mezzo è il consumatore interno, il quale con la prima via avrebbe avuto lo zucchero a L. 1,10 al quintale, con la seconda deve pagarlo L. 1,30 e ciò allo scopo di mantenere i guadagni dei produttori nazionali e di vendere la produzione – esuberante a L. 1,30, ma che a lui farebbe assai comodo a L. 1,10 – a sottocosto agli stranieri.

 

 

354. La situazione dell’Inghilterra, le colonie produttrici di zucchero di canna e la conferenza di Bruxelles. – I consumatori stranieri che traevano partito da questa strana situazione di cose, per cui sul continente europeo i produttori erano interessati da premi pubblici, palesi o larvati, e privati a vendere all’estero a sottocosto, erano gli inglesi. Prima del 1902 tale era la follia dei governi continentali che i consumatori inglesi potevano avere lo zucchero premiato a prezzi incredibilmente bassi, perfino 20 o 25 centesimi al Kg. Onde il grandissimo consumo di zucchero come materia prima (marmellate, dolci, canditi, conserve ecc. ecc.). Eppure i più accaniti ad agitarsi contro questa, per loro felice, situazione di cose furono – cosa a prima vista strana – gli inglesi. Il fenomeno si produsse verso il 1901. A quell’epoca il partito dominante in Inghilterra era il conservatore, il quale, sotto l’influenza dello Chamberlain aveva abbracciato un programma imperialista e mirava all’unione più stretta di tutte le colonie con la madre patria. Voleva lo Chamberlain che si stabilissero reciproci favori doganali tra le colonie e la madre patria, istituendo invece dazi protettori contro gli altri paesi, per creare un più saldo organismo economico pan britannico. Giusta o falsa che fosse, era questa la politica allora dominante, e fu feconda di notevoli effetti anche per lo zucchero. In quell’epoca le Antille inglesi che erano state già le più grandi produttrici dello zucchero di canna, si trovavano in condizioni depresse, perché dovevano far fronte alla concorrenza dello zucchero di barbabietola delle altre nazioni, che si vendeva al di sotto del costo. Dicevano le Antille: noi siamo disposte a esportare lo zucchero di canna a perfetta parità di prezzo con lo zucchero europeo di barbabietole, cioè in condizioni di libera concorrenza; ma ci lamentiamo che lo zucchero di barbabietola sia importato in Inghilterra per essere venduto al disotto del costo. Non è leale questa concorrenza in quanto che i governi di Francia, Austria, ecc. mettono imposte enormi sui loro contribuenti per poter vendere il loro zucchero in Inghilterra ad un prezzo inferiore al costo. La politica imperialista, che dominava allora, accettò questi lagni; lo Chamberlain provocò parecchie conferenze internazionali; di cui l’ultima nel 1902 fu tenuta a Bruxelles.

 

 

L’Inghilterra così cercava di contentare le colonie, con danno dei consumatori inglesi e delle industrie inglesi quali quelle delle frutta candite, marmellate, dolci ecc. che erano fiorite col deprezzare dello zucchero. In fondo non era l’Inghilterra che volesse recar vantaggio a sé stessa; essa faceva un bel gesto e con un atto di altruismo sacrificava i propri consumatori di fronte agli interessi coloniali. I paesi continentali aderirono ben volentieri alla conferenza perché venivano per tal modo a togliersi da un imbarazzo, diminuendo la protezione dello zucchero interno che aveva provocato la produzione eccessiva, con relativa esportazione, e inevitabili premi che si risolvevano in oneri per la finanza dello Stato.

 

 

355. La Convenzione di Bruxelles e le sue clausole. – la convenzione di Bruxelles del 5 marzo 1902, ratificata dall’Italia con legge 12 febbraio 1903 stabilisce diverse norme obbligatorie per i paesi aderenti:

 

 

  • 1) Anzitutto i paesi aderenti alla convenzione debbono abolire i metodi indiziari di tassazione e tassare lo zucchero sulla quantità effettivamente prodotta. Anche l’Italia fu obbligata a ciò, di guisa che furono tolti i grossi vantaggi che avevano i fabbricanti quanto lo zucchero era tassato sulla base di presunzioni più o meno fallaci. Perché le potenze vollero abolire questo metodo? L’abbiamo già avvertito, notando che i metodi indiziari favoriscono i premi di esportazione; come quelli che accertano una quantità di produzione minore della effettiva. L’imposta viene esatta sulla quantità presunta, minore dell’effettiva; mentre il dazio doganale viene restituito sulla quantità effettiva (premio indiretto o larvato, di cui sopra al paragrafo 353). L’Italia, finché rimaneva nella convenzione, era obbligata ad attenersi a questa clausola; e difatti con la legge interna 2 luglio 1902 i metodi indiziari di accertamento furono aboliti e si sostituì l’accertamento della quantità effettiva di zucchero prodotto.
  • 2) La convenzione abolì inoltre esplicitamente tutti i premi diretti o palesi di esportazione. Nessun paese potrà dare premi palesi all’esportazione. Ciò per impedire il danno alle finanze degli Stati continentali e gli eccessivi ribassi di prezzi in Inghilterra dannosi alle colonie. Anche in Italia deve applicare questa clausola.
  • 3) In terzo luogo la convenzione stabiliche nessun paese aderente potesse proteggere l’industria interna con un dazio protettivo che superasse l’imposta interna di più di 6 lire per lo zucchero di prima classe o raffinato e di 5,50 per lo zucchero di seconda classe o greggio. Se l’Italia avesse dovuto applicare questa clausola, essendo l’imposta interna di fabbricazione sullo zucchero greggio di L. 67,20 per ogni quintale, il dazio sullo zucchero estero non avrebbe potuto essere superiore a 67,20 più 5,50 ossia a 72,70. E quello per il raffinato a 70,15 + 6 ossia a 76,15.

 

 

Perché si stabilì questa clausola? Perché una forte protezione agisce per se stessa da premio di esportazione anche se non vi sono premi pubblici né diretti (palesi) né indiretti (larvati). Già sappiamo come sorgono i premi privati: per il fatto che i produttori interni i quali, grazie alla protezione doganale, guadagnano 25 lire per quintale sullo zucchero venduto all’interno, ossia L. 25 X 1.500.000 quintali = L. 37.500.000, trovano conveniente prelevare su questo lucro una somma di due o tre milioni od anche, come nel nostro esempio ipotetico, di 7.500.000 lire per dare un premio di L. 15 ad ognuno dei 500.000 quintali esportati. Ma è chiaro che ciò possono fare perché sono protetti, e dalla protezione traggono il vantaggio di poter lucrare 25 lire sullo zucchero venduto nell’interno. Se la protezione non ci fosse, ossia se il dazio doganale fosse di 75 lire così come è l’imposta sullo zucchero all’interno sarebbe di 30 lire costo della merce ovverosia prezzo sul mercato internazionale, fuori dogana, più L. 75 di dazio doganale od imposta, in tutto L. 105 per quintale. Il ricavo lordo del fabbricante sarebbe di 105 lire, di cui ne dovrebbe pagare 75 a titolo di imposta e 30 lire gli rimarrebbero per rimborso del costo. Queste 30 lire possono contenere un profitto per lui, normalmente anzi devono comprendere l’interesse e l’ammortamento del capitale impiegato e la rimunerazione corrente dell’imprenditore. Ma il margine di profitto, essendo solo quello corrente, che si può ottenere in concorrenza con i produttori di tutto il mondo, non può dar modo ai produttori interni di costituire un fondo comune, con cui dare dei premi privati di esportazione allo zucchero che rimanesse esuberante al consumo interno. Anzi non ci sarebbe neppure bisogno di esportare, perché se a 130 lire si vendono all’interno 1.500.000 quintali, ribassando i prezzi a 105 lire, sotto la concorrenza dell’estero, tutti i 2 milioni di quintali potrebbero essere venduti sicuramente all’interno. Ed ammettiamo che gli industriali, senza ragione e con fondi ricavati da qualche fonte misteriosa, si ostino a dare dei premi alla esportazione; per es. di 5 lire per quintale. Essi possono vendere allora i 500.000 quintali sovrabbondanti all’estero a L. 30 – 5 = L. 25. Avranno fatto con ciò il loro danno; perché nulla vieta che quei 500.000 quintali dai compratori stranieri siano reimportati in paese, e venduti a 25 + 75 (dazio doganale) = L. 100. I negozianti stranieri avranno tutto l’interesse a far ciò perché in paese la merce si vende a 30 costo + 75 imposta = L. 105; mentre ad essi costa solo 100. Per guadagnare la differenza o parte di essa, i negozianti esteri hanno interesse a reimportare; ed allora i produttori nazionali avranno pagato il premio e non otterranno il risultato di sfollare il mercato interno.

 

 

È d’uopo concludere che senza protezione doganale non possono darsi premi di esportazione; abolita quella sono aboliti automaticamente questi. La conferma di Bruxelles non andò sino all’ideale di abolire del tutto la protezione doganale ossia la differenza tra dazio doganale ed imposta di fabbricazione; la ridusse a L. 6 e 5,50. La possibilità dei premi non è esclusa; ma essendo grandemente ridotto il margine di profitto dei produttori interni, anche è scemata la possibilità di dare premi privati di esportazione.

 

 

  • 4) Come sanzione delle clausole precedenti, contrarie ai premi d’ogni sorta, pubblici e privati, diretti ed indiretti, la convenzione stabilì che ognuno degli Stati aderenti fosse obbligato ad imporre un sopradazio di ritorsione contro gli zuccheri provenienti dai paesi che ancora si ostinassero a concedere premi di esportazione. Il sopradazio di ritorsione deve essere di ammontare uguale a quello del premio; cosicché se uno Stato, non aderente, dà, ad esempio, un premio di L. 5 per quintale all’esportazione dello zucchero, tutti gli Stati aderenti sono obbligati a colpire lo zucchero premiato di un sopradazio (e cioè di un dazio straordinario, oltre a quello normale) di 5 lire. Scopo del sopradazio è di rendere inutile il premio; poiché a nulla serve il premio all’esportatore quando costui deve sborsarne nuovamente l’ammontare allo Stato di importazione. Egli dal premio non è messo in grado di vendere lo zucchero a più buon mercato e di aprirsi una via all’estero.

