Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo III – Imposte straordinarie e debito pubblico

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo III – Imposte straordinarie e debito pubblico

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 682-721

 

 

 

Sezione prima

Imposte straordinarie e varie specie di esse.

 

576. Imposte straordinarie e varie specie di esse. – Gli spedienti finora noverati hanno dunque portata assai modesta e possono considerarsi tutt’al più come preparatori per la condotta della guerra o per il compimento di altre spese veramente straordinarie. L’esperienza ha insegnato che le due maniere proprie di entrate straordinarie seno le imposte anche straordinarie ed il debito.

 

 

Quanto alle prime, innanzi di discorrere l’applicabilità ed i limiti si può osservare come possono essere di diverse specie e cioè: miglior esazione delle vecchie imposte, aumento dell’aliquota di esse od imposte del tutto nuove.

 

 

577. Prima specie di imposte straordinarie: più severa esenzione delle imposte vigenti. – Talvolta i governi, ripugnanti a dichiarare ai popoli la necessità, sempre sgradevole, di istituire nuovi balzelli, si consentono di esigere i vecchi con maggior rigore. La più severa esazione delle imposte vigenti è mezzo consueto di imporre tributi straordinari. In un perfetto sistema tributario cotal mezzo non potrebbe neppure concepirsi; poiché i redditi od i capitali od i consumi dei cittadini dovrebbero essere sempre valutati nell’intiero esatto loro ammontare e su di essi dovrebbe cadere solo l’aliquota d’imposta sufficiente a coprire le spese pubbliche. Così ove si supponga, per semplicità, che il reddito totale vero imponibile del paese sia di 10 miliardi di lire ed il fabbisogno normale dello Stato di 2 miliardi, e si supponga inoltre, pure per semplicità di discorso, che esista un’unica imposta proporzionale sul reddito, l’aliquota necessaria e sufficiente risulta del 20 per cento. Tutti essendo colpiti coll’imposta del 20% sul loro reddito vero, lo Stato introiterebbe 2 miliardi di lire; ed insorgendo un bisogno straordinario di un terzo miliardo di lire, che si vuole coprire con l’imposta, l’aliquota dovrebbe essere aumentata dal 20 al 30%, affine di gittare, fermo rimanendo in 10 miliardi il reddito imponibile nazionale, 3 invece di 2 miliardi di lire. Tale però non è la vicenda ordinaria delle cose; poiché se il reddito nazionale vero è di 10 miliardi, probabilmente il reddito conosciuto dal fisco ed accertato sarà minore: ad es., di 6 miliardi. Il legislatore, ordinando in tempi normali un’aliquota d’imposta del 33,33% del reddito, ottiene egualmente i 2 miliardi necessari; sicché il fisco non ha urgente bisogno di provvedere ad un esatto accertamento dei redditi, essendo indifferente per lui imporre il 20% d’imposta su 10 miliardi di lire od il 33,33% su 6 miliardi, purché in ambi i casi riscuota due miliardi. I contribuenti d’altro canto non sono spinti a reagire contro l’enorme aliquota del 33,33% poiché di fatto nessuno o ben pochi ha pagano sul serio; ed ognuno si illude di essere tra i pochi furbi che frodano il fisco. Il risultato sarà per fermo iniquissimo, poiché la furberia degli uomini nel frodare il fisco è variabilissima; talché vi saranno alcuni sventurati che pagheranno l’intero 33,33% legalmente dovuto, mentre altri solveranno il medio del 20% e taluno scenderà sino al 15 od al 10% e fors’anco più in basso.

 

 

Il sorgere dal fabbisogno straordinario di 1 miliardo di lire offre l’occasione di riparare alla sperequazione che la frode dei contribuenti e la acquiescenza del fisco avevano radicato nel paese. Suppongasi che i governanti d’un paese, dovendo fronteggiare una spesa straordinaria di un miliardo di lire, abbiano assunto a propria divisa il motto: né imposte nuove né debiti. Non importa qui la ragion del proposito, la quale di solito consisterà nel desiderio di proporzione l’animo dei contribuenti ad una spesa a cui altrimenti rilutterebbero. Tale essendo però il proposito, i governanti potranno attuarlo, ordinando ai proprii agenti fiscali di meglio scrutare la reale consistenza dei redditi dei contribuenti; rivedendone diligentemente le dichiarazioni ed aumentando gli accertamenti erronei in meno. Suppongasi che le fatiche del fisco siano coronate da successo; e che il reddito accertato salga da 6 a 9 miliardi di lire. Non sono ancora di 10 miliardi veri, poiché in alcuni casi l’abilità dei contribuenti frodatori è stata maggiore dello zelo del fisco; ma è quanto basta perché l’antica imposta coll’antica immutata aliquota del 33,33% frutti 3 invece dei consueti due miliardi di lire. Il governo potrà vantarsi d’aver serbato fede alla promessa né imposte nuove né debiti, poiché l’imposta non fu affatto variata nella sua aliquota; né i contribuenti potranno lagnarsi del maggior rigore verso di essi usato nell’accertamento dei redditi, poiché la frode usata per lungo tempo non converte l’abuso in diritto.

 

 

Che se vogliasi dare un giudizio di questa maniera di ottenere dalle vecchie imposte un provento cresciuto, si dirà:

 

 

  • che essa partorisce un effetto beneficio ed è la perequazione tra i contribuenti. La diminuzione della frode fiscale è un bene perché stabilisce l’uguaglianza tributaria, che dalla frode era stata rotta;
  • un altro effetto benefico è l’affinarsi dei congegni tecnici intesi alla scoperta della verità. È sempre opportuno che l’amministrazione fiscale sia capace di raggiungere il fine suo; mentre un fisco sonnolento e pigro facilmente diventa anche partigiano e corrotto;
  • ed un terzo beneficio è la crescita reazione dei contribuenti. Qualunque siano i caratteri di un’imposta o di un sistema tributario, è d’uopo che esso spinga alla critica od alla reazione i contribuenti, poiché solo a questa condizione possiamo essere sicuri che i contribuenti abbiano voluto la spesa e consapevolmente abbiano scelto l’imposta all’uopo necessaria (cfr. par. 307, 308, 310 e 383). Ora un’imposta, anche altissima, come sarebbe quella del 33,33% sul reddito, è impotente a far reagire i contribuenti, quando questi siano riusciti ad occultare 4 sui 10 miliardi di loro reddito. Troppo sono essi contenti della frode compiuta – e nella frode medesima sta la loro reazione contro l’imposta eccessiva (cfr. par. 220) – per impacciarsi a cercare altre maniere di reazione. La più severa diligenza del fisco, in seguito all’insorgere della spesa straordinaria, quasi annullando l’effetto della reazione frodolenta e costringendo i contribuenti a pagare sul serio il 33,33% su quasi tutto il reddito (9 miliardi su 10), spinge gli antichi frodatori, divenuti per forza uomini onesti, ad altre maniere, più feconde, di reazione: controllo della spesa pubblica, eliminazione delle spese inutili, mercé, occorrendo, cambiamenti nella composizione del gruppo governante (cfr. par. 223);
  • contro ai quali benefici effetti si deve porre l’effetto dannoso di oscurare gli occhi dei popoli il fatto dell’imposta nuovamente riscossa. L’esazione più severa dell’antica imposta è, invero, per sé stessa tutt’una cosa con lo stabilimento di un’imposta nuova. Un miliardo si dovrebbe riscuotere con questa, ed un miliardo si esige dando un altro giro al vecchio torchio tributario. L’essenza del fatto sta nel miliardo nuovamente esatto, non nel nome dato dal fatto di «imposta nuova» o di «maggior rendimento delle imposte vecchie». Ma poiché grandissima è la potenza dei nomi dati alle cose, del nome si giovano i governanti per illudere i contribuenti e persuaderli che non v’è alcun nesso tra l’imposta meglio esatta e la spesa straordinaria la quale diede origine alla migliore esazione. Specialmente quando temono che la spesa straordinaria non sarebbe agevolmente consentita dai popoli, se questi subito sapessero che dovranno farvi fronte con balzelli cresciuti, i governanti si affannano a dimostrare l’inutilità di preoccupazioni della spesa anzi tempo, a nascondere l’effettivo ammontare di essa ed a procacciarsi nel tempo stesso i mezzi di sopperirvi, ordinando nascostamente agli agenti fiscali accertamenti più rigorosi della materia imponibile. Laonde, quando i contribuenti si accorgono di essere chiamati a pagare lo scotto dello straordinario dispendio, questo è già avvenuto ed ogni critica efficace è inutile;
  • la qual sequela di avvenimenti è l’indice di un imperfetto funzionamento del meccanismo parlamentare. L’essenza finanziaria dei governi parlamentari sta – od almeno di diceva stesse dai classici trattatisti – nella necessità in che il governo dovrebbe essere posto di chiedere ai rappresentanti dei contribuenti i mezzi pecuniari occorrenti per le spese pubbliche; sicché i rappresentanti, favorevoli o contrari ad una spesa, potessero consentirle od impedirle, dando o negando il proprio consenso all’imposta all’uopo necessaria. Quando invece il governo dal regime di frode tributaria preesistente è posto in grado di ottenere proventi applicando più severamente le antiche imposte, desso raggiunge due fini: di acquistar nomea di corretto osservatore delle leggi e di abolire l’effettivo sindacato del parlamento sulla spesa straordinaria. Né monta che questa spesa sia stata votata all’unanimità dal parlamento e sia approvata dal popolo; poiché il consenso alla spesa che si immagina di poter compiere senza d’uopo di solvere nuovi tributi ricorda l’antico detto della sapienza popolare: a caval donato non si guarda in bocca;
  • finalmente si osservi che la necessità di fatto, in che il governo si trova, volendo occultare il rapporto tra la spesa straordinarie e le imposte cresciute, di non eccitare reazione troppo vive partorisce un effetto nocevolissimo: che la esazione delle vecchie imposte non diventa maggiormente severa contro tutti ugualmente, bensì contro quei soli gruppi di contribuenti che sono meno capaci a difendersi. Si perequa, ma a caso, dove si trova terreno meglio propizio e si lasciano sussistere quale frodi, a togliere le quali troppo grande sarebbe il rischio di eccitare l’ira dei contribuenti percossi. Talché vi sono classi o regioni o città favorite, le quali sfuggono all’inasprimento dei balzelli antichi; e sfuggono classi o regioni in cui più è squisita la capacità reattiva. Il vario combinarsi delle circostanze di fatto è causa che, nei singoli casi, prevalgono talora gli effetti benefici, che sopra si sono descritti e t’altra i dannosi. Basti qui aver discorso i principi generali che possono essere utili a spiegare i fatti variabilissimi d’ogni singolo tempo o paese.

 

 

578. Seconda specie di imposte straordinarie: aumento delle aliquote delle imposte vecchie. – Suppongasi che in uno Stato il reddito nazionale vero sia di 10 miliardi e che, per ipotesi difficile ad attuarsi di fatto ma ammissibile teoricamente, il reddito accertato sia parimenti di 10 miliardi.

 

 

Se l’aliquota normale è del 20% e dà un prodotto di 2 miliardi di lire, per ottenere un provento di 3 miliardi non si potrà procedere ad un più esatto accertamento dei redditi, ché questi già prima erano esattamente conosciuti e tassati, ma si dovrà aumentare l’aliquota dal 20 al 30 per cento.

 

 

Cotal metodo è chiaro, aperto, richiede, per essere adoperato, il consenso del Parlamento, eccita il controllo dei contribuenti sulla pubblica spesa, per parecchi versi eccellendo quindi sullo spediente dianzi discorso. Affinché però ad esso si possa ricorrere, imposta:

 

 

  • a) che l’aliquota vigente sia relativamente tenue. Per comodità di esempio, si suppose sopra che questa fosse del 20% e la si portasse al 30 per cento. Di fatto, sarebbe difficile aumentare un’aliquota, che è già grave per sé medesima ed è stimolo vivissimo alla frode. Già fu avvertito ripetutamente (cfr. specialmente i par. 192/197) che solo le imposte, le quali normalmente sono ad aliquota tenue, del 3, 4, 5 ed al più 10 per cento, possono straordinariamente essere aumentate. Contro l’aumento delle aliquote forti i contribuenti reagiscono in ogni maniera ad essi consentita, epperciò il frutto che se ne ricava è ben scarso;
  • b) che il sistema tributario vigente sia reputato corretto. Sempre per comodità di semplificazione, si suppose che vigesse un’unica imposta sul reddito; nel qual caso questa sola si sarebbe potuta aumentare. Ma già sappiamo che il metodo dell’imposta unica è assurdo (cfr. par. 181/198) e che ogni sistema tributario vigente è ricco di varie imposte. Le quali si sopportano, per il fatto solo che esistono; ma il loro aumento incontrerebbe vive opposizioni, se operato uniformemente. I popoli consentono volentieri all’aumento di un’imposta che essi reputano corretta, e riluttano ad inasprire quella che essi conoscono per scorretta o dannosa. Ogni volta perciò che si vogliono aumentare le aliquote delle imposte esistenti, sorge il problema: quale imposta deve essere aumentata? la misura dell’aumento deve essere uniforme o variabile?

 

 

Il problema non presenta però alcuna peculiarità propria che imponga di esso una trattazione particolare in tema di imposte straordinarie. Sono sempre gli stessi problemi di ripartizione delle imposte che si sono studiati nelle parti seconda e terza del presente corso. Si può notare che la necessità di sopperire ad una si chiamano «riforme tributarie», le quali in sostanza sono un mezzo per diminuire le aliquote che l’opinione prevalente nel momento della riforma reputa eccessive, aumentando quelle considerate troppo tenui, sì da ristabilire quella che è tenuta in quel momento storico per uguaglianza tributaria, ricavando nel tempo stesso un maggiore provento pecuniario.

 

 

Schematicamente, siamo 5 imposte, su 5 specie di redditi dell’ammontare di 2 miliardi di lire l’uno, con le aliquote rispettive del 5, 7, 10, 13 e 20% e con il gettito di 100, 140, 200, 260 e 400 ed in tutto 1.100 milioni di lire. Siamo variate le aliquote al 10, 11, 13, 15 e 18 per cento. Il gettito o diventerà di 200, 220, 260, 300 e 360 milioni di lire carico delle prime 4 categorie di redditi è aumentato in misura proporzionatamente decrescente da 100 a 200, da 140 a 220, da 200 a 260, da 260 a 300; mentre quello della V categoria è diminuito da 400 a 360 milioni di lire. Il gettito complessivo sale a 1.100 a 1.340 milioni di lire; ma il maggior gettito di 240 milioni di lire è diversamente repartito tra le varie categorie di contribuenti, gravando di più coloro che erano poco tassati, di meno quelli che già sopportavano un peso sufficiente e diminuendo persino a taluni, dianzi troppo oberati, il pondo dei tributi. È vecchia arte di governo di combinare insieme gli aggravi con gli sgravi, in guisa che l’idea delle maggiori esazioni si fonda con l’altra di una migliore giustizia nelle esazioni stesse; con che si rende più agevole l’aumento complessivo delle imposte.

 

 

Di questo genere fu l’aumento del 2%, che si deliberò in Italia nel 1908 per sopperire alle spese straordinarie cagionate dal terremoto di Messina e Reggio Calabria. L’aumento si applicò solo alle imposte dirette ed alle tasse sugli affari, lasciò immuni le imposte sui consumi, che si reputarono già soverchiamente gravati, e nel gruppo delle imposte dirette, non toccò i redditi di cat. A1 dell’imposta di ricchezza mobile su cui, per trattasi di titoli di debito pubblico, l’imposta viene esatta per ritenuta.

 

 

579. Terza specie di imposte straordinarie: creazione di imposte nuove. – Accade talvolta che le imposte esistenti male si prestino ad un aumento d’aliquota, o sia perché è già troppo alta, o perché l’imposta vigente è malvista od il sistema tributario nel suo complesso è considerato antiquato e poco suscettibile di una cosidetta «riforma». Si fa ricorso in tal caso ad una imposta nuova.

 

 

Ben si comprende che la novità sta tutta nel nome e nelle modalità esteriori e contingenti; essendo a noi noto che tutte le imposte colpiscono lo stesso oggetto, che è il reddito dei contribuenti e che la necessità di imposte nuove dipende massimamente da due cagioni: illusoria di prima, dovendo i governanti persuadere i popoli che con l’imposta «nuova» si vuol colpire un «nuovo» oggetto, prima inopinatamente o per male arti sfuggito all’obbligo tributario (cfr. par. 382) e tecnica la seconda, ogni imposta avendo un suo punto di produttività massima, oltre il quale non conviene innalzare l’aliquota, giovando piuttosto assumere ad oggetto dell’imposta un’altra forma o parvenza del reddito, non ancora vessata dal fisco.

 

 

Le imposte straordinarie non si distinguono in nulla dalle ordinarie quanto al loro oggetto, ambedue le specie potendo colpire i consumi od il reddito guadagnato od il patrimonio o le trasmissioni del patrimonio. Noi già abbiamo detto le regole di ognuna di queste imposte ed abbiamo dimostrato come ognuna possa, con un semplice calcolo aritmetico, convertirsi nelle altre (cfr. specie i par. 409, 534, 535, 545, ecc.), sicché una ripetizione sarebbe inutile.

 

 

Vuolsi soltanto osservare che le imposte «straordinarie» per serbar fede al loro nome, dovrebbero durare quanto dura il bisogno «straordinario» che le ha fatte sorgere. Finita la guerra e liquidati i conti di essa, l’imposta straordinaria essere abolita. Così si usava spesso sotto i governi assoluti, quando le imposte dette dei «quartieri d’inverno» o dei «foraggiamenti» o del «sussidio militare» erano abolite al finir della guerra. Del che si leggono esempi numerosi nella storia della finanza sabauda (cfr. il vol. I dei Documenti finanziari della monarchia piemontese già citati). Nei tempi moderni, incalzando i bisogni pubblici per gli appetiti delle classi sempre più numerose partecipanti al potere, accade spesso che l’imposta, sorta dapprima per far fronte alle spese di una guerra sia conservata per provvedere alle opere della pace ed alla moltiplicazione dei pubblici funzionari. Conviene all’uopo distinguere fra le imposte straordinarie a forte ed a debole pressione. Così, se in uno Stato il cui bilancio ordinario è di 3 miliardi di lire s’istituisce un’imposta straordinaria il cui gitto sia di 300 milioni, è probabile che questa si perpetui, anche quando è cessata l’esigenza straordinaria che vi diede origine. I contribuenti ormai si sono abituati a pagare un decimo in più oltre le antiche imposte; ed i governanti ben sapranno inventar pretesti per continuare a farlo pagare. Ma se l’imposta straordinaria è di 1 miliardo di lire, è possibile ottenere il pagamento solo se si danno affidamenti sicuri ai contribuenti che il carico ne sarà temporaneo. Un aumento nel 33% della pressione tributaria normale, che può essere già cospicua, è tollerato se si spera che il sacrificio duri poco, mentre susciterebbe resistenze vive qualora dovesse durare in perpetuo.

 

 

Poiché le imposte straordinarie hanno purtroppo una propensione spiccata a diventare ordinarie, è d’uopo attentamente escludere quelle modalità di esse che sarebbero innocue, se l’imposta dovesse durare per breve tempo, mentre diventano perniciosissime col loro perpetuarsi. Del che sono esempio cospicuo i dazi doganali imposti su merci provenienti dall’estero e producibili all’interno. Se i dazi doganali sono imposti per pochi anni finché dura la guerra, non recano danno, sia perché non sono argomento bastevole a suscitare una artificiosa industria interna, sia perché in tempi di guerra non si pensa a far sorgere nuove industrie.

 

 

Quindi i dazi, sebbene imposti su una merce producibile all’interno e non soggetta ivi ad imposta di fabbricazione (cfr. par. 361), danno, se temporanei, un reddito al fisco. Ma se, cessata la guerra, i dazi non sono subito aboliti, i capitalisti si avveggono dell’opportunità che essi loro offrono all’impianto di industrie protette; queste sorgono e diventano ben presto un ostacolo formidabile all’abolizione, che poscia si volesse decretare. All’interesse del fisco si aggiunge invero l’interesse degli industriali protetti, i quali si agitano per la conservazione del dazio di guerra e predicono ogni fatta di sciagura al paese che, dopo aver respinto in guerra il nemico lasciasse in pace invadere il territorio nazionale dai prodotti stranieri. Mercé questi sofismi, i dazi, che negli Stati Uniti si istituiscono durante la guerra di successione, furono conservati sino ai dì nostri ed a gran fatica il presidente Wilson è riuscito di recente (1913) a diminuire la gravezza.

 

 

Sezione seconda.

Limiti all’applicazione dell’imposta straordinaria e fondamento del debito pubblico.

 

 

580. Limiti all’applicazione dell’imposta straordinaria. – L’imposta straordinaria, comunque sia applicata, incontra però nella sua applicazione limiti rigidi, che la rendono uno strumento imperfetto nelle più gravi emergenze dello Stato. Suppongasi una società composta di un capitalista avente un reddito guadagnato di 5.000 lire di un industriale con un reddito di 5.000 lire e di un professionista od impiegato con un reddito pure di 5.000 lire[1]. Suppongasi ancora che, a norma delle regole esposte nella parte terza (par. 403 e segg.) del presente corso, per la detrazione delle quote qualitative e quantitative presunte di risparmio, cotali redditi siano stati così ridotti:

 

 

 

Reddito guadagnato

Coefficiente di riduzione

Reddito presunto consumato imponibile

Tizio (redditi di capitale puro)

L. 5.000

5.000

Caio (reddito di capitale misto a lavoro)

5.000

3/10

3.500

Sempronio (reddito di lavoro puro)

5.000

5/10

2.500

 

15.000

11.000

 

 

Suppongasi che le imposte normali (sul reddito consumato, sul reddito guadagnato e sui trasferimenti) siano così consegnate da assorbire uniformante il 20% del reddito presunto consumato, portando via 1.000 lire a Tizio, 700 lire a Caio e 500 lire a Sempronio ed in tutto L. 2.200 all’anno.

 

 

Sorga ora un fabbisogno straordinari di 8.800 lire, da esigersi d’urgenza per la condotta d’una guerra nel lasso d’un anno. Il fabbisogno bisogno straordinario dovrà essere ripartito nel medesimo modo, che è giudicato corretto, in cui si riparte il fabbisogno straordinario. E cioè:

 

 

  Tizio Caio Sempronio Totale
  capitalista puro industriale professionista  
Reddito guadagnato

L. 5.000

5.000

5.000

15.000

Reddito presunto consumato ed imponibile

 5.000

3.500

2.500

11.000

Aliquota dell’imposta ordinaria

%20

20

20

20

Aliquota dell’imposta straordinaria

%80

80

80

80

Aliquota dell’imposta totale

%100

100

100

100

Prodotto dell’imposta ordinaria

L. 1.000

700

500

2.200

Prodotto dell’imposta straordinaria

4.000

2.800

2.000

8.800

Prodotto dell’imposta totale

5.000

3.500

2.500

11.000

Reddito presunto consumato residuo prima della guerra

4.000

2.800

2.000

8.800

id. id. dopo la guerra

Risparmio presunto

1.500

2.500

4.000

 

 

È chiaro che l’applicazione dell’imposta riuscirà quasi impossibile. È vero che si è cercato, applicando le regole per ipotesi già invalse ordinariamente, di gravare con l’imposta assai meno il lavoratore che l’industriale e questi del capitalista puro. Gravar la mano di più su costui sarebbe impossibile perché l’imposta totale già gli porta via L. 5.000 su 5.000 di reddito presunto consumato, identico per lui al reddito guadagnato. Dato un sistema d’imposta che non voglia per sé stesso distruggere il capitale già esistente è impossibile andare al di là del 100% del reddito consumato e guadagnato. Tizio, se vorrà vivere durante quell’anno, dovrà consumare parte del suo capitale.

 

 

Anche Sempronio si vede assorbito dall’imposta l’intiero reddito consumabile di L. 3.500 e dovrà di vivere con le 1.500 lire di risparmio presunto esente da imposta. Anch’egli dovrà, de le 1.500 non gli bastano, vendere parte dei fondi della sua industria o commercio. Sempronio a cui l’imposta lascia disponibile solo le 2.500 lire di risparmio presunto, dovrà contentarsi di queste, essendoché egli, per definizione, non possiede capitali. Egli dovrà rinunciare al risparmio, il che, compiendosi il risparmio massimamente sotto forma personale (cfr. par. 297) vuol dire rinunciare o peggiorare assai l’allevamento e l’educazione dei suoi figli.

 

 

Si impone a questo punto di quesito: non v’è nessun altro mezzo atto a raggiungere il fine di procacciare allo Stato le 8.800 lire necessarie per la condotta della guerra senza ridurre i contribuenti per un anno ad un reddito insufficiente a soddisfare i bisogni privati e senza costringerli ad intaccare il proprio patrimonio o l’avvenire della famiglia? Certo, il bisogno della condotta della guerra è urgentissimo; ma non meno urgente è il bisogno di vivere e di far vivere la famiglia. Tanto più la ricerca di una via d’uscita è opportuna, in quanto la necessità di crescere da 2.200 ad 11.000 lire la spesa pubblica dura solo un anno, dopo il quale la ripartizione del bilancio dei contribuenti ritorna normale. Gli uomini non vorranno sicuramente acconciarsi a privazioni gravissime, forse insopportabili, quando vi sia altro mezzo per passare attraverso a quella che ben può chiamarsi la crisi di un anno.

 

 

581. Fondamento del debito pubblico. – Questo mezzo vi è ed è il debito pubblico. Ognuno, che debba in un dato anno far fronte ad una spesa straordinaria e non lo possa coi redditi ordinari, ricorre al debito che in seguito rimborsa a rate. Tizio, il quale ha un reddito di 5.000 lire, di cui 4.000 consuma e 1.000 risparmia, ove debba un anno fare una spesa straordinaria di 2.000 lire, né possa ridurre le spese ordinarie al disotto di 4.000 lire, coprirà il dispendio straordinario, rinunciando per quell’anno al risparmio di 1.000 lire ed indebitandosi per altre 1.000 lire, che restituirà l’anno seguente, mercé il margine destinato al solito risparmio. Così egli può far fronte all’esigenza straordinaria senza soggettarsi a privazioni eccessive.

