Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo III – Delle Tasse

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo III – Delle Tasse

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 121-150

 

 

 

Sezione Prima.

Passaggio dal sistema dei prezzi pubblici al sistema delle tasse.

 

93. In generale. – Prima di dare la definizione della parola bassa, è necessario esaminare in qual guisa si passi dal prezzo pubblico a questa nuova categoria di tributi.

 

 

La molteplicità e diversità dei casi può dar luogo a dei dubbi riguardo alla distinzione, e infatti esistono dei servizi nei quali si passa gradatamente, pur trattandosi sempre dello stesso servizio, dal prezzo privato a quello pubblico, e da questo alla tassa e poi all’imposta. L’esame di alcuni casi particolari gioverà a mettere in luce i caratteri distintivi della tassa dal prezzo pubblico, riuscendo così più agevole dare la definizione del primo.

 

 

94. Nel caso delle ferrovie. – Così, nell’esercizio delle ferrovie, lo Stato può usare i prezzi dell’economia privata quando si comporti come un qualsiasi esercente può usare dei prezzi pubblici quando disponga le cose in modo da ottenere l’uguaglianza tra il complesso dei proventi e il complesso delle spese ripartendo queste spese tra i diversi consumatori secondo si dimostra necessario per raggiungere certi fini pubblici, passerà infine alla tassa quando compensino il costo totale, ma soltanto il costo vive d’esercizio e una parte delle spese generali.

 

 

Così nel nostro paese lo Stato perde in complesso nell’esercizio dell’impresa ferroviaria poi in special modo per alcuni trasporti: segnatamente per quello delle derrate agricole e di talune classi privilegiate di viaggiatori e non perde soltanto le spese fisse, ma anche una parte di quelle inerenti al costo vivo di esercizio. È quindi un danno anche per l’economia sociale, ma lo Stato pensa sia bene sopportarlo per ottenere certi fini politici e anche economici, rinsaldando i vincoli fra l’Italia superiore e l’inferiore. Poiché lo Stato non bilancia entrate ed uscite, si può considerare in alcuni casi come una tassa la tariffa che fa pagare ai militari ed agli impiegati i quali pagano rispettivamente soltanto il 25% e il 50% delle tariffe normali, poiché si può ritenere che essa non compensi il costo vivo di esercizio, non essendo sempre esatto ciò che sopra si notò a giustificazione di queste bassissime tariffe, essere destinate a provocare un traffico che altrimenti non ci sarebbe stato, non viaggiando militari ed impiegati se non a tariffa ridotta e rinunciando altrimenti al viaggio. Può darsi invero che essi avrebbero in parecchi casi viaggiato anche a tariffa intiera; onde la tariffa speciale che loro si concede dà luogo ad un gravame pei contribuenti, i quali pagano agli impiegati una specie di integrazione di stipendio.

 

 

Si può anche andare più in là e non far pagare alcun prezzo concedendo il trasporto gratuito. Allora il medesimo trasporto ferroviario per cui si pagano in generale prezzi pubblici e tasse non dà più lungo neanche alla tassa, ma all’imposta.

 

 

È quello che avviene tra noi per il trasporto dei senatori e dei deputati, che non pagano né prezzo privato né pubblico; ma, malgrado essi non paghino direttamente nulla, il costo relativo, dovendo essere sopportato dallo Stato, pesa per intero sulle imposte. Dal che appare come sia impossibile arrivare alla ferrovia gratuita, ma tutt’al più ad una ferrovia il cui costo sia distribuito, per mezzo d’imposte, su tutti i contribuenti.

 

 

95. Nel caso dell’acqua potabile. – Un passaggio simile dalla tassa all’imposta si può vedere attuato nel servizio dell’acqua potabile. Nel caso in cui ci sia una società privata, essa porterà il prezzo, differenziando, ove ciò le riesca, la tariffa, a tal punto da ottenere il massimo guadagno possibile. Se sottentra il municipio, questo forse stabilisce un prezzo pubblico in guisa da far pagare agli utenti un prezzo uniforme o differenziato, a seconda dei casi proporzionato al consumo dell’acqua, ed eguale al costo del trasporto più gl’interessi e l’ammortamento del capitale impiegato. Più tardi poi il municipio può trasformare il pagamento del prezzo pubblico in tassa, quando delibera di subire una perdita sul costo totale dell’esercizio per raggiungere certi intenti di igiene; in quanto i poveri, se il prezzo fosse troppo elevato, farebbero un consumo troppo modesto di acqua, con grave pregiudizio della pulizia e dell’igiene. Il municipio concederà allora a certe classi di utenti l’acqua al disotto del costo, senza compensare la perdita con una corrispondente elevazione di prezzo sugli altri utenti. Ma allora poiché la spesa da sopportare rimane, e per l’accresciuta erogazione di acqua forse cresce, la perdita andrà a carico dei contribuenti in generale sotto forma di nuove imposte.

 

 

Per il servizio dell’acqua potabile si potrebbe anche procedere oltre, e passare al campo dell’imposta pura, quando il municipio concedesse gratuitamente l’acqua indistintamente.

 

 

96. Nel caso dell’istruzione. – Un altro campo in cui possiamo trovare l’applicazione contemporanea di tutti questi principi, è quello della istruzione. In esso vediamo il concetto del prezzo privato, del prezzo pubblico, della tassa e dell’imposta, tutti quanti effettivamente applicati.

 

 

Coloro i quali esercitano privatamente l’industria dell’istruzione in convitti si fanno pagare un prezzo ch’è privato, in quanto è regolato dalla concorrenza degli altri che esercitano questa stessa industria. Questo prezzo da privato diventa pubblico, quando lo Stato passi ad esercitare direttamente il convitto e si faccia pagare rette tali che servano a coprire l’intiero costo dell’impresa.

 

 

La tassa viene applicata nel campo delle scuole superiori e delle scuole medie. Infatti, la somma che, in tal caso, gli utenti ossia gli scolari, pagano per avere l’istruzione media o universitaria è inferiore al costo che lo Stato sopporta; ma la perdita è sopportata perché di ritiene che l’istruzione media e superiore non sia solo di vantaggio a coloro che la ricevono, ma sia utile alla società nel complesso in quanto ad essa è necessaria una classe dirigente ben fornita di soda coltura. Quindi per ottenere lo scopo sociale della costituzione di tal classe, si fa pagare una tassa scolastica, naturalmente inferiore al costo totale, e la parte scoperta del costo di pone a carico dei contribuenti in genere con le imposte.

 

 

Noi troviamo invece l’applicazione del criterio puro e semplice della imposta nelle scuole elementari. In questo caso non abbiamo più tasse: la scuola è gratuita, anzi dichiarata obbligatoria. Lo Stato che insieme coi comuni spende somme forti per mantenere le scuole elementari agisce, non solo nell’interesse degli individui, ma di tutto il paese e intende perciò che il costo venga ad essere sopportato da tutti i cittadini per mezzo delle imposte. Per quanto piccola, una tassa sule scuole elementari sarebbe di freno alla frequenza, e si reputa che il danno conseguente sarebbe grave per l’intera nazione. Ecco adunque come vengono applicati nel campo dell’istruzione pubblica tutti i diversi, dal prezzo privato all’imposta.

 

 

Sezione Seconda.

Definizioni e caratteristiche delle tasse.

 

97. Differenze e caratteristiche del prezzo pubblico e della tassa. – Concludendo: ciò che caratterizza i due fenomeni che sono più vicini fra di loro, e cioè il prezzo pubblico e la tassa (faremo in seguito apparire la differenza tra la tassa e l’imposta) è questo: nel prezzo pubblico predomina l’interesse privato; è il privato che vuole viaggiare e paga la tariffa ferroviaria; che vuole che suo figlio studi in istituti di Stato perché non gli può dare in casa un’istruzione conveniente; che vuole fruire dell’acqua potabile, ecc; e paga i relativi prezzi pubblici. Lo Stato in tal caso, si limita ad impedire che il prezzo in complesso superi il costo. Invece nel caso della tassa abbiamo già un più rilevante elemento pubblico. Lo Stato ha interesse a che dell’acqua si faccia molto uso, per scopi igienici. Lo Stato crede di non dover pagare agli impiegati e ai militari uno stipendio tale che essi possano sottostare alle tariffe ferroviarie normali e perciò crede più opportuno concedere loro dei ribassi. Lo Stato reputò utile, nell’interesse del progresso della coltura e della formazione delle classi dirigenti, incoraggiare agli studi medi e superiori facendo pagare una tassa inferiore al costo totale dell’istruzione fornita. Nel caso della tassa i contribuenti pagano il saldo del deficit prodotto col far pagare tasse in luogo di prezzi pubblici.

 

 

Ciò che può servire di guida a giudicare se ci troviamo nel campo del prezzo pubblico o della tassa è l’elemento d’interesse pubblico. Quando questo elemento si limita al prezzo stesso e consiste esclusivamente nell’interesse che ha lo Stato di impedire che gli utenti paghino più del costo, diremo di essere nel campo del prezzo pubblico. Quando invece l’interesse pubblico si riferisce a scopi diversi da quello del prezzo, e per raggiungere questi altri scopi lo Stato si decide a dare il servizio ad un prezzo che sia inferiore al costo, passiamo nel campo della tassa.

 

 

98. Definizione della tassa. Si tratta di un servizio particolare divisibile. – La tassa si potrebbe definire: compenso inferiore al costo totale pagato dal contribuente per un servizio speciale e divisibile, reso a lui dietro sua domanda ma contemporaneamente al soddisfacimento di un bisogno indivisibile di tutti i consociati. Questa definizione si può dividere in parecchi concetti: in una prima parte infatti si esprime il concetto che la tassa si paga in compenso di un servizio speciale e divisibile reso al contribuente dietro su domanda.