 

 

356. Posizione speciale dell’Italia rispetto alla terza clausola. – Se tutte le norme sancite dalla convenzione di Bruxelles trovarono applicazione in Italia, non fu così per la terza clausola, la quale imponeva un massimo di 6 lire e 5,50 al margine protettivo per lo zucchero raffinato e greggio. Infatti dai delegati italiani si ottenne che l’Italia dovesse osservare le altre clausole, ma non questa. Ad essa fu consentita di conservare il margine protettivo che meglio credeva. Ciò perché nel 1902, si osservò, l’Italia non produceva abbastanza per il consumo interno ed era quindi inutile preoccuparsi della possibilità di un’esportazione insussistente. Ad evitare ogni pericolo di premi privati per l’avvenire, fu stabilito che anche questa clausola dovesse essere conservata dall’Italia il giorno in cui l’Italia divenisse nazione esportatrice.

 

 

L’esportazione s’intende debba avere una certa importanza; non basta l’uscita accidentale di qualche migliaio di quintali; occorre trattisi di exportations ayant pour objet des quantités assez notables.

 

 

Tuttociò poteva essere più o meno ragionevole; ed era anzi dannoso perché permetteva di continuare l’altissima protezione a danno dei consumatori. Ma una conseguenza era certa; che la protezione elevatissima che esiste in Italia poteva durare finché piacesse ai fabbricati di farla durare.

 

 

È evidente che se i fabbricanti si accordano – come hanno veramente fatto – per non produrre che la quantità di zucchero necessaria al consumo interno, non corrono pericolo che la protezione debba essere diminuita in virtù della convenzione di Bruxelles. Questo appunto è accaduto finora in Italia.

 

 

Le fabbriche di zucchero sono circa una trentina e finora (principio 1913) sono riuscite a limitare la produzione ad un livello tale che basti al consumo interno, senza lasciare eccedenze per l’esportazione.

 

 

357. Ultime modificazioni alla legislazione interna sugli zuccheri. – Naturalmente il sistema protettivo così rassodato in Italia non poteva piacere ai consumatori su cui veniva ribadito il peso di un’imposta altissima e di una protezione eccessiva, che insieme portarono il prezzo all’ingrosso a L. 1,30 ed al minuto a L. 1,50. Prezzo che è uno dei più elevati d’Europa e tiene il consumo al disotto dei 5 Kg a testa, consumo che è invece tra i più bassi conosciuti.

 

 

Tentò di porvi riparo un disegno di legge Giolitti del novembre 1909, il quale proponeva di ridurre, entro l’1 gennaio 1915, il dazio doganale a L. 50 e l’imposta interna a L. 35, riducendo il margine protettivo a L. 15.

 

 

Meglio sarebbe stato ridurre il dazio a L. 50 e l’imposta a sole L. 44, lasciando il margine protettivo a L. 6, come era la regola della convenzione di Bruxelles. Ma, anche così, la proposta era ottima e faceva onore allo statista che l’aveva messi innanzi; in quanto il prezzo interno sarebbe stato stabilito sulla base di 30 lire, costo o prezzo internazionale più di 50 dazio doganale, ossia 80 lire al quintale all’ingrosso, forse 100 al minuto, invece di 150. Con una riduzione di prezzo da L. 1,50 a L. 1 al Kg, il consumo avrebbe dovuto prendere un grande sviluppo.

 

 

Il progetto non ebbe fortuna e fu lasciato cadere. Successivamente fu accolto un altro criterio, che fu approvato con legge del 17 luglio 1910: di lasciare immutato il dazio doganale di L. 99 e di L. 88 per lo zucchero di prima e seconda classe; e di aumentare l’imposta interna da L. 70,15 e 67,20 di una lira all’anno per sei anni, a partire dall’1 luglio 1911; cosicché all’1 luglio 1916 l’imposta sullo zucchero di prima classe sarà portata a L. 76,15 e quella sullo zucchero di seconda classe a L. 73,20. Alla fine del periodo transitorio, il sistema di dazi ed imposte sarà il seguente:

 

 

 

Dazio doganale sullo zucchero

Imposta interna di fabbricazione

Margine protettivo

Zucchero I classe

L. 99

76,15

22,85

Zucchero II classe

88

73,20

14,80

 

 

La protezione sarà ancora altissima, sebbene minore dell’originaria di 6 lire; i consumatori dalla riforma non avranno tratto alcun beneficio, contrariamente a quello che sarebbe accaduto col progetto Giolitti del 1909, perché essi pagheranno sempre lo zucchero 30 lire prezzo estero più 99 dazio doganale, ossia circa L. 130 all’ingrosso e 150 al minuto. L’unico vantaggio, certo apprezzabile, è che, nelle 99 lire di tributo, è diminuita la parte spettante ai produttori interni e aumentata la parte del fisco. Il vantaggio è innegabile, ma è ben minore di quello che sarebbe stato possibile.

 

 

358. La denuncia della convenzione di Bruxelles da parte dell’Italia. – La convenzione di Bruxelles frattanto non soddisfaceva più agli interessi di tutti i paesi aderenti e principalmente dell’Inghilterra. Dove, essendo andati al potere i liberali radicali, questi, più che le sorti delle Antille produttrici di zucchero di canna, si presero a cuore le sorti degli inglesi, consumatori di zucchero e stanchi di doverlo pagare caro a causa della abolizione dei premi e dei dazi di ritorsione.

 

 

Laonde cominciò l’atto addizionale di Bruxelles del 28 agosto 1907 a dispensare l’Inghilterra, a partire dall’1 settembre 1908, dall’obbligo di colpire col dazio di ritorsione gli zuccheri premiati. L’Inghilterra, insomma, restava nell’unione, ma platonicamente, a condizione di non dover colpire di dazio gli zuccheri premiati. Il solo grande paese esportatore di zuccheri premiati era la Russia, che nel 1907 aderì alla convenzione di Bruxelles, e fu accettata dagli altri Stati, a condizione che essa non esportasse verso l’ovest europeo più di 2 milioni di quintali di zucchero premiato (contingente di esportazione). Tutto ciò voleva dire che, dopo l’1 settembre 1908, l’Inghilterra acquistò il diritto di acquistare in Russia 2 milioni di quintali di zucchero premiato, senza obbligo di colpiti con dazi di ritorsione. Per gli altri paesi le condizioni rimasero immutate.

 

 

Venne il 1911, che fu contrassegnato da una scarsità grande di produzione di barbabietole negli Stati d’Europa e da una grande abbondanza in Russia.

 

 

L’Inghilterra, che teneva di dover pagare troppo caro lo zucchero, chiese che la Russia fosse autorizzata ad aumentare il suo contingente esportabile verso l’ovest europeo, benché composto di zucchero premiato, da 2 a 5 milioni di quintali. Gli altri Stati aderenti, tutti produttori di zucchero e timorosi della concorrenza russa sul mercato libero inglese, consentirono solo 500.000 quintali di aumento all’anno nel contingente russo per tre anni, e col protocollo di Bruxelles del 17 maggio 1912 prorogarono l’unione per cinque anni a partire dall’1 settembre 1913. In risposta, nell’agosto 1912 l’Inghilterra dichiarava che non avrebbe più fatto parte dell’unione a partire dall’1 settembre 1913. Il che è perfettamente logico da parte di un governo, il quale vuole che i suoi consumatori possano comprare lo zucchero, premiato o non, dovunque lo trovino a miglior mercato.

 

 

Quella che non si comprende ugualmente bene è l’analoga dichiarazione, fatta pure dall’Italia nell’agosto 1912, di volersi ritirare dalla convenzione zuccherina a partire dall’1 settembre 1913. Questo ritmo dell’Italia dalla convenzione di Bruxelles toglie la maggiore garanzia ché finora avevano i consumatori italiani di vedere un giorno migliorata la situazione. Infatti la produzione della barbabietola e dello zucchero in Italia si va sviluppando per modo che ben presto si sarebbe giunti al punto che la produzione interna avrebbe superato i 1.500.000 quintali che oggi si consumano al prezzo di L. 5,50 al minuto o quell’altra quantità maggiore che in avvenire a quel prezzo si sarebbe consumata. A questo punto, finché vigeva la convenzione di Bruxelles, i produttori interni avrebbero dovuto scegliere una di queste due vie:

 

 

  • a) vendere all’interno tutta la quantità prodotta ed avrebbe allora dovuto ribassare i prezzi, con vantaggio dei consumatori;
  • b) esportare all’estero il sovrappiù per tenere alti i prezzi all’interno ed allora l’Italia sarebbe divenuta una nazione esportatrice ed avrebbe dovuto applicare la terza clausola della convenzione ossia ridurre subito il margine protettivo da L. 22,85 e 14,80 – quale non è ancora, ma sarà solo, a gran stento, dall’1 luglio 1910 – a L. 6 e 5,50 rispettivamente; con vantaggio di nuovo per consumatori.

 

 

La convenzione di Bruxelles, era dunque una forza per i consumatori italiani. Denunciata la convenzione, c’è gran pericolo che il regime fiscale dello zucchero resti quale fu stabilito dall’ultima legge del 17 luglio 1910; e che i consumatori italiani debbano seguitare a pagare lo zucchero caro. I fabbricanti consorziati, infatti, negli anni in cui la loro produzione sarà esuberante di fronte al consumo, che si fa al prezzo di L. 1.50, esporteranno all’estero ed avranno convenienza, come fu già sopra dimostrato, di premiare lo zucchero eccedente esportato, così da poter mantenere alti i prezzi dello zucchero interno. I contribuenti italiani saranno costretti a pagare oltre il forte tributo pubblico al fisco (imposta di fabbricazione), di cui non si discute, anche un forte tributo privato a favore di un piccolo gruppo di produttori interni privilegiati ed in parte dei consumatori esteri, felici compratori dello zucchero italiano premiato. Speriamo che le pessimistiche previsioni non si avverino e che il legislatore italiano sappia per tempo riformare, seguendo le traccie del disegno di legge Giolitti del 1909, opportunamente perfezionato, il regime fiscale dello zucchero, in guisa da tutelare le ragioni dei contribuenti consumatori, che sono poi anche quelle dell’industria! La quale ha la possibilità, anche con la protezione ridotta a 6 lire per quintale, di vivere prospera e rigogliosa, specialmente quando la diminuita protezione lasci sopravvivere solo gli stabilimenti meglio organizzati e situati, tecnicamente ed economicamente.

 

 

Sezione Terza.

Le imposte sui consumi esatte col metodo della tassazione all’entrata della merce nello Stato (dazio doganale).