 

 

Così può operare lo Stato. Per non gravare troppo i contribuenti durante l’anno della guerra conchiude con il capitalista, il quale supponiamo possa in parte distogliere i suoi capitali dai vecchi impieghi o li debba ancora in parte disponibili, un debito di L. 8.800 al 5 per cento. Per semplicità di calcolo, supponiamo perpetuo il debito, sicché l’onere di bilancio sia solo quello degli interessi in L. 440 annue. Invece di ripartire sui contribuenti per un anno un’imposta straordinaria di L. 8.800 bisognerà ripartire ogni anno in perpetuo un supplemento ordinario d’imposta di 440 lire. Lo schema dei redditi dei componenti la società e delle imposte da essi pagate da essi pagate si presenterà così:

 

 

  Tizio Caio Sempronio Totale
  capitalista puro industriale professionista  
Reddito guadagnato

L. 5.000

5.000

5.000

15.000

Reddito presunto consumato ed imponibile

 5.000

3.500

2.500

11.000

Aliquota dell’imposta ordinaria

%20

20

20

20

Aliquota del suppl. d’imposta

%4

4

4

4

Aliquota dell’imposta totale

%24

24

24

24

Prodotto dell’imposta ordinaria

L. 1.000

700

500

2.200

Prodotto del suppl. d’imposta

200

140

100

440

Prodotto dell’imposta totale

1.200

840

600

2.640

Reddito presunto consumato residuo prima della guerra

4.000

2.800

2.000

8.800

id. id. dopo la guerra

3.800

2.660

1.900

8.360

Risparmio presunto

1.500

2.500

4.000

 

 

È evidente che lo Stato può, col debito, ottenere assai più facilmente le 8.800 lire di cui ha bisogno per la condotta della guerra che non con l’imposta straordinaria. Con questa riduceva i contribuenti alla disperazione, portando via loro tutto il reddito consumabile e lasciando loro appena il risparmio presunto dell’annata, più il loro patrimonio preesistente, se lo possedevano. Col debito le 8.800 lire sono richieste tutte a Tizio, il quale, per essere capitalista, probabilmente le possederà disponibili; e sono chieste a mutuo volontario, offrendogli un tasso, il 5%, sufficiente a rendergli conveniente l’operazione. Così lo Stato, senza attrito veruno e forse con la contentezza del capitalista, il quale trova un impiego rimunerativo alle sue giacenze disponibili, ottiene le 8.800 lire necessarie. Il tesoro si carica, è vero di un onere perpetuo, al 5%, di interessi di 440 lire annue; ma agevolmente le ottiene, ripartendole ogni anno sui contribuenti, con un aumento dell’aliquota normale dell’imposta dal 20 al 24 per cento. I contribuenti, pagando ogni anno due decimi oltre il principale dell’imposta, solvono il loro obbligo tributario. Trattasi di un aumento relativamente piccolo d’imposta, che non produce una variazione molto sensibile nel loro reddito residuo e disponibile per spese private.

 

 

Tizio, a cui rimanevano prima 4.000 lire ne ha ancora 3.800, Caio ha disponibili 2.660 invece di 2.800, oltre, s’intende, il risparmio presunto di L. 1.500, e Sempronio ha 1.900 invece di 2.000 lire, sempre oltre le 2.500 lire di risparmio presunto. Il bilancio privato dei contribuenti, invece di passare attraverso ad una crisi acerbissima di privazioni della durata di un anno, deve permanentemente restringersi per una cifra moderata, al che si può rimediare sia restringendo i consumi privati meno urgenti, sia riducendo il risparmio, sia lavorando più intensamente. Laonde si può concludere che il metodo del debito pubblico è un mezzo per ripartire più convenientemente nel tempo e senza sensibili scosse per i contribuenti, l’onere della spesa straordinaria che, col metodo dell’imposta, dovrebbe incidere sui contribuenti in un tempo brevissimo.

 

 

Sezione terza.

Confronto tra l’imposta ordinaria ed il debito pubblico.

 

 

582. Si confrontano ulteriormente i due metodi dell’imposta straordinaria e del debito pubblico: e prima dal punto di vista economico finanziario dell’intiera collettività. – Le osservazioni ora fatte spiegano già quale sia la posizioni rispettiva dell’imposta o del debito, considerati come metodi per provvedere ad una spesa straordinaria. Ma non è inopportuno intrattenerci più a lungo su questa differenza. Lo studioso, il quale voglia approfondire l’argomento, leggerà con frutto principalmente il Contributo alla teoria del prestito pubblico, che è il secondo dei bei Saggi di economia e finanza del prof. A. De Viti De Marco. (Roma, ediz. del Giornale degli Economisti). Qui riassumeremo i punti principali della controversia.

 

 

Riprendasi intanto l’esempio già fatto. E per chiarezza, si distinguano ancora due figure economiche di capitalista: quella del capitalista il quale ha un capitale disponibile, impiegato in titoli di facilissima commerciabilità o, meglio, in depositi bancari a brevissima scadenza e quella di chi ha impiegato i proprii capitali in terreni case, mutui ipotecari, cartelle fondiarie ecc. ecc. Il confronto tra due sistemi può esporsi riassuntivamente così, arrotondando per semplicità le cifre e conservando, nella ripartizione delle due imposte tra i contribuenti, le consuete regole reputate corrette nel momento storico in cui la questione si dibatte:

 

 

 

 

Patrimonio del contribuente

Reddito

Se si adotta il medoto

    guadagnato del contribuente presunto consumabile ed imponibile

Dell’imposta straordinaria

Del debito pubblico

i contribuenti pagano una volta tanto L’erario mutua da Tizio all’interesse del 5% la somma di Il fisco riparte ogni anno in perpetuo sui contribuenti la somma necessaria a pagar gli interessi al 5% sulla somma contro mutuata.
Tizio (capitalista con capitale dispon.)

L. 10.000

5.000

5.000

L. 5.000

16.000

250

Caio (cap. con capitale impiegato in terre, case, ecc.)

100.000

5.000

5.000

5.000

250

Sempronio (industriale o commerciante)

50.000

5.000

3.500

3.500

175

Mevio (professionista, lavoratore)

5.000

2.500

2.500

125

Totale

16.000

16.000

16.000

800

 

 

 

 

Tizio e Caio hanno amendue un capitale di 100.000, il quale frutta, all’interesse del 5% che si suppone essere il tasso corrente d’interesse per impieghi di prim’ordine, un reddito di 5.000 lire, il quale, secondo le regole correnti nella legislazione tributaria, è tutto consumabile e quindi imponibile. Sempronio ha pure un reddito di 5.000 lire, ma il capitale corrispondente è di sole 50.000 lire, essendoché derivava non solo da questo capitale, ma anche dal lavoro dell’industriale, il quale dirige la sua intrapresa. Delle 5.000 lire di reddito guadagnato si suppone che solo 3.500 fossero consumabili al presente e quindi tassabili (cfr. par. 406).

 

 

Mevio non ha capitali, e tutto il suo reddito è di lavoro; onde da parte consumabile attualmente si riduce a L. 2.500 (cfr. come sopra il par. 406). Il reddito imponibile totale di questa piccola collettività di 4 contribuenti risulta dunque di 16.000 lire; ed al massimo l’imposta straordinaria potrà assorbire tutto queste 16.000 lire. L’ipotesi è irreale, poiché con quelle 16.000 lire i contribuenti devono anche vivere a soddisfare ai loro bisogni, privati e pubblici (imposte ordinarie); laonde la imposta straordinaria al massimo potrà giungere ad una terza o, meglio, quarta parte di tale somma. Il primo difetto del metodo dell’imposta straordinaria è perciò questo: di essere insufficiente a provvedere i mezzi occorrenti alla spesa straordinaria. Questa esige 16 mila lire e l’imposta ne darà 4 od al più 5 mila lire. Ma suppongasi anche che, per qualche miracolo, l’intento si ottenga e che lo Stato possa, indifferentemente, ricorrere all’uno o all’altro dei due metodi e ricavarne sempre 16.000 lire. Col metodo dell’imposta, i quattro contribuenti pagheranno nelle proporzioni segnate sul quadro, 16.000 lire per una volta tanto. Col metodo del debito, l’erario prende a mutuo le 16.000 lire da Tizio, il quale le possiede disponibili, si obbliga a pagare su di esse l’interesse del 5% e cioè lire 800 annue, e per procacciarsi queste, riparte ogni annuo un’imposta d’altrettanto sui contribuenti, sempre nelle proporzioni volute dalle regole tributarie vigenti e cioè sulla base del 5% del reddito consumabile. In tal modo le 16.000 lire, che sarebbe impossibile ottenere con l’imposta straordinaria, si ottengono agevolmente col debito chiedendole a Tizio che le possiede disponibili, ed il peso sui contribuenti viene convertito, da una somma unica di 16.000 lire, in una annualità perpetua di 800 lire. Le quali due quantità sono uguali, poiché, all’interesse del 5% onere perpetuo di 800 lire annue equivale ad un onere immediato di 16.000 lire. Il debito è dunque un metodo utile a massimizzare la capacità contributiva dei consociali, ottenendo facilmente ciò che coll’imposta straordinaria sarebbe impossibile avere.

 

 

Se noi consideriamo la collettività come un tutto unico, si può anche affermare un’altra verità: che i due metodi si equivalgono perfettamente.

 

 

Pagare 16.000 lire subito ovvero pagare 800 lire all’anno in perpetuo è la stessa cosa. Ciò è vero per la generazione attuale dei 4 contribuenti, ed è vero anche per le generazioni future. Infatti ricevere un patrimonio diminuito di 16.000 lire o ricevere il patrimonio intatto, ma gravato di un onere annuo di 800 lire è la stessa cosa. È un errore quindi affermare, come vuole l’opinione volgare, che l’imposta straordinaria grava sulla generazione presente, mentre il debito grava sulle generazioni future. Questa è una delle tante illusioni ottiche, le quali nascono dall’intervento del fattore «tempo» nei fatti economici. L’imposta straordinaria grava, è vero, la generazione attuale dei contribuenti, i quali indubbiamente pagano le 16.000 lire; ma grava anche le generazioni future, le quali per successioni avrebbero ricevuto 16.000 lire di più, se non si fosse fatta la spesa straordinaria e se quindi la generazione passata avesse potuto fare il consueto risparmio o non avesse dovuto intaccare il proprio patrimonio. Così del pari fa il debito, In quanto ché:

 

 

  • 1) le 16.000 lire sono prelevate sul capitale disponibile di Tizio che è uomo vivente oggi e sono spese oggi e non in tempo futuro, né mai si verificò il fatto, che sarebbe miracoloso, di una spesa fatta oggi con danari che ancora debbono essere guadagnati da gente ancor non nata;
  • 2) sono i contribuenti d’oggi gravati del nuovo onere d’imposta di 800 lire all’anno in perpetuo, il quale onere diminuisce subito di 16.000 lire il valore della loro fortuna attuale;
  • 3) le generazioni future ricevono un patrimonio apparentemente intatto, ma già gravato dell’onere delle 800 lire annue e quindi sostanzialmente già diminuito di 16.000 lire. Quindi è vero che la generazione futura riceve un patrimonio scemato di 16.000 lire; ma lo riceve tale in ambi i casi, sia che la generazione presente abbia fatto ricorso all’imposta straordinaria od al debito.

 

 

Le generazioni avvenire possono aver ragione a lamentarsi non contro il metodo prescelto, ma contro la natura della spesa straordinaria compiuta con qualsiasi metodo. Se la spesa è ritenuta utile anche dalla generazione futura, questa riceverà 16.000 lire di patrimonio privato in meno, ma possederà il patrimonio pubblico della indipendenza nazionale o della ferrovia produttiva, l’esistenza del qual patrimonio pubblico può avere a sua volta cagionato un aumento nel patrimonio privato siffatto da eliminare le conseguenze della perdita primamente sopportata dai contribuenti. Mentre può darsi che le 16.000 lire siano state spese per la conquista di una colonia sterile o per la costruzione di una ferrovia elettorale. Nel qual caso alla diminuzione del patrimonio privato non si sarà contrapposto alcun incremento nel patrimonio pubblico.

 

 

Per ora però si fa astrazione dall’indole della spesa straordinaria a cui si vuol provvedere; volendosi soltanto paragonare i due metodi che si possono scegliere all’uopo. Limitata così l’indagine, si deve concludere:

 

 

  • a) che i due metodi aritmeticamente si equivalgono;
  • b) che con amendue la spesa straordinaria viene sopportata dalla generazione attuale;
  • c) che con amendue le generazioni avvenire ereditario un patrimonio diminuito della somma ora spesa;
  • d) che l’imposta straordinaria è metodo spesso inadatto a coprire il fabbisogno straordinario;
  • e) mentre tale copertura è facilissima col metodo del debito pubblico.

 

 

Vediamo ora come si debbano modificare od accentuare siffatte conclusioni, ragionando partitamente di ognuno dei quattro componenti la nostra immaginaria società.

 

 

583. Confronto rispetto al capitalista puro con capitale disponibile. – Tizio, che è capitalista il quale dispone di 100.000 lire di capitale sotto forma liquida o quasi liquida, è perfettamente indifferente rispetto ai due metodi. Se egli paga 5.000 lire di imposta straordinaria, perde il frutto che dalla somma ricaverebbe, ossia 250 lire. Se lo Stato contrae un mutuo di 16.000 lire – e per ipotesi egli è il mutuante – ricaverà 800 lire di interesse dal mutuo, come avrebbe potuto ricavare da un qualunque altro impiego; e dovrà pagare 250 lire ricavare da un qualunque altro impiego: e dovrà pagare 250 lire all’anno di imposta al fisco, affinché questi aggiungendovi il provento dell’imposta pagata dagli altri contribuenti, possa versare a lui il dovuto interesse. Quindi egli, col debito, riscuote 800 e paga 250, ed ha nette solo 550 lire di reddito, mentre prima aveva 800. La sua partita è di 250 lire all’anno di reddito così come nel caso dell’imposta straordinaria. La scelta è per lui indifferente.

 

 

A questa conclusione, che è di prima approssimazione, bisogna però apporre qualche riserva appena si vogliano distinguere le varie categorie di capitalisti con capitale disponibile. Imperocché supponemmo sopra tacitamente che Tizio, se non fossero prelevate su di lui con l’imposta, sapesse investire le sue 5.000 lire precisamente al 5 per cento. In tal caso a lui è indifferente l’imposta che gli porta via il reddito potenziale delle 250 lire che non ha più; ovvero il debito che lo grava di 250 lire annue d’imposta, per pagare la sua quotazione di interessi sul debito pubblico. In realtà vi possono essere parecchie categorie di Tizii, di cui le principali sono: – quella del Tizio, capitalista accorto, il quale sa far fruttare il suo capitale il 6%, scegliendo investimenti sicuri, ma poco conosciuti o pregiati dalla generalità, e costui preferirà che lo Stato contragga il debito, ma con altri e non con lui, al 5%; e quella di Tizio, capitalista prudentissimo il quale, per timore di perdite, teneva i suoi fondi disponibili depositati alla cassa di risparmio, al 4 per cento. Anche costui preferirà il debito, poiché gli fornisce occasioni di imprestare non solo 5.000 lire ma anche maggior somma, se egli l’ha, allo Stato al 5%, che per lui costituisce un reddito insperato. Per la quota che sarebbe stata sua di imposta, egli né guadagna né perde; perché impiega le 5.000 lire al 5% in titoli di debito pubblico e il frutto di 250 lire lo passa allo Stato a titolo di imposta. Ma dal resto del suo patrimonio investito nel mutuo allo Stato ossia da 11.000 lire ricava il 5 invece del 4%, ossia 110 lire all’anno di maggior reddito.