 

 

In questo concetto non vi è nulla che distingua la tassa dal prezzo pubblico. Questa parte della definizione ha per iscopo mettere in chiaro che si tratta sempre, come già nel caso del prezzo pubblico, di un servizio che lo Stato rende al contribuente individualmente; recandogli un vantaggio individuale che può essere misurato. È appunto in ciò che prezzo pubblico e tassa si identificano distinguendosi nel tempo stesso amendue dall’imposta. Infatti quando paghiamo l’imposta sulla ricchezza mobile, non la paghiamo già per alcun vantaggio particolare che, abbiamo ottenuto come contribuenti ma la paghiamo per i vantaggi generali che lo Stato dà.

 

 

Non è certo possibile di frazionare il servizio dell’esercito in base al vantaggio particolare d’ogni utente, potendosene calcolare solo il costo complessivo. Invece nel prezzo pubblico e nella tassa abbiamo un vantaggio che è divisibile per ogni contribuente. Chi va a scuola o chi viaggia ha certo un vantaggio particolare dal servizio della ferrovia o dell’istruzione; quindi l’utente paga per questo suo proprio vantaggio, e paga perché il vantaggio da lui ottenuto può essere separato dal vantaggio che possono ottenere altri.

 

 

99. Si tratta di un servizio particolare e divisibile, ma reso contemporaneamente al soddisfacimento di un bisogno indivisibile di tutti i consociati e perciò reso ad un prezzo inferiore al costo totale dell’esercizio. – Questa è la caratteristica che distingue tassa dal prezzo pubblico. Quando si parla di prezzo pubblico, si parla di un prezzo pagato per soddisfare al costo perfettamente divisibile di un bisogno individuale, ma che lo Stato intende, nell’interesse pubblico, che sia soddisfatto regolando i prezzi pubblici in maniera diversa da quella in cui sarebbero regolati i prezzi privati. Ma, poiché il costo del soddisfacimento del bisogno è tutto divisibile, così il prezzo deve comprendere tutto il costo. invece, quando si fa pagare la tassa, il costo del soddisfacimento del bisogno non è più intieramente divisibile tra gli utenti; in parte si tratta di un costo divisibile. Così, schematicamente:

 

 

Impresa pubblica

Bisogno divisibile od a costo divisibile.

Bisogno indivisibile o a costo indivisibile.

Ferrovia Viaggio o spedizioni di merci. Diffusione cultura; difesa militare; incoraggiamento a regioni arretrate economicamente.
Acqua potabile. Bevanda, usi di cucina, nettezza personale. Prevenzione malattie contagiose mercé propaganda pulizia.
Stabilimenti di istruzione. Istruzione; diplomi professionali. Formazione classi dirigenti colte.

 

 

In un paese dove la coltura sia già diffusa, dove non occorra provvedere alla mobilitazione o dove il traffico sia tale da far costruire da solo tutte le linee ferroviarie che serviranno anche, occorrendo, per la mobilitazione, dove tutte le regioni partecipino già al progresso economico, non esiste un bisogno a costo indivisibile da soddisfare, ma solo i bisogni a costi divisibili; e perciò in questo paese si può applicare il prezzo pubblico. In un altro paese, dove invece si debba soddisfare altresì a quei tali bisogni a costi indivisibili, il sistema ferroviario costerà in totale, ad es. 700 milioni. Evidentemente non tutti questi 700 milioni si potranno accollare agli utenti che godono del servizio «trasporto» a costo divisibile; ma andranno ripartiti fra utenti della ferrovia e contribuenti in generale. In tal caso il prezzo che si fa pagare agli utenti dicesi tassa per indicare che con esso non si copre tutto il costo del servizio, ma solo una parte, i tre quarti od i quattro quinti; andando l’altro quarto o quinto può supporre godano del servizio a costo indivisibile della diffusione della cultura, della rapida mobilitazione, ecc. ecc. L’esempio fatto per la ferrovia esime dal ripetere gli stessi concetti per l’impresa dell’acqua potabile, degli stabilimenti di istruzione e delle altre numerose imprese pubbliche, dove può verificarsi l’esistenza soltanto di un bisogno a costi divisibili – ed allora si applicherà il prezzo pubblico – o invece contemporaneamente di diversi bisogni, gli uni a costi divisibili e gli altri a costi indivisibili, ed allora si applicherà la tassa per la parte divisibile del costo, facendo coprire con l’imposta la parte di esso costo che è indivisibile.

 

 

100. Avvertenza sulla difficoltà di distinguere la parte di costo divisibile da quella indivisibile. Ed influenze di classe perturbatrici. – Qui occorre di fare due avvertenze. La prima delle quali si è, che sopra quasi si suppose che fosse agevole distinguere la parte divisibile dalla parte indivisibile del costo totale, coprendo la prima con la tassa e la seconda con la impresa. In realtà nulla di più difficile, vago ed incerto nella pratica; nulla che sia più soggetto alle influenze elettorali degli utenti e dei contribuenti. Sono i paese influenti assai gli utenti di una pubblica intrapresa; per esempio i viaggiatori, gli speditori di merci, i proprietari di case che in un primo momento pagano l’erogazione dell’acqua potabile; e sono invece disorganizzati e silenti i contribuenti? Ed allora gli utenti dimostreranno, a gran voce e con gran lusso di argomenti pseudo-scientifici che ferrovia, acqua potabile, università, licei, ginnasi, ecc. soddisfano sovratutto a bisogni pubblici, sono creati per promuovere «altissimi» fini di interesse generale; e che perciò il costo del servizio deve essere fatto gravare sovratutto sulla collettività. Se potessero, costoro giungerebbero sino alla ferrovia gratuita, all’acqua gratuita, alla scuola media e superiore gratuita; ed instaurerebbero questa sedicente gratuità in tutte le imprese pubbliche. Non potendo arrivare a tanto ideale, cercano almeno di rigettare sulle imposte quanto più sia possibile del costo totale; non soltanto un quinto come i calcoli tecnici, valevoli per quanto possono, indicherebbero, ma i due od i tre quinti. Col risultato che quanto più cresce il cosidetto costo indivisibile e scema il cosidetto costo divisibile, più cresce l’uso del servizio pubblico da parte degli utenti, che lo possono acquistare pagando una tassa via via minore; ed aumenta il costo per i contribuenti che debbono sopportare il costo di una quota parte crescente di un servizio sempre più largamente reso. Onde nasce alfine una reazione tra i contribuenti, desti dai balzelli troppo gravi, reazione che può ristabilire in parte l’equilibrio rotto.

 

 

Accade l’opposto laddove i contribuenti o talune loro classi sono salite al potere e vogliono rigettare anche il costo indivisibile di un servizio sugli utenti di essi, che sono invisi come i proprietari di case o non più influenti, come i viaggiatori di classe. Il rigetto è un po’ più difficile, perché la tassa non può essere aumentata oltre il vantaggio della parte divisibile del servizio. Se fosse accresciuta al di là, l’utente si asterrebbe dal consumo; mentre il contribuente difficilmente poteva, nel caso precedente, astenersi dal pagare l’imposta. Solo se tra la parte divisibile del costo e il vantaggio del servizio ai singoli c’è un margine, e spesso realmente esiste, può verificarsi il rigetto.

 

 

Onde si può concludere che, nella realtà effettuale delle cose, la divisione del costo tra divisibile ed indivisibile, tra tassa ed imposta presenta degli scarti rispetto alla norma teorica.

 

 

101. Avvertenza metodologica sulla terminologia adoperata. – Un’altra avvertenza che occorre fare è la seguente: la terminologia da noi adottata di prezzo pubblico e la tassa, come del resto già di prezzo quasi-privato, non è forse la stessa che si riscontra in molti altri trattati e nell’uso legislativo. La ragione di ciò si è che ogni terminologia è forzatamente arbitraria. Ognuno è libero di adoperare le «parole» che crede per indicare i fatti. Purché si adoperino parole diverse per indicare fatti diversi. È precisamente per questo che si è preferito in queste lezioni di dare alle due parole «prezzo pubblico» e «tassa» due significati differenti; allo scopo di indicare due fatti che certamente tra di loro appaiono assai diversi. Spesso invece la parola «tassa» fu adoperata per indicare i fenomeni di amendue le specie, distinguendo le tasse per servizi di natura industriale dalle tasse per servizi di indole civile, amministrativa o giudiziaria. La quale distinzione è pur essa arbitraria e non vale ad indicare quale sia il tratto caratteristico del prezzo pagato, indipendentemente dalla natura tecnologica del servizio fornito. Come non si distingue una legge del prezzo privato del pane da una legge del prezzo privato della carne o del vino; così appare fuor di luogo distinguere i prezzi pubblici o le tassa, che dir si vogliano, a seconda che esse sono rivolte a procacciare viaggi in ferrovia, francobolli o istruzione universitaria o un titolo di nobiltà. Non è la merce od il servizio comperato che serve a caratterizzare il prezzo pagato; ma il modo con cui il prezzo stesso fu formato: se sul mercato libero o per intervento dello Stato; e, in questo caso, se fu formato colla mira di compensare il costo totale del servizio (prezzo pubblico) o solo la parte visibile di esso (tassa).

 

 

Del resto, ripetiamo, ogni parola è buona, purché si sappia quale ne è il significato; il che crediamo di avere bastevolmente fatto. Bastevolmente notisi rispetto allo scopo didattico che le lezioni nostre si propongono, che se si volesse scrivere una monografia speciale su questo argomento, si potrebbe suddistinguere ancora e, raffinando i concetti, distinguere le diverse maniere e ragioni di servizi a costi parzialmente indivisibili, indagare le loro combinazioni con i costi divisibili; studiare se questa classificazione corrisponda a quella dei bisogni individuali e collettivi, se realmente esistano bisogni collettivi, ecc. ecc. Ma è dubbio se i risultati da ottenersi siano per essere adeguati alla fatica che dovremmo durare. Onde ci teniamo stretti alla terminologia sovraesposta, la quale ci pare abbastanza semplice e chiara.