 

359. Concetto. – Il dazio doganale è quella imposta la quale viene esatta all’atto della introduzione della merce nello Stato. Dicesi questo dazio d’importazione. Vi possono essere anche i dazi di esportazione che colpiscono le merci all’atto della loro uscita dallo Stato e dazi di transito quando colpiscono le merci che, provenendo da paesi esteri, attraversano il territorio nazionale, a destinazione di un altro paese estero. Questi ultimi dazi sono oramai del tutto scomparsi, essendosi potuto constatare che essi ad altro non servivano che a far fuggire le merci dalle nostre vie di transito, a vantaggio dei porti e delle ferrovie straniere.

 

 

Sono anche quasi scomparsi i dazi di esportazione, perché il loro effetto più sicuro era, come meglio si dirà poi, di impedire l’esportazione delle merci dallo Stato, con grave danno dell’industria nazionale. I soli dazi doganali, che siano uno strumento fiscale realmente produttivo, sono i dazi di importazione. Intorno ai quali però il nostro discorso sarà più breve che per le imposte di fabbricazione, molti concetti relativi ai dazi doganali essendo già stati sviluppati nel discorso che si fece da queste ultime. Occorre ancor meglio ribadire il concetto che dazi doganali ed imposte di fabbricazione sono due fratelli siamesi, il che si farà chiarendo la distinzione tra dazi fiscali e dazi protettivi.

 

 

360. Distinzione tra dazi fiscali e dazi protettivi. – Parlando dei dazi doganali è necessario distinguere tra dazi fiscali e dazi protettivi. I primi son quelli che hanno esclusivamente per iscopo di procacciare un provento al fisco, i secondi invece sono quelli che non sono imposti su una merce estera allo scopo di colpire realmente questa merce quando entra nel paese, bensì per impedirne l’entrata. Il loro scopo è contrario a quello dei dazi fiscali che sono messi coll’intento di dare un provento al fisco.

 

 

Il dazio fiscale, se vuole raggiungere il suo fine, che è di dare un provento al fisco, deve colpire merci le quali, malgrado il dazio, seguitano ad entrare, sia pure in quantità ridotta, nello Stato. Invece i dazi protettivi, messi apposta perché la merce non entri, non rendono, se raggiungono davvero l’intento protettivo, nulla al fisco ed hanno altri fini, che qui non si discutono, di proteggere l’industria nazionale contro la concorrenza straniera.

 

 

361. Condizioni necessarie affinché un dazio possa chiamarsi fiscale. I dazi per essere fiscali debbono:

 

 

  • a) gravare su una merce non producibile in paese. – I dazi che vogliono essere fiscali devono essere tali da non costituire un impedimento specifico – oltre all’impedimento generico al consumo, che ogni imposta ha in sé e non può essere abolito in alcun modo, derivante dal fatto che ogni aumento di prezzo delle merci ed ogni diminuzione di reddito diminuisce la capacità di consumo dei contribuenti – alla merce ad entrare nel paese. Il quale intento si raggiunge quando si tratti di merce che nel nostro paese non può essere prodotta per condizioni climatiche o telluriche. È evidente che se noi mettessimo un dazio sul carbon fossile, si tratterebbe di un dazio fiscale, perché del carbon fossile in Italia non ne produciamo per la semplice ragione che non ce n’è o ce n’è una quantità trascurabile. Se noi trascuriamo il fatto che il carbon fossile ha dei surrogati nella legna, nel petrolio, nelle forze idrauliche, surrogati del resto conviventi solo oltre un certo limite di prezzo, il dazio non potrebbe impedire al carbon fossile estero di entrare, perché gli italiani per forza, non potendoselo procurare in paese, dovrebbero seguitare a farne domanda all’estero.

 

 

Così il dazio d’entrata sul cotone di 3 lire per quintale è un dazio fiscale, perché, dato il clima del nostro paese, questa merce non si può produrre fra noi, in quantità apprezzabili, a un prezzo conveniente.

 

 

Soltanto se il prezzo fosse molto alto, converrebbe produrre il cotone in Italia. Ora ciò non essendo, nonostante il dazio, si dovrà pur sempre importare il cotone dall’estero trattandosi di merce di cui non si può fare a meno. È dazio fiscale anche il dazio sul caffè, perché il nostro clima non è adatto alla coltivazione della pianta del caffè, e perciò siamo costretti a comperarlo fuori pagando l’imposta di 130 lire per quintale. Per il petrolio c’è un dazio fiscale che è di 16 lire per quintale; è un dazio fiscale perché petrolio non v’è in Italia, o, se v’è, forma la ventesima parte del consumo nazionale. Se vogliamo petrolio dobbiamo comperarlo all’estero.

 

 

Vediamo adunque come la prima caratteristica del dazio fiscale sia d’essere imposto su merci che non possono essere prodotte nell’interno del paese, o possono esservi prodotte soltanto in quantità che praticamente possono considerarsi trascurabili.

 

 

  • b) ove le merci possono essere prodotte direttamente o per surrogati in paese, il dazio doganale sulla merce estera deve essere controbilanciato da un uguale imposta di fabbricazione sulla similare merce interna o sui suoi surrogati. Se le merci possono essere prodotte nell’interno, il dazio sarà ancora fiscale quando sarà controbilanciato da un’identica imposta di fabbricazione sulla similare merce interna o sui suoi surrogati. Se lo Stato mette un dazio doganale di 130 lire per quintale sul caffè estero ed un’imposta di fabbricazione di L. 50 sui surrogati del caffè (cicoria), questo balzello di L. 50 è materialmente diverso da quello di 130 appunto come il caffè è materialmente diverso dai surrogati; ma economicamente i due tributi si possono ritenere uguali, perché si può supporre che un chilogramma di caffè dia la soddisfazione di 2,60 chilogrammi di cicoria, onde le imposte, diverse in cifre numeriche, si parificano in sostanza.

 

 

Così lo Stato si mantiene imparziale, non facendo pendere la bilancia più a vantaggio del caffè straniero che dei surrogati italiani. Il consumatore continua a usare dell’una o dell’altra merce a seconda delle sue inclinazioni e dei suoi mezzi, senza essere perturbato nelle sue preferenze dall’imposta. Ecco che il dazio del caffè non può essere considerato protettivo ma puramente fiscale. Così pure sarebbe dazio fiscale quello sullo zucchero qualora non ci fosse differenza tra dazio doganale e imposta di fabbricazione; quando cioè anche lo zucchero italiano fosse colpito da un’imposta di fabbricazione di 99 lire, il dazio doganale sarebbe fiscale, perché il consumatore italiano non si troverebbe spinto, dal confronto del dazio doganale e della imposta di fabbricazione, a dar la preferenza piuttosto allo zucchero italiano o a quelli stranieri. Se non ci fosse né dazio, né imposta, preferirebbe lo zucchero che costa di meno; venuti il dazio e l’imposta eguali, egli seguita a preferire lo zucchero italiano o l’estero a seconda che valgono meno sul mercato; onde il dazio doganale ha esclusivamente un carattere fiscale, non inducendo il consumatore a preferire lo zucchero interno a quello estero.

 

 

Invece il dazio è protettivo per lo zucchero, dato il modo col quale esso è attualmente congegnato in Italia. Sappiamo infatti che il dazio doganale sullo zucchero estero è di 99, mentre l’imposta di fabbricazione interna è ora (principio del 1913) di L. 72,15 e sarà di 76,15 l’1 luglio 1916. Si vede che per effetto della differenza che c’è tra l’imposta di fabbricazione interna che è più bassa e il dazio che è più elevato, la preferenza del consumatore viene spostata verso lo zucchero nazionale.

 

 

Allora è chiaro che lo zucchero estero non può essere importato e il dazio serve solo come spauracchio per impedire l’entrata della merce estera. Che se queste non entra, il dazio non rende nulla fisco, e non è più fiscale diventando invece protettivo a favore dell’industria nazionale dello zucchero. Quel che si dice per gli zuccheri avviene per tante altre merci.

 

 

Il 95 e forse il 99 per cento dei dazi doganali non sono fiscali ma protettivi. L’ideale di questi dazi, per il legislatore che li ha messi, sarebbe raggiunto quando il provento fosse zero, perché allora la merce nostrana sarebbe la sola padrona del mercato interno.

 

 

362. Come la necessità delle due suddette condizioni renda rari i dazi puramente fiscali. – I dazi fiscali sono normalmente pochi in quanto che è raro il caso che si possano verificare le condizioni che le contraddistinguono. Abbiamo detto che è anzitutto necessario che la merce non possa venir prodotta all’interno, o direttamente e per via di surrogati, cosa che è molto rara. Se la prima condizione non ha luogo è necessaria l’altra, che cioè il dazio doganale sia accompagnato da un’imposta di fabbricazione. Ora noi sappiamo che questa imposta non si può stabilire su tutte le merci, ma solo su quelle che sono prodotte in stabilimenti chiusi e facilmente sorvegliabili, e preferibilmente che sono prodotte da grandi imprese per evitare spese di esazione fortissime, tali da distruggere la convenienza della imposta stessa. Solo, adunque, quelle poche merci che soddisfano alle sovradette condizioni tecniche ed economiche possono essere sottoposte a dazio fiscale. Queste merci potranno essere ben poche perciò: petrolio, caffè, zucchero, spiriti, thè, birra e poche altre, quelle stesse che sono colpite da imposta di fabbricazione e si trovano elencate sopra (cfr. paragrafo 342).

 

 

363. Da chi sono pagati i dazi fiscali?. – Rispetto ai dazi fiscali, è sorta una questione, di quelle che talvolta si dicono eleganti, forse perché servono a dare argomento a ragionamenti sottili da parte dei contendenti: se questi dazi fiscali siano pagati dai contribuenti nazionali ovvero dai contribuenti stranieri. La teoria che i dazi siano pagati dagli stranieri, se non è accolta nella scienza, è frequente negli uomini politici anche seri. È possibile mettere un’imposta sui contribuenti stranieri? Un’imposta di tal genere sarebbe certo l’ideale di tutte le imposte, perché lo Stato potrebbe mantenere la marina, l’esercito, pagare gl’interessi del debito pubblico, ecc., a spese di quegli Stati contro cui, eventualmente, sono destinati quei servizi pubblici. La teoria è piacevole per gli uomini politici, poiché permette ad essi di manifestare ai contribuenti nazionali la speranza che le imposte, che si propongono, si pagano dagli aborriti stranieri.