 

 

L’esempio ora fatto mette in luce come l’imposta straordinarie si dirigerebbe a tutti i capitalisti, sia a quelli che possono per fruttare il proprio capitale di più del tasso corrente d’interesse per gli impieghi in prestiti pubblici, sia a quelli che appena lo uguagliano o vi stanno al disotto, cagionando ai primi (che perdono, ad es., i 6% su 5.000 lire ossia 300 lire) un danno maggiore che ai secondi (4% su 5.000 lire, ossia 200 lire); mentre col metodo del debito lo Stato lascia liberi i capitalisti di fargli il prestito; e questo gli verrà fatto dai capitalisti che minor frutto sarebbero stati capaci di ricavare dal proprio capitale. Onde non solo il debito massimizza la capacità contributiva del paese, ma pone a contribuzione immediata – salvo poi la ripartizione degli oneri annui di interesse su tutti i contribuenti conformemente alle regole invalse – solo coloro che attribuiscono minor pregio al capitale disponibile e che, essendo incapaci di trovare miglior impiego, esultando nel vedere aperta una via sicura di investimento ai proprii risparmi.

 

 

584. Confronto rispetto al capitalista puro con capitale impiegato in terre, case, ecc. – La scelta tra i due metodi non è indifferente per Caio, il quale ha impiegato le sue 100.000 lire in terre o case da cui ricava 5.000 lire di reddito annuo. Il problema per lui è sempre: è meglio pagare 5.000 lire una volta tanto (imposta straordinaria) ovvero 250 lire all’anno in perpetuo (imposta annua uguale agli interessi sul debito contratto Stato)?

 

 

Il punto essenziale per decidere sia in ciò che Caio non possiede oggi disponibile alcuna somma, tutto il suo capitale essendo impiegato, per ipotesi, in una casa o fondo rustico.

 

 

Ha, invero, il flusso di reddito di 5.000 lire all’anno; ma questo già lo spende per soddisfare i suoi bisogni privati e per pagare le imposte ordinarie. Quindi dovendo pagare l’imposta straordinaria di 5.000 lire, a lui si presenta soltanto l’alternativa fra vendere una porzione della sua casa o fondo ovvero prendere a mutuo 5.000 lire dando garanzia ipotecaria sulla sua proprietà. Alla vendita egli ripugna, per ragioni in gran parte sentimentali, di proprietario affezionato alla sua casa. Né la vendita di una parte di casa o di fondo è spesso possibile senza deteriorare il valore della parte residua; ed infine, ove sia possibile, per la concorrenza di molti venditori, tutti spinti a vendere dalla medesima necessità di pagare l’imposta straordinaria, la vendita si dovrebbe effettuare a prezzi rinviliti; onde egli dovrebbe vendere per 5.000 lire ciò che normalmente ha valore di 6.000 lire o più. Il sacrificio dell’imposta straordinaria sarebbe in tal caso troppo grave; ed egli si rivolge al prestito. Ma nemmeno questo gli è propizio. Infatti, se lo Stato trova somme a mutuo al 5%, quale interesse pagherà egli? Sicuramente di più, malgrado offra prima ed ampia garanzia ipotecaria. Infatti lo Stato per la perpetuità sua, per la fiducia da cui è circondato per la puntualità nel pagamento delle rate d’interesse, per la facile negoziabilità delle cartelle o titoli di debito da esso consegnati al mutuante, è il debitore privilegiato dei tempi moderni. Il più basso tasso d’interesse vigente sul mercato è da lui consegnato. Il nostro capitalista proprietario, il quale cerca 5.000 lire a mutuo dovrà acconciarsi a pagare almeno il mezzo per cento di più dello Stato e quindi il 5 1/2%, ossia 275 lire all’anno a chi gli dia il modo di pagare l’imposta straordinaria di L. 5.000. Questa perciò gli costa una perdita di 6.000 lire, oltre il dolore psichico della vendita della cosa sua, nel caso che egli alieni una parte della casa o del fondo; ovvero un onere annuo di L. 275, se egli preferisce ricorrere al debito privato.

 

 

Nel caso invece che lo Stato conchiuda esso un debito pubblico e si contenti di ripartire sui contribuenti l’onere degli interessi, la sua quota è di appena 250 lire all’anno, che è somma minore. Talché per lui più non sussiste l’equivalenza tra i due metodi, ed è preferibile il debito all’imposta straordinaria.

 

 

Qui si vede quale sia la funzione dello Stato nel ricorrere al debito pubblico: sostituire ai molti debiti privati, conchiusi a condizioni onerose, che i contribuenti privi di capitale attualmente disponibile dovrebbero contrarre in caso di imposta straordinaria, un unico debito pubblico, conchiuso alle più miti condizioni consentite dal mercato. Alla necessità di contrarre debiti non si sfugge neppure coll’imposta straordinaria: ma si contraggono i modi economicamente imperfetti. L’imposta straordinaria non è il contrapposto del debito pubblico: amendue sono invece due aspetti, due modalità diverse del medesimo fatto: il prelievo da parte dello Stato di una determinata somma per far fronte ad un bisogno straordinario, prelievo che non può essere altra cosa da un’imposta, a pagar la quale i privati provvedono contraendo molti debiti privati (ed allora si dice che vi è l’imposta straordinaria) o consociandosi insieme, e, per mezzo dello Stato, contraendo a migliori condizioni un unico debito pubblico (ed allora si dice che vi è il debito). È questa una nuova prova di una verità che abbiamo ripetutamente avuto occasione di dimostrare durante queste lezioni; che cioè tutte le imposte possono, quando si faccia astrazione da certe loro particolarità secondarie, trasformarsi l’una nell’altra; e l’imposta sul reddito non è una cosa differente anzi è la stessa cosa di un’imposta sul capitale, e le imposte di successione o sui trasferimenti sono vere imposte sul reddito e così via. Solo chi si arresta ai nomi ed alle parvenze esteriori degli istituti tributari, può farneticare differenze insanabili; mentre sono diverse solo le modalità accidentali dei molteplici strumenti adoperati a raggiungere il medesimo fine. Con ciò non si vuol dire che le modalità differenti non abbiano un’importanza notevolissima; e l’hanno nel caso nostro le modalità «imposta» o «debito», tali che è indiscutibile pel capitalista proprietario le preferibilità del debito all’imposta.

 

 

585. Confronto rispetto all’industriale o commerciante. – Alla stessa conclusione si giunge, a fortiori, per Sempronio, industriale o commerciante, il quale dall’applicazione di 50.000 lire di capitale ed insieme della propria opera di direzione e gestione ricava un reddito annuo di 5.000 lire. Se lo gravasse l’imposta straordinaria di 3.500 lire – calcola, al solito, secondo le regole vigenti – egli trovandosi privo di parte del proprio capitale vedrebbe inutilizzata anche una quota corrispondente della propria capacità di lavoro; e poiché l’impiego misto di capitale e di lavoro gli frutta il 10% del capitale, perderebbe 350 lire di reddito all’anno. Non volendo distrarre capitale dalla sua azienda, Sempronio dovrebbe farsi imprestare 3.500 lire da un capitalista; ma non possedendo egli terre o case su cui dare garanzia ipotecaria, egli dovrà pagare un più alto tasso d’interesse, ad es., del 6%, tanto più sapendosi che le 3.500 lire sono da lui richieste non per il giro consueto dei suoi affari (cambiali commerciali) ma per il pagamento dell’imposta straordinaria (cambiali di comodo). Egli subirà un onere di 210 lire all’anno di interesse per il debito privato contratto col capitalista. Ben è meglio per lui che lo Stato si faccia direttamente imprestare al 5% le 3.500 lire da un Tizio capitalista, incapace a far rendere dippiù il proprio capitale; poiché l’onere di interessi a lui spettanti sarà solo di 175 lire all’anno. Il metodo del debito gli fa risparmiare 175 ovvero 35 lire annue, secondo che egli abbia preferito di ridurre il capitale dell’azienda o di fare un mutuo privato al 6% ed è quindi per lui preferibile.

 

 

586. Confronto rispetto al professionista o lavoratore in genere. – Mevio, infine, è il più favorito dal metodo del debito. Invero, non potendo egli pagare l’imposta straordinaria di 2.500 lire, poiché egli per ipotesi è un mero lavoratore, privo di capitale già risparmiato, tutte queste 2.500 lire dovrebbe farsi imprestare dal capitalista. Ma non presentando egli alcuna garanzia salvo quella della doppia onorabilità personale ed eventualmente della cessione dello stipendio, dovrebbe pagare un interesse elevatissimo, forse del 10 per cento. L’imposta lo costringerebbe dunque ad un debito privato di 2.500 lire, del costo del 10% ossia di 250 lire annue; mentre se lo Stato contrae il debito pubblico, la quota a lui spettante di imposta annua per il pagamento degli interessi è di sole 125 lire annue, con un risparmio di 125 lire.

 

 

587. Imposta e debito rispetto alle generazioni successive. – Se per la generazione attuale il debito è sempre preferibile all’imposta straordinaria, che cosa si dovrà dire delle generazioni successive a quella che deliberò e sostenne la spesa straordinaria?

 

 

Per l’erede di Tizio, capitalista con capitale disponibile, la scelta è indifferente. Ricevere in eredità 100.000 lire meno 5.000 lire pagate dal proprio autore per l’imposta straordinaria ovvero ricevere tutte le 100.000 lire, ma gravate di un onere perpetuo d’imposta di 250 all’anno è tutt’uno. Il patrimonio ereditario avrà, in ambi i casi, il valore netto di 95.000 lire.

 

 

Il metodo del debito pubblico può essere considerato per lui preferibile, inquantoché, se egli è capitalista avveduto, capace di impiegare al 6% le proprie disponibilità, potrà farlo per tutte le 100.000 lire e non solo per 95.000 lire; che se è amante del quieto vivere potrà comprare sul mercato i titoli di debito emessi dallo Stato e lucrare il 5%, invece del 4% che riceverebbe dalla cassa di risparmio. Ad ogni generazione successiva, il metodo del debito consente di adattare i proprii impieghi alla propria capacità od inclinazione, investendo o disinvestendo i proprii capitali nei titoli di debito pubblico. Ad ogni istante successivo, si rinnova la composizione del gruppo dei capitalisti creditori dello Stato; e questi sono sempre composti di quei capitalisti che, in ogni successivo momento, attribuiscono minor pregio al proprio capitale e sono meno capaci di farlo fruttare.

 

 

Gli eredi di Caio anche preferiscono ricevere in eredità un capitale di 100.000 lire gravato di un onere perpetuo annuo d’imposta di 250 lire, piuttostoché avere la casa od il fondo decurtato di una parte avente il valore di 6.000 lire, ovvero gravato di un onere ipotecario di 275 lire.

 

 

Né altrimenti penseranno gli eredi di Sempronio per cui è preferibile ricevere l’azienda del valore di 50.000 lire e gravata di 175 lire di imposta annua piuttostoché averla diminuita a 46.500 lire o gravata di un debito di 3.500 importante 210 lire di interesse. È da osservare anzi che costoro forse non avranno le attitudini commerciali del loro autore e preferiranno vendere la loro azienda. Ed allora la scelta fatta in passato tra i due metodi produrrà ben diverse conseguenze. Se il legislatore avrà scelto l’imposta straordinaria, essi riceveranno un’azienda del valore di 46.500 lire o del valore di 50.000 lire ma gravata di un debito ipotecario di 3.500 lire, che ad essi converrà pagare, ove vogliamo realizzare l’azienda. Ove invece il metodo preferito sia stato i debito, essi, realizzando il valore dell’azienda in 50.000 lire e diventando capitalisti puri, godono soltanto d’or innanzi di un reddito di 2.500 lire annue. Tale loro nuova situazione muta la ragione della loro partecipazione all’onere dell’imposte annue necessarie a pagare gli interessi del debito pubblico. Il loro reddito consumabile diventando di 2.500, invece che 3.500 lire, com’era quello del loro autore, l’imposta discende da 175 a 125 lire. Questa è la differenza massima tra i due metodi rispetto alle generazioni successivi: l’imposta straordinaria fissa l’onere delle generazioni successivi nella cifra originaria pagata dal loro autore, il debito consente che si venga ad ogni generazione, anzi ad ogni successivo momento (annuo) finanziario ad una redistribuzione dell’onere degli interessi in conformità alle variazioni intervenute nell’ammontare del reddito consumabile dei contribuenti, onde per taluni l’onere aumenterà e per gli altri scemerà, in guisa che le generazioni successive le quali godono in proporzioni, variabili col tempo, dei frutti della spesa straordinaria, contribuiscono in proporzione medesimamente variabile al pagamento degli interessi del debito contratto per tale spesa.

 

 

Le quali verità ancor più è sensibile per gli eredi di Mevio, professionista o lavoratore semplice. Costoro sono eredi non di una sostanza patrimoniale, ma del buon nome del genitore, dell’educazione ed istruzione ricevuta e di altri beni immateriali, che si concretano non in un valor capitale – poiché l’abolizione della schiavitù ha tolto ogni valutazione di mercato della persona umana – ma in un reddito personale annuo. Se Mevio loro autore fu colpito dall’imposta straordinaria di 2.500 lire, per pagar la quale egli contrasse un debito privato di altrettanto, apparentemente gli eredi si avvantaggiano, poiché essi possono sempre ripudiare il debito del loro autore e sottrarsi ad ogni onere relativo alla spesa straordinaria fatta in passato, mentre non potrebbero sottrarsi all’obbligo di pagare le 125 lire di imposta istituita su di loro per pagare la loro quota parte di debito pubblico. Gli eredi dei nullatenenti hanno ragione di preferire il debito privato, conseguente all’imposta straordinaria, all’imposta annua conseguente al debito pubblico. Poiché il debito si ripudia, rinunziando all’eredità paterna, mentre l’imposta non si può ripudiare. Ma questa è pura apparenza. Poiché la probabilità del ripudio è tenuta in conto dei capitalisti all’atto del mutuo privato. Se si prevede che i figli non ripudieranno il debito del padre, salvo vi siano astretti dall’incapacità a pagare, i capitalisti si contenteranno di esigere l’8% di interesse da Mevio; mentre pretenderanno il 12%, se provvederanno il ripudio[2]. Il 4% in più od altra cifra variabile da caso a caso; è quella necessaria per ricostituire il capitale mutuato durante la vita probabile di Mevio. Laonde i figli potranno bensì ripudiare le conseguenze dell’imposta straordinaria, ma soltanto perché il padre loro l’avrà già intieramente soluta. Ed avendola soluta, non può tramandarne il valsente ai figli, i quali restano proletari, mentre avrebbero potuto essere capitalisti, almeno per l’ammontare del 4% risparmiato dal padre loro pei minori interessi pretesi dai mutuanti e da lui capitalizzato e lasciato in eredità ai figli.

 

 

Talché, supponendo i due casi estremi che le generazioni successivi ripudino sempre o non ripudino mai il debito privato contratto dai genitori proletari per il pagamento dell’imposta straordinaria, il confronto tra i due metodi così si pone: nel caso di ripudio, le generazioni successive, se fu istituita l’imposta straordinaria, soffriranno la perdita del capitale che il loro genitore avrebbe potuto risparmiare se non avesse dovuto pagare al proprio creditore il sovrappiù d’interesse necessario a coprire il rischio del ripudio, capitale che in media si deve ritenere uguale a 2.500 lire; mentre se si fosse ricorso al debito pubblico soffrirebbero la perdita di 125 lire l’anno per l’imposta interessi [3]. Le due perdite si equivalgono; ma sembra preferibile la seconda, sia perché il possesso di 2.500 lire può consentire ai figli di elevarsi nella scala sociale, sia perché le 125 lire di imposta interessi non sono fisse, ma variabili in più o in meno a norma del reddito imponibile degli eredi, come già si dimostrò per gli eredi di Sempronio; nel caso di accettazione del debito paterno, le generazioni successive, se fu istituita l’imposta straordinaria, soffriranno l’onere del debito di 2.500 lire accettato e degli interessi conseguenti privati all’8%, ossia 200 lire all’anno; mentre se si fosse preferito il debito pubblico, avrebbero pagato solo 125 lire di imposta interessi.

 

 

Adunque l’ancora di salvezza del ripudio del debito privato paterno per le classi lavoratrici è logicamente dimostrata assurda; sicché è vero, anche e sovratutto in queste classi, che il metodo del debito pubblico è preferibile al metodo dell’imposta straordinaria, tanto per la generazione presente che per quelle successive.

 

 

588. Imposta straordinaria e debito pubblico nell’ipotesi di mercato aperto. Della convenienza dei prestiti all’estero. – Sinora si sono confrontati i due metodi, facendo tacitamente l’ipotesi che essi si potessero applicare solo nell’ambito del territorio dello Stato che vuole compiere la spesa straordinaria. Il che è vero sempre per l’imposta straordinaria, essendo impossibile – salvo alcuni casi particolarissimi, che in parte furono già discussi (cfr. par. 363, 364 e 365) e in parte sono troppo poco importanti per essere meritevoli di discussione, ad es. le indennità di guerra – ad uno Stato imporre tributi sugli stranieri. Ma può non essere vero per il debito pubblico, essendo spesso agevole contrarre il debito all’estero. Infatti, ove il tasso corrente d’interesse sul mercato interno per impieghi in titoli di debito pubblico e similari sia del 5%, mentre all’estero sia del 4%, è chiaramente conveniente stipulare il debito all’estero. Poiché il costo degli interessi sul debito di 16.000 lire sarà soltanto al 4%, di 640 lire all’anno, talché Tizio dovrà sopportare un carico annuo di imposta interessi di 200 lire all’anno, perdita minore di quella che sarebbe cagionata dall’imposta straordinaria di 5.000 lire, le quali egli può impiegare all’interno al 5%, ricavandone 250 lire all’anno. Caio del pari pagherà solo 200 lire di interessi ed eviterà di caricarsi di mutuo ipotecario di 5.000 lire al 5,50%, che gli costerebbe 275 lire annue; Sempronio, pagando 140 lire d’imposta interessi annua, conserverà la disponibilità di 3.500 lire che gli fruttano 350 lire all’anno; e Mevio con 100 lire annue, eviterà di dover prendere a mutuo 2.500 lire, pagando l’usura annua di 250 lire.

 

 

Il predetto all’estero, quando sia soddisfatta la condizione che il tasso d’interesse estero sia più basso di quello interno, accentua dunque i vantaggi del metodo del prestito sul metodo dell’imposta straordinaria, perché è maggiore il divario tra il pregio che attribuiscono i capitalisti stranieri al proprio capitale disponibile e che sono pronti a mutuare allo Stato ed il pregio che i contribuenti nazionali attribuiscono al capitale di cui verrebbero privati o l’onere che dovrebbero sopportare per mutuare la somma che dovrebbero pagare a titolo di imposta straordinaria.

 

 

589. Il confronto fra imposta straordinaria e debito pubblico suppone che la spesa sia davvero straordinario. – Potrebbe, per equivoco, dalle verità sopra enunciate dedursi la illazione che sempre il debito sia preferibile all’imposta, anche in casi di spese ordinarie. Poiché sempre si può affermare che ai contribuiti convenga di più pagare 5 lire all’anno di imposta interessi in perpetuo che 100 lire subito; e questa verità vale qualunque sia la natura delle spesa – ordinaria o straordinaria – a cui colle 100 lire si vuol provvedere. Ma la fallacia dell’argomento è evidente. Invero, nello stesso modo che l’imposta straordinaria si converte in debito (cfr. par. 584), così il debito si converte necessariamente in imposta. Supponiamo che uno Stato, partendo dalla premessa che il debito è sempre meno oneroso dell’imposta, voglia provvedere alle spese ordinarie col debito; e siano le spese ordinarie di 1 miliardo all’anno. Il primo anno i contribuenti sentono un beneficio poiché pagano 50 milioni di imposta interessi invece che 1 miliardo; ma il secondo anno già pagheranno 50 milioni per il debito di 1 miliardo dell’anno precedente e 50 milioni per il debito di 1 miliardo dell’anno precedente e 50 milioni per il nuovo debito di 1 miliardo dell’anno; nel terzo pagheranno 150 milioni, finché nel 20eismo anno dovranno pagare 1 miliardo di imposta interessi sui 20 miliardi di debito accumulato in ossequio alla teoria; ed in seguito l’imposta interessi continuamente crescerà, superando l’onere che i contribuenti dovrebbero sopportare se ogni anno avessero fatto fronte alle spese ordinarie con l’imposta. Si aggiunga che, per le continue emissioni di prestiti pubblici, il credito dello Stato scadrà e ben presto, invece del 5, lo Stato dovrà pagare il 6 od il 7% d’interesse, con onere incomportabile.

 

 

Adunque fu d’uopo non esagerare nei prestiti pubblici; i quali devono essere conchiusi esclusivamente per far fronte a spese veramente straordinarie, le quali imporrebbero una pressione momentanea ed eccezionale sui contribuenti.

 

 

590. L’ammontare e la natura delle spese straordinarie hanno importanza nella scelta tra imposta straordinaria e debito pubblico? – E qui cade in acconcio di tener conto di un fattore importantissimo, da cui si fece finora astrazione: l’ammontare e l’indole della spesa straordinaria a cui si vuole provvedere.

 

 

La discussione che sovra fa fatta intorno alla preferibilità della imposta straordinaria e del debito pubblico ebbe un carattere strettamente economico finanziario; si discusse cioè quale di due strumenti, l’imposta o il debito, fosse più conveniente a raggiungere il fine, supposto dato il fine. Ferma restando la necessità di spendere in via straordinaria 1 miliardo di lire, quale dei due metodi, si chiese, è meno costoso? E si rispose, logicamente: il debito.

 

 

Ma – ed è questo il punto che adesso si vuol discutere – la scelta di uno piuttostoché di un altro mezzo o strumento non può aver virtù di reagire sul fatto di spendere o non spendere il miliardo di lire, di spenderne di più o di meno? Non potrà che la facilità di ricorrere allo strumento debito non incoraggi a fare spese – guerre coloniali, guerre di conquista, ferrovie elettorali, ecc. ecc. – che non si sarebbero compiute se si fosse dovuto ricorrere allo strumento più difficile imposta? Ed in tale ipotesi non sarebbe necessario modificare le conclusioni precedenti, nel senso che si debba preferire l’imposta, abbenché più onerosa, allo scopo di essere sicuri che si compiranno soltanto le spese straordinarie giudicate dalla collettività come improrogabili? Poiché e Caio non arretrerà dinnanzi alla vendita di un suo campo, Sempronio dinnanzi ad un debito privati al 5,50% e Mevio dinnanzi all’usura del 10%, pur di pagare l’imposta straordinaria, da essi consentita dopo ampia discussione in tempo di comizi elettorali, ben saremo sicuri che la spesa straordinaria era sicuramente voluta. Mentre non si può affatto essere sicuri che sia voluta una spesa che si compie contraendo un debito di 1 miliardo, i cui interessi dovranno essere cominciati a pagare solo fra un anno, ossia dopoché la spesa già fu deliberata e compiuta. I contribuenti che godono la spesa di 1 miliardo e pagano solo 50 milioni all’anno di imposta interessi immaginano – a torto, è vero, come sopra dimostrammo – ma immaginano di pagar poco, di essere riusciti a rimbalzare in gran parte sulle generazioni venture l’onere della spesa. Epperciò consentono a fare una spesa di 1 miliardo, che darà frutti effettivi del valore di appena 500 milioni od anche meno; epperciò decidono imprese da cui avrebbero aborrito se avessero subito dovuto pagarne lo scotto con un’imposta straordinaria. Il minor gravame del metodo debito in confronto al metodo imposta è dunque tutto apparente e contabile: che monta che il debito pubblico costi solo il 5%, mentre l’imposta arreca un onere, per debiti privati, anche al 7% in media, quando col debito pubblico si fanno spese per 1 miliardo e coll’imposta la spesa si ridurrebbe a 500 milioni? Il 5% su 1 miliardo importa un onere di 50 milioni annui; mentre il 7% di 500 milioni costa solo 35 milioni all’anno. Onde se dal punto di vista puramente economico finanziario è preferibile il debito all’imposta, dal punto di vista politico, ossia tenendo conto altresì dal fatto politico della spesa da compiersi, è preferibile l’imposta al debito.

 

 

591. Non il metodo prescelto cagiona la maggiore o minore, la buona o cattiva spesa straordinaria. – Nel ragionamento ora esposto bisogna nettamente scernere una fallacia da una verità. La fallacia sta nel credere che basti scegliere il metodo dell’imposta straordinaria per sottrarsi al pericolo di compiere spese straordinarie inutili od eccessive; mentre scegliendo il metodo del debito si sia sicuri di incorrere in errore. Nessun metodo finanziario ha per sé medesimo siffatta potenza. I governanti non compiono le spese straordinarie inutili o malvagie o soverchie perché abbiano scelto il metodo del debito pubblico. Chi vietò ad essi, invero, di scegliere l’altro metodo dell’imposta straordinaria? Bensì essi scelgono il metodo del debito pubblico, quando deliberati a compiere una spesa straordinaria, la quale può essere consentita dai governati, unicamente se questi siano illusi che essi non la pagheranno od il pagamento sembri rinviato ad epoca lontana e paia poco sensibili. Il metodo prescelto è dunque la conseguenza e non la causa della spesa buona o cattiva, intendendo per buona la spesa che sarebbe voluta dai contribuenti se essi avessero la sensazione precisa ed immediata del pagamento relativo, e per cattiva quella che è voluta in assenza di questa sensazione.

 

 

592. Ma di solito le buone spese straordinarie coincidono con l’imposta straordinaria, e le cattive col debito. – I governanti cioè, i quali sono sicuri che la spesa straordinaria è anche voluta, oltreché da essi, dai governati, i quali sono disposti ad ogni sacrificio opportuno pur di conseguir l’intento, non temono di saggiarne la volontà, assoggettandoli ad imposta straordinaria. Essi saranno che, solo a questa prova del fuoco, si saggiano i voleri dei popoli. I quali spesso sono esagitati da desideri molteplici di conquisti militari e di riforme sociali, perché connettono con l’effettuazione di quei desideri l’idea di un lucro economico, di un maggior benessere, non mai di un sacrificio, di una perdita di ricchezza.

 

 

Epperciò appunto i governanti, i quali vogliono raggiungere un fine il quale non sarebbe voluto dai governanti, se subito a loro si sottoponesse il conto delle spese e delle imposte relative, si affannano da un lato a magnificare i risultati probabili, anzi sicurissimi dalla guerra o dell’opera pubblica e dell’altro lato cercano di nasconderne il costo, evitando di istituire nuovi balzelli e sopperendo alla spesa con il provento di pubblici prestiti e magari pagando con altri prestiti le prime rate degli interessi, affinché neppure di questo piccolo onere i contribuenti abbiano contezza. E poiché di pubblici prestiti si hanno molte maniere, che saranno discorse dappoi, codesti governanti scelgono le più illusorie e meno avvertite, e preferiscono al debito «proprio», che fa sorgere nei popoli un’idea, sebbene vaga, di imposte interessi future, maniere larvate di debito, che han nomi oscuri, come anticipazioni statutarie, buoni del tesoro, biglietti dello scacchiere, ecc. ecc. che danno l’impressione agli ignari di ricchezze posseduti dallo Stato, ovvero ancora ricorrono alla peggior maniera di debito, l’emissione di carta moneta, la quale però ha il vantaggio di non recare apparente onere di interessi e persino dà l’illusione di un crescere di ricchezza nel paese.

 

 

593. I due schemi della scelta nei modi di sopperire alla spesa straordinaria. – Non è compito della scienza delle finanze, come di una qualunque altra scienza sociale dar consigli ai legislatori; ma solo di dichiarare le conseguenze delle azioni dei legislatori medesimi. Possiamo perciò affermare che il legislatore, il quale sappia che una data spesa straordinaria è fermamente voluta dai governati, farà opera massimamente conveniente a questi ricorrendo al debito e non all’imposta. Poiché però chi delibera intorno alla convenienza della spesa straordinaria è il legislatore ed egli delibera per conto dei governati e non proprio, onde sa di correre il rischio di sbagliarsi, interpretando per bisogni realmente sentiti dai primi quelli che sono soltanto le vociferazioni di piccoli gruppi di gente agitata o le alte strida dei gazzettieri; altra via non gli rimane di saggiare sul serio la volontà dei governati, fuorché l’imposta straordinaria. Al quale annuncio o la spesa straordinaria era veramente voluta e sulle gazzette o nei comizi si sosterrà la necessità di pagarne il conto con l’imposta e questa sarà esatta col consenso universale o quasi; ovvero il desiderio della spesa era puramente retorico e gazzettieri e comizianti scriveranno e diranno assai male parole contro il governo ed il popolo recalcitrerà contro il pagamento dei nuovi balzelli.

 

 

In uno Stato dunque, il quale sia caratterizzato da una intensa partecipazione dei consociati alla vita pubblica, da un regime di libera e viva discussione, la sequela dei fenomeni pare debba essere questa:

 

 

  • I. Alcuni gruppi politici dimostrano la necessità di una spesa straordinaria; e sembra, a quanto si può ricavare dalle opinioni espresse su per le gazzette o nei pubblici comizi, che la proposta incontri consenso nell’opinione pubblica;
  • II. il governo presenta al parlamento un conto delle spese straordinarie e dei mezzi all’uopo occorrenti, avvertendo che fra questi mezzi si noverano una o parecchie imposte straordinarie gravanti sovratutto sulle classi sociali che si suppone debbono trarre maggior beneficio dalla spesa straordinaria o che maggiormente si segnalarono nel chiederla;
  • III. si inizia nel parlamento e fuori discussione intorno alla spesa; e le soluzioni possono essere parecchie. O le classi colpite dell’imposta vogliono ciononostante la spesa e si dichiarano pronte a pagarne il conto ed allora la spesa sarà compiuta senza ostacoli. Ovvero cessa immediatamente il clamore dei postulanti la spesa, e si ha la dimostrazione chiarissima che questa non era voluta. Ovvero ancora si possono dare soluzioni intermedie: che le classi le quali sono siffattamente potenti da volere e deliberare la spesa hanno altresì forza per far cadere l’imposta su altre classi; le quali sono silenziose o riluttanti. E quest’ultimo caso può essere frequente; ma è alquanto in contraddizione con l’ipotesi da cui si è partiti: di un corpo elettorale istruito, tutto attivamente partecipe alla vita pubblica e desiderio di discutere. Poiché, entro i limiti in cui l’ipotesi politica è vera, è vero anche che non esistono classi silenziose, ed è vero che la discussione facilmente dimostra che far gravare una spesa voluta da una classe su altre classi le quali vi ripugnano è manifestamente dannoso alla saldezza del corpo politico, e partorisce effetti di odio di classe e di ricchezza distrutta. Onde si verrà ad un compromesso e l’imposta verrà ripartita anche sulle classi ripugnanti in quella proporzione che dalla maggioranza è ritenuta corrispondente al vantaggio che le classi medesime ritraggono dalla spesa straordinaria, sebbene esse, per passione politica o per altre cause, non vogliono riconoscere questa che alla maggioranza sembra verità sicura.

 

 

Diverso è l’ordine dei fatti negli Stati, in cui non esista effettiva partecipazione dei molti dalla vita pubblica, in cui la discussione politica nei parlamenti e nella stampa sia soppressa o intimidita o naturalmente fiacca:

 

 

  • I. Alcuni gruppi politici ed economici o letterari dimostrano la necessità di gran spesa straordinaria; e di solito sono quei medesimi che dispongono del governo e della stampa, sicché, dato il consenso di questa, ed il silenzio altrui, il governo può ritenersi autorizzato a credere la spesa voluta dalla generalità.
  • II. Ma poiché i governanti sanno benissimo che la grande massa dei governati non ha alcuna opinione in merito, attentamente si astengono dall’eccitarla nel solo modo in cui in un siffatto paese può essere eccitata una opinione: ossia col presentare un preventivo di costi ed un piano di mezzi (imposte) per sopperirvi. Nessuno parla di imposte, anzi si afferma che queste non fanno d’uopo, poiché la spesa sarà tenue e vi si potrà far fronte con i fondi di cassa, esuberanti ai bisogni ordinari, con i tesori accumulati in passato dalla prudenza degli amministratori e con l’incremento spontaneo delle imposte ordinarie, intorno a cui si pubblicano statistiche confortantissime. Anche si dice che si farà a meno di contrarre debiti e si nega che siano debiti le emissioni di buoni del tesoro; e quando taluno timidamente osserva che farsi imprestare 100 milioni consegnando ai creditori un titolo di riconoscimento di debito chiamato «buono del tesoro» è la stessa cosa che consegnare un titolo chiamato «il debito pubblico», lo si riduce al silenzio accusandolo di essere nemico della patria, perché svela l’arcano mistero per cui i debiti contratti per mezzo di buoni del tesoro sono noverati fra le «disponibilità di cassa». I governanti, persuasi che la spesa sarà piccola, che da essa non potranno nascere né imposte né debiti, ma unicamente vantaggi economici e politici grandissimi, plaudono alla sapienza dei governanti, che sì mirabili risultati seppero ottenere.
  • III. Sinché dura la necessità di spendere, continua il medesimo procedimento di dilazione nella resa dei conti. Al parlamento si chiedono voti generici di approvazione e mal si tollera che si scruti il contenuto delle singole parti componenti la spesa straordinaria. Né del resto si sottopone la spesa al controllo immediato del parlamento: perché di essa non tiene conto nel bilancio generale dello Stato, che è il solo il quale attragga l’attenzione del pubblico e del parlamento. Il bilancio generale continua a chiudersi in avanzo con 2 miliardi all’entrata ed 1.9 all’uscita, e ciò perché la spesa straordinaria, ad es., di un miliardo di lire non si registra all’uscita, come vorrebbero le buone norme contabili, ma si creano dei conti speciali immaginandosi che il tesoro dello Stato anticipi il miliardo ad un ente speciale, creato appunto per compiere la spesa straordinaria, ente che si raffigura sulla carta capace di restituire la fatta anticipazione mentre capace non è. Sicché il bilancio dello Stato, il quale dovrebbe essere così compilato:

 

 

Entrata

Uscita

Proventi ordinari

L. 2.000.000.000

Spese ordinarie

L. 1.900.000.000

Disavanzo

L. 900.000.000

Spese straordinarie

L. 1.000.000.000

 

L. 2.900.000.000

 

L. 2.900.000.000

è invece presentato così:

Entrata

Uscita

Proventi ordinari

L. 2.000.000.000

Spese ordinarie

L. 1.900.000.000

    Avanzo

L. 100.000.000

     

L. 2.000.000.000

Anticipazione del tesoro all’ente speciale per la spesa straordinaria

L. 1.000.000.000

 

 

Ed il volgo ha l’impressione che, invece di un disavanzo di 900 milioni di lire, da coprirsi con debiti od imposte, il tesoro si sia arricchito per un avanzo di 100 milioni e di crediti per 1 miliardo di lire.

 

 

Siffatti sollazzi contabili sarebbero innocentissimi se i pubblici bilanci dovessero essere letti solo dai periti, i quali subito possono ricostruire la situazione finanziaria dello Stato. Diventano dannosi perché radicano nel popolo l’illusione che la spesa possa compiere senza sacrificio finanziario e ad essa debba tributarsi plauso senza critica.

 

 

  • IV. Ma poiché in realtà il tesoro ha dovuto e deve spendere ad es. il miliardo di lire, per averne la disponibilità si ricorre a debiti larvati; come sarebbero le emissioni di buoni del tesoro, che stranamente si sostiene non essere un debito, o le anticipazioni degli istituti dipendenti dallo Stato, come le Casse depositi e prestiti (Seehandlung in Prussia, Caisse de dépôts et consignations in Francia ecc. ecc.); si ha gran cura di evitare le emissioni di buoni del tesoro all’estero, facendo così risorgere l’antica illusione per cui i debiti contratti all’interno non sono debiti (cfr. par. 596/97); e persino talvolta si aumenta la circolazione dei biglietti a corso forzoso, debito perniciosissimo tra tutti, ma inavvertito ai più.
  • V. Giunge però il momento, in che gli spedienti più non giovano. Le disponibilità di cassa sono esaurite, i buoni del tesoro, emessi di solito a breve scadenza, debbono essere rimborsati o convertiti in un debito proprio, le emissione sovrabbondanti di carta moneta hanno provocato il sorgere dell’aggio ed urge farlo scomparire, riducendo la quantità di carta emessa. I conti finalmente debbono essere presentati, insieme con le proposte di imposta o debito. Ma sono presentati quando ormai è inutile discuterli; ché la spesa è già fatta ed i contribuenti debbono rassegnarsi a pagare. Allora, se si propone di istituire un’imposta, si contempla uno spettacolo curioso: di quella stessa spesa straordinaria per cui alcuni erano entusiasti e che tutti sembravano desiderare, quando si reputava nulla costasse, nessun più vuole essere responsabile. Tutti affermano d’averne risaputa la inutilità e la eccessività, ora che si tratta si scansarne l’onere. Ma son vane schermaglie. L’imposta deve essere pagata, con cordoglio grande dei contribuenti. I quali sfogano l’ira, cacciando a fuor di popolo i ministri che ebbero la disavventura di dover presentare le proposte di cresciuti balzelli; ma errano per lo più nello scegliere l’oggetto della loro vendetta, poiché i governanti, i quali vollero in origine la spesa e persuasero i popoli ad accettarla, prudentemente si sono dimessi innanzi che suonasse l’ora della resa dei conti. Sicché sono puniti gli innocenti, mentre ancor dura l’eco del plauso tributato ai colpevoli.

 

 

Ovvero gli innocenti, incaricati di liquidare il garbuglio finanziario lasciato dai loro antecessori, pensano di evitare i rimproveri dei contribuenti ricorrendo al debito ed all’imposta interessi invece che all’imposta straordinaria; ed allora essi traggono dalla necessità di fare il debito argomento per operare una cosidetta «riforma tributaria», la quale diminuisca alcune imposte per aggravarne od istituirne altre più fruttifere. Può darsi, se l’imposta abolita era anti pratica, mentre l’imposta interessi, nuova e piccola, è popolare (cfr. par. 578 e 579), che i governanti nuovi o vecchi – è probabile siano al potere ancora costoro, se l’annuncio della nuova imposta non è sembrato ad essi pericolo – conchiudano la sequela dei fatti conseguenti alla spesa straordinaria con grande successo ed alla fama antica aggiungano l’altra di riformatori tributari e sociali.

 

 

Questi sono i due schemi principali, a norma dei quali in tutti i tempi ed in tutti i paesi sogliono farsi le scelte tra debito ed imposta e sogliono deliberarsi le spese straordinarie. Come al solito, infinite sono le variabili maniere in cui i tratti caratteristici dei due schemi si confondono, a seconda che preponderi il tipo dello Stato in cui è viva e libera la discussione od invece è inesistente. Ma di queste variazioni è inutile discorrere, ché lo studioso potrà da sé ricomporsene l’immagine, a seconda del tempo e del luogo in cui vive. Di una sola di esse conviene far cenno ed è una sublimazione, più che una variazione del primo schema.

 

 

La quale si ha quando un popolo è così ardentemente acceso da un ideale, il quale per la sua attuazione richiede una spesa straordinaria, che tutto sé stesso, vita ed averi, è deliberato a sacrificare per la sua conquista.

 

 

Allora non si bada più alle formalità delle proposte, delle discussioni, delle scelte, degli spedienti contabili: dà i pieni poteri ad un uomo, chiamisi Vittorio Amedeo II durante la lotta per la liberazione di Torino dai francesi, o Camillo di Cavour nelle guerre contro l’Austria e per la unificazione d’Italia e ratifica a priori ciò che quest’uomo farà per il bene di tutti. Sono però questi momenti rarissimi nella vita delle nazioni e non debbono essere assunti a regola nel determinare le maniere di soddisfacimento dei bisogni straordinari.

 

 

594. Funzione dell’imposta straordinaria. – Vuolsi notare che anche nei paesi dove, per la abitudine alla libera e larga discussione degli affari pubblici, i governanti usano proporre insieme col progetto della spesa il piano delle imposte relative, queste non possono sopperire mai all’intiero fabbisogno. Non bisogna dimenticare che l’imposta straordinaria è strumento più oneroso del debito pubblico; e la dimostrazione di questa verità che sopra fu data (cfr. sopra par. 580 e segg.) è ben nota ai governanti ed ai partiti contendenti nel paese che qui teoricamente raffiguriamo. I governanti sanno che recherebbero danno alla collettività se, dovendo far fronte ad una spesa straordinaria di 1 miliardo di lire, ricorressero piuttosto all’imposta che al debito; ma pur vogliono per mezzo dell’imposta saggiare la volontà dei governanti intorno all’opportunità di compiere o non la spesa straordinaria. Il partito a cui questi prudentissimi legislatori si atterranno, sarà di solito un che di mezzo: decreteranno l’imposta fino al punto, in cui la pressione di essa non diventi dannosa troppo per i contribuenti e sia bastevole a chiarire la volontà di essi rispetto alla spesa straordinaria. Dire a propri quale sia questo limite è impossibile. In un paese povero e dove le imposte ordinarie, su redditi in media bassi, siano già alte, per es. del 20% del reddito, sarà difficile aumentarle straordinariamente a più del 30%, sicché, se ne ricaveranno solo 200 milioni, ed ai restanti 800 converrà provvedere col debito. In un paese ricco, in cui le imposte ordinarie raggiungano appena il 5% di redditi in media elevati, sarà possibile aumentare l’aliquota dal 5 al 15% senza eccessivo aggravio dei contribuenti e ciononostante cavare dall’imposta straordinaria 600 milioni, talché si debba provvedere col debito ad appena 400 milioni di lire. E soluzioni intermedie o diverse potranno imporsi nei diversi tempi o paesi, a seconda dei casi. Tanto i 200 quanto i 600 milioni potranno essere bastevoli a saggiare la serietà del valore dei governanti rispetto alla spesa straordinaria.

 

 

Il problema pratico che si tratta di risolvere non è dunque di scelta esclusiva tra i due metodi, ma di rapporto proporzionale nell’uso di essi, uno dei quali, il debito, si raccomanda per la sua convenienza economica e l’altro, l’imposta, per le sue attitudini a provocare la reazione politica.

 

 

L’uso dei due metodi è utile altresì per evitare un errore gravissimo: come è il considerare straordinaria una spesa che è invece ordinaria.

 

 

Appena si ammetta il principio che il debito sia uno strumento più conveniente dell’imposta per coprire le spese straordinarie, subito i governanti propensi al malfare (il che vuol dire a far spese non seriamente volute dai governanti) ne profittano per chiamare straordinarie le spese che sono invece ordinarissime, allo scopo di far senza della necessità di risvegliare coll’imposta la reazione dei contribuenti ricorrendo invece al metodo più ingannevole e facile del debito. Laonde i debiti si accumulano e le finanze pubbliche precipitano alla rovina.

 

 

La qual verità è importantissima a notarsi per le opere pubbliche (ferrovie, bonifiche, porti, risanamenti, rimboschimenti, ecc.), alle quali i governanti prudenti provvederanno in notevole parte coi proventi delle imposte, malgrado che il debito si raccomandi in tali casi per la celebrata produttività dell’opera pubblica (cfr. par. 565 e segg.), la quale assicura che il debito non graverà sui contribuenti dei servizi prestati dall’opera pubblica. Poiché siffatta produttività è spesso soltanto pretesa od immaginaria e non effettuale, trattandosi di opere pubbliche elettorali e sbagliate (cfr. par. 567), le quali sono incapaci di fornire un reddito uguale al costo, ad assicurare sé stesso contro il pericolo di errare, il legislatore prudente usa chiedere all’imposta parte cospicua delle somme necessarie a compiere l’opera pubblica. Così si vede se essa è desiderata sul serio od è solo uno strumento di illusione elettorale; e nel tempo stesso si evita allo Stato di dover pagare interessi ed ammortamenti di somme che non danno reddito sufficiente. Non evitano i contribuenti di dover pagare siffatti interessi sul debito privato che contrassero per pagare l’imposta straordinaria; ma ben sta loro, ché furono avvertiti coll’imposta del danno imminente.

 

 

Errore opposto sarebbe quello di consentire, concedendo con leggerezza ai governanti imposte straordinarie, il mezzo di perpetuare una spesa che per l’indole sua sarebbe temporanea. Suppongasi che a coprire una spesa straordinaria di 50 milioni all’anno duratura per 5 anni di conceda ai governanti di stabilire un’imposta straordinaria di 50 milioni annui per 5 anni. Quando questi saranno trascorsi e la spesa straordinaria sarà cessata, rincrescerà moltissimo ai governanti di abbandonare siffatta entrata ed ancor più rincrescerà agli impiegati i quali vivevano sui 50 milioni di lire, i quali aneleranno a trasformarsi da utili servitori pubblici in parassiti del bilancio. Sarà facilissimo perciò dimostrare che la ragione della spesa straordinaria non è venuta meno od inventare altri pretesti per conservare in via l’imposta; sicché questa da straordinaria si trasformerà in perpetua ed ordinaria. Questa è forse la ragione più fondata che rende i popoli riluttanti alle imposte straordinarie, ben sapendo essi che difficilmente se le potranno levar di dosso; ed è ragion così valida che alle imposte straordinarie consiglia di ricorrere soltanto qualora la spesa sia così spaventosa ed improvvisa e di breve durata da rendere difficilissimo mantenere in vita, dopo la sua cessazione, l’imposta creata per farvi fronte. Negli altri casi dovendo bastare un sapiente uso degli incrementi naturali di bilancio (cfr. par. 571) od una più severa esazione delle imposte vigenti (cfr. par. 577).

 

 

595. L’esempio delle guerre inglesi. – Ad esempio di ripartizione delle spese di guerra tra debito ed imposta si adduce il seguente delle guerre combattute dall’Inghilterra:

 

   

 

Costo della guerra

Sopperite con

Proporzione dell’imposta alla spesa totale %

Il debito l’imposta
1688-98 Spedizione degli Stuarts, insurrezioni irlandesi e guerra contro Francia Milioni di lire sterline

32,6

16,5

14

42,9

1702-13 Successione spagnola Milioni di lire sterline

50,6

29,4

21,2

41,8

1718-21 Spagna Milioni di lire sterline

4,5

1

3,5

77,7

1739-48 Diritto di visita successione austriaca Milioni di lire sterline

43,6

29,7

13,9

32,1

1756-63 Guerra dei 7 anni Milioni di lire sterline

82,6

60

22,6

27,3

1776-85 Indipendenza americana e Francia Milioni di lire sterline

97,5

94,5

3

3

1793-815 Rivoluzione francese e Napoleone Milioni di lire sterline

831,4

440,2

391,1

47

1854-56 Guerra di Crimea Milioni di lire sterline

69,2

39,7

29,5

42,6

1899-903 Guerra anglo boera Milioni di lire sterline

271,1

142

75,1

39,2

 

 

 

 

Dove sono da notare due soli scarti dalla normalità: quello della guerra del 1781/21 con la Spagna, in cui, data la piccolezza della somma, si fece gravare quasi tutta la spesa sull’imposta; e quello della guerra dell’indipendenza americana, le cui spese il governo non osò far sopportare ai contribuenti, ma quasi completamente sopperì con il debito. Forse sperava il governo che la lotta contro i coloni riuscisse vittoriosa e che l’onere dell’imposta interessi potesse essere fatta gravare sui vinti.

 

 

Forse anche volle il governo inglese offrire una riprova calzante alla teoria di Adamo Smith, il quale allora aveva scritto nella Ricchezza delle nazioni (libro V, capo III), una ironica e potente pagina intorno alla repugnanza dei governi alla istituzione delle imposte per provvedere alle spese delle guerre coloniali:

 

 

«La spesa ordinaria della maggior parte dei governi moderni in “tempo di pace” essendo uguale o quasi uguale al reddito loro dell’imposta [normale] quando scoppia la guerra, sono nello stesso tempo maldisposti ed incapaci ad aumentare il loro reddito [delle imposte] in proporzione delle spese. Essi non lo desiderano per paura di offendere il popolo che ben presto per un così grande e subitaneo incremento di imposte di disgusterebbe della guerra; e sono incapaci, paci, non sapendo bene quali imposte saranno sufficienti a produrre il reddito desiderato. La facilità di contrarre prestiti li libera dall’imbarazzo che questo timore e questa incapacità altrimenti produrrebbero. Col mezzo del prestito i governi sono messi in grado con un moderatissimo aumento di imposte[4] di ottenere da un anno all’altro i denari per condurre la guerra’ e con il metodo dei debiti perpetui[5] sono messi in grado col più piccolo possibile aumento di tasse di ottenere ogni anno la più forte somma possibile di denaro. Nei grandi imperi la popolazione che vive nella capitale e nelle provincie remote dalla scena dall’azione non sente per lo più quasi nessun inconveniente della guerra; ma gode con tutto suo comodo il divertimento di leggere sui giornali i fasti delle flotte e degli eserciti. Per essi questo divertimento compensa la piccola differenza fra le imposte che pagano per cause della guerra e quelle che sono solite a pagare in tempo di pace. Essi sono di solito malcontenti al ritorno della pace che mette fine a questo divertimento ed a migliaia di speranze visionarie da conquista e gloria nazionale, derivante da una più lunga continuazione della guerra».

 

 

Ma degli insegnamenti amari dello Smith seppero fare lor prò governanti inglesi, ché nelle successive guerre diedero alle imposte degno posto. Grande fu specialmente lo sforzo durato con ammirabile tenacia per più di vent’anni dai contribuenti inglesi durante le guerre contro la rivoluzione e contro Napoleone; e forse non ultimo fattore della vittoria fu la consapevolezza del sacrificio per quei tempi memorando e durissimo, a cui essi si vollero sottoporre.

 

 

Sezione quarta.

Sofismi intorno ai debiti pubblici.

 

 

596. Sofismi intorno al debito pubblico: moltiplica la ricchezza del paese. – Le cose fin qui dichiarate giovano e mettere in luce alcuni errori che hanno corso rispetto al debito pubblico. Vedemmo come il metodo debito sia preferibile al metodo imposta perché evita sacrifici fortissimi da parte di molti contribuenti e chiama a raccolta i risparmi disponibili di chi attribuisce ai risparmi medesimi il minimo pregio. Tale vantaggio è uguale o meglio è quello stesso del credito in generale. Questo è utile perché fa passare il risparmio dalle mani del risparmiatore incapace a farlo convenientemente fruttare alle mani dell’imprenditore che ne sa trarre largo partito. Il credito pubblico è utile medesimamente perché è uno strumento con cui taluni risparmiatori mettono, coll’intermediario dello Stato, i loro risparmi, al più basso tasso di interesse vigente sul mercato, a disposizione dei contribuenti affinché questi possano pagare l’imposta straordinaria, senza dover privarsi del capitale proprio, che essi sanno far fruttare di più o dover ricorrere a prestiti onerosi.

 

 

Da questa verità alcuni dedussero un errore: che il credito pubblico cresca la ricchezza del paese. Nel secolo XVIII fiorirono cotali sofismi; e Pinto diceva che il debito pubblico aumenta la ricchezza della società, Berkeley lo assomiglia ad una maniera d’oro. Ragionavano costo che, quando uno Stato fa un debito di 1 miliardo di lire, issofatto la ricchezza del paese cresce 1 a 2 miliardi; poiché vi è il miliardo antico, che prima avevano i capitalisti ed ora ha lo Stato, ed in aggiunta vi sono titoli di debito pubblico, i quali hanno il valore di 1 miliardo, sicché i capitalisti creditori ad ogni istante possono venderli a quel prezzo. Il quale ragionamento è un manifesto errore, poiché il passaggio del miliardo dai capitalisti allo Stato può aumentare, diminuire o tener costante la ricchezza nazionale se lo Stato farà migliore, peggiore od uguale uso del miliardo di quello avrebbero fatto i capitalisti: ma non può avere la meravigliosa virtù di raddoppiarlo senz’altro. L’unica ricchezza esistente è ancora il miliardo che nel momento del mutuo riceve lo Stato; i titoli sono un puro riconoscimento di debito ed in tanto valgono un miliardo in quanto si suppone che lo Stato farà onore ai suoi impegni.

 

 

Prima del mutuo, se si fosse l’inventario della ricchezza del paese, si sarebbe, a cagion d’esempio, valutato il patrimonio dello Stato a 10 miliardi, composto di ferrovie, canali, porti, aziende industriali monopolizzate, ecc. ecc. e quello degli altri enti e dei privati a 90 miliardi, composti per 89 miliardi di terre, case, impianti industriali, fondi di commercio, moneta circolante, ecc. ecc., e per 1 miliardo risparmio disponibile non ancora impiegato; in tutto 100 miliardi.

 

 

Dopo il mutuo, rifacendo il medesimo inventario, si rileverebbe che il patrimonio dello Stato è composto: 1) degli antichi 10 miliardi; 2) di 1 miliardo in più di contanti ricevuto in mutuo; 3) di 1 miliardo in meno per il debito contratto, il quale dovrà essere rimborsato e costituisce una passività patrimoniale; in totale 10 + 1 – 1 = 10 miliardi. Il patrimonio dei privati è composto degli 89 miliardi impiegati come sovra, più di 1 miliardo di titoli di debito pubblico, ricevuti in cambio del miliardo di risparmio disponibile prima posseduto ed ora mutuato allo Stato; ed in totale 90 miliardi. Totale generale della ricchezza del paese 10 + 90 = 100, come prima.

 

 

Il credito pubblico, come il credito privato, può dunque essere utile se le somme con esso ottenute sono spese per un fine ritenuto necessario o conveniente a raggiungersi dalla collettività: ma non ha per sé stesso alcuna virtù taumaturgica di moltiplicazione della ricchezza nazionale. Già vedemmo come i governanti amico assai applicare la parabola dei pani e dei pesci, quando moltiplicano gli oggetti dell’imposta dinnanzi agli occhi attoniti dei contribuenti, nei quali è troppo confusa la coscienza che l’oggetto stesso è sempre uno e mai non muta per mutar di nomi. Il desiderio dei governanti a reattivi[6] di ottenere somme a prestito per fini aborriti dalla collettività è causa per cui l’illusione nella parabola evangelica sia pertinacemente diffusa tra i popoli.

 

 

597. …: i debiti sono condannabili solo quando siano conchiusi cogli stranieri. – Disse Melon, che i debiti pubblici interni sono innocui son debiti della mano destra alla mano sinistra; e ripeté Voltaire che lo Stato non impoverisce quanto è debitore verso sé stesso e rincalzò Condorcet, affermando che i debiti pubblici sono cattivi solo quando conchiusi cogli stranieri.

 

 

Singolare miscuglio di verità e di errore: lo Stato non impoverisce mai quando il debito è contratto nelle condizioni che furono da noi sopra discorse; ed allora è irrilevante la circostanza se il debito sia contratto col cittadino ovvero collo straniero. Anzi già dimostrammo (cfr. par. 588) e meglio dimostreremo in seguito (cfr. par. 697 e segg.) che può essere più conveniente stipulare il prestito all’estero che all’interno. Al contrario, quando il debito è contratto per una guerra illusoria o dannosa o per un’opera pubblica sbagliata, lo Stato impoverisce sempre, non per causa del mezzo scelto ma del fine malvagio, e nulla monta che il debito siasi concluso all’interno od all’estero.

 

 

Le affermazioni di Melon, di Voltaire e di Condorcet possono essere interpretate nel senso che essi abbiano voluto dire che, quando un debito è o diventa interno, vi è la possibilità, che è esclusa a priori col debito estero, che il debito stesso sia stato ammortizzato, sebbene formalmente tuttora viva. Intorno alla quale teoria più ampiamente si dirà (cfr. par. 709 e segg.).

 

 

598. …: i debiti pubblici danno una cattiva direzione al risparmio. – Dicono quest’accusa: le emissioni di titoli di debito pubblico inducono i capitalisti all’ignavia, poiché, invece di investire il miliardo di nuovo risparmio in costruzioni edilizie, migliorie agricole, imprese industriali e commerciali, comprano il titolo di rendita, più tranquillo e sicuro. Sorge così una classe improduttiva di persone, il cui unico lavoro si è di staccare colle forbici ogni semestre o trimestre i tagliandi degli interessi e di esigerli; classe conservatrice, la quale sempre teme ogni mutazione nell’ordine di cose esistenti, perché teme si riverberi in una diminuzione del valor di borsa dei titoli da esso posseduti. Il capitale così impiegato in titoli di rendita è immobilizzato improduttivamente e giace inerte nei forzieri dei capitalisti o nelle cantine blindate delle banche, ecc. Molti errori di confusione in poche parole. Non l’emissione di titoli di debito pubblico può essere accusata di imprimere una cattiva direzione ai risparmi del paese; ma eventualmente il dannoso fine a cui furono destinate le somme col debito procurate all’erario. Per sé stesso il debito può essere lo strumento indifferente di feconde o di perniciose imprese pubbliche come di imprese private. Chi può dire che un miliardo speso nella condotta della guerra dell’indipendenza sia stato un impiego improduttivo e sarebbe stato più produttivo investire il miliardo in migliorie alle terre del Piemonte? Basti dire che il giudizio contrario, essere cioè maggiormente conveniente in quel momento spendere miliardi nella guerra che nelle migliorie agricole, fu pronunciato dal conte di Cavour, il quale, prima di essere il maggior statista della nuova Italia, fu uno dei pionieri nel progresso dell’agricoltura piemontese, e si interessò praticamente di industria, banche, ferrovie. Al contrario avrebbe bene operato il Gran Turco se avesse speso i miliardi procacciati col debito a costruire ferrovie, scuole, porti, a far bonifiche, ecc. piuttostoché spenderli in odalische, in eunuchi e in un esercito, che alla prova dimostrò di non saper reggere al nemico.

 

 

Quando poi la spesa è fatta, è erroneo accanirsi contro la persistenza del debito, come se il malanno fosse a ripetizione. V’è chi farnetica di miliardi giacenti nei forzieri sovra menzionati, come se sul serio ivi esistessero somme disponibili per investimenti agricoli od industriali.

 

 

Mentre ivi sono riposti solo dei pezzi di carta, che sono riconoscimenti di debiti; ed a monetizzarli e renderli disponibili occorre venderli in cambio di denaro disponibile, esistente nel paese fuori dei forzieri. Quindi, gridano al risveglio dei capitali immobilizzati o giacimenti nei forzieri, ecc. ecc., si dice cosa insulsa, perché si fa appello invece – e non è concepibile si possa far diversamente – al capitale vivo, che esiste fuori, che già circola e già è impiegato o si vuol impiegare.

 

 

Finalmente nessuno crede che la classe dei possessori di titoli di debito pubblico sia immune da difetti; dei quali il principale è di essere non conservatrice in senso proprio, ma conservatrice di ogni stato di fatto il quale esista e quindi conservatrice anche delle forze che distruggono le società e che i veri conservatori vorrebbero combattere. Ma, volendo proseguire in questi discorsi vaghi di indole politica, o che la sola classe dei rentiers ha difetti? Se non esistessero titoli di debiti forse non esisterebbero rentiers? La gente tranquilla non troverebbe modo di impiegare tranquillamente i proprii risparmi? Nel medio ove e fino al 1789 le decime, i censi, i livelli non erano strumenti giuridici creati per il tranquillo impiego dei capitali dei rentiers?

 

 

Se un giudizio tecnico economico, più che sociologico, vuolsi dare su questo punto, sembra che il titolo di debito pubblico abbia avuto per sé stesso conseguenze più feconde che dannose. Esso ha sviluppato invero nei risparmiatori il gusto dei valori mobiliari ed è stato un utile strumento per la trasformazione profonda e benefica verificatasi nell’ultimo secolo nei metodi di investimenti del risparmio. Non era possibile infatti passare d’un tratto dagli investimenti in terreni, case, ipoteche, imprese industriali direttamente gerite dai proprietari, agli investimenti in azioni ed obbligazioni di ferrovie, di banche, di società anonime, che non sono direttamente conosciute dal risparmiatore e che eccitano la sua diffidenza.

 

 

L’anello intermedio fu fornito dai titoli di debito pubblico. Il risparmiatore timido, il capitalista padre di famiglia cominciò ad apprezzare i titoli di debito dello Stato, a comprendere che poteva con sicurezza investire i proprii risparmi in qualcosa che a primo aspetto sembra soltanto un pezzo di carta. Coloro che fecero la loro prima educazione economica sui titoli di debito pubblico, e ne furono contenti, osarono poi comprare cartelle di credito fondiario, obbligazioni ferroviarie, in seguito azioni di società ferroviarie, di banche di emissione, per passare dappoi alle obbligazioni ed azioni industriali. Ma il pioniere dei valori mobiliari, i quali oggi rappresentano la maggior parte della fortuna nazionale in molti paesi, è stato il titolo di debito pubblico. Desso educò le classi di risparmiatori moderni e seguita sempre a procurare nuove reclute ai valori mobiliari. Prima ristretto alla nobiltà ed all’alta borghesia (secolo XVIII, vedi Einaudi: La finanza sabauda all’aprirsi del secolo XVIII, citata), poi esteso nella prima metà del secolo XIX alla media borghesia degli impiegati e dei proprietari, ora si va anche in Italia popolarizzando tra le classi piccolo borghesia e contadine. Sono sempre nuovi strati di popolazione che, attraverso il titolo di debito pubblico, vanno educandosi alle forme capitalistiche moderne dell’azione e dell’obbligazione, per cui le grandi imprese concentrate in poche mani per quel che tocca la gestione sono frazionate per quel che riguarda la proprietà tra falangi ognora più numerose di piccoli risparmiatori. È questo un effetto sicuro e specifico del «titolo di debito pubblico», che si stimò di mettere in luce in questo paragrafo destinato alla critica delle superstizioni relative al debito pubblico. Ed è effetto che si congiunge con la diffusione crescente del titolo di debito pubblico fra moltitudini di detentori (parecchi milioni in Francia e un numero cospicuo, sebbene ignoto, di centinaia di migliaia in Italia), onde si dimostra erronea l’altra critica, che esso sia uno strumento per la concentrazione della ricchezza.

 

 

Il piccolo taglio, persino di 100 lire, facilita queste disseminazioni della ricchezza in una misura che certo sebbene impossibile coi vecchi investimenti in terreni, case, ipoteche.

 

 

Sezione quinta.

Classificazione del debito pubblico in proprio ed improprio.

 

599. Delle varie di debito pubblico: proprio ed improprio. – Ora, essendosi ragionato del debito pubblico in generale, come dello strumento meglio adatto a procacciare allo Stato entrate straordinarie, si può osservare anzitutto che le specie di esso sono numerosissime, non essendo minore la fantasia dei governanti di quella dei privati nello scoprire nuove maniere di indebitarsi. Durante la rivoluzione francese i legislatori crearono il gran libro del debito pubblico, imitato poscia in Italia, per protestare, fra l’altro, contro le abitudini del governo d’antico regime di moltiplicare troppo i debiti e di contrarli in maniere surrettizie ed oscure all’universale. Ma caddero anch’essi in breve nell’identico vizio; e sebbene oggi vi siano ancora governanti i quali, per aver proclamato la chiusura del gran libro di debito pubblico, vogliono illudere i governanti, persuadendoli che i debiti iscritti a parte in piccoli registri diversi dal gran libro non sono debiti propriamente detti, nessuno vi è più che dia peso alla distinzione puramente formale tra i debiti iscritti e quelli non iscritti nel gran libro del debito pubblico.

 

 

Volendo mettere ad ogni modo un po’ d’ordine nella gran selva delle diverse maniere che gli Stati tengono nell’indebitarsi, comincieremo a distinguere i debiti proprii da quelli improprii. La distinzione non è a contorni nettissimi; ma forse è ancora la migliore che si possa fare: inquantoché proprii si possono chiamare quei debiti che lo Stato fu allo scopo dichiarato ed effettivo di indebitarsi per sopperire ad un proprio bisogno straordinario; mentre improprii si possono chiamare quelli, che in realtà sono debiti, ma che o si vogliono far apparire sott’altra specie, almeno di nomenclatura, od addirittura si nega siano prestiti, o, quando si chiamano tali, hanno caratteristiche loro particolari, che li dilungano dal prestito propriamente detto.

 

 

Così quando uno Stato contrae un prestito di 100 milioni di lire, obbligandosi a pagare gli interessi del 4 per cento ed a rimborsare il capitale fra 5 o 10 o 20 anni noi ci troviamo manifestamente dinnanzi ad un debito proprio; ma quando il medesimo Stato emette per 100 milioni di biglietti aventi corso legale e rimborsabili a vista ed al portato in moneta vera d’oro o d’argento noi ci troviamo di fronte ad un debito che possiamo chiamare improprio, poiché lo scopo dichiarato dell’emissione non è di fare un debito, ma di provvedere ai bisogni del commercio di avere una moneta comoda per le transazioni. Non si vuole con la denominazione di «improprio» affermare che non si tratti di debito. Si vuole soltanto aver modo di distinguere tra i debiti che senz’altro sono riconosciuti da tutti come tali e quelli per cui occorre alquanta analisi per riconoscerne la vera natura.

 

 

Si vedrà subito che, salvo circostanze particolari, i debiti proprii sono i meno costosi e più convenienti per lo Stato; mentre la convenienza dei debiti improprii è per lo più illusoria. Sicché sembra opportuno discorrere prima di questi ultimi, onde giungere da ultimo alle forme più semplici e nitide di debito, che sono nel tempo stesso le più convenienti per l’erario e le più facili ad essere in pochi tratti chiarite.

 

 



[1] La nostra ipotetica società fu supposta di tre persone, allo scopo di far calcoli semplici. Volendo immaginare casi più vicini alla realtà, basterà aggiungere zeri quanti si vogliono.

[2] Nell’esempio schematico del par. 586, per non complicare anzi tempo il problema si suppose che Mevio pagasse l’interesse del 10 per cento. Era un’ipotesi intermedia, fatta supponendo una media di ripudii. Si nota ancora che tutti gli esempi ed i calcoli numerici addotti nel testo sono puramente dimostrativi e possono essere sostituiti con altri, che al lettore sembrino meglio adatti.

[3] Come dal testo si comprende, per imposta interessi intendiamo l’imposta annua che i contribuenti devono pagare allo Stato, affinché questo sia in grado di far fronte agli interessi annui contratto per la spesa straordinaria.

[4] Sono queste, di cui qui parlo lo Smith, non le imposte straordinarie ma le imposte successive al debito e necessarie a pagare gli interessi di esso, ossia quelle che noi abbiamo nel testo chiamate «imposte interessi».

[5] Adamo Smith accenna allo speciale metodo usato per contrarre debiti, per cui lo Stato si obbliga solo a pagare gli interessi e non a rimborsare il debito con opportune rate di ammortamento. L’onere annuo, ridotto al puro pagamento degli interessi, diventa il minimo possibile.

[6] Diconsi governanti a reattivi quelli i quali non amano usare quei mezzi (pubbliche discussioni, imposte straordinarie, debiti palesi) i quali possono provocare la reazione od il controllo dei contribuenti, unico schermo rimasto ai popoli dopoché è venuta meno ogni capacità nei parlamenti a controllare e frenare le spese pubbliche ed anzi i parlamentari sono diventati gli eccitatori di codeste spese.

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