Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo IV – Le imposte italiane sui redditi in particolare

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo IV – Le imposte italiane sui redditi in particolare

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 476-626

 

 

 

425. Chiarimento introduttivo. – Le imposte che in Italia fanno parte di questo gruppo sono le tre imposte che, nel linguaggio amministrativo, si chiamano dirette: e cioè l’imposta sul reddito dei terreni, sul reddito dei fabbricati e sui redditi di ricchezza mobile. Insieme, esse vogliono esaurire il campo del reddito, risalendo alle fonti sue, le quali non possono essere altro che i terreni, i fabbricati e tutte le diverse professioni, industrie, gli impieghi di capitale o di lavoro od i commerci che sono compresi sotto la generica denominazione di «ricchezza mobile». Esse tra imposte insieme formano una vera imposta sul reddito totale del contribuente, la quale però:

 

 

  • a) colpisce il reddito sotto le sue diverse specie separatamente considerate, e senza fare, salvo casi eccezionali, la somma delle parti per ottenere il tutto. Onde in massima, trattasi di imposte reali che colpiscono i redditi delle cose o singole fonti produttive di reddito e non di imposte personali, che colpiscono i redditi totali delle persone;
  • b) colpisce il reddito, dove può e dove è utile, all’origine presso chi paga il reddito, quando si tratta di reddito mobiliare: e cioè i redditi dei creditori e degli impiegati presso lo Stato, i comuni, le provincie, gli enti morali, le società anonime, gli industriali ecc.;
  • c) negli altri casi colpisce il reddito presso chi lo riceve; con vantaggio, come pei terreni o fabbricati i cui proprietari sono solvibili, ovvero per forza, come per i professionisti, industriali e commercianti privati.

 

 

Le imposte colpiscono il reddito guadagnato, ma tengono però conto dell’esenzione del risparmio, perché quella di esse, che colpisce i redditi di lavoro o di capitale misto a lavoro, maggiormente bisognosi di risparmio, ne esenta una parte, come già vedemmo. Siccome le esenzioni sono espressamente dichiarate, pur giovando a mettere nella sua vera luce il concetto informatore della legislazione che è di colpire il reddito consumato, non tolgono che le tre imposte debbano costruirsi logicamente come se esse colpiscano il reddito guadagnato (minuendo), salvo quelle detrazioni specificamente stabilite che compongono il sottraendo. Ciò si avverte per spiegare come, nella discussione intorno al reddito imponibile secondo la legge italiana vigente, si debba considerare come oggetto dell’imposta quello che da noi ripetutamente fu chiamato reddito guadagnato e non quello che fu detto reddito consumato, salvo a dedurre dal guadagnato quelle quantità che il legislatore espressamente dichiarò esenti. Avvertiamo ancora che, delle tre parti costitutive del reddito guadagnato che sono (cfr. par. 386) i frutti periodici del patrimonio o del lavoro, l’apprezzamento e le accessioni eventuali e gratuite di ricchezza, le imposte nostre colpiscono normalmente solo i frutti, escludono sempre le accessioni eventuali e gratuite di ricchezza, che sono colpite da altre imposte (successioni, donazioni, lotto), e solo in via eccezionale una delle tre imposte e precisamente quella di ricchezza mobile tende a colpire gli apprezzamenti. A torto od a ragione, questa è la logica delle nostre tre imposte dirette di Stato; e da essa non possiamo dipartirci.

 

 

Aggiungiamo che alle tre imposte reali e separate sul reddito in molti comuni si aggiunge la imposta di famiglia; della quale, pur essendo essa stabilita a favore dei comuni, si terrà brevemente discorso; sia perché dessa attua il concetto della imposta personale complementare sul reddito totale (cfr. par. 402), sia perché non passerà gran tempo che lo Stato italiano vorrà anch’esso attuare un tipo consimile di imposta.

 

 

Sezione prima.

L’imposta sui terreni.

 

421. Preliminari. – Per ogni imposta sui redditi, di cui si discorrerà in appresso, due sono le indagini che occorre di fare: in primo luogo studiare quale sia l’oggetto dell’imposta ed in secondo luogo quale sia la maniera di valutazione ed accertamento dell’oggetto stesso. Sono due indagini differenti: altra essendo la indagine teorica che fissa l’oggetto dell’imposta ed altra quella applicata o pratica intenta a valutare l’oggetto stesso. L’una indagine influisce sull’altra; essendoché può darsi che l’oggetto teorico dell’imposta sia difficile a valutarsi, ed occorra, per semplificare la valutazione, modificare alquanto l’oggetto stesso della imposizione.

 

 

A) Il reddito dominicale ordinario oggetto della imposta fondiaria.

 

422. Oggetto dell’imposta fondiaria. – Già sappiamo che esso è il reddito dei terreni; e sappiamo altresì che, nel sistema del nostro legislatore, il concetto del reddito guadagnato imponibile si limita ai frutti periodici del terreno stesso. Ma quale parte dei frutti? Diciamo quale parte, perché sappiamo come siano irrazionali e dannose le decime che colpiscono tutti i frutti, ossia tutto il prodotto lordo dei terreni (cfr. par. 230 – 32).

 

 

Dunque oggetto dell’imposta sono i frutti, meno le spese. Ma anche qui occorre un chiarimento ulteriore. Il concetto di «spesa» è soggettivo ed ha diversissimo contenuto a seconda della persona a cui si riferisce. A cagion d’esempio, per il proprietario del terreno è una spesa lo stipendio che paga al fattore ed i salari pagati ai contadini, come pure il guadagno che ottiene il fittavolo, nel caso che il terreno sia dato in affitto. Viceversa per il fattore il suo stipendio è reddito netto, come il salario per il contadino. L’affittavolo poi considererà come spesa il fitto pagato al proprietario, alla pari dei salari pagati ai contadini. Anche le spese per le semenze, i concimi, gli strumenti di lavoro sono un reddito netto per qualcuno e precisamente per chi concorse alla loro produzione. Dunque è necessario precisare di chi sia il reddito netto del terreno, che deve essere colpito dall’imposta fondiaria. Ed allora diremo che questa colpisce il reddito netto dominicale, ossia spettante al dominus, al proprietario del fondo.