 

 

Fra gli uomini politici insigni che hanno creduto conveniente di esporre tale concetto fu il Bismarck il quale ingenuamente chiedeva nel 1885 al Feichstag tedesco perché il ministro delle finanze dell’impero non dovesse essere disposto ad accettare dazi che i contribuenti esteri erano disposti a pagargli. Più recentemente ancora (1904) lo Chamberlain, che voleva ristabilire in Inghilterra il regime protettivo, diceva: «Io credo che sia chiaro e dimostrabile che i dazi sopra le nostre esportazioni imposti dai paesi stranieri sono pagati da noi. E come i paesi stranieri fanno pagare a noi dei dazi, noi facciamoli pagare a loro, costringendoli a sopperire a una parte delle nostre entrate». Non si può giurare che lo Chamberlain credesse alla verità di questo ragionamento: egli era uomo troppo fine e dotto per poter ritenere vera la sua tesi. La sua affermazione aveva probabilmente uno scopo puramente politico. Giudicando dal punto di vista scientifico, noi dobbiamo solo domandarci se la tesi sia vera. È vero che con i dazi fiscali o protettivi si riesce a imporre una imposta sui contributi esteri?

 

 

La prima osservazione che si può fare è questa: che lo stesso discorso non è detto possa essere fatto soltanto in un paese. In realtà si può ripetere dappertutto. E se il ragionamento fosse vero per noi, dovrebbe essere vero anche per gli altri. Il che basterebbe a togliere alla tesi ogni importanza pratica, in quanto che noi italiani, se fosse vero che i dazi sono pagati dagli stranieri, riesciremmo bensì a far pagare l’ammontare dei nostri dazi doganali agli stranieri sarebbe somma minore di quella che essi pagherebbero a noi. Sarebbe solo una specie di contabilità internazionale che potrebbe stabilire chi alla fine paga di più e potrebbe magari dimostrare che non ci si guadagna nessuno e che non si tratta che di partite destinate a compensarsi.

 

 

Ma vi è di più: questa teoria è tale da potersi dimostrare come esatta? Teoricamente non è assurdo che l’imposta possa incidere sugli stranieri, ma le condizioni, date le quali soltanto, è possibile che ciò si verifichi sono talmente rare a verificarsi che possiamo considerarne l’effettuazione come un caso puramente teorico tale da non avere un’importanza effettiva.

 

 

Consideriamo separatamente i dazi d’importazione da quelli di esportazione.

 

 

364. – Condizioni alle quali è subordinata l’incidenza del dazio d’importazione sugli stranieri. – Prendiamo ad esaminare per esempio il dazio d’importazione sul caffè estero: esso è di L. 130 per quintale. Perché questo dazio doganale sia pagato non dagli italiani, ma dai produttori stranieri, principalmente brasiliani, dovrebbero verificarsi parecchie condizioni ben determinate:

 

 

  • 1) La prima è che il nostro mercato italiano sia l’unico o uno dei principali mercati di assorbimento della merce straniera. Se i brasiliani che sono grandi esportatori di caffè non sapessero in qual altro paese mandare il loro caffè, evidentemente troverebbero le loro sorti legate alla domanda italiana e allora, se lo Stato italiano pone un dazio sul loro prodotto, essi potrebbero magari essere costretti, per sorpassare la muraglia delle 130 lire, a ribassare il prezzo. Ma se invece il nostro è uno solo dei tanti mercati aperti al caffè, i produttori direbbero: se non volete voi accollarvi il dazio, pagandoci la merce d’altrettanto più cara, faremo a meno di vendervi il caffè: facendo altrove un po’ di ribasso riusciremo a vendere anche quel caffè che contavamo di vendere a voi.
  • 2) Non basta che vi sia questa condizione già importante e che pure solo raramente si verifica; occorre ancora che si tratti di una merce a domanda molto elastica. Ogni merce è elastica; ma ve ne sono di quelle il cui consumo poco o nulla diminuisce se un’imposta ne aumenta il prezzo (sale, grano), e altre di cui il consumo diminuisce sensibilmente (spiriti, zucchero, caffè), altre ancora di cui il consumo potrebbe quasi annullarsi (parrucche ed altre cose inutili). Se la merce è a domanda rigida come il grano, come è possibile che il dazio venga fatto rimbalzare sugli stranieri? Anche se il nostro paese fosse l’unico mercato importatore di grano, i russi potrebbero sempre dire: voi avete grano di 7,50? Ebbene, noi seguitiamo a vendere il nostro grano a 20 lire, perché i consumatori pagheranno le 29 più 7,50 essendo il grano una merce a domanda rigida, tale cioè che voi italiani seguitate a comperarne a 27,50 la stessa quantità che compravate a 20. Col caffè il ragionamento non potrebbe più essere così franco: perché è indubitato che un dazio di lire 130 al quintale ne riduce il consumo; ma la riduzione non giungerebbe sino alla scomparsa del consumo; e basterebbe un parziale sacrificio dei produttori a mantenerlo invariato. Ciò sempre supposto che non abbiamo invece interesse a spingere il consumo sui mercati esteri.
  • 3) Una terza condizione ancora si deve verificare. Difatti, sempre esaminando il dazio sul caffè, in tanto i produttori brasiliani potranno accollarselo in quanto essi nella produzione del caffè abbiano un margine di profitto. Se, per esempio, ai produttori brasiliani il caffè costasse solo 10 lire per quintale, e prima dell’imposizione del dazio vendendolo a 140 guadagnavano 130 lire; ora, dopo l’introduzione del dazio a 130 lire, essi accollandoselo e vendendo sempre a 140 lire, avrebbero sempre un netto di lire 10 sufficiente a coprire il costo e forse lasciare un margine di profitto. Se 10 lire bastano a dare un compenso al capitale e al lavoro impiegato nella produzione del caffè, è chiaro che i produttori brasiliani potranno continuare ad avere convenienza a venderci il caffè a 140 lire. Ma è necessario che prima esistesse un margine enorme di extraprofitti di 130 lire, a cui i produttori brasiliani possano rinunciare. Ora è assurdo supporre che tutti i produttori stranieri in massa abbiano quel margine. Ed è assurdo perché è noto che nella produzione delle derrate agrarie vi è una serie infinita di costi. Vi saranno magari dei produttori che potranno produrre il caffè al costo di 10 lire, per quintale, sebbene la cosa sia incredibile, ma essi costituiranno soltanto una infimissima minoranza; per altri produttori il costo sarà 50, 60, 100, 120, 125 lire per ogni quintale a causa della differente fertilità del terreno, della lontananza dai mercati, ecc. In realtà il caffè a 90 lire nette per i produttori si vende già a perdita, e solo i prezzi di 120/125 lire lasciano un profitto, però non anormale. Quindi, neanche se volessero, i produttori potrebbero vendere a meno di 120 lire più le 130 lire di dazio doganale. A meno di volere la maggior parte di essi perdere. Tra i molti produttori di caffè, vi saranno alcuni pochi che potranno accollarsene una piccola parte, altri che non potranno e che piuttosto di pagarlo non produrranno più. Cessando parte della produzione, la quantità gettata sul mercato diminuisce; il prezzo aumenta e aumento fino al punto in cui torna di nuovo conveniente ai produttori produrre ed esportare malgrado il dazio. Il che vuol dire che i produttori esteri non potranno vendere a meno di 120 lire che i produttori esteri non potranno vendere a meno di 120 lire nette per loro, ossia che i consumatori italiani dovranno pagare 120 + 130, rassegnandosi a pagare essi stessi il dazio.

 

 

Ora è evidentissimo che le merci, che soddisfano alle condizioni (importazione limitata al nostro solo mercato, domanda elastica, largo margine di profitti) che sono indispensabili a verificarsi affinché il dazio di importazione incida sui produttori stranieri, sono rarissime e quindi è utopia credere che i dazi doganali di importazione siano pagati solo dagli stranieri. Sarebbe forse impossibile indicare un caso solo in cui si sia sicuri del verificarsi dell’incidenza sugli stranieri.

 

 

365. Condizioni alle quali è subordinata l’incidenza del dazio di esportazione sugli stranieri. – Queste stesse condizioni si presentano rovesciate per i dazi, che sono ormai rarissimi, di esportazione, i quali sono esportate all’estero. Anche a loro difesa si è ripetuta la stessa teoria, che cioè vengono pagati dagli stranieri. S’intende che qui si parla sempre di dazi fiscali e non dei protettivi. Per esempio sui cascami di seta e sugli stracci vi è un dazio di esportazione che è messo coll’intento che coloro che li producono non li esportino all’estero e li vendano più a buon mercato ai consumatori interni. Così l’industria che compra i cascami di seta come materia prima, e l’industria della carta, che compra gli stracci, potranno acquistare più a buon mercato ciò di cui hanno bisogno. Il dazio ha dunque in questi casi l’intento di avvantaggiare certe industrie a danno di chi ha da vendere certe materie prime o cascami. Accanto ai dazi di esportazione protettivi vi sono anche dazi fiscali di esportazione, per esempio il dazio di esportazione sullo zolfo che era di L. 11 alla tonnellata. Si riteneva che con quel dazio il nostro fisco riuscisse a colpire gli stranieri consumatori di zolfi. Senonché anche in questo caso sono necessarie certe condizioni:

 

 

  • 1) che il paese che impone il dazio di esportazione abbia il monopolio non del consumo, ma della produzione della merce tassata: se fossimo i soli produttori di zolfo e non esistessero surrogati, il dazio di esportazione avrebbe gli effetti sperati; perché i consumatori esteri non potendolo comprare da altri, dovrebbero comprarlo da noi anche al prezzo accresciuto di tutto il dazio. Il guaio è che il nostro zolfo ha dei concorrenti, anzi il dazio col conseguente aumento di prezzo non fu forse senza una certa influenza, insieme con altre cause, a provocare lo sfruttamento di altre miniere in paesi esteri e sovratutto ad indurre alcuni industriali stranieri a ricorrere alle piriti poiché lo zolfo era troppo salito di prezzo. I produttori della Sicilia dovettero chiedere l’abolizione del dazio di esportazione per continuare a vendere lo zolfo all’estero.
  • 2) è necessario che si tratti di una merce a consumo rigido, perché in questo caso i compratori la comprano ugualmente anche aumentando il prezzo; se invece la merce è a domanda elastica le richieste scemano e l’industria può perdere. È il caso inverso di quello precedente. Potevano forse le miniere siciliane più ricche accollarsi il dazio di L. 11 per tonnellata per una merce che vale da 70 a 120 lire la tonnellata, a seconda degli anni; ma le miniere più povere, che appena coprivano i costi, non potevano farlo e dovevano chiudersi. In realtà è ben raro che le due condizioni sopradette si verifichino insieme. Il dazio di esportazione arreca danno più che vantaggio, più danno ai produttori paesani che non vantaggio al fisco, perché le condizioni favorevoli si verificano raramente. Il caso principi che può essere citato è quello del nitrato di soda del Cile adoprato per la concimazione. Il Governo cileno ha potuto mettere un dazio di esportazione perché il nitrato di soda si produce esclusivamente nel Cile, i surrogati non sono in grado di rivaleggiare, quando il prezzo non supera in Italia le 30 lire per quintale, col nitrato e il consumo agricolo è in continuo aumento. Perciò l’imposta ha potuto essere prelevata tranquillamente senza che il consumo diminuisse; cosicché gran parte delle spese del Governo cileno, è pagata da italiani, francesi, tedeschi, americani del Nord. Ma è caso più unico che raro. Per l’Italia ha qualche carattere analogo il marmo di Carrara: certe qualità di marmo si trovano soltanto nelle nostre cave, quindi il consumo preferisce rivolgersi da noi; talché il municipio di Carrara ha potuto imporre sul marmo di Carrara un dazio che è pagato dai compratori forestieri (che in questo caso sono tutti i non carraresi).