 

 

192. La tassa ha per limite superiore il vantaggio del servizio. – Andando avanti nella definizione della tassa, si può notare che, rispetto invece al limite superiore di essa, vi è identità tra prezzo pubblico e tassa. Nei prezzi pubblici lo Stato, quando vende i trasporti, non può mettere tariffe superiori al vantaggio dell’utente. Così è per rispetto alla tassa, in quanto anche in questo caso non può far pagare somme superiori al vantaggio che l’utente ricava dal servizio ch’egli ottiene. Se il vantaggio dello studente non è superiore alle 400 lire all’anno la tassa non può andare al disopra di questa cifra. Così nel caso di concessione del titolo di principe, duca, marchese, ecc. la tassa non può essere superiore al vantaggio che l’utente può ottenere o immagina di ottenere godendo di quel determinato titolo. E del pari per le tasse di licenza di porto d’armi o licenza di caccia la tassa non può andare oltre il limite del vantaggio che il richiedente crede di ottenere mercé quel permesso.

 

 

103. Ancora della misurazione del costo del servizio divisibile pagato con tassa. – Talvolta riesce difficile di concretare in che cosa sta il costo del servizio reso al richiedente. Per esempio. Per la concessione del titolo di principe è necessario, ove la concessione non avvenga di moto proprio del sovrano, il pagamento di una tassa di 30.000 lire. Certo il costo della pergamena, con cui il titolo viene concesso, non vale quella somma. Onde si deve concludere che nel costo si deve comprendere anche una quota parte delle spese richieste dai servizi araldici mantenuti dallo Stato, e che rendono un beneficio a tutta la collettività dei titolati garantendo la genuinità dei titoli e reprimendone l’abuso; onde si riparte poi questo costo sui titolati medesimi a seconda dei servizi più o meno importanti che sono da essi richiesti, precisamente come si fa per le ferrovie.

 

 

Così pure la tassa per la concessione del porto d’armi o per la licenza di caccia, non è solo commisurata al costo insignificante della redazione del documento e delle ricerche relative. Esso è invece in connessione con tutta una serie di servizi che lo Stato rende. Esso deve infatti mantenere un servizio di polizia per fare osservare il divieto generale di portare armi o di andare a caccia senza permesso, poiché, se non si facesse osservare questo divieto, non ci sarebbe nessuno che pagherebbe la tassa.

 

 

Ora essendo costoso il mantenimento del rispetto alla legge, dovendosi infatti provvedere a un servizio di polizia, ecco che si viene ad ottenere un costo che può essere di molto superiore al provento delle tasse che lo Stato ricava dalla concessione eccezionale del porto d’armi, o del permesso di caccia. Se il provento è uguale al costo del servizio allora avremo un prezzo pubblico, se è inferiore avremo una tassa.

 

 

104. Quid quando il prezzo del servizio divisibile è stabilito in maniera tale da concedere un profitto allo Stato? – Poiché si è finora parlato di servizi resi ad un prezzo pubblico uguale al costo totale e di servizi resi ad una tassa inferiore al costo totale e teoricamente uguale alla parte divisibile di esso costo, viene fatto di chiedere: non si danno mai casi in cui certi pubblici servizi divisibili vengano venduti ad un prezzo che, essendo superiore al costo totale, lasci un profitto allo Stato?

 

 

Certamente si danno; anzi son numerosi. Occorre però distinguere tra quelli che l’ente pubblico vende in concorrenza con altri produttori e quelli che esso vende in concorrenza con altri produttori e quelli che esso vende in condizione di monopolio.

 

 

Se l’ente pubblico vende un determinato servizio, per es. il pane di un forno municipale o l’acqua di suo acquedotto suo in concorrenza con il medesimo servizio venduto nello stesso luogo e tempo da altro produttore privato, è chiaro che non potrà imporre prezzi superiori a quelli del concorrente, se non vuole vedere sviarsi la clientela. E se, in questo caso, il comune vende ad un prezzo 10 che gli lascia ancora, dopo aver compensato il costo totale di 8, compreso nel costo l’interesse corrente del capitale impiegato, un margine di beneficio di 2, che cosa sarà questo margine?

 

 

Può darsi che sia il profitto della maggiore abilità di intrapresa del comune in confronto ai concorrenti privati. Se ci sono 10 produttori, fra cui il comune, ed essi a seconda della loro diversa abilità, producono a costi di 6, 7, 8, 8 1/2, 9, 9,25, 9,40, 9,60 e 10, e se la produzione di tutti essi dieci produttori è necessaria a far fronte alla richiesta, che si verifica al prezzo 10; vi sarà un produttore, il marginale, che non otterrà nessun profitto di intrapresa ed altri che otterranno, contando, inversamente a prima, in serie crescente, 0,40, 0,60, 0,75, 0,90, 1, 1,50, 2, 3 e 4 lire di profitto per unità venduta. Il comune, e cioè quel produttore che produceva al costo di 8, ottiene il profitto di intrapresa di 2. Il caso non si può escludere, potendosi dare esempi di amministratori della cosa pubblica così tecnicamente abili e così entusiasti dell’interesse pubblico da organizzare l’impresa in modo da produrre a costo basso. Sebbene sia caso che forse è estremamente raro nella pratica. Si può dire soltanto che, se anche esiste, questa situazione tende da sé stessa a scomparire. Perché invero l’ente pubblico ha organizzato questa intrapresa in concorrenza fra privati? Perché era persuaso che le imprese private producessero a costi troppo elevati (si dice questo accada tra i fornai per l’eccessivo sminuzzamento della fabbricazione del pane) o vendessero a prezzi superiori al costo marginale, per la limitata concorrenza esistente tra loro. Colla istituzione di una impresa pubblica lo Stato od il comune volle evidentemente conseguire il fine di porre un freno, un calmiere di fatto (oggi che si riconobbe i calmieri legali essere futili) all’elevarsi dei prezzi dovuto alla incapacità tecnica dei privati od alla limitata concorrenza tra di loro esistente. Quindi l’ente pubblico tenderà a ridurre i prezzi ad 8, in guisa da non ottenere alcun profitto; e conseguirà l’intento, aumentando a poco a poco la sua produzione ed inducendo i rivali ad organizzarsi meglio in guisa da poter fornire il mercato con una produzione più a buon mercato o costringendoli a ribassare i prezzi. Di guisa ché sembra potersi conchiudere che, ove l’impresa pubblica funzioni in condizione di libera concorrenza con altre imprese private, un profitto di intrapresa può esistere solo temporaneamente; è un fenomeno dinamico che tende alla condizione stabile in cui non esiste alcun profitto ed il prezzo è un prezzo pubblico uguale al costo totale.

 

 

Diverso è il discorso se l’ente pubblico venda in condizioni di monopolio. Ed anche qui bisogna distinguere a seconda che il monopolio sia di fatto o legale. Il monopolio di fatto esiste in tutti quei casi nei quali l’ente pubblico meramente si sostituisce ad un monopolio privato già preesistente; e sono tutti i casi già detti, di ferrovie, di tramvie, di gazometri, di luce elettrica, di acquedotti, ecc., in cui per la connessione alla strada o per altre cause era o sarebbe sorto un monopolio privato a gestire la impresa. Sappiamo che allora si spiega l’intervento dell’ente pubblico allo scopo di evitare ai consumatori il danno di dover pagare prezzi di monopolio e ridurre il prezzo al livello del costo totale. Ma può ben darsi che l’ente pubblico, dimentico delle ragioni per cui assunse l’impresa, la sfrutti come facevano dinanzi i privati monopolisti ed estorca ai consumatori dei prezzi (unici o molteplici) di monopolio. Otterrà in tal caso un profitto di monopolio; ed il prezzo da esso imposto non potrà essere chiamato prezzo pubblico perché non è uguale al costo totale, non tassa perché non inferiore anzi è superiore al costo totale; e neppure imposta, perché le imposte sono esatte obbligatoriamente o quanto meno è tale che senza il comando del legislatore non sarebbe esatta; mentre questi prezzi di monopolio se non fossero esatti dall’ente pubblico sarebbero estorti, senza uopo del braccio secolare, dal monopolista privato. Questi prezzi sono, è evidente, puri prezzi privati, trasportati nell’economia finanziaria per comodo dei governanti e per condiscendenza dei consociati, che non ricordano ai primi lo scopo per cui assunsero la pubblica impresa: che era di opporre nuovi e diversi prezzi pubblici ai prezzi privati. Questi prezzi privati gareggiano, se non anacronismo, in effetti dannosi coi prezzi privati del demanio fiscale puro che a suo tempo vedemmo. Perché, attratti dal profitto che se ne ottiene, e che si dice andare a sgravio di altrettante imposte, i popoli non s’accorgono che è meglio pagare un’imposta liberamente discussa e consentita e pagata da coloro che si giovano dei servizi pubblici indivisibili piuttostoché un profitto il quale è ottenuto dai governanti senza uopo del consenso dei contribuenti (e perché dovrebbero darlo se non lo pagano essi?) e costringe gli utenti di un servizio speciale a far le spese dei servizi generali indivisibili.

 

 

Ibrido sistema questo dunque; che largamente si estende; che talora viene lodato; ma che sembra irrazionale contrastando: 1) al principio per cui lo Stato deve stabilire, se vuol legittimare il suo intervento nella produzione di servizi divisibili, prezzi pubblici non superiori al costo totale; e 2) all’altro principio per cui al costo dei servizi indivisibili devono pensare i contribuenti, ossia tutti i cittadini, nei modi che saranno detti di poi, e non gli utenti di uno speciale servizio divisibile, che non i servizi indivisibili non ha alcuna logica parentela.

 

 

Il monopolio può ancora essere legale, e si ha quando lo Stato assume la privativa di una impresa che altrimenti sarebbe stata esercitata in libera concorrenza dai privati ed i cui prodotti sarebbero stati venduti a prezzi tendenti al costo di produzione. Tali le privative dei sali e dei tabacchi.