 

 

423. Analisi del reddito netto dominicale. – Reddito netto dominicale è quello che il proprietario del fondo riceve in quanto tale, non in quanto egli per caso rivesta qualche altro carattere, per es., quello di dirigente la coltivazione del fondo o coltivatore egli stesso. Rappresentiamo in un quadro sintetico i varii redditi che si ottengono dal fondo:

 

 

  Fattori produttivi Persona che impiega quei fattori produttivi Reddito netto relativo Imposte
 

 

 

 

 

 

 

Capitale fondiario

I. Terreno in condizioni naturali

II. Capitali stabilmente investiti ed incorporati nel terreno (costruzioni rustiche, piantagioni, dissodamenti, prosciugamenti opere irrigatorie, muri di sostegno, livellazioni, ecc.

Proprietario Reddito netto dominicale Imposta feudiaria sui terreni
  III. Capitale mobile, cosidette scorte vive e morte (bestiame da lavoro e da allevamento, mangimi, concimi, semenze, fondo anticipazioni salari, macchine ed attrezzi agricoli, ecc.) Imprenditore agricolo o coltivatore (proprietario in quanto gerisce in economia i suoi fondi, affittavolo, mezzadro, se fornitore di tutte o parte delle scorte) Reddito netto industriale agricolo Imposta di ricchezza mobile( cat. B sui redditi misti di capitale e lavoro per gli affitta voli, imposta sulle colonie agricole per i mezzadri ed altri coloni parziari).
  IV. Lavoro Fattore, contadino, impiegato ad anno od a giornata. Stipendio o salario Imposta di ricchezza mobile (categoria c sui redditi di puro lavoro)

 

 

Il quadro mette in chiaro quali siano i principali fattori produttivi, i redditi relativi e le imposte che li colpiscono. La scienza economica, i insegna che tre sono i principali fattori produttivi: terra, capitale e lavoro, e tre le principali figure economiche: proprietario, capitalista e lavoratore. In realtà però i fattori produttivi e le persone compartecipanti al reddito non si lasciano scindere sempre nettamente. In agricoltura i due fattori (I) e (II), ossia il terreno nudo ed i capitali incorporati nel terreno, sono sempre fusi insieme né si lasciano scindere l’uno dall’altro. La casa rustica una volta costrutta, le piantagioni di viti, olivi, alberi fruttiferi, una volta fatte non possono più separarsi dal suolo. Si può dire anzi che non esistano quasi mai terreni in condizioni naturali, che diano al proprietario esclusivamente quella che gli economisti chiamano rendita fondiaria. Anzi un terreno quanto più è fertile e fruttifero, tanto più contiene capitali in esso incorporati; le marcite lombarde, le risaie piemontesi, le vigne italiane, gli agrumeti della Sicilia sono quasi tutto capitale immedesimato nel terreno; e contengono assai poca potenzialità produttiva naturale. È il capitale stabilmente investito che ha trasformato paludi e pendici sassose in terreni produttivi di reddito. Senza fare distinzioni, che in materia tributaria sarebbero infeconde, noi raggrupperemo i due primi fattori produttivi sotto l’unico titolo capitale fondiario, posseduto dal proprietario, fruttifero di un reddito netto dominicale e colpito dalla imposta fondiaria sui terreni.

 

 

Tizio, oltre essere proprietario, può anche dirigere la cultura dei suoi fondi, possedere scorte vive e morte, e magari lavorare lui stesso il suo terreno; ma l’imposta fondiaria lo colpisce solo in contemplazione del reddito che dal fondo ricava in qualità di proprietario.

 

 

Oltre ai capitali stabilmente investiti ed incorporati nel suolo, l’agricoltura esige l’uso di capitali mobili, ossia delle cosidette scorte vive o morte, che nel quadro sono elencate. Questo capitale di macchine, attrezzi, bestiame, semenze, concimi, salari, non è fuso col suolo; anzi di solito può essere a volontà asportato ed in ogni caso viene restituito dal fondo in un solo ciclo produttivo e tutt’al più in pochi anni, come i concimi e le semenze. Esso può essere fornito indifferentemente dal proprietario, se il proprietario dirige la cultura o coltiva egli stesso il suo fondo, ovvero dall’affittavolo, se il fondo è dato in affitto, mercé un canone fisso in denaro o in derrate, ovvero del mezzadro o colono parziario, che coltiva il fondo a metà od al terzo od altra quota – parte dei frutti. Può darsi che il capitale mobile sia in parte fornito dal proprietario ed in parte dal fittavolo o mezzadro. Sempre però il reddito che se ne ricava ha natura diversa del reddito dominicale: ed è reddito industriale percepito dal coltivatore, chiunque sia, del fondo, intendendo per coltivatore colui che assume l’impresa agricola e corre i rischi della coltivazione.

 

 

Notisi che il reddito industriale non è reddito soltanto di capitale; ma è frutto dell’opera congiunta del capitale e del lavoro: il coltivatore invero dovendo impiegare, oltre alle scorte, anche le sue cognizioni, la sua intelligenza, la sua pratica di cose agricole per ottenere buoni risultati dalla gestione dell’azienda agricola. Perciò il reddito industriale è tassato nella categoria B dell’imposta di ricchezza mobile, che è appunto la categoria la quale colpisce i redditi misti di capitale e di lavoro.

 

 

Vedremo poi come da questa imposta siano esenti i coltivatori che sono anche proprietari e come i mezzadri siano tassati da una speciale imposta detta sulle colonie agricole.

 

 

L’ultimo fattore produttivo è il lavoro. Il quale entra già, come vedemmo or ora, nel determinare il reddito industriale. Ma il fattore «lavoro» è inoltre importantissimo da solo ed è fornito dai fattori o castaldi che dirigono, con uno stipendio o con una cointeressenza, la coltivazione in economia per conto dei proprietari o sorvegliano i fittavoli o mezzadri, e sopratutto dai contadini salariati ad anno od a giornata, bovari, servitori di campagna, braccianti, mietitori, vendemmiatori ecc. Costoro prestano soltanto la loro opera intellettuale o manuale, tutt’al più sussidiata da qualche arnese; ricevono uno stipendio o salario e sono tassati in categoria C dell’imposta di ricchezza mobile, che colpisce appunto i redditi del puro lavoro. Talvolta anche taluni degli imprenditori agricoli, noverati nella terza categoria, meritano di cadere in questa: ci sono invero dei fittavoli che non posseggono alcuna scorta di bestiame, di sementi, di attrezzi, che tutti ricevono dal proprietario, vi sono mezzadri e altri coloni compartecipanti al prodotto, che ricevono in consegna il terreno già lavorato e preparato, e solo attendono alla seminagione e raccolta dei prodotti, ricevendo in compenso una quarta od una quinta da parte di essi.