 

 

Qualche cosa di simile avviene, sempre in Italia, per l’esportazione dei quadri ed oggetti di antichità che sono colpiti da un dazio del 25%. Si tratta di un monopolio di oggetti, per cui surrogati non ci sono, o almeno i consumatori credono non ci siano; una copia unica o che si crede tale. Siamo nel caso tipico del monopolio. Inoltre si tratta di merce a domanda rigida, perché i consumatori di essa sono ricchi che non esitano a pagare anche il 25% di dazio pur di aver l’oggetto bramato.

 

 

I casi sporadici confermano la regola la quale dice che i dazi doganali sono pagati dai nazionali, dai consumatori, se trattasi di dazi di importazione sulle merci provenienti dall’estero, dai produttori, esportatori, se trattasi di dazi di esportazione su merci vendute all’estero.

 

 

366. Dazi specifici e dazi ad valorem. – I dazi doganali, dal punto di vista del metodo della loro applicazione pratica, si distinguono in dazi specifici e dazi ad valorem. Diconsi dazi ad valorem quelli che sono stabiliti nella misura di un tanto per cento del valore della merce importata, per es. il 5, il 10, il 20% del valore. Il dazio ad valorem soddisfa meglio al requisito della uguaglianza tributaria, perché la merce tanto più paga quanto più è ricca e tutte pagano proporzionalmente. Però è metodo sconsigliabile per ragioni tecniche. Infatti è d’uopo, per poter applicare il dazio, stabilire innanzitutto il valore della merce; onde sorge nel commerciante importatore l’interesse a deprezzare la merce per pagare dazio minore; e sorgono sospetti di collusione tra commercianti e doganieri allo scopo di tenere basse, a danno del fisco, le valutazioni delle merci.

 

 

Contro le quali frodi è difficile difendersi. Si possono richiedere certificati delle camere di commercio e di consoli dei luoghi di origine della merce, far fare perizie e stime. Tutti mezzi costosi e di incerta riuscita.

 

 

Da questo punto di vista appaiono migliori i dazi specifici, coi quali la tariffa è stabilita in ragione dell’unità di peso, di lunghezza, di capacità o volume o di numero delle merci importate. Esempi: L. 7,50 per quintale di frumento, L. 130 per quintale di caffè, L. 99 per quintale di zucchero di prima classe, L. 270 + 50 = 320 per ettanidro di spirito, L. 30 per capo bovino, ecc. ecc. Si ha così il vantaggio della certezza. Vi è il difetto che tanto paga il caffè moka come il caffè santos, sebbene il prezzo ne sia diverso, tanto il bue grasso come il bue magro. Sono difetti però di non grande importanza, se il sistema doganale ha carattere esclusivamente fiscale. Diventano difetti gravi, se le dogane cadono nel vizio del protezionismo, perché allora le voci doganali invece di essere poche, una dozzina circa al più, come sopra dicemmo, diventano centinaia de migliaia e concorrono tecnici esperti per distinguere una qualità di tessuto dall’altra, una macchina, uno strumento dagli altri simili ed applicare ad ogni voce il giusto dazio specifico. E, data la molteplicità della tariffa doganale, ben può darsi il caso che collo stesso dazio specifico vengano colpite qualità di merci di valore differentissimo. Ma questi sono vizi della degenerazione protezionistica dei dazi doganali, non dei dazi in quanto giovino esclusivamente a scopi fiscali.

 

 

367. Tariffa generale e tariffa convenzionale, tariffa autonoma, doppia tariffa, clausola della nazione più favorita. – Sono nozioni che hanno più importanza per i dazi protettivi che per i dazi fiscali. Ad ogni modo si può notare che i dazi della tariffa generale sono quelli che si applicano a tutte le merci indistintamente, che provengono da paesi con cui non si abbia uno speciale trattato di commercio. Si ha la tariffa convenzionale con quei paesi con cui i dazi sono regolati da un trattato di commercio. Di solito nei trattati di commercio si stipula la clausola della nazione più favorita, che è quella clausola per cui qualunque riduzione di dazio (generale o convenzionale) che uno degli Stati contraenti accorda ad un terzo paese si intende estesa automaticamente anche all’altro paese. In questo modo si conserva parità di trattamento verso i diversi paesi, essendo tutti posti nella medesima situazione.

 

 

Quando dominano gli intenti protezionistici, si hanno:

 

 

  • 1) la tariffa differenziale, che si impone soltanto contro le provenienze da quei paesi con i quali si è in guerra doganale. Sono i dazi generali, aumentati, ad es., del 50%, come si fece nel 1888 in Italia contro le provenienze francesi;
  • 2) la tariffa autonoma, che è la tariffa generale sopra ricordata, con questo di più che il paese, che l’applica, non stipula trattati di commercio con i paesi esteri ed applica la sua tariffa generale che esso può variare a suo buon piacere, contro le merci estere. Di solita la tariffa autonoma ha due specie di tariffe, la massima e la minima. La minima si applica alle provenienze di quei paesi che applicano dazi moderati contro le provenienze del paese in discorso; la massima ai paesi che adottano tariffe reputate esagerate. Nella realtà è ben difficile conservarsi autonomi del tutto; le necessità del commercio consigliando infrazioni a questi sfrenati tentativi di escludere le merci estese dal paese.

 

 

Per i dazi fiscali puri il problema è assai più semplice. Essi devono essere moderati, se si vuole che le merci estere entrino ancora nello Stato e paghino dazio; non devono aver intento protettivo, e colpiscono perciò merci non producibili in paese, o, se producibili, tassate con uguale imposta di fabbricazione. I dazi fiscali devono colpire ugualmente le merci estere qualunque sia la loro provenienza, perché essi devono mantenersi imparziali e lasciare al consumatore la libertà di scelta più assoluta. I paesi esteri non hanno perciò necessità di stipulare trattati di commercio per quanto ha tratto ai dazi fiscali, sicuri come sono che essi devono essere moderati, e che essi saranno trattati, in ogni caso, alla stessa stregua degli industriali nazionali e di ogni altro paese. D’altro canto lo Stato, sebbene abbia interesse a tenere moderati i dazi fiscali, vuole conservare rispetto ad essi la facoltà di aumentarli, senza vincolo di trattati, quando ciò faccia d’uopo per ottenere maggiori proventi. Né di ciò possono lagnarsi gli Stati esteri che dai trattati di commercio richiedono la difesa contro la protezione interna o contro la concorrenza di altri paesi a condizioni più favorevoli, ma non possono pretendere di essere garantiti a danno dell’interesse pubblico. Perciò il regime normale dei dazi fiscali puri è quello della tariffa generale autonoma. È forse l’unico caso in cui la tariffa autonoma non riesca dannosa.

 

 

Sezione Quarta.

Le imposte sui consumi esatte col metodo della tassazione nei comuni (dazio consumo).

 

368. Concetto. – Il dazio consumo è quell’imposta la quale viene esatta: a) al momento della introduzione della merce entro le barriere daziarie di cui sono muniti i comuni chiusi; b) ovvero, nei comuni aperti o nel territorio aperto dei comuni chiusi, al momento della introduzione della merce tassata nelle botteghe o magazzini che ne effettuano la vendita al minuto.

 

 

Concetto informatore di questo tipo di imposta è di tassare il consumo effettuato in una data circoscrizione territoriale. Motivi di ciò sono: storici, in quanto un tempo questi dazi erano di gran lunga le principali fonti di reddito dello Stato e della puntuale loro riscossione i Comuni erano responsabili di fronte al fisco; attuali, in quanto anche oggi al prodotto dei dazi consumo partecipano collo Stato i Comuni; ed è quindi razionale che sia tassato in ogni Comune solo il consumo compiuto nel territorio comunale. La legge italiana 7 maggio 1908 (testo unico), all’art. 13, pone infatti a criterio fondamentale della tassabilità il principio del consumo locale; ed il regolamento 17 giugno 1909, all’art. 34, prescrive che «dai generi che i consigli comunali possono sottoporre a tasse sono esclusi gli oggetti non suscettibili di immediato consumo … come pure quelli destinati al commercio generale».

 

 

Dobbiamo avvertire che di fatto, in seguito a successive modificazioni legislative, i dazi di consumo in Italia sono diventati un tributo prevalentemente comunale; pure essendo ancora complessi i rapporti fra Stato e Comune.

 

 

369. Dazio governativo e dazio comunale: aggiuntivo od autonomo. – Il dazio consumo si divide perciò in due parti: dazio consumo governativo e dazio consumo comunale. È chiamato dazio consumo governativo quello che si riferisce specificatamente a talune voci che meritano in gran parte almeno di essere tassate perché costituiscono consumi secondari: vino, vinello, mezzo vino, uva, aceto, acquavita, alcool, liquori, sego, burro, zucchero, carni bovine, suine ed ovine, riso, olio, semi e frutti oleiferi.

 

 

A questo dazio governativo si aggiungono i dazi comunali aggiuntivi od autonomi. Sono aggiuntivi, quando sono un’aggiunta di un tanto per cento in più dei dazi governativi, aggiunta che non può superare il 50% del dazio governativo, salvo il riso, per cui non si va fino al 50% del dazio governativo, ma fino al 15/% del valore della merce. Sono autonomi invece quei dazi comunali che colpiscono delle altre voci oltre quelle sopra indicate. La legge in questo caso non specifica più tassativamente le merci che possono essere sottoposte a tassazione; ma ne dà piuttosto una enumerazione dimostrativa, che riguarda le categorie delle merci tassabili piuttosto che i singoli oggetti; e cioè: i combustibili, il materiale da costruzione, il mobilio, la birra, le acque gassose, il pollame e le uova, la cacciagione e la selvaggina, i latticini, i pesci freschi e salati, gli erbaggi, le frutta, i foraggi, le conserve, i dolci ed i generi coloniali, le materie grasse, le profumerie, la carta, le chincaglierie, i vetri, i metalli, la neve e il ghiaccio.

 

 

Se il dazio è autonomo, l’ammontare del dazio non può essere più precisato in una percentuale del dazio governativo perché questo non c’è; invece è stabilito in una quota parte del valore della merce, cioè nel 20% del valore. Fu discusso a questo proposito se il 20% si riferisse al prezzo della merce per sé od al prezzo della merce aumentata della tassa di fabbricazione da cui potesse essere colpita. La questione fu dibattuta a proposito del gas luce. Supponiamo che in una città il prezzo del gas sia di 12 centesimi al metro cubo; a cui si aggiungano 2 centesimi di tassa di fabbricazione governativa. Il dazio comunale autonomo, che può andare sino al 20% del valore della merce, dovrà essere il 20% del prezzo di 12 centesimi ovvero il 20% del prezzo di 12 più la tassa di fabbricazione di 21, ossia di 14 centesimi? Nell’un caso il dazio non potrebbe superare i cent. 2,4; mentre nell’altro caso potrebbe andare sino a 2,8. Fu ritenuto dalle corti giudiziarie che il prezzo fosse quello maggiore di 14 centesimi, ossia comprendesse anche l’imposta di fabbricazione, e ciò perché la merce entra in commercio già gravata d’imposta e circola ad un prezzo totale già comprensivo di imposte e dazi doganali, difficile essendo analizzare per moltissime merci i vari fattori componenti il prezzo. Devesi osservare che il sistema di imporre dazi su imposte si presenta però come pericoloso e tale da portare a duplicazioni di imposte da parte di enti diversi, che, perlomeno, andrebbero legislativamente regolate.

 

 

370. Comuni chiusi e comuni aperti. – I dazi comunali sono esatti, come si avvertì, in diversa maniera a seconda che si tratta di comuni chiusi o aperti. I comuni si dividono in 4 categorie:

 

 

  • 1) quelli che hanno più di 50.000 abitanti;
  • 2) quelli che hanno dai 50.000 ai 20.000;
  • 3) quelli che hanno dai 20.000 agli 8.000;
  • 4) quelli che hanno sotto gli 8.000 abitanti.

 

 

Gli ultimi sono di solito comuni aperti sebbene di aperti se non riscontrino anche nelle precedenti categorie; mentre di regola i comuni delle tre prime categorie sono chiusi, sebbene molti siano oramai passati nel novero dei comuni aperti. Nei comuni chiusi il metodo della esazione è all’atto dell’introduzione della merce nella cinta daziaria; nei comuni aperti il dazio è esatto sul consumo al minuto, ossia sulla minuta vendita fatta dagli esercenti. I due metodi hanno entrambi pregi e difetti.

 

 

Il metodo dei comuni chiusi ha il grande vantaggio di essere di esazione più sicura e più universale dell’altro e di poter colpire indistintamente tutta la merce che entra entro cinta. Invece il metodo dei comuni aperti ha l’inconveniente di colpire solo le merci che sono comperate al minuto o sui mercati o nelle botteghe e lascia quindi esente il consumo fatto all’ingrosso, onde rimangono facilmente immuni le famiglie più agiate che possono provvedersi di merce all’ingrosso o che possono farsi venire le provviste dai loro possedimenti. Pagano invece il dazio sulla minuta vendita solo le classi più numerose e più povere, ovvero tutte le classi per le merci che non si usano comperare all’ingrosso. Dal punto di vista della perequazione tributaria è migliore il sistema del comune chiuso di quello del comune aperto.

 

 

Il sistema del comune chiuso ha però l’inconveniente che i dazi possono essere tenuti troppo elevati, perché possono essere riscossi più facilmente. Invece nei comuni aperti, essendo più difficile la esazione, il dazio si tiene più basso. Quindi nei comuni aperti i consumatori non pagano tutti, ma coloro che pagano hanno il vantaggio di pagare assai meno. Nei comuni aperti la tassazione non può farsi con molta rigidezza, perché se fosse tale sarebbe cagione di troppo odio al fisco; i gabellieri dovrebbero andare ad ogni istante a verificare nei mercati e in tutte le botteghe, parecchie volte al giorno, la quantità di merce introdotta e le rimanenze, per calcolare il consumo effettivo. Ora ciò darebbe luogo a grande malcontento. Perciò i dazi nei comuni aperti sono esatti in maniera blanda.

 

 

Di solito gli esercenti del comune si riuniscono in consorzi che si abbonano verso il fisco per una certa quantità di dazio, data una quantità media di loro consumo e pagano ripartendosi il dazio tra loro. Accade presumibilmente che notevole parte delle merci consumate siano sottratte alla tassazione onde il consumo calcolato per abbonamento è di solito di parecchio inferiore al consumo effettivo. Insomma, il metodo del comune aperto è preferibile quando si vogliono mantenere i dazi pro forma, senza la pretesa di ricavarne notevole provento. Ora, siccome le imposte devono essere esatte sul serio, sembra preferibile il metodo del comune chiuso, specie nelle grandi città e per le derrate di consumo secondario, la cui tassazione appare corretta.

 

 

371. L’esazione del dazio consumo col tipo delle imposte di fabbricazione. – Oltre ai metodi di riscossione tradizionale col mezzo delle barriere daziarie nei comuni chiusi e colla tassazione della minuta vendita nei comuni aperti; vi sono talune forme moderne di esazione, che forse col tempo andranno estendendosi. Vogliamo accennare all’applicazione anche ai dazi di consumo comunali del metodo di tassazione all’atto della fabbricazione. Le condizioni della vita moderna permettono questa trasformazione dei congegni tributari. È fastidioso per i consumatori pagare il dazio quando si entra in città e anche il dazio sulla minuta vendita. Indubbiamente ciò impaccia il commercio; sebbene, se l’esazione fosse limitata a taluni cespiti assai produttivi, il danno al commercio sarebbe limitatissimo. Forme nuove sono sorte che permettono di sperare che con l’andar del tempo il dazio consumo possa in parte essere esatto senza vessazioni alle barriere e senza esazioni sulla minuta vendita. Fin d’ora il dazio sulle carni può essere esatto all’atto della macellazione nei macelli civici. L’imposta sulle carni è diventata una specie di imposta di fabbricazione. Pure il dazio sui foraggi non è necessario esigerlo quando il foraggio entra nella cinta, ma può essere esatto per abbonamento calcolando il numero degli equini ecc. che vivono nel territorio del comune e facendo pagare l’abbonamento al proprietario degli animali. Per i materiali da costruzione non è necessario esigere il dazio quando essi entrano in cinta; bensì, come già si fa in molte città, sull’edificio già compiuto con semplici misurazioni di base ed altezza stabilendo un determinato dazio per ogni metro cubo di costruzione. Così per il gas luce e per la luce elettrica il dazio può essere ed è esatto col metodo dell’imposta di fabbricazione. Si fa pagare una certa tariffa all’impresa, la quale si rivale sui singoli consumatori.

 

 

In questo modo il dazio viene esatto con molta facilità e sono soltanto pochissimi contribuenti che pagano al fisco, salvo a rivalersene sui contribuenti definitivi conglobando l’imposta nel prezzo.

 

 

Così la vita moderna fa sorgere la possibilità di nuovi metodi d’esazione, meno fastidiosi per l’industria ed il commercio.

 

 

372. Riscossione statale e comunale. – La distinzione del consumo in governativo e comunale ha di fatto un’importanza relativamente piccola; perché non tutto il dazio che dicesi governativo va a vantaggio dello Stato; né sempre il dazio comunale viene esatto dai comuni. Chi riscuote l’intiero ammontare del dazio, governativo e comunale insieme, e sempre un solo ente, il comune di regola, lo Stato in due soli casi, salvo all’ente riscuotitore di liberarsi verso l’altro versandogli un canone determinato.

 

 

Di regola è il comune che esige l’intiero ammontare del dazio governativo e comunale, pagando un canone allo Stato. Questo è il caso generale. Il canone che i comuni pagano allo Stato batte sui 50 milioni di lire all’anno.

 

 

In due soli casi, e cioè per i comuni di Roma e Napoli, si è scelto il metodo inverso; ed è lo Stato che cura l’esazione dell’intiero dazio governativo e comunale, e paga ai due comuni un canone. Nel 1910-1911 lo Stato ha incassato in totale a Roma 20.8 milioni ed ha pagato tra canone e spesa di riscossione 19.2 milioni; a Napoli ha incassato 10.4 ed ha speso 14.9 milioni di lire. Si vede che la eccezione alla regola generale fatta per Roma e Napoli è a tutto danno dello Stato, essendo il canone versato alle due città evidentemente fissato in una cifra molto superiore all’ammontare del reddito del dazio comunale e che usurpa qualche volta tutto l’ammontare del dazio governativo. Inutile indagare di ciò le origini; le finanze della capitale e della grande città partenopea essendo sempre state dissestate ed essendosi veduto lo Stato in obbligo morale di venire in loro soccorso. Nel caso normale, in cui sono i comuni ad esigere, essi pagano allo Stato un canone che pel periodo 1906-1915 è stato fissato in circa 50 milioni di lire annue; cifra in complesso parecchio inferiore al dazio governativo esatto realmente, in quanto che a titolo di dazio governativo i comuni esigono molto più di quanto paghino allo Stato come canone, talché si può affermare che in sostanza la distinzione tra dazio governativo e dazio comunale è artificiosa, formalmente scritta sulla carta, senza un contenuto reale. Salvo Roma e Napoli, lo Stato si contenta di esigere un canone fisso invece della sua parte di dazio; canone che esigerebbe anche nell’ipotesi che il dazio fosse abolito. Un comune ricco potrebbe abolire il dazio tanto governativo che comunale, e pagare allo Stato egualmente il canone fisso.