 

 

Il sale si vende a sei volte ed il tabacco a quattro volte il prezzo a cui si venderebbero in libera concorrenza. Dico «probabilmente», poiché nulla di più difficile vi è di paragonare le cose che sono con quelle che sarebbero se le prime non fossero, prezzi effettivi con prezzi potenziali. Anche si può osservare che una parte di quei cinque sesti o tre quarti del prezzo di vendita del sale o del tabacco che costituiscono il profitto dello Stato sarebbero il beneficio degli imprenditori privati che allo stato si sostituissero. Ma, nelle grandi linee, si può dire che lo Stato ottenga un profitto uguale ai cinque sesti ed ai tre quarti del prezzo di vendita del sale e del tabacco e lo ottenga in virtù della privativa che desso si è per imperio di legge attribuita. Che specie di prezzo sarà dunque quello del sale e del tabacco? Non prezzo privato, ché il prezzo sarebbe ben diverso ed inferiore in caso di libera concorrenza; non prezzo quasi privato perché lo Stato non accetta prezzi di mercato, che non esistono, anzi fa suoi prezzi arbitrari; non prezzi pubblici non essendo uguali al costo di produzione totale; non tasse, poiché non sono inferiori a questo costo totale. Sono, a parer nostro, vere e proprie imposte, sebbene manchino in apparenza, l’hanno in sostanza, poiché la mancanza di libertà non sta nell’essere i consumatori costretti a comprare il sale e il tabacco (ché essi possono astenersene, così come ognuno potenzialmente è libero di astenersi dal comprar pane, petrolio, zucchero, spiriti, case, terreni, crediti ed in genere tutte le altre cose che sono soggette ad imposta) ma nell’essere costretti a comprarli a quel tal prezzo per comando del legislatore allo scopo di sopperire al costo di servizi pubblici indivisibili. Non per il comando del legislatore si accetta il prezzo del biglietto ferroviario, del francobollo, del gas, della luce elettrica; l’interesse del consumatore gli consiglia di farne l’acquisto ben volentieri a prezzi che sono inferiori od al postutto non superiori a quelli che esisterebbero se l’ente pubblico non intervenisse. Qui invece il legislatore interviene ad alzare i prezzi; ed è questa maniera speciale di intervento che diversifica il prezzo del sale o del tabacco dai prezzi quasi privati, dai prezzi pubblici e dalle tasse; e lo trasforma in imposta. Onde il consumatore, potendo, avrebbe interesse a ricorrere ad altri; ma non può farlo per il divieto legale stabilito nell’interesse del fisco. Le quali nozioni sono forse un anticipazione di cose che meglio andavano collocate nel trattato delle imposte; ma si vollero anticipate per non lasciar luogo ad incertezze nella mente di chi per esperienza propria sa quanto il prezzo di certe merci vendute dallo Stato, come il sale od il tabacco, sia superiore al costo e si sarebbe meravigliato a sentir parlare solo di prezzi pubblici uguali al costo e di tasse inferiori al costo.

 

 

105. La tassa, come il prezzo pubblico, è pagata dietro domanda del contribuente. – Ritornando alla definizione della tassa, notiamo che l’ultimo connotato suo è di essere pagato in contemplazione di un servizio particolare reso allo Stato dietro domanda del contribuente. È un connotato che la tassa ha in comune col prezzo pubblico; e che è indispensabile alla definizione, sapendosi che si tratta di servizi particolari, il cui prezzo non è mai superiore al vantaggio che ne ricava il contribuente. Se il servizio è particolare, non è necessario che lo Stato lo imponga; chi ne avrà bisogno ne farà richiesta; e lo farà sicuramente perché il prezzo pagato di solito sarà inferiore e tutt’al più sarà uguale al vantaggio che il contribuente ricaverà dal servizio. Partendo da taluni concetti esposti nel numero precedente, ci fu tuttavia chi disse essere erroneo affermare che la tassa è un pagamento volontario. Essere la tassa invece un pagamento obbligatorio, come obbligatoria è l’imposta. Non è vero che la tassa sia un pagamento libero che il contribuente fa quando vuole. Se si suppone libero e volontario il pagamento della tassa, si deve considerar tale per la stessa ragione anche quello dell’imposta. Se è possibile ad un giovinetto non pagare le tasse scolastiche, non iscrivendosi alla scuola, altrettanto possibile è non pagare l’imposta, perché nessuno è obbligato ad avere una casa o dei poderi, in seguito a cui deva sottostare alle imposte sui terreni e sulle case.

 

 

Il male di questo ragionamento si è che conduce ad un’estensione siffatta del termine di obbligatorietà che finirebbe di far considerare come obbligatorio ogni pagamento, anche quello di un prezzo, e non solo di un prezzo pubblico, ma anche di uno privato. Invece di dire che nessuno è obbligato al consumo del pane e che il prezzo è volontario, perché noi prima andiamo a far richiesta di pane e, soltanto in seguito a questa domanda, noi paghiamo il prezzo, si potrebbe a questa stregua dire: il prezzo del pane è obbligatorio, perché ognuno è obbligato al consumo del pane per non morire. In questo modo prezzi privati, pubblici, tasse, imposte, diventerebbero tutti ugualmente volontari od obbligatori. Volontari nel senso che prima facciamo la domanda del servizio ferroviario, dell’acqua potabile, della scuola, del pane, dell’acquisto di una casa e poi paghiamo; obbligatori nel senso che è necessario comperare qualche cosa, esercitare qualche industria per trarre l’esistenza.

 

 

La questione posta in questi termini è troppo larga ed ha carattere prevalentemente filosofico. Coloro che conchiudono per l’obbligatorietà di ogni spesa che sia fatta dall’uomo si chiariscono seguaci della teoria filosofica della necessità o determinismo. Siamo noi in arbitrio di fare o, non fare certe cose? Ma la questione del libero arbitrio e del determinismo e troppo ampia per noi, quantunque sia certamente importantissima. La questione va incardinata su basi più ristrette. Certi pagamenti noi compiamo soltanto dopo aver fatto una domanda. Se questa domanda sia libera o determinata da certi o certi altri fattori, che influiscono direttamente o remotamente sulla volontà o sulla psiche umana è un’altra questione.

 

 

Basta notare il fatto che la domanda c’è prima che si paghi. Per certi altri pagamenti invece la domanda non c’è, c’è anzi la renitenza al pagamento, e tuttavia il pagamento deve avvenire. È certo che nel sistema della tassa il pagamento è sempre preceduto da una domanda, invece nell’imposta la domanda non esiste affatto. Anzi l’unica domanda che si farebbe da molti volentieri sarebbe quella di non pagare. Solo dietro richiesta dello scolaro che vuole studiare si ha l’obbligo del pagamento di tassa scolastica; solo dietro domanda di chi vuol portar armi (sia pure costretto alla domanda da fattori preesistenti come quello di abitare in quartieri pericolosi) si deve compiere il pagamento della tassa per licenza di porto d’armi.

 

 

Un’obbiezione al considerare questo elemento, della domanda del contribuente, come caratteristico della tassa e differenziale dall’imposta, potrebbe rinvenirsi nel fatto già citato del prezzo del sale e del tabacco.

 

 

Nessuno paga l’imposta sul tabacco senza che prima sia andato a far domanda di sigari o sigarette; nessuno paga l’imposta sul sale senza prima aver domandato un chilogramma di sale. Nel caso di questi pagamenti quindi, son tutti d’accordo nel ritenerli come imposte, eppure il pagamento avviene in seguito ad una domanda. Ma v’è qui, come avvertimmo, un’illusione. Il contribuente, in questo caso, fa sì la domanda di avere il sale o il tabacco, ma, se potesse, farebbe la domanda di pagare soltanto il prezzo del sale, del tabacco. Il male si è che l’occasione in cui egli fa la domanda è afferrata dallo Stato per mettere su di lui un’imposta, cui non si può sottrarre, non potendo andare da alcun altro a provvedersi di sale e di tabacco pagando solo un prezzo privato. Se l’industria del sale e dei tabacchi fosse libera, nessuno andrebbe dallo Stato per provvedersi di quelle merci, pagando un prezzo tanto elevato. La domanda da parte del contribuente non è già di pagare l’imposta; ma di pagare il prezzo del sale o del tabacco. Nell’occasione di questa domanda lo Stato, sapendo che esiste un margine tra il costo del sale, poniamo 6 centesimi al Kg., e l’utilità del sale per il contribuente, poniamo 40 centesimi, ne approfitta per ,proibire a chiunque altro di vendergli sale e, forte del suo monopolio legale, ne eleva il prezzo al disopra del costo sino ad assorbire tutto o gran parte del vantaggio del consumo per far fronte alle spese di quei servizi generali ed indivisibili che lo Stato rende, e si riferiscono alla giustizia, alla sicurezza pubblica, all’esercito, ecc.

 

 

106. Vantaggi del metodo della tassa. – Abbiamo visto così quali siano gli elementi fondamentali della tassa. Per i servizi nei quali siano commisti insieme gli elementi divisibili con quelli indivisibili, il sistema della tassa ha vantaggi grandi in confronto a quello delle imposte, così che alcuni pensano che sarebbe bene abolire le imposte anche per i servizi indivisibili e sostituirle con tasse per tutti i pubblici servizi.

 

 

I vantaggi che nel sistema della tassa presenta e che sono del resto vantaggi anche del sistema dei prezzi pubblici, sono questi: a) anzitutto siccome il pagamento è fatto dal contribuente per ottenere un vantaggio particolare, lo Stato sa quando e se debba rendere un certo servizio, poiché soltanto i servizi utili saranno richiesti dai contribuenti; b) inoltre ha anche un criterio per poter modificare i suoi servizi adattandoli ai bisogni dei contribuenti. Supponiamo che lo Stato abbia in una città diversi tipi di scuole: classiche, tecniche, commerciali, industriali.

 

 

Vedrà facilmente quali siano più frequentate; per quali contribuenti si accingano a pagar tasse in maggior numero. Queste saranno adunque le scuole più utili; le altre saranno magari informate a criteri teoricamente migliori, ma da che la popolazione non li segue, è inutile affannarsi a dare quel che i contribuenti non vogliono. Vi sarebbe quindi un indice per allargare certe scuole e restringerne altre. La tassa dunque non è solo un indice dell’utilità assoluta dei servizi e dell’intensità del desiderio degli utenti per ottenerli, ma anche dell’utile comparativo dei servizi. Lo Stato è indotto a modificare la natura dei servizi in guisa che soddisfino meglio i bisogni che hanno i contribuenti; c) lo Stato ha inoltre nella tassa un indice sicuro per variarne l’ammontare. Infatti se una scuola ha tasse forti e poche iscrizioni, per via di esperimenti successivi di tasse diverse potrà raccogliere un maggior numero di iscrizioni; se un’altra scuola ha una tassa troppo bassa e un enorme numero di iscritti, talché il provento diventa scarso in proporzione delle spese, si potrà innalzare la tassa e ottenere per via d’esperimento un maggior provento in rispondenza del costo, pur non diminuendo troppo il numero di iscritti. Molti studenti vanno a scuola perché i parenti non sanno come sopportarli in casa; e costituiscono un ingombro per gli insegnanti e per gli studenti volenterosi. Aumentando alquanto la tassa, i parenti cominciano a fare dei calcoli sulle attitudini dei figlioli a seguire gli studi, e li terranno a casa, se li giudicano incapaci o più atti ad esercitare un mestiere; d) inoltre il contribuente, con questo sistema della tassa, gode di una certa libertà, se non di un arbitrio assoluto nel variare la sua richiesta di pubblici servizi: mentre con l’imposta egli può pagare in proporzione ai suoi mezzi e conformare la sua domanda secondo i suoi bisogni.

 

 

107. Limiti di applicabilità del sistema delle tasse. – Però, per quanti siano questi vantaggi del sistema della tassa, non sono però tali da permettere di estendere il sistema a tutti i servizi:

 

 

  • 1). Anzitutto: è necessario per applicare questo sistema che il servizio in parte almeno sia divisibile, ossia che lo Stato sappia quale è il vantaggio che viene arrecato da un servizio ad ogni singolo contribuente: ora, se il servizio è per sua natura non divisibile il sistema non può più essere applicato.
  • 2). Inoltre è necessario che per il pagamento della tassa si abbia una domanda attiva da parte del contribuente. Ora, ci sono molti servizi per cui i contribuenti da soli non si disporrebbero mai a fare domanda, e allora non essendoci tassa, il servizio non potrebbe essere reso: quanti contribuenti su cento andrebbero volontariamente a far domanda per il mantenimento dell’esercito, della giustizia, della polizia? uno o due forse. Non facendosi domanda di questo servizio, non ci sarebbe possibilità di applicazione della tassa. Ovvero la domanda, pur essendo potenzialmente attiva, in realtà si dimostra così evanescente da non francar la pena di rendere il servizio ai soli utenti: così, supponendo che lo Stato volesse applicare una tassa sulle biblioteche, mancherebbe il requisito della domanda, e le biblioteche andrebbero quasi deserte, sebbene la domanda possa essere teoricamente divisibile. Quindi lo Stato che, per motivi generali di diffusione di coltura, vuole conservare le biblioteche, deve distribuire il costo non col sistema della tassa, ma con quello delle imposte ripartite su tutti i contribuenti, perché la coltura si diffonderà, comunicandosi da quelli che vanno nelle biblioteche a quelli che non ci vanno.
  • 3). Finalmente in certi casi si potrebbe imporre la tassa perché il servizio è divisibile e la domanda dei contribuenti è attiva; ma non lo si fa perché l’applicazione della tassa sarebbe antieconomica.

 

 

Un esempio è quello delle barriere alle strade ed ai ponti, al passaggio delle quali si fa pagare una tassa di pedaggio. Con la tassa lo Stato potrebbe far fronte alla manutenzione delle strade e dei ponti, ripagandosi del costo d’impianto e dell’ammortamento del capitale. Ma il sistema sarebbe per lo più antieconomico. In qualche raro caso il sistema si applica ma per poco tempo, tutt’al più fino che sia coperto il costo d’impianto. Il pagamento di questa tassa darebbe troppa noia, pur essendo il servizio divisibile. Bisognerebbe mantenere pedaggieri, controllori, ecc. per riscuotere somme talvolta nemmeno sufficienti a compensare il costo dell’esazione. Epperciò i pedaggi furono in gran parte abbandonati; il passaggio sui ponti e sulla strada è gratuito per l’utente; e le spese di manutenzione, e di interesse ed ammortamento della spesa di costruzione sono fatte gravare sui contribuenti in genere per mezzo di imposte.

 

 

Sezione Terza.

Classificazione delle tasse.

 

108. Vediamo ora alcune tra le principali categorie di tasse che possono essere applicate. – Possono le tasse essere disposte in categorie, che sono, naturalmente, un po’ fluttuanti, come, in generale, sono un po’ fluttuanti, come, in generale, sono un po’ tutti questi istituti che differiscono per graduazioni quasi insensibili. Si possono distinguere a seconda che predominano più l’elemento privato o quello pubblico. Qui daremo solo alcune semplificazioni. Chi voglia approfondire la materia può consultare i trattati speciali del Clementini, Ubertazzi, Vignoli. Lo studente che voglia avere un prontuario riassuntivo, della legislazione vigente, e non abbia il beneficio di corsi speciali di legislazione finanziaria come si tengono nella Università commerciale Bocconi di Milano può consultare il libro dell’avv. Raffaele Roccatagliata. Come si pagano le imposte e le tasse in Italia? (Milano – Hoepli).

 

 

109. Tasse di carattere industriale. – La prima categoria sarebbe delle tasse per servizi di carattere industriale, in cui l’elemento pubblico ha già acquistato grande importanza, ma non in guisa tale da sopraffare l’elemento privato. Questa categoria è la più vicina a sistema del prezzo pubblico.

 

 

110. a) Tasse per i servizi ferroviari, postali, telegrafici e telefonici. – Inutile ripetere le osservazioni che a questo proposito sono già state fatte. La tassa si regola medesimamente come il prezzo pubblico, tenendo presente che il provento complessivo delle tasse relative ad un certo servizio pubblico non deve più essere sufficiente a compensare l’intiero costo del servizio, ma solo quella parte che è o si reputa divisibile del costo stesso. Concetto vago ed arbitrario; ma, così essendo i fatti, non rimane che da registrarli.

 

 

111. b) Tasse per la verificazione dei pesi e misure. – L’applicazione del sistema della tassa si ha, in qualche caso, anche nella verificazione dei pesi e delle misure. Qui due interessi, generale e singolo, coesistono; è giusto quindi che il costo venga distribuito e come imposta e come tassa.

 

 

Coesistono perché la collettività è interessata alla conservazione di un sistema esatto inalterabile di pesi e misure, sottratto a frodi, uniforme per tutta la nazione. Vi è poi il vantaggio particolare a tutti i loro prodotti ed ai conferiscono una garanzia pubblica a tutti i loro prodotti ed ai commercianti che ne fanno uso largo dispensando i clienti dal controllo delle merci volta per volta. È naturale che i commercianti trasferiscano poi questa tassa, che pagano per un vantaggio loro particolare, sui consumatori, conglobandola nel prezzo delle merci.

 

 

In fatto però, vuolsi notare che la tassa per la verificazione dei pesi e misure è diventata troppo alta; ed è quindi degenerata in imposta.

 

 

Ripugnando i contribuenti al pagamento volontario della tassa, perché l’onere sembrava superiore al vantaggio, il legislatore la rese obbligatoria. Onde essa non è più tassa, ma imposta; sebbene rispondendo ad un bisogno divisibile conservi qualche elemento di tassa. Parleremo ancora di questa degenerazione delle tasse in imposte.

 

 

112. c) Tasse per il marchio dei lavori d’oro e d’argento. – Un altro caso di questa categoria è quello del marchio degli oggetti d’oro e d’argento. In questo caso si hanno, appunto, vantaggi generali e particolari. Vantaggio generale sarebbe l’esistenza di un numero minore di frodi nel paese; e, se ci sono meno frodali, v’è un incremento generale di onestà pubblica. Il vantaggio maggiore è però quello individuale d’esser garantiti contro le frodi ed esser quindi sicuri di comperare dell’oro e dell’argento al titolo corrispondente al prezzo; vantaggio che non può esser procacciato in altra maniera che col marchio imposto dallo Stato o da qualche ditta conosciuta e reputata.

 

 

Non è necessario che lo Stato imponga obbligatoriamente onestà ai commercianti e garantisca sempre i consumatori contro ogni pericolo di frode. Perciò il marchio è facoltativo; se il consumatore vuole essere garantito, chieda sull’oggetto il marchio. Quelli tra gli utenti che vogliono avere questa sicurezza e vogliono ottenere questo servizio dallo Stato si dispongano a pagarlo.

 

 

Se lo Stato volesse imporre il marchio, come in Italia fu ripetutamente proposto, passerebbe nel campo dell’imposta; si gioverebbe, cioè, della obbligatorietà per costringere a pagare una somma superiore al costo del servizio per lo Stato e probabilmente anche al vantaggio del contribuente.

 

 

Se qualche volta si è discusso per imporre il marchio obbligatorio, non lo si è fatto nell’interesse dei consumatori. Nelle relazioni governative e disegni di legge pel marchio obbligatorio, si trovan sempre, è vero, delle lunghe discorse relative alle frodi che vengono commesse, specie nel mezzogiorno, nella vendita dell’oro e dell’argento. Ma questi racconti in fondo vogliono giustificare, con una parvenza di utilità generale, quello che non è che l’interesse fiscale dello Stato. Si vuole cioè trasformare la tassa in tassa imposta; per ottenerne un provento non solo per fronteggiare la spesa particolare del servizio, ma anche una parte delle spese indivisibili. Si vorrebbe cioè mettere una imposta sul consumo degli oggetti d’oro e d’argento. Il che in un paese dove si tassa il sale e il frumento non si dice che sia irragionevole. Tutt’altro. Rimane da vedere solo se l’imposta sarebbe a sufficienza produttrice e se non inciterebbe troppo alle frodi.

 

 

113. d) Tasse per la monetazione. – Bisogna distinguere se la tassa per la monetazione è tale che compensa esattamente il costo della monetazione, allora noi potremo dire che si tratta di un prezzo pubblico. Lo Stato allora esercita questa industria per gli utenti, per impedire le frodi e si fa pagare tutto il costo. Qualche altra volta invece si fa pagare una somma che non è sufficiente per pagare allo Stato tutte le spese della monetazione, e allora noi entriamo nel sistema della tassa, contemperandosi così i due interessi interesse privato di ottenere monete buone; interesse pubblico di far siche il sistema monetario non venga a scadere di valore.

 

 

Le tasse ora esistenti sono di 7 lire e 44 cent. per ogni chilogramma d;oro monetario, ed erano di L. 1,72 per ogni chilogramma d’argento monetario. Ora la tassa si limita però dall’1 agosto 1879 all’oro, perché la coniazione delle monete d’argento è stata sospesa per il ben noto deprezzamento del metallo argento. In qualche altro paese il costo della monetazione si considera tutto come un costo d’interesse generale, e si fa la coniazione gratuita accollando le spese alle imposte; così, per esempio, in Inghilterra. Si è considerato che sia troppo importante l’interesse generale della circolazione pura perché si dovesse far pagare una tassa particolare agli utenti.

 

 

114. e) Tasse marittime di ancoraggio, ecc. – Si possono ricordare qui perché sono pagate dalle navi che approdano in un porto dello Stato per operazioni di commercio. L’utile particolare del vettore è evidente; come è evidente pure l’interesse generale di promuovere il commercio con una adatta sistemazione dei porti non solo col provento delle tasse marittime, che vi sarebbero insufficienti, ma anche con il provento delle imposte.

 

 

115. f) Ricordiamo ancora, alla rinfusa, le tasse d’entrata nei musei, galleria, luoghi d’antichità, le tasse scolastiche, le tasse araldiche, i diritti d’archivio, ecc. ecc., pagate, in misura quasi sempre inferiore al costo totale per ottenere servizi la cui natura mista, divisibile, è resa evidente dalla semplice enunciazione.

 

 

116. Tasse relative alle funzioni di giustizia: a) Tasse per gli atti civili. – Passiamo ora alla seconda categoria di tasse; quella in cui l’elemento principalissimo diventa l’elemento pubblico e l’elemento di vantaggio privato esiste e rende possibile la tassa, ma è incidentale. Questa categoria comprende due suddivisioni: 1. Le tasse sugli atti civili; 2. Le tasse sugli atti giudiziari; a seconda che riguardano la giustizia preventiva o quella repressiva. Per la prima categoria v’è una lunghissima enumerazione di tasse; si pagano in generale, o perché il privato chiede qualche favore allo Stato (per esempio la concessione del porto d’armi, la concessione di privative, ecc.); oppure perché lo Stato rilascia al contribuente un documento che fa fede di certi diritti che ha il contribuente medesimo (per esempio, certificati di nascita, di matrimonio, certificati ipotecari, certificati di registrazione, ecc.) con vantaggio del contribuente stesso. Bisogna qui mettere in rilievo l’elemento pubblico e l’elemento privato, perché è stato detto, e sotto certo rispetto ragionevolmente, che si può ritenere che tutti questi atti per cui si fanno pagare tasse, dovrebbero essere gratuiti, perché la legislazione dello Stato li rende necessari nell’interesse generale. Quindi, dato che queste concessioni, dichiarazioni, ecc. sono necessarie all’interesse generale, colui che chiede il certificato non chiede tanto un favore quanto una ripristinazione delle condizioni in cui sarebbe se non esistessero le limitazioni imposte dalla legislazione vigente.

 

 

Tale è il caso a noi già noto della concessione di porto d’armi. Qui, quale è l’interesse generale? È che la gente non porti armi, che possono essere dannose alla sicurezza pubblica, provocando liti e uccisioni, ed esser mezzo di vendetta privata, la quale verrebbe così a sostituirsi, perniciosamente, alla giustizia pubblica. Lo Stato mette perciò un divieto generale di porto di armi e sopporta un costo per far osservare questo divieto; quindi, poiché il divieto è stato messo nell’interesse generale, il costo dovrebbe ripartirsi, secondo molti, soltanto per mezzo delle imposte. Colui che ottiene il porto d’armi, ottiene soltanto di essere messo nella condizione di poter fare quello che gli uomini naturalmente potrebbero fare se non esistesse la legge limitatrice. Ottenere la concessione è dunque, concludono, essere ripristinati nelle condizioni in cui ci si troverebbe senza la legge limitatrice. È giusto quindi che tutti sopportino il costo di quel divieto che lo Stato ha posto in vista di un interesse generale ed è ingiusto che paghino tassa speciale quelli che ottengono semplicemente la ripristinazione di un loro diritto naturale.

 

 

Ma l’argomento è errato. Esso infatti dimentica che c’è un vantaggio particolare; incidentale sì, ma che può avere una certa rilevanza per l’individuo che rimane favorito. In quanto che, è indubitato che altra è la condizione di portar armi quando tutti le possano portare e altro è portarle quando non tutti le possono portare. Questi pochi, che eccezionalmente le portano, si trovano evidentemente in condizioni privilegiate: infatti lo Stato permette o vorrebbe permettere di portar armi solo agli onesti, non ai malfattori. Lo Stato, col suo divieto generale di portar armi e con concessionari particolari fatte soltanto ad alcuni di cui conosca l’incapacità di commettere delitti, fa siche costoro abbiano un mezzo migliore di difendersi dai malfattori. È per questo vantaggio particolare che essi sono chiamati a pagare una tassa.

 

 

Lo stesso dicasi per il permesso di caccia. Se tutti andassero a caccia la selvaggina sarebbe scarsissima e l’utilità del cacciare scemerebbe. Invece cacciando solo quelli che pagano la tassa, la loro condizione è migliore perché possono sperare in una maggior preda. Il divieto di caccia è imposto non tanto per mantenere abbondante la cacciagione, quanto perché specie di uccelli sono reputati utili all’agricoltura, che essi difendono contro la moltiplicazione degli insetti; onde è giusto che una parte del costo del divieto cada sui contribuenti sotto forma di imposta, ma è pur giusto che quelli che ottengono il beneficio paghino una tassa.

 

 

L’esempio delle privative è poi l’esempio meglio calzante per dimostrare quale sia la giustificazione della tassa. Poiché certo non è l’interesse particolare di chi ottiene la privativa che lo Stato ha stabilito la legislazione, la quale vieta di usufruire le invenzioni industriali tutelate da privativa, i marchi, i disegni e modelli di fabbrica. Infatti, se tale delle invenzioni industriali, non essendo sicuri di poter usufruire delle proprie invenzioni, avrebbero molto meno impulso alle invenzioni stesse e queste sarebbero molto meno frequenti.

 

 

Un tempo non era riconosciuta la proprietà industriale, e si davano dei premi agli inventori, premi che naturalmente erano distribuiti a caso, senza garanzia fossero davvero premiate le invenzioni utili. Ond’è che si abolirono i premi, e si instaurò il regime della proprietà privata temporanea delle invenzioni industriali. Lo Stato concede agli inventori il diritto di privativa, non per il vantaggio particolare di quel dato inventore, ma perché spera di dare così stimolo alle invenzioni industriali. Gli inventori si avvantaggerebbero temporaneamente dell’invenzione, ma poi, passati (in Italia) 15 anni, l’invenzione diventerà di dominio pubblico. Lo Stato provoca dunque le invenzioni col dare l’esclusività della loro utilizzazione per 15 anni agli inventori, volendo con ciò ottenere il vantaggio generale della società. Ma se ciò è vero, non ne consegue però che l’inventore non deva sottostare ad alcuna tassa; infatti, se anche il vantaggio di utilità generale è predominante, è innegabile che incidentalmente per conseguenza della legislazione, tutelatrice della proprietà industriale, gli inventori che ottengono le privative hanno un vantaggio; poiché per un certo periodo, soltanto essi sfruttano la invenzione propria. È quindi giusto che per questo vantaggio particolare paghino allo Stato, ma lo coprirà almeno per una parte. Per il vantaggio generale ottenuto i contribuenti a loro volta copriranno il resto del costo a mezzo d’imposta.

 

 

A questa medesima categoria appartengono gli atti con cui lo Stato fa qualche dichiarazione o registrazione che sia utile a coloro che chiedono il servizio dallo Stato.

 

 

Un certificato ipotecario è utile a coloro che ne fanno domanda sia per dimostrare lo stato del fondo, sia per dimostrare che il fondo è colpito da questa o da quella ipoteca. La registrazione di un atto di compra vendita è utile inquantoché la traslazione della proprietà viene resa pubblica di fronte a tutti e sono rese più difficili le frodi e le contestazioni. È di pubblica utilità che in un paese esista un buon regime della proprietà privata, sia nell’interesse della stessa proprietà e del credito, sia nell’interesse fiscale dello Stato; il quale senza un buon sistema catastale troverebbe difficile il ripartire esattamente le imposte. Lo Stato con tutti questi servizi che sono di utile ai privati fa l’utile proprio e quindi della generalità. Tuttavia si deve riconoscere un vantaggio particolare per quelli che ne fanno domanda, onde si capisce come ci possa essere una tassa relativa. Colui che chiede un certificato di proprietà, o ipotecario, lo fa perché riesce a vendere più facilmente la proprietà stessa, o ad ottenere su di essa un mutuo. Nessuno presta denaro se non è sicuro della legittimità della proprietà o se non sa quali sono le ipoteche che gravano su un dato fondo. Nessun dubbio può quindi sorgere sulla convenienza delle tasse che vengono pagate in corrispondenza del vantaggio che ha il contribuente nel fare quella domanda.

 

 

Le tasse ipotecaria e di traslazione non dovrebbero però mai essere superiori all’utile che il privato ritrae dalla registrazione di quell’atto; altrimenti, non si tratta più di tassa, perché il contribuente non farà mai domanda di avere un servizio che ha un costo superiore al vantaggio che se ne può ricavare. Siccome appunto accade che di fatto l’ammontare di queste tasse sia superiore al vantaggio del contribuente, così in tali casi il legislatore ha provveduto rendendo obbligatoria la tassa, la quale degenera e diventa una tassa – imposta.

 

 

117. b) Tasse per gli atti giudiziari. – La seconda categoria di atti per i quali l’elemento pubblico è predominante dopo quelli degli atti civili, è quello degli atti giudiziari. Spesso si è posto in dubbio la legittimità delle tasse sugli atti giudiziari. Nella storia vi fu un periodo in cui lo Stato, rispetto agli ordinamenti giudiziari, si limitava a creare degli organi giudicanti, lasciando le spese a carico dei privati in lite. Lo Stato aveva già riconosciuto che la giustizia è funzione pubblica e non può essere lasciata all’arbitrio privato. I privati dovevano rivolgersi allo Stato per far riconoscere il loro diritto; ma pagavano ai magistrati direttamente il prezzo del servizio reso con le cosidette sportule.

 

 

Il sistema portava però a degli inconvenienti gravissimi. Il pagamento delle sportule, che durò in parte fino alla rivoluzione francese, faceva siche naturalmente i giudici, per quanto onesti, erano portati ad ascoltare più la voce della sportula che quella della semplice giustizia e così colui che pagava un prezzo più elevato poteva più facilmente aver ragione su quelli che non potevano pagare altrettanto. Era questa una giustizia resa in rapporto ad un prezzo pagato dai singoli contribuenti litiganti, e quindi una vera ingiustizia. Fu necessario perciò abolire questo sistema e togliere ogni pagamento diretto dei litiganti; i giudici infatti ora nulla possono ricevere dei contendenti, i quali però devono ancora pagare talvolta tasse giudiziarie, diritti di varia specie, tasse di bollo, ecc., che cambiano secondo il grado di giurisdizione cui sottostanno; essendo maggiori per le corti superiori che per quelle inferiori.

 

 

Alcuni dicono che queste tasse non sono giustificabili e affermano che la giustizia deve essere assolutamente gratuita. Si dice che la giustizia è il fondamento dei regni e come tale deve essere distribuita a tutti gratuitamente nell’interesse generale. La bontà degli ordinamenti giudiziari sia nel decidere, ma nel cercare di togliere le liti, se è possibile; la massima perfezione degli ordinamenti giudiziari si verificherebbero nel momento in cui le leggi fossero così chiare e i magistrati le applicassero in modo così perfetto, che nessuno più si azzardasse a violare i diritti altrui perché la violazione sarebbe resa inutile da un’immediata repressione giudiziaria. Si avrebbe allora il grado massimo di beneficio sociale e si vedrebbe che la giustizia è mantenuta nell’interesse della generalità. Anzi, si è osservato che quelli che litigano, in fatto sono quelli che traggono meno vantaggio dall’ordinamento giudiziario; quelli che ne hanno più vantaggio sono quelli che traggono meno vantaggio dall’ordinamento giudiziario: quelli che ne hanno più vantaggio sono quelli il cui diritto non viene mai violato.

 

 

Quelli che hanno i loro diritti violati, traggono minor beneficio perché devono pagare, per ottenere l’osservanza del diritto, spese di lite, avvocati e procuratori. Essi chiedono soltanto il ripristinamento di un loro diritto misconosciuto, e il loro danno deve essere riparato dagli organi della giustizia. Dato questo ragionamento, sembra assurdo far pagare delle tasse precisamente a quelli che hanno avuto i loro diritti violati, ma parrebbe più equo che le pagassero coloro che hanno i loro diritti riconosciuti e conservati.

 

 

Si è opposto a questo ragionamento, che è vero che il servizio è reso generalmente a tutta la società ed è maggiore per coloro che non litigano mai, ma non si può disconoscere che, nei casi particolari in cui è sorta una lite, ci sia uno che ha avuto un danno dalla violazione di un suo diritto. Ora, se non esistessero gli organi della giustizia, egli non saprebbe come fare per ottenere la ripristinazione del diritto. Lo potrebbe forse ottenere col mezzo della vendetta privata, che sarebbe più costosa e dannosa; di modo che lo Stato, ripristinando un diritto, gli rende un vantaggio togliendolo dalla dannosa condizione in cui si trova. Quindi egli ottiene un vantaggio particolare dal servizio resogli dallo Stato; per ottenere il quale questo è stato costretto al costo del mantenimento della magistratura. Il quale costo non è fisso, ma è proporzionato, fino ad un certo punto, al numero delle liti. Infatti quando il numero delle liti cresce in una città, diventa necessario stabilire nuove sezioni di tribunale e di pretura ed aumentare il numero dei magistrati adibiti a quel tribunale. Ciò dimostra che il costo delle liti è in funzione del loro numero. È quindi naturale che chi ha dato luogo a questo maggior numero di contese paghi una parte del costo relativo sotto forma di tassa.

 

 

Le tasse giudiziarie sono tali che il loro provento compensa solo una parte delle spese cui lo Stato va incontro, così che la spesa complessiva va divisa in due parti: una spesa generale che si avrebbe anche se non vi fossero liti e questa parte è colmata dalle imposte, ossia è pagata da tutti i contribuenti; poi una spesa aggiuntiva o supplementare, che può rappresentare il costo speciale cui danno luogo le singole liti, costo che è pagato per mezzo di tasse giudiziarie.

 

 

Queste tasse giudiziarie restano così ridotte a una funzione integratrice delle spese generali che gravano su tutti i contribuenti. Tale funzione risulta abbastanza legittima, anche perché serve di freno alla litigiosità che diventerebbe assolutamente invadente se lo Stato nulla facesse pagare all’infuori dell’imposta.

 

 

S’intende che le cose valgono soltanto per la giustizia civile; non mai per la giustizia penale, la quale risponde ad un interesse esclusivamente pubblico; essendo escluso negli ordinamenti attuali ogni accenno a private vendette, anche attraverso la condanna dei tribunali pubblici. Onde ogni tassa esatta in occasione di giudizi penali è illegittima e, direbbesi anche, immorale.

 

 

Sezione Quarta.

Applicazione delle tasse sugli atti civili e giudiziari.

 

118. Metodo diretto: registro. – Diremo ora brevemente del modo con cui le tasse sugli atti civili e giudiziari vengono applicate. Notisi che quanto diremo in breve vale più per la parte imposta che per la parte tassa dei pagamenti che i contribuenti fanno. Onde il brevissimo sunto di riferirà solo alla parte formale e non sostanziale del pagamento.

 

 

I sistemi di applicazione delle tasse possano ridursi essenzialmente a due:

 

 

  • 1) sistema diretto;
  • 2.) sistema indiretto.

 

 

Le tasse sono applicate direttamente quando la tassa viene pagata dal contribuente il quale va a un pubblico ufficio per far domanda di un atto o concessione, o documento, ecc.

 

 

Il pubblico ufficio registra la domanda e fa pagare la tassa. Così la tassa scolastica e le tasse giudiziarie si pagano direttamente a certi uffici, in seguito a domanda particolare. La parola «registro» intesa nel senso della nostra legislazione serve ad indicare quel tributo che si paga allo Stato sugli atti in forma privata o pubblica, civili e commerciali, giudiziali e stragiudiziali, sulle trasmissioni delle proprietà, dell’usufrutto, dell’uso o godimento dei beni, al momento e in corrispettivo della registrazione (art. 1 del testo unico 1897).

 

 

Il sistema diretto del pagamento della tassa presenta vantaggi, in quanto che l’ufficio può determinare la cifra precisa della tassa; c’è un documento che comprova il pagamento della tassa, e vi è maggior garanzia che gli atti che sono sottoposti alla tassa la paghino effettivamente.

 

 

Però questo sistema richiede delle spese; è necessario infatti che vi siano degli uffici e vi siano impiegati abbastanza numerosi per far fronte a tutte le domande dei richiedenti. Questi impiegati devono controllare l’ammontare della tassa, le affermazioni dei richiedenti per vedere quale sia la tassa da stabilire; tutti uffici questi che importano una certa spesa.

 

 

119. Metodo indiretto: il bollo. – È per questo che in molti casi si preferisce il sistema indiretto. Si dice indiretto perché l’applicazione della tassa è lasciata entro certo limiti all’arbitrio del contribuente; salvo poi a incorrere in multe se non l’abbia pagata o non l’abbia pagata esattamente, pericolo che lo induce a pagarla ed esattamente.

 

 

Mentre il primo sistema diretto è conosciuto sotto il nome del registro, questo secondo dicesi sistema del bollo, che può esser applicato con vari sistemi.

 

 

Il bollo reale ordinario consiste nell’uso di carta filogranata e bollata. Il bollo reale straordinario consiste nella applicazione e successivo annullamento di marche da bollo che si devono applicare sopra un foglio di carta comune o tela, ovvero nell’impressione d’un bollo speciale a punzone, oppure nella annotazione di «visto per il bollo», apposta dall’ufficio di registro e bollo.

 

 

Col bollo virtuale non si fa uso di carta filogranata né di marche da bollo, ma si paga ugualmente la relativa tassa. Esempio: sui biglietti ferroviari si paga una tassa di bollo di 5 centesimi che non appare per alcuna apposizione apparente di bolli. Così pure, in luogo del bollo che si dovrebbe applicare ad ogni biglietto e tessera di abbonamento per gli spettacoli o trattenimenti nei teatri o luoghi chiusi, si applica una tassa del 10% sul presunto introito lordo, tassa che ora è stata ceduta ai comuni in cui fu abolito il dazio sui farmaci.

 

 

Il sistema del bollo è comodo per i contribuenti e anche per lo Stato che si limita a fabbricare carta e marche da bollo e a metterle in vendita per mezzo dei suoi uffici; il che importa poco costo ed è più speditivo per il contribuente, il quale non è obbligato a perder tempo per recarsi all’ufficio del registro.

 

 

Tuttavia presenta evidentemente certi pericoli per l’amministrazione e per conseguenza è possibile soltanto nei casi in cui si tratta di far pagamenti singoli che non siano troppo forti, poiché in caso contrario il contribuente cercherebbe ogni mezzo per elidere la spesa del bollo, sovratutto trattandosi più di imposta che di vera tassa volontaria.

 

 

Se si applicasse il bollo per tasse di centinaia di migliaia di lire, le falsificazioni sarebbero molto più frequenti. S’intende che, anche applicato a singoli pagamenti di piccole somme, il sistema del bollo richiede sanzioni; cioè un sistema di multe per i casi in cui, irregolarmente, non si sia applicato il bollo. Le penalità sono talvolta abbastanza gravi; chi ad esempio, in una ricevuta scriva una somma inferiore alla reale, paga 60 lire di multa; chi non adopera la marca da bollo nei casi voluti dalla legge, è sottoposto ad una multa di L. 24; chi contraffà marche da bollo o carte bollate può essere condannato fino a sette anni di reclusione, oltre ad una multa; chi fa uso di marche da bollo già adoperate, è passibile di detenzione fino ad un anno.

 

 

Sezione Quinta.

Della trasformazione delle tasse in imposte.

 

120. Dalla comodità e produttività dei due sistemi principali di pagamento delle tasse sugli atti civili ossia dal rendimento facile del bollo e del registro è derivato che l’amministrazione fiscale si è lasciata indurre ad inasprire questo sistema e a trasformarlo da sistema di tasse qual’era, in vero e proprio sistema d’imposte.

 

 

Qualche volta la trasformazione avvenne logicamente, in base a concetti di giustizia tributaria; ma ben spesso senz’alcuna plausibile ragione. Questa trasformazione, logica od illogica, fa siche spesse volte in pratica certi istituti non attuino il concetto puro di tassa, ma siano, come già si accennò, misti di tassa e di imposta.

 

 

Finché siamo nella teoria pura la distinzione esiste chiara; perché se non v’è sempre una linea di distinzione netta fra ciò che è servizio divisibile e si deve far pagare con la tassa e ciò che è servizio indivisibile e si deve far pagare con l’imposta, perché talvolta si fa passare come indivisibile un servizio perfettamente divisibile e viceversa; tuttavia teoricamente la distinzione è chiara. Quando esiste la libertà di richiesta dell’utente o contribuente siamo nel campo del prezzo pubblico o della tassa; quando il contribuente deve essere coartato a pagare siamo nel campo dell’imposta. Però nella legislazione positiva i concetti non sono affatto chiari e distinti. Il legislatore adopera promiscuamente i nomi tassa ed imposta; il che sarebbe poco male trattandosi di una semplice questione di terminologia per cui basterebbe intendersi. Quel che è peggio, il legislatore spesse volte innesta vere e proprie imposte sul tronco della tassa; sicché questa da facoltativa diventa obbligatoria, dando luogo alla creazione di istituti misti. Anche qui il male sarebbe piccolo, se l’istituto misto avesse soltanto la virtù di infastidire gli studiosi che vorrebbero sempre classificare tutto in maniera chiara e limpida. La vita reale è complessa e si ride della mania classificatoria degli uomini. Il vero danno sta in ciò che talvolta, non sempre, questi innesti delle tasse sulle imposte costituiscono delle vere degenerazioni operate a caso, quando l’urgenza del denaro si presentava, e sono produttive di effetti dannosi.

 

 

121. Casi di trasformazione fondata su plausibili motivi. – Si dovrà dire che il tributo che si paga per la successione sia tassa o imposta? Si può dire che è una tassa perché corrisponde a un servizio particolare che lo Stato rende al contribuente, dichiarando e rendendo pubblico il passaggio dei beni del defunto agli eredi e legatari. È quindi un servizio particolare. Perciò il tributo che i contribuenti pagano è una vera e propria tassa.

 

 

Ma rimaniamo subito perplessi per il fatto che essi non sono liberi di pagare o non il tributo di successione. Se fossimo nel campo della tassa pura dovremmo avere la domanda volontaria, e allora si può essere sicuri che il contribuente non la farebbe, anche col rischio di avere minori guarentigie, se dovesse pagare un tributo di successione che va dall’1,60 al 22% a seconda del grado di parentela e della somma ricevuta. Quindi le somme, che in questo caso i contribuenti pagano, non si deve credere che siano misurate soltanto in rapporto ad un servizio speciale, ma in rapporto ai servizi generali. Si tratta quindi d’imposta e di tassa nello stesso tempo. Qui possiamo trovare però le ragioni del carattere misto del tributo; perché, oltre alla tassa per un servizio particolare, si paga un’imposta sulla base del criterio generale comune a tutte le imposte: quello della capacità di pagare. Il legislatore invero ritiene che l’erede o legatario si arricchisca di tutto l’ammontare dell’eredità e diventi più ricco di quanto non fosse prima; fatto che giustifica il pagamento di un’imposta allo Stato in questa occasione, come in tutte le altre in cui un contribuente si arricchisce.

 

 

122. Casi di degenerazione delle tasse in imposte. – Esistono però altri istinti per cui è più difficile poter trovare una adeguata giustificazione, all’infuori della comodità fiscale che presentano le tasse a trasformarsi in imposta. Il che si verifica, ad esempio, nelle tasse sul trasferimento della proprietà dei beni mobili ed immobili a titolo oneroso. Si comprende come rispetto a questo trasferimento si possa esigere una tassa; il pagamento di essa è utile perché il trasferimento vien così registrato; registrazione vantaggiosa ai venditori in quanto rende più facile la vendita e ai compratori per far conoscere le compere fatte rispetto a titolo oneroso, lo Stato possa pretendere una tassa. Ma la tassa ha un limite; non deve cioè mai essere superiore al vantaggio che il contribuente ricava dal servizio relativo. Bisogna quindi valutare il costo di quel servizio per lo Stato, e poi ripartire questo costo fra i contribuenti in rapporto al numero ed alla importanza degli atti stessi.

 

 

In realtà le cose sono, in fatto, ben lontano da questa condizione perché lo Stato si fa pagare somme di molto superiori all’ammontare del costo del servizio. È ben difficile poter immaginare che il costo, per lo Stato, della registrazione degli atti di compera e vendita di un immobile, superi mai qualche lira o diecina di lire. Invece le somme da pagarsi per il trasferimento d’immobili sono enormi: per 100.000 lire ad esempio, occorre pagare L. 4880. Se si rimanesse nel campo della tassa, se cioè si richiedesse la domanda dei contribuenti, pochissimi s’indurrebbero a pagare perché troverebbero che l’onere della tassa è superiore al vantaggio che se ne ricava. Delle 1.880 lire che si pagano per il trasferimento di un immobile del valore di 100.000 lire, cento lire tutt’al più cadono nel campo della tassa, le altre 4.780 in quello dell’imposta che lo Stato impone nell’occasione del prelievo della tassa. Le imposte, abbiamo detto, si giudicano – almeno il legislatore così le giudica e noi non discutiamo questo punto, su cui ritorneremo dopo – in rapporto al criterio di capacità contributiva. Ma nel caso del trasferimento di proprietà non si riesce a scoprire questo rapporto che era invece chiarissimo nell’esempio della tassa di successione, nel qual caso si trattava di aumento di patrimonio e quindi di un aumento di capacità contributiva.

 

 

Nel caso che il trasferimento avvenga a titolo oneroso, che aumento v’è mai? Uno dei contraenti aveva L. 100.000 in denaro e l’altro il valore corrispondente in immobili; dopo il contratto le parti si sono cambiate; ma il valore della proprietà di ambedue è identico e quindi non cresciuta affatto la capacità contributiva. Con ciò non si vuol dire che non si possa trovare una spiegazione delle imposte sui trasferimenti. A suo tempo noi vedremo come quelle imposte possano essere spiegate. Ma la spiegazione non si trova partendo dai principi assunti consuetamente dai legislatori. E sovratutto è inoppugnabile il fatto che il legislatore ha messo una imposta in una forma – sui trasferimenti singoli dei beni – che è assai dannosa alla economia generale, inspirandosi al puro criterio della comodità dell’esazione. Lo Stato, il quale vede che i contribuenti hanno bisogno di ricorrere a lui per avere dei servizi relativi al trasferimento della proprietà comincia dalla tassa pura, poi cresce via via l’aliquota rendendo il pagamento obbligatorio, fino a raggiungere, come da noi in Italia, aliquote assai elevate, le quali però non giungono ancora al livello della Francia, ove per il trasferimento di una proprietà del valore di L. 100.000 si pagano L. 6.700 di tassa-imposta.

 

 

Data questa trasformazione della tassa in istituto misto di tassa e di imposta che non obbedisce ai criteri di giustizia tributaria, si capisce che la classificazione, scientifica dei tributi in prezzi privati, nelle grandi linee anche nella pratica, non risponde in tutto ai fenomeni che si riscontrano nella legislazione positiva dei diversi paesi, legislazione ricca di molti istituti misti che offuscano i concetti fondamentali che la scienza finanziaria mette a base delle sue classificazioni.

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