 

 

Costoro sono veri lavoratori puri ed il loro reddito è un vero «salario» sebbene pagato con una quota parte del prodotto.

 

 

Sembra ora sufficientemente chiarito il concetto del reddito dominicale, che è oggetto dell’imposta fondiaria e distinto dagli altri redditi derivanti dalla terra e che sono o dovrebbero essre colpiti dall’imposta di ricchezza mobile, nelle sue varie categorie.

 

 

424. Concetto del reddito dominicale ordinario. – È d’uopo però, ai fini tributari, elaborare ulteriormente il concetto del reddito dominicale. In una prima approssimazione il reddito dominicale imponibile, ossia accertato agli effetti dell’imposta dovrebbe essere uguale al reddito dominicale effettivo, ossia ottenuto realmente dal proprietario in ogni successivo anno od esercizio finanziario. L’imposta dovrebbe colpire il reddito che effettivamente il proprietario ogni anno ricava in virtù del suo diritto di proprietà dei terreni dei capitali stabilmente in essi investiti.

 

 

Basta enunciare questo postulato per vedere come esso sia inattuabile. Sarebbero necessarie spese enormi per rinnovare ogni anno le stime dei redditi dominicali; ed ogni anno bisognerebbe combattere contro i tentativi di frode dei proprietari. A che prò, del resto, tanto lavoro? Perché variare ogni anno la stima dei redditi imponibili, da 100 a 200, a 300 e poi 50 od a zero, a seconda volgono le stagioni? Non è meglio stabilire una media di reddito,

 

 

(100 + 200 + 300 + 50 + 0) / 5 = 130

 

 

Il risultato è lo stesso; e si evitano spese e fatiche al fisco, noie ai contribuenti. E poiché è conveniente stabilire una media, questa deve essere fondata su una lunga serie di anni. L’agricoltura, si sa, è industria la quale muta lentamente nei suoi metodi tecnici e nella sua produttività di un opificio industriale; basta comprare nuove macchine e salariale nuove maestranze. Non sempre gli sforzi riescono anche nell’industria; ma nell’agricoltura i rapidi progressi sono certamente impossibili. Bisogna tener conto delle stagioni, delle rotazioni agricole, del lento crescere delle piante ecc., ecc. Onde una media, la quale voglia tener conto dei periodi alternanti di siccità e di umidità, di abbondanza e di scarsità di raccolto, di grandinate, di inondazioni e di tutti gli altri numerosi coefficienti che contribuiscono a far variare la produzione, non può non essere basata su un periodo assai lungo di anni.

 

 

Di qui la necessità di aggiungere al concetto del reddito dominicale il connotato «ordinario»: per indicare che il reddito deve essere stimato secondo un termine medio, per modo che nella stima «si rispecchino sempre le condizioni ordinarie e durature della rendita fondiaria e non le sue condizioni accidentali e mutevoli». Parole queste della commissione censuaria centrale italiana, la quale è incaricata di rivedere definitivamente le stime che si vanno compiendo in virtù della nuova catastazione.

 

 

Il concetto del reddito «ordinario» non implica che si debba guardare al reddito che si può ottenere in perpetuo. Nulla vi è di perpetuo nelle istituzioni umane. Basti guardare a quella durata lunga di tempo che sembra opportuno di considerare per potere abbracciare le variabili vicende atmosferiche, agronomiche che possono avere influenza sul reddito dei terreni. Il reddito, diceva il Messedaglia, insigne economista che fu relatore alla Camera del progetto di legge per la nuova catastazione, «deve essere continuativo, duraturo, il più permanente che sia possibile; e perciò determinato, con sufficiente larghezza, ne’ suoi elementi meno variabili: duraturo fra certi limiti di tempo e non alla perpetuità».

 

 

Il connotato di «ordinario», che deve avere il reddito imponibile rende necessario che si debba far astrazione dalle variazioni che il reddito può presentare a seconda delle attitudini personali del proprietario. Due fondi vicini possono essere uguali per fertilità posizione, culture, in tutto; ma il proprietario Tizio diligente, attento agricoltore, conoscitore dei buoni sistemi agricoli ne ricava un reddito di 10.000 all’anno, mentre Caio, trascurato, ingordo, ignorante, a mala pena ne ricava 4000 lire. Il reddito «ordinario» imponibile non potrà essere uguale al reddito effettivo né di 10.000 lire di Tizio, né di 4.000 di Caio. Infatti, il primo fondo, che oggi è di Tizio ossia di un proprietario diligente ed ottimo coltivatore, domani, lungo quel periodo di tempo che deve essere preso in considerazione per potere formare la media ordinaria del reddito, può venire in possesso di un Caio, negligente e cattivo coltivatore. Ed il contrario può accadere al secondo fondo, oggi in possesso di Caio. Occorre perciò far la media altresì delle qualità personali dei proprietari durante il periodo considerato, che in Italia dovrebbe essere, secondo la legge sulla catastazione, di un trentennio, tanti essendo gli anni che dovrebbe intercorrere fra una lustrazione censuaria e la successiva. E notisi che si deve far la media delle qualità personali del proprietario, come tale, prima in quanto coltivatore; perché il reddito dominicale, che si tratta di stimare, appartiene al proprietario non ha la funzione puramente passiva di ricevere i fitti; anche astrazion fatta dalla coltivazione propriamente detta, che spetta a lui come coltivatore od all’affittuario od al mezzadro, il proprietario se vuol dal fondo ricavare il massimo reddito dominicale deve curare la conservazione della fertilità del fondo, dei fabbricati rustici, delle piantagioni, dei canali irrigatori, riparare i fabbricati, sostituire le piante, mantenere in buon stato di fertilità il terreno. Se ciò non fa, i capitali investiti deperiscono ed il reddito scema.