 

 

373. Sussidi dello Stato ai Comuni per l’abolizione del dazio sui farinacei e per il passaggio da comuni chiusi a comuni aperti. – Il provento dello Stato è diminuito anche per altre considerazioni. Nel 94 lo Stato abolì il dazio governativo sui farinacei e nel 1902 anche il dazio comunale per sgravare i consumi di prima necessità e perciò cagionò alle finanze comunali un danno sensibile. Per risarcirlo lo Stato si obbligò a pagare gli 8/10 del provento perduto ai comuni chiusi ed i 7/10 ai comuni aperti; perciò sulla somma che percepisce some canone lo Stato deve ancora rimborsare una forte quota di concorso per l’abolizione del dazio sui farinacei. Oltre a questa quota di concorso per l’abolizione del dazio sui farinacei lo Stato dà ancora ai comuni un sussidio per incoraggiarli a diventare, da comuni chiusi, comuni aperti. Il sussidio è del 10, 15, 20% a seconda che si tratta di comuni di seconda, terza, quarta categoria; 10, 15, 20% s’intende sul dazio che i comuni quand’erano chiusi esigevano.

 

 

347. Reddito per lo Stato del dazio consumo. – Raccogliendo le fila possiamo dire che la contabilità del dazio consumo per lo Stato si concreta in questa maniera nel 1910-1911:

 

 

Ricava come canone dai consumi

L. 49.218.326

Ricava dall’esercizio del dazio di Napoli

L. 10.406.236

Ricava dall’esercizio del dazio di Roma

L. 20.845.867

In totale ricava

L. 79.470.429

 

 

A sua volta lo Stato deve rimborsare: a Napoli L. 14.912.478, perciò nella gestione di quel dazio ci rimette 4.506.242 lire; a Roma deve rimborsare L. 19.285.474, somma che pare destinata a crescere; onde il reddito netto del dazio di Roma per lo Stato è ridotto a L. 1.560.393 lire. Lo Stato inoltre dà ai comuni come quota di concorso per l’abolizione del dazio sui farinacei L. 18.966.384 e come sussidi per il passaggio a comune aperto L. 1.071.300; in tutto, con altre minori spese, L. 20.124.779. In totale paga 51.322.731 lire e perciò ricava netti 25.147.698 lire, mentre nel 91/92 il reddito netto per lo Stato era ancora di 67 milioni. È, insieme con la fondiaria, l’imposta che è diminuita di più; non formando più che l’1% delle entrate dello Stato. Perciò questo non ha più un grande interesse alla conservazione del dazio consumo, e sarebbe forse meglio che facesse l’ultimo passo e si liberasse da questa gestione cedendo ai comuni il canone, ma non pagando più le quote di sussidio e di rimborso. La cosa non è facile, perché talvolta la somma pagata come canone dai singoli comuni è maggiore e talvolta minore di quella rimborsata a titolo di quote di concorso e di sussidio; ma forse non sarebbe impossibile trovare a ciò una via d’uscita.

 

 

375. Il protezionismo municipale e i dazi consumo. – Se è conveniente che lo Stato abbandoni ai comuni il dazio consumo; è invece necessario che il legislatore regoli più ragionevolmente questa materia per impedire le cattive applicazioni che del concetto del dazio consumo purtroppo usano fare molti comuni; i quali non contenti di usare del dazio come di uno strumento puramente fiscale vogliono servirsene a scopo protettivo a favore dell’industria localizzata nell’entro cinta. In Italia, a differenza di quello che è accaduto in Francia, dove le magistrature sono state assai rigide nella determinazione delle voci che potevano tassarsi, si è stati assai larghi nell’estendere il concetto delle voci tassabili. Siccome il regolamento parla di «merci di consumo locale» si è interpretata questa frase con estrema larghezza, di modo che si è creduto che qualunque merce potesse essere sottoposta a dazio. I comuni hanno inventato una infinità di voci, il cui intento è di stabilire una vera e propria barriera doganale protezionista a favore dei fabbricanti dell’entro cinta contro la concorrenza del fuori cinta.

 

 

Così a Torino la tariffa doganale è vantaggiosissima ai fabbricanti di sapone, di cioccolatto, di dolciumi, di liquori, di candele steariche, di carta da parato, di confetti e cioccolatto, di mobili; a Genova si favoriscono i fabbricanti di mobili, di luci da specchi, di carta, di profumerie e saponi fini, di confetti e cioccolatto, di candele; a Firenze di porcellane e mobili artistici, di terre cotte ornamentali, di profumerie ecc.; a Venezia di cristalli e vetri artistici di specchi, di mobili ecc. ecc. Spessissimo accade che il dazio cresca normalmente e in misura fortissima a mano mano che si perfeziona il grado di lavorazione dell’oggetto importato, rimanendo molto mite per i generi che attendono di ricevere entro cinta una ulteriore lavorazione per essere pronti al consumo.

 

 

Perciò i consumatori dell’entro cinta non hanno convenienza a provvedersi delle merci o derrate lavorate dal di fuori, dovendo pagare un dazio troppo forte ed i fabbricanti interni che non pagano dazio o pochissimo sulla materia prima, possono aumentare i prezzi di tutto l’ammontare del dazio sul prodotto consumabile ultimo, e così i consumatori dell’entro cinta pagano un prezzo più elevato del prezzo fuori della barriera daziaria. All’ombra di queste barriere doganali municipali i consumatori non solo pagano una vera e propria imposta al fisco, ma anche un premio ai fabbricanti interni che sono protetti dalla barriera daziaria. Questa è vera e propria degenerazione delle tariffe daziarie, che proviene spesso da trascuranza nell’applicazione delle leggi e da ignoranza dei danni che questo protezionismo municipale apporta al paese.

 

 

Il sistema protettivo è sempre dannoso, ma se si tratta di uno Stato ampio, il danno è relativamente meno sentito. Gli Stati Uniti hanno sopportato un danno meno forte dall’esistenza di un sistema protettivo, perché il loro è così grande mercato che il libero scambio se non con l’estero ha campo di affermarsi tra i vari territori degli stessi Stati Uniti. Già meno attenuati sono i danni in Italia e in Francia; ma il danno è addirittura enorme quando parliamo di un piccolissimo territorio come la superficie di un città che viene protetta dall’introduzione delle merci dal di fuori. Così vediamo che a Torino è diffusissimo l’uso dei materiali artificiali in cemento per la costruzione delle case, non per condizioni naturali, ma per la protezione che i dazi hanno data alla pietra artificiale. I proprietari hanno convenienza a ricorrere a questa materia che dà luogo ad architetture poco belle perché volendo comperare della pietra viva e buona della vicine cave delle Alpi sarebbero assoggettati ad un dazio troppo forte. Il che si può ripetere per molte altre voci; i mobili aumentano di prezzo perché esiste una protezione doganale a favore di fabbricanti cittadini di mobili.

 

 

Nascono, così, vere e proprie industrie artificiali che altrimenti non nascerebbero. Si accresce la tendenza già abbastanza dannosa dell’inurbamento di operai che avrebbero potuto vivere in piena campagna, e sono attratti dalle industrie artificiose create dai dazi dell’interno della città. I risultati sono il rincaro dei viveri, degli alloggi, ecc. e quei medesimi uomini pubblici che sono stati in parte la causa di questa elevazione del costo generale, perché hanno posta dazi protettivi ed indotto le industrie ad inurbarsi vanno poi affannandosi a procacciarsi popolarità inventando espedienti costosi per costruire case popolari a spese del municipio, a costi alti e con risultati spesso passivi facendo quindi sopportare ai contribuenti altri oneri e altre spese in aggiunta a quelle, a cui sono già sottoposti per opera dei dazi protettivi.

 

 

Aggiungasi che il protezionismo municipale è profondamente illegale perché contrario ai trattati internazionali che avvincono l’Italia ai paesi stranieri. L’Italia si è impegnata con questi trattati a lasciar entrare certe merci con un certo dazio di frontiera allo scopo di ottenere certi ribassi di dazio sulla nostra esportazione. Ora, che fiducia potranno avere quegli Stati nella parola del legislatore italiano, quando avendo ottenuto la promessa di poter importare con dazio limitato e contrattuale determinate merci, ognuno dei comuni può sbizzarrirsi ad inventare dazi proprii a scopo protettivo, diminuendo il valore dei trattati internazionali? In tal modo i nostri trattati internazionali sono messi in balia di qualsiasi consiglio comunale del Regno e se si pensa che su 35 milioni di abitanti in Italia, 15 milioni vivono in comuni chiusi e sono gli abitanti più ricchi, si comprenderà come la chiusura di questi piccoli mercati al mercato straniero sia un fatto grave e tale da prendersi in seria considerazione nella stipulazione dei trattati di commercio nel nostro interesse. Quanto meno sarà diffuso il protezionismo municipale, tanto più facile sarà ai negoziatori italiani di ottenere ribassi sui dazi doganali stranieri a favore delle nostre esportazioni.

 

 

Fosse almeno il provento dei dazi consumo protettivi importante! Invece, come insegna Giuseppe Prato nella notevole monografia Le Dogane interne nel secolo XIX. Il mercantilismo municipale (supplemento alla «Riforma Sociale» del marzo-aprile 1911) trattasi di redditi di ben scarsa importanza: a Roma nel 1908-1909 su 20 milioni di provento totale del dazio, sol 1.300 mila provenivano dalle categorie già numerose ed intinte della pece protezionista; a Napoli su 14 milioni meno di 600 mila lire; Firenze su 7,5 milioni meno di 500 mila; a Torino su 14 milioni circa 600 mila. Per un reddito sostanzialmente trascurabile si moltiplicano oltre misura le voci della tariffa daziaria, di cui il pregio massimo dovrebbe essere la semplicità e la limitazione a poche voci di gran reddito; si arreca grande impedimento al commercio, che non sarebbe frastornato sensibilmente da una tariffa daziaria avente carattere puramente fiscale e perciò limitata a poche voci; si provoca una localizzazione artificiosa delle industrie nelle grandi città con aumento del costo; si asservono i consumatori ai fabbricanti protetti.

 

 

Ancora una volta si deve riconoscere che i difetti, che si rimproverano ai dazi, sono imputabili non tanto ai pochi dazi fiscali, quanto ai molti dazi protettivi. Sono appunto i consumi limitati e colpiti con forti aliquote che costituiscono l’incitamento e porgono la materia prima al contrabbando, giustificando le più indiscrete ed odiose perquisizioni e visite personali.

 

 

Né deve dimenticarsi che tutta la complicazione contabile ed amministrativa, tutto l’intensificarsi e moltiplicarsi di cautele e di controlli che occorrono per le non semplici operazioni di restituzione del dazio sulle materie prime, le quali vengono riesportate sotto forma di prodotti lavorati, sono una conseguenza fatale ed inevitabile del gran numero delle voci colpite e del carattere economico protettivo che si volle dare ad un istituto prettamente fiscale. Col crescere delle voci colpite, improduttive o poco produttive per lo più, aumenta in proporzione il costo di esazione; onde si viola il quarto canone di Adamo Smith e lo si viola per ragioni che nulla hanno a che fare con la esazione delle imposte a vantaggio dell’erario.

 

 

Sezione Quinta.

Le imposte suntuarie.

 

376. Concetto. – Già si è detto (specialmente nel paragrafo 309) quale gran posto in un corretto sistema di imposte sul reddito consumato potrebbero avere le imposte suntuarie, ossia quelle imposte che colpiscono i beni di consumo durevole (casa, automobili, cavalli, carrozze, stemmi, livree, cani) ed i servizi di persone (tassa domestici). In Italia poca importanza hanno queste imposte, essendosi a torto trascurate.

 

 

377. Le imposte sul valor locativo. – È forse la migliore imposta suntuaria, come quella che colpisce una parte cospicua del reddito consumato. Quando fosse consegnata in maniera da esentare gli affitti modesti e da essere progressiva moderatamente, allo scopo di compensare la non esatta proporzionalità al reddito consumato totale delle imposte sui consumi secondari, e quando tenesse conto del risparmio educativo, ossia delle somme impiegate nel pagamento dell’affitto per le camere abitate dai figli in minore età, la imposta sul valore locativo potrebbe considerarsi ottima.

 

 

Disgraziatamente in Italia è scarso l’uso che si fa di questa imposta, la quale pure è consentita dalla legge del 28 luglio 1866 ai comuni, i quali possono tassare cioè il fitto annuo di ogni casa od appartamento presso l’inquilino, sia che sia mobigliato con mobili propri dell’inquilino o d’altri, sia che sia abitata continuamente o saltuariamente, compreso il valore annuo delle dipendenze (giardini, scuderie, fienili). Il valor locativo delle abitazioni si desume dal loro affitto reale o presunto, senza alcuna detrazione; il che è razionale, non volendosi colpire il reddito netto della casa per il proprietario, bensì la spesa dell’abitazione per l’inquilino. Trattandosi di una imposta sulla spesa o reddito consumato, ne sono esenti i locali che non servono ad uso di abitazione e quindi gli opifici e gli stabilimenti industriali coi magazzini che ne dipendono, i locali degli uffici pubblici, dei convitti, delle scuole, delle società di mutuo soccorso e di beneficenza.

 

 

Il poco uso che si fa di questa imposta dipende da due circostanze:

 

 

  • a) il fatto che i comuni sono obbligati a scegliere tassativamente tra due tariffe, una proporzionale del 2% sul fitto o valor locativo annuo dell’abitazione, e un’altra progressiva, che può essere graduata dal 4 al 10 per cento. La tariffa proporzionale non piace, perché troppo tenue e quindi improduttiva e perché non compensatrice della disuguaglianza delle altre imposte sui consumi; la progressiva è ritenuta inapplicabile, perché comincia da una aliquota troppo elevata, che non potrebbe applicarsi ai fitti piccoli; onde converrebbe esentarne troppi sino ad un limite altro, sicché l’imposta diventerebbe improduttiva per un altro verso, essendo i piccoli fitti la grandissima maggioranza;
  • b) la propensione sentimentale dei reggitori dei comuni a favore della imposta di famiglia, la quale è una vera imposta sul reddito globale guadagnato della famiglia. Imposta coattiva, perché contraddice al postulato dell’esenzione del risparmio; ma simpatica ai popoli ed agli uomini pubblici perché ha apparenza democratica.

 

 

È completamente sconosciuto nella legislazione quell’utile complemento della imposta sul valor locativo che sarebbe l’imposta sul mobilio.

 

 

Presentatane la proposta in un disegno di legge 5 marzo 1852 dal conte di Cavour, non ebbe buona accoglienza perché in sostanza essa si sarebbe risoluta in un duplicato dell’imposta sul valor locativo, volendosi stimare il mobilio in un multiplo del fitto di casa. Su di ciò leggasi l’istruttivo articolo di Alberto Geisser, Della tassa domestici e di alcuni minori tributi locali in Riforma Sociale del luglio/settembre 1912. Ma oggi la tassazione del mobilio sarebbe resa più facile dalla consuetudine di assicurarlo contro gli incendi e dalla possibilità quindi di una valutazione più precisa della materia imponibile.

 

 

378. L’imposta sui velocipedi, motocicli e automobili. – Esiste invece, a favore per metà dell’erario dello Stato e per metà dei comuni, l’imposta sui velocipedi e macchine od apparecchi ad essi assimilabili che sono tassati, se ad un posto con l’imposta annuale di L. 6 (prima era di L. 10), se a più posti di L. 6 per ogni posto in più. Per i motocicli e le motociclette la imposta è di L. 25. Sulle vetture automobili l’imposta è dovuta in ragione della forza dinamica del motore (la maggiore che questo può sviluppare) se si tratta di vetture e carri ad uso privato; ed in ragione dei posti se di vetture ad uso pubblico. L’imposta per le vetture ad uso privato è di L. 120 sino ad una forza massima di 9 HP, di L. 140 sino a 12 HP, di L. 180 sino a 16 HP, di L. 220 sino a 24 HP; sino a 60 HP di L. 5 per ogni HP oltre le L. 220 per le prime 24 HP; e di L. 500 per oltre 60 HP.

 

 

La tariffa è ridotta ad 1/3 per i carri automobili destinati esclusivamente al trasporto merci. Per le vetture ad uso pubblico la tassa è di L. 36 sino a 4 posti, di L. 40 sino a 10 posti, di L. 100 oltre a 10 posti e destinata a rimorchiarne altre e L. 50 per le vetture destinate ad essere rimorchiate.

 

 

Gli omnibus, automobili degli alberghi vanno considerati e tassati come ad uso privato, perché sono adibiti esclusivamente al particolare servizio dell’albergo.

 

 

Questa imposta sarebbe ben congegnata, se non ci fosse forse il pericolo di frodi nella denuncia della forza del motore; pericolo a cui si può ovviare solo mercé un’oculata vigilanza amministrativa. Si può ancora osservare che l’imposta sulle automobili non avvantaggia i comuni, i quali sono soggetti a gravi spese per la costruzione e la manutenzione delle strade comunali, di cui usufruiscono velocipedi e vetture automobili. A questa mancanza si potrebbe forse ovviare in parte, imponendo un tributo comunale sui conduttori di automobili considerati come domestici. Ma, allo stato attuale della legislazione, poco profitto possono i comuni cavare da questo balzello.

 

 

379. Imposta sui domestici, sui cavalli, cani, ecc. – Infatti, in virtù del R.D. 24 dicembre 1870, la imposta sui domestici deve essere annua e fissa e proporzionale al numero loro, da non eccedere le L. 10 per l’uomo e L. 5 per ogni donna. Dati i limiti assai bassi che non possono sorpassarsi nella applicazione di questo tributo, i comuni provvedono con rilassatezza alla sua riscossione. A Torino, ad es. figurano nel 1910 solo 1327 domestici maschi e 12.136 femmine, ossia un domestico maschio ogni 322 abitanti e una femmina ogni 35 abitanti; mentre a Milano le proporzioni sono di 1 ogni 211 e 26 rispettivamente ed a Firenze di 1 ogni 134 e 27. Questo è indice chiarissimo di poco severa applicazione dell’imposta. A Torino sulle 1.208 famiglie comprese nei ruoli del 1912 vi sarebbero 8006 famiglie con 1 serva, 1312 con 2 serve femmine, 103 con 3, e 3 con 4; solo 781 famiglie avrebbero 1 o più servi maschi. Il provento di questa imposta è calcolato appena in 73.890 lire; mentre ben maggiore sarebbe il provento se la prima domestica fosse tassata con 5 lire, la seconda con 10, la terza con 25; il primo domestico maschio con 25 lire, il secondo con 50, il terzo e successivi con 75 lire; il cocchiere con 75 lire; il conduttore di automobili con 100.

 

 

Anche le altre tasse suntuarie danno prodotti irrisori per rilassatezza di applicazione; l’imposta sui cani, che deve essere fissa per ogni cane, ed esenta i cani destinati alla custodia degli edifizi rurali e di greggi, i cani lattanti, quelli che servono di guida ai ciechi e gli appartenenti a persone non aventi fissa dimora nel comune, può variare da L. 1 a 40 per ogni cane. Ad essa ci si sottrae con l’abbandono del cane. A Torino l’imposta su 4460 cani rende 96.300 lire.

 

 

L’imposta sulle vetture private colpisce tutti i veicoli di ogni forma o dimensione, sospesi su molle e destinati al trasporto delle persone, posseduti, usati o non usati o posti per qualunque titolo, anche gratuito, a disposizione di chi non sia esercente il servizio di vetture pubbliche. La tariffa massima è di L. 60 nei comuni di oltre 80 mila abitanti, di L. 50 nei comuni da 40.001 a 80 mila abitanti, di L. 40 da 20.001 a 40 mila, di L. 30 da 4.001 a 20 mila, di L. 20 nei comuni con popolazione inferiore. Le gondole e barche sono pareggiate alle vetture. Le vetture con stemma pagano il doppio. A Torino si accertarono 275 vetture private e pagarono 24.120 lire nel 1912.

 

 

L’imposta sulle vetture pubbliche colpisce i veicoli, con i quali, mediante mercede, si trasportino persone anche promiscuamente con merci. La tassa è suddivisa in classi seconda del numero dei posti, della percorrenza, della importanza del traffico e non può eccedere le L. 60 all’anno. A Torino nel 1912 furono tassati 47 proprietari di vetture pubbliche per un importo di 13.940 lire.

 

 

Il gruppo delle imposte suntuarie soffre nella nostra legislazione per non essere razionalmente coordinato, come potrebbe, allo scopo di colpire una ragguardevole parte del reddito consumato dei contribuenti e di compensare così i difetti delle altre imposte sui consumi.

 

 



[1] Nel linguaggio delle nostre leggi fiscali e nella pratica amministrativa si sogliono anzi chiamare tasse di fabbricazione; ne che non vi è nessun errore, perché le cose si possono indicare con qualsiasi nome. Avendo però noi adottato un’altra terminologia, preferiamo chiamarle imposte. Avvertiamo gli studenti di non confondere, per la somiglianza del suono delle parole, queste imposte con la imposta sui fabbricati, la quale colpisce invece il reddito dei fabbricati civili ed industriali.

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