 

 

Epperciò noi vedremo non solo fare la media oggettiva dei redditi, ma anche la media soggettiva; supporre cioè che i fondi siano posseduti da un proprietario né troppo diligente né troppo negligente, non innovatore e neppure troppo attaccato ai metodi antiquati di cultura; da un buon padre di famiglia insomma, che segua le razionali norme di conduzione dei fondi, già invalse nel suo contado, senza esagerare né in bene né in male. Come diceva ancora il Messedaglia, «il reddito deve essere ordinario; ed ordinario non già in modo generico, astratto, mandato conto di speciali elementi che si devono considerare nelle stime catastali: tenuto conto degli usi e delle consuetudini del luogo, del metodo di cultura praticato, e di ogni altro dato che possa influire come che sia sull’entità del reddito stesso».

 

 

425. Conseguenze economiche del concetto di reddito imponibile ordinario. – Il connotato di ordinarietà che ha il reddito dominicale imponibile porta ad una conseguenza importantissima: il reddito soggetto all’imposta è una qualche cosa che sta di mezzo tra il reddito basso che ottiene il proprietario diligentissimo e progressivo: non è né 4000 né 10.000; è, per ipotesi, 6000 lire. Quindi l’imposta, che supponiamo sia del 20% tra imposta erariale (8,80%) e sovrimposte comunali e provinciali (variabili da provincia a provincia e da comune a comune), colpirà con 1.200 lire (20% di 6.000 lire, reddito ordinario imponibile) tanto l’infingardo che ha solo 4.000 lire di reddito effettivo, quanto il diligente che ricava 10.000 lire di reddito da analogo fondo. Ragguagliate le 1.200 lire d’imposta al reddito effettivo, esse sono il 30% delle 4.000 lire del primo ed appena il 12% delle 10.000 lire del secondo. Onde l’ovvia conclusione che l’imposta è solo in apparenza uniforme: essa è bensì uniforme rispetto alle 6.000 lire di reddito ordinario, che è un reddito medio, teorico, calcolato: ma è variabile rispetto ai redditi effettivi, ed è alta per i proprietari negligenti, bassa per i diligenti. L’imposta, economicamente, è un effetto utile; funzionando l’imposta come un incitamento a migliorare le culture ed a crescere i prodotti netti, perché il suo onere, rimanendo fisso, diventa proporzionalmente meno sensibile col crescere del reddito. Non è, invero, ufficio dell’imposta di agire come premio o come multa per i contribuenti, anzi l’imposta dovrebbe tenersi imparziale di fronte alle diverse maniere di agire dell’uomo. Ma quando, per ragioni tecniche, il reddito deve essere valutato per periodi lunghi, è quando perciò esso deve corrispondere ad un grado medio dei redditi, è meglio che l’effetto di tal maniera necessaria di concepire il reddito sia economicamente utile, anziché dannoso. Tanto più che l’effetto utile economico coincide con la convenienza del fisco.

 

 

Poiché se, oggi, il reddito ordinario è stato stimato in 6.000 lire, termine medio tra gli effettivi estremi di 4.000 e 10.000 lire, esso, finché la valutazione rimane fissa in 6.000 lire, ha per effetto di premiare coloro che si avvicinano alle 10.000 e di multare quelli che si contentano delle 4.000 lire. Onde si ha una tendenza a diminuire i redditi subnormali di 4.000 ed a crescere quelli ultra-normali di 10.000 lire. Ad una nuova catastazione, gli estremi non saranno più 4.000 e 10.000; ma 6000 e 12.000 lire, e ciò in parte per la spinta data dall’imposta organata, così come descrisse, a migliorare e crescere gli investimenti di capitale nella terra e perfezionare i metodi di cultura invalsi nel paese. Nel nuovo periodo fiscale il reddito ordinario imponibile sarà di 9000 lire, media nuova tra gli estremi effettivi di 6000 e 12.000 lire; cosicché il connotato dell’ordinarietà avrà giovato al fisco, contribuendo all’aumento nel tempo del reddito medio dei terreni.

 

 

E notisi che la coincidenza del vantaggio economico coll’interesse del fisco non può essere casuale: potendo presumersi che essa dipenda da una inavvertita e inconsapevole osservanza del postulato dell’uguaglianza e del teorema dell’esenzione del risparmio. Il premio al proprietario diligente, che lucra 10.000 mentre è tassato solo su 6.000 lire di reddito ordinario, perché è dato? Perché egli ha investito capitali nel terreno in forma stabile in modo da renderli meglio redditizi di quanto ordinariamente non sarebbero. Laonde, la sua esenzione per la differenza di reddito fra le 10.000 lire effettive e le 6.000 lire calcolate ordinarie, altro non è che una maniera approssimata di esentare il risparmio od i frutti del risparmio, che è la stessa cosa. E quello che sembra privilegio in realtà è ossequio alla norma regolatrice fondamentale.

 

 

B) Valutazione ed accertamento del reddito dominicale ordinario. Precedenti e concetti informatori del nuovo catasto italiano.

 

426. Valutazione ed accertamento del reddito dominicale. – Vediamo ora in qual modo il reddito dominicale ordinario possa essere accertato. È la seconda indagine che per ogni imposta deve essere compiuta (Cfr. par. 421).

 

 

I metodi per valutare l’oggetto dell’imposta fondiaria sono due:

 

 

  • 1) denuncia del contribuente controllata dal fisco;
  • 2) catasto.

 

 

Dato che l’oggetto da valutarsi è il reddito ordinario, il primo sistema è poco adatto, perché il contribuente conosce il suo reddito effettivo dell’anno; e non il reddito ordinario che in condizioni normali di coltura può solo ottenersi in un lungo periodo di tempo. Né sempre i contribuenti conoscono il proprio reddito effettivo, essendo la più parte dei proprietari incapaci a tener conti; ed incapaci a distinguere tra reddito dominicale, reddito industriale e reddito di lavoro, come vuole la legge fiscale. Inoltre la denuncia da parte del contribuente ha l’inconveniente di prestarsi alle frodi, per quanto i redditi fondiari siano tali da potersi difficilmente occultare e da rendere abbastanza agevole l’opera del controllo.

 

 

Per queste ragioni si è preferito il metodo del catasto ossia della valutazione fatta, secondo criteri uniformi ed oggettivi, da organi speciali a ciò delegati, in cui si sono rappresentati contribuenti e fisco. Col catasto si cerca di ridurre al minimo i pericoli di frode e di sperequazione, fondandosi su certi elementi oggettivi fissi, che devono servire di guida nella determinazione del reddito fondiario.

 

 

427. Catasto. – Il catasto è un libro nel quale sono descritti e rappresentati geometricamente i fondi con l’indicazione del possessore (non proprietario, essendoché per ora il catasto non ha effetti probatori giuridici), della estensione, della coltura e del reddito. Oltre lo scopo fiscale, che è di fornire la base per l’applicazione dell’imposta fondiaria, il catasto può avere uno scopo giuridico, quello di dare un esatto accertamento della proprietà immobiliare e di tenere in evidenza le variazioni che in essa avvengono.

 

 

La legge italiana dell’1 marzo sulla perequazione fondiaria ha affermato il principio che si dovesse provvedere anche allo scopo giuridico, aggiungendo che il governo avrebbe presentato un progetto di legge in proposito, ma questo progetto non è ancora venuto. Indirettamente però il catasto, finirà di avere, anche se oggi è compilato solo per fini fiscali, effetti probatori, inquantoché, col trascorrere del tempo, e grazie all’istituto della prescrizione trentennale, in molti casi il possesso a norma delle indicazioni catastali finirà per costituire la miglior prova della proprietà. Grandissimi saranno dunque col tempo i vantaggi giuridici per la sicurezza delle proprietà, per la facilità dei trasferimenti, per il regime ipotecario, per il credito fondiario del nuovo catasto in corso di formazione. Ma di ciò basti per ora questo accenno, a noi interessando sovratutto il lato fiscale dell’argomento.

 

 

428. Casi descrittivi. – I catasti possono essere puramente descrittivi e cioè recare solamente l’indicazione del proprietario, l’estensione del fondo che gli appartiene (qualche volta non si procede neppure alla misurazione di esso) ed il reddito relativo, che viene perciò valutato pel fondo preso nel suo insieme e non per i singoli apprezzamenti che lo compongono. Ora è questo un gran difetto, giacché il reddito può essere, anzi di solito e disugualmente distribuito tra le varie parti del fondo e quindi, ove si debba procedere alla divisione di esso, non si ha modo di stabilire giustamente quale quota del reddito sia imputabile a ciascuna di essa e come debba in conseguenza ripartirsi l’imposta. Sia un fondo di 10 ettari che fu stimato per un reddito complessivo di 1000 lire. Il fondo viene col tempo diviso in due parti eguali, di 5 ettari l’una, fra due compratori o due eredi. In che proporzione si dividerà l’imposta fra i due nuovi possessori? Per giusta metà, così come è diviso il fondo in ragion di superficie? La divisione sarà corretta solo nel caso che le due parti siano ugualmente redditizie. Così normalmente difficili; poiché i terreni variano assaissimo l’uno dall’altro per fertilità, situazione, cultura, ecc. ecc. Onde, ad ogni divisione, occorrerebbe, dove le stime son fatte per fondi, una nuova stima. E poiché queste non sono agevoli a farsi, ogni sorta di errori si erano infiltrati nei vecchi catasti descrittivi, i proprietari avendo diviso arbitrariamente gli estimi e le imposte, ovvero essendo queste state erroneamente ripartite in base alla pura ripartizione della superficie, senza tener calcolo della diversità del reddito nei diversi punti del fondo.

 

 

429. Altri difetti dei vecchi catasti. – A ciò si aggiunga che in Italia l’imposta era ripartita sulla base di ben 22 catasti principali, senza tener conto dei numerosissimi sotto – tipi del compartimento ligure piemontese, che sono: Elba, Estense di pianura e di montagna, i due francesi, Garfagnana, Isola del Giglio, Lucchese antico e recente, Lunigiana, Mantovano, Nuovo censo Lombardo Veneto, Parmense, Piemontese antico, Romano, Sardo, Siciliano, Toscano. Differiscono questi catasti, tutti vigenti:

 

 

  • a) per l’epoca a cui risalgono. Il catasto della Garfagnana risale al 1533, il Piemontese antico fu attivato nel 1730, il Milanese nel 1760, il Mantovano nel 1783, l’Estense di pianura nel 1791, il Ligure nel 1788; mentre assai più recenti sono il Parmense del 1830, il Romano del 1835, il Toscano del 1832-33-34, il nuovo censo lombardo-veneto del 1846 e 1864, il Lucchese recente del 1864 e 1869; senza contare alcuni comuni del catasto Piemontese antico, in cui gli estimi furono rifatti nell’ultimo ventennio e stanno rifacendosi anche ora. Non è possibile che gli estimi del reddito, risalendo ad epoche così svariate, siano perequati. Terreni una volta fertilissimi ora sono sterili; ai terreni prima sterili i nuovi metodi culturali han dato valore; monopoli locali di produzione sono stati distrutti dai mezzi rinnovati di trasporto e furono valorizzate produzioni prima spregiate; boschi furono distrutti ed al loro posto sorsero vigne ed oliveti; e per contrario terreni dianzi protetti dai boschi oggi rovinano a causa del diboscamento.
  • b) per il metodo di valutazione dei terreni. Talvolta è valutato il reddito effettivo, tal’altra l’ordinario. E in taluni luoghi invece si accerta il valor capitale dei terreni; e non di rado non si accerta né reddito, né capitale, bensì l’imposta si riparte in base a lire immaginarie, che non furono mai lire monetarie né di conto, bensì misure teoriche di paragone dei terreni agli effetti della ripartizione dell’imposta.
  • c) per il metodo di formazione del catasto, che qua è descrittivo, là geometrico particellare; in una ragione compiuto d’autorità dal principe ed altrove fondato sulle denuncie dei proprietari;
  • d) per il contenuto dell’estimo, che talora comprende e talora esclude le case rustiche, i laghi ed i canali irrigatori, i terreni sterili od anche semplicemente incolti. Al momento dell’unificazione si riscontrò che estensioni cospicue di territorio coltivato e fertile sfuggivano all’imposta perché, quando il catasto fu compiuto, erano incolte!

 

 

430. Il conguaglio provvisorio. – A questa confusione inenarrabile si cercò di ovviare in parte con la legge 14 luglio 1864, n. 1831 che fu detta del conguaglio provvisorio, perché, fatta una massa unica delle imposte fondiarie pagate in tutta Italia, la redistribuiva in contingenti compartimentali (Piemonte, Lombardia, Parma e Piacenza, Modena, Toscana, ex Pontificio, Napoli, Sicilia e Sardegna, il Veneto essendo stato aggiunto di poi, fondandosi massimamente su uno spoglio dei contratti di compra e vendita nel periodo precedente al 1864 e deducendo, con temperamenti relativi alla diversità del reddito per i fondi grandi, medi e piccoli ed altri fattori, dal valore dei terreni contrattati il valore dei terreni dell’intero compartimento e di qui il reddito dei terreni stessi. Ma era chiaro che il conguaglio era imperfetto, trattandosi di una stima tutt’affatto indiziaria; e che esso inoltre al più giovava a perequare il tributo pagato dell’intiero Piemonte in confronto a quello pagato dell’intiera Lombardia ed agli altri compartimenti catastali, non mai entro ogni compartimento il tributo tra i diversi comuni e tra i contribuenti d’uno stesso comune. Qualche norma fu data dalla stessa legge del 1864 per risolvere le questioni più gravi; ma il problema rimaneva tuttora insoluto.

 

 

431. La legge di perequazione 1 marzo 1886 ed il nuovo catasto geometrico particellare. – Le lagnanze e le proposte di riforma si susseguirono, finché si giunse alla legge dell’1 marzo 1886, che fu detta della perequazione dell’imposta fondiaria e di cui fu uno dei massimi artefici l’economista Angelo Messedaglia, la cui relazione alla Camera è opera classica in argomento. Questa legge ordina la formazione di un catasto nuovo per tutta Italia, fondato su criteri uniformi di misura e di stima, e detto perciò geometrico-particellare: geometrico perché vuole sia fatta una raffigurazione geometrica in planimetria dei terreni e particellare perché misura e stima assumono come unità la «particella catastale». In tal modo si applicava nuovamente il concetto che stava a base del migliore dei vecchi catasti, che fu il famoso censimento di Maria Teresa per la Lombardia, il quale, iniziato nel 1718 sotto la presidenza di Vincenzo De Maro e poi nel 1731 del Cavalieri, e sospeso per le guerre di successione polacca ed austriaca, fu ripreso nel 1749 sotto la direzione dell’economista toscano Pompeo Neri e condotto a compimento nel 1752 e definitivamente attivato nel 1758. Il catasto geometrico-particellare si fonda su un duplice concetto: che alla stima del reddito ordinario del terreno debba precedere una esatta misurazione geometrica dello stesso e che misura e stima debbano essere compiute per l’estensione minima possibile, ossia per l’unità detta particella catastale.

 

 

432. La particella catastale. – Il primo concetto non richiede alcuna spiegazione, essendo evidente che nessuna stima del reddito di un terreno può essere esatta se non è fondata sulla conoscenza precisa della estensione e della forma del terreno stesso, cosa che non può aversi senza una raffigurazione planimetrica su una mappa o carta.

 

 

Il secondo concetto relativo alla unità di misura detta «particella catastale» richiede qualche maggiore spiegazione. Già osservammo (par. 428) che i catasti descrittivi i quali operavano la stima fondo per fondo, ossia per quella estensione di terreno che, posseduta da uno stesso proprietario, formava anche una unità di cultura, una azienda agricola a sé stante, avevano il difetto che ad ogni divisione del fondo era d’uopo di fare una nuova valutazione del reddito delle diverse parti. Per evitare tale inconveniente si pensò di assumere ad unità di misura o di stima non l’intiera azienda agricola, che è un ente provvisorio soggetto a mutuazioni continue, che si scompone e ricompone continuamente e si fonde con altri fondi o parti di fondi, bensì la «particella catastale» che fu detta la «cellula del catasto» ed è un ente permanente nel tempo e che può scindersi in frazioni senza nulla perdere delle proprie caratteristiche. La particella catastale è definita nel medesimo comune, appartenente allo stesso possessore, di uniforme qualità o classe e con la stessa destinazione. Deve essere cioè: 1) una porzione continua di terreno, e cioè una superficie non interrotta da altri appezzamenti; 2) essere situata nel medesimo comune, per potere ripartire facilmente, insieme con l’imposta erariale o di Stato, anche le sovrimposte comunali e provinciali; 3) appartenere allo stesso possessore, almeno nel momento in cui si fanno le operazioni catastali, essendo indifferente che in seguito la particella venga divisa fra parecchi possessori; 4) di qualità uniforme; 5) e di uguale classe. Le quali due ultime caratteristiche intendono a far siche la particella sia in tutti i suoi punti destinata alla stessa cultura (qualità) e dello stesso grado di produttività (classe); per es., tutto seminativo semplice di prima classe o tutto di seconda, o tutta vigna di terza classe, o tutto bosco ceduo seconda classe, ecc. ecc. Le quali due condizioni sono necessarie affinché la particella abbia lo stesso reddito in ogni suo punto, cosicché quando la particella venga in seguito divisa fra due o più possessori, il reddito e quindi l’imposta vengano automaticamente divise nelle proporzioni medesime della superficie. A differenza di quanto accadeva assumendo l’intiera azienda agricola come unità catastale, la divisione dell’imposta avviene qui con tutta facilità; perché se la particella ha la superficie di un ettaro ed è valutata per un reddito di 100 lire, ove essa venga divisa in due parti di cui l’una sia di 37 are e l’altra di 63 are, niun dubbio che la prima parte avrà il reddito di 37 lire e la seconda di 63 lire, perché in ogni suo punto la particella dà il medesimo reddito essendo in ogni suo punto destinata alla stessa cultura ed essendo del medesimo grado di bontà.

 

 

433. Le operazioni tecniche del catasto. – Le operazioni tecniche del catasto sono: 1) la triangolazione che ha per iscopo di rilevare su un piano i terreni per stabilirne la posizione rispettiva; 2) la delimitazione dei terreni, cioè la ricognizione dei confini in base non alla proprietà, ma al possesso, il che prova come il nostro catasto non abbia per ora scopi giuridici. Questa operazione è eseguita per cura dell’amministrazione del catasto, col concorso della commissione censuaria comunale ed il contradditorio delle parti. L’assenza delle parti non sospende le operazioni. Le controversie che sorgessero circa la linea di confine saranno composte amichevolmente dalla commissione o decise da arbitri nominati dai contendenti. In mancanza di accordo od acquiescenza delle parti saranno risolute dalla commissione stessa giusta lo stato di fatto e per gli effetti del rilevamento senza pregiudizio delle ragioni di diritto (altro argomento a prova che per ora il catasto non ha effetti giuridici); 3) la terminazione cioè l’apposizione dei termini, ove essa sia necessaria; 4) la figurazione pratica e la misurazione del terreno, particella per particella.

 

 

434. Le operazioni economiche. La stima. – Le operazioni economiche consistono nella stima del reddito di ogni singola particella, stima la quale, forse ancora più della misura, tocca da vicino l’interesse dei contribuenti, come quella che può essere soggetta a contestazione. In base alla stima deve essere ripartita l’imposta. Perché questa ripartizione sia compiuta equamente occorre dunque che il criterio di valutazione sia uniforme per tutti i contribuenti. In che modo questa stima deve essere fatta? è anzitutto da escludersi la stima sintetica che si fa ricorrendo ai contratti di affitto, di compra vendita: in primo luogo perché non tutti i terreni sono affittati (in alcuni luoghi l’affitto è quasi ignoto) e poi perché, anche ove esiste, l’affitto è concluso per somme più o meno alte secondo la sua durata, a parità di ogni altra condizione; infine gli affitti si fanno per ogni singola proprietà o fondo, mentre il catasto è particellare e quindi richiede che il reddito sia stabilito per ogni particella. Si dovrà perciò ricorrere alla stima analitica. Sarebbe però opera troppo lunga fare la stima per ognuna delle numerosissime particelle che esistono nello Stato; laonde, per abbreviare le operazioni, la stima viene fatta per classi e tariffe. Le operazioni cioè si risolvono nelle seguenti: qualificazione, classificazione e classamento.

 

 

La qualificazione consiste nel distinguere i terreni di ciascun comune secondo le varie loro qualità, ossia secondo le specie essenzialmente differenti, tanto per la diversa coltivazione a cui vengono di solito destinati i terreni stessi, quanto per il diverso loro prodotto spontaneo.

 

 

Il quadro di qualificazione dei terreni, al quale ci si deve attenere, comprende le qualità seguenti: Seminativo – seminativo irriguo – seminativo arborato – seminativo arborato irriguo – prato – prato irriguo – prato arborato – prato irriguo arborato – prato a marcita – risaia stabile – pascolo – pascolo arborato – pascolo cespugliato – giardino – orto – orto irriguo – agrumeto – vigneto – frutteto – oliveto – gelseto – castagneto da frutto – canneto – bosco di alto fusto – bosco ceduo – bosco misto – lago o stagno da pesca – incollo con sede propria, e quelle altre eventuali qualità speciali ad alcune parti d’Italia, quali il roseto, il canneto – il sommacheto – il fico dindieto, ecc.

 

 

La classificazione consiste nel suddividere ogni qualità di coltura in tante classi quanti sono i gradi notabilmente diversi della rispettiva produttività, tenuto conto delle condizioni fisiche ed economiche influenti sulla relativa rendita netta e precisando per ciascuna classe le principali caratteristiche che valgono a distinguerla dalle altre. Per questa classificazione si bada specialmente alla natura, struttura o costituzione del terreno, alla profondità dello strato coltivabile, alla qualità del sottosuolo, alla situazione dei terreni, alla disposizione del suolo, ai muri di sostegno, alle condizioni climatologiche in genere e più specialmente se i terreni siano soggetti a grandine, brine, venti impetuosi, ecc. all’altitudine del terreno a produrre, al numero medio ordinario delle piante fruttifere, alle qualità più o meno fertilizzanti delle acque d’irrigazione; e tutto ciò in rapporto con le specie, la quantità e la bontà dei prodotti conseguibili in via ordinaria, e con l’importanza delle spese di produzione. Per ciascun comune si compila un prospetto di qualificazione e classificazione, nel quale si indicano le qualità di coltura riscontrare nel comune ed il numero delle classi in cui ciascuna qualità fu divisa, e si descrivono le particelle tipo di ciascuna qualità e classe, colle loro caratteristiche fisico agrarie.

 

 

Così, a modo di esempio, un comune potrà avere cinque qualità di coltura: seminativo, prato irriguo, castagneto, bosco ceduo, pascolo; e come classificazione potrà avere due classi di seminativo, una classe unica di prato irriguo, quattro classi di castagneto, tre classi di bosco ceduo e due di pascolo. Come regola generale una qualità di coltura non comporta più di cinque classi.

 

 

Sempre continuando, nell’esempio, detto comune può avere un totale di 3.000 particelle catastali, suddivise nelle anzidette qualità e classi. Il perito che fa la classificazione sceglie e individua sul terreno un dato numero, sempre limitato, di particelle corrispondenti a ciascuna qualità e classe comprese ne prospetto; queste si chiamano particelle-tipo e costituiscono il campionario che deve servire ai periti classatori per attribuire a ciascuna delle rimanenti 2.940 particelle del comune (supposto che le particelle-tipo siano risultate 60), la qualità e la classe di loro spettanza. Così rimangono classate le particelle comprese in tutto il comune.

 

 

Come si vede, il classamento è una operazione per la quale le 2.940 particelle non considerate nel primo momento, quando si determinavano quante quantità e classi di particelle-tipo vi fossero nel comune, vengono paragonate a quelle atipiche e classate, ovverosia collocate in una delle qualità o classi anzidette.

 

 

Quanto viene reso di pubblica ragione il complessivo catasto, per ognuna delle singole particelle resta indicata l’ubicazione, la figura, la superficie, la qualità di cultura, la classe, la tariffa.

 

 

435. La tariffa. – Arrivati a questo punto, sappiamo ad es. che le 3.000 particelle componenti il territorio di un comune sono ripartite nel seguente modo:

 

 

Qualità

I

II

III

IV

Classe

Seminativo

200

300

 
Prato irriguo

250

 
Castagneto

100

200

350

400

 
Bosco ceduo

300

200

100

 
Pascolo

200

400

 

 

 

Sappiamo cioè come i terreni si dividono in cinque qualità ed ognuna di esse in classi diverse; e non solo si è fatta la qualificazione e la classificazione per le particelle tipiche (60 per ipotesi); ma anche le altre 2.940 particelle sono state classate ossia collocate entro le rispettive caselle, in guisa che tutto il territorio comunale diviso in 3.000 particelle, è qualificato, classificato e classato.

 

 

Rimane l’ultima operazione, che consiste nella formazione della tariffa. La tariffa esprime, in moneta legale, la «rendita imponibile, per ettaro, del terreno di ciascuna qualità o classe». Rendita imponibile, nel linguaggio del legislatore, è quella che noi sopra chiamammo «reddito dominicale ordinario». Quale è cioè, per ettaro, la parte del prodotto totale della particella che rimane al proprietario netta dalle spese e perdite eventuali, per i seminativi di I e II classe, per il prato irriguo di classe unica, per ognuna delle quattro classi di castagneti, delle tre di bosco ceduo e delle due di pascolo? è evidente che quando noi avremo stabilito, ad es., che il reddito imponibile di ripetere la stima per ognuna delle 200 particelle che appartengono a questa qualità e classe. Basterà conoscere la superficie di ognuna delle particelle e moltiplicarla per la tariffa 80 per avere il reddito imponibile. Così se una particella avrà la superficie di ettari 2.545, il reddito sarà uguale a 2.545 x 80 = L. 203, 60; e se una seconda avrà la superficie di ettari 0,432, il reddito imponibile sarà uguale a 0,432 x 80 = L. 34,56.

 

 

Stabilire la tariffa è dunque operazione importante e delicata. Ogni tariffa è il risultato di parecchie valutazioni.

 

 

In primo luogo occorre stimare il prodotto lordo del terreno in quintali di frumento, di uve, di olive, ecc.

 

 

In secondo luogo è d’uopo valutare questi prodotti in moneta legale; trasformarli cioè da quintali di derrate diverse, che non sarebbero sommabili tra loro, in lire e centesimi.

 

 

In terzo luogo bisogna valutare le spese e perdite eventuali che devono essere sopportate dal proprietario; e, finalmente, sottratto il totale delle spese, pure esse valutate in moneta legale, dal valore totale del prodotto lordo, ottenere il reddito netto imponibile, ossia precisamente la tariffa.

 

 

Della stima del prodotto lordo e dei criteri della sua valutazione in moneta legale, diremo poi, essendo necessario chiarire alcuni punti importanti.

 

 

Notiamo qui che le spese deducibili sono così elencate dal legislatore:

 

 

  • 1) Le spese di produzione, conservazione e trasporto delle derrate a seconda degli usi e delle condizioni del luogo;
  • 2) le spese ed i contributi per le opere permanenti di difesa scolo, bonifica, compreso il contributo per le opere idrauliche di seconda categoria;
  • 3) le spese necessarie di manutenzione del fondo e dei fabbricati rurali e le spese di reintegrazione delle culture;
  • 4) una quota per le spese di amministrazione;
  • 5) una quota per i danni provenienti da infortuni (grandine, brine, geli), ecc.
  • 6) una quota per i danni provenienti dalle inondazioni ordinarie, dalle frane, dalle servitù militari, dal vincolo forestale e dai fenomeni vulcanici e metereologici proprii delle contrade prossime a vulcani in attività;
  • 7) una quota per spesa di fitto o canone per acque d’irrigazione di diverso proprietario del possessore della particella irrigata. Il legislatore si è preoccupato di tutte quelle spese che potevano diminuire il prezzo che il proprietario può ricavare dalla vendita dei suoi prodotti, tenuto conto che il reddito imponibile è quello che il proprietario ha sul luogo stesso e non del villaggio vicino; e che dai frutti annui occorre dedurre le somme necessarie a mantenere in buono stato terreni e fabbricati, a reintegrare le culture ossia a rinnovare le piantagioni, i boschi, ecc. ecc., ed a far fronte a qualunque infortunio ordinario e prevedibile che possa colpire il fondo.

 

 

Per gli infortuni straordinari fu stabilito che nel caso che, per parziali infortuni, venissero a mancare i due terzi almeno del prodotto ordinario del fondo, l’amministrazione delle finanze possa accordare una moderazione dell’imposta dell’anno; nei casi straordinari poi di gravi infortuni, non preveduti nella formazione dell’estimo, che colpiscano determinate zone di terreno o determinate culture, la legge dice che si debba provvedere con speciali disposizioni legislative.

 

 

436. L’epoca censuaria; e prima per la misura del terreno. – Dicemmo sopra che per formare la tariffa occorre fare la stima del prodotto lordo in derrate, tradurlo in prezzi di moneta legale e dedurne le spese. Ma è chiaro che il prodotto lordo del 1886 non è quello del 1890 o del 1900 o del 1913 o del 1930. A qual’epoca si riferiranno le stime? L’epoca scelta dicesi censuaria, appunto perché deve servire di base alle operazioni tecniche ed economiche del catasto. Teoricamente si può concepire il caso di un catasto cominciato ed eseguito completamente in un solo anno.

 

 

Quanti anni rappresenterebbe l’epoca censuaria e la perequazione a questo riguardo sarebbe assoluta. Tutti i terreni sarebbero stati stimati nel medesimo momento. Ma nessun catasto si fa in un solo anno: il catasto italiano fu iniziato nel 1886 e molti dovranno ancora passare prima che sia condotto a termine.

 

 

Dato ciò, un criterio che potrebbe adottarsi rispetto all’epoca censuaria sarebbe quello dell’epoca censuaria unica iniziale: riportare tutte le operazioni di misura e di stima all’epoca in cui le operazioni catastali furono iniziate. Teoricamente questo criterio è il più corretto; i terreni, essendo tutti riportati ad una medesima epoca, si troverebbero gli uni di fronte agli altri nella medesima condizione.

 

 

Metodo diverso sarebbe quello della attualità, secondo il quale, sia per la misura che per la stima dei terreni, si ha riguardo alle condizioni loro all’epoca in cui tali operazioni vengono effettuate per ogni singolo terreno. A questo metodo si obbietta che le condizioni dei fondi variano col tempo e può avvenire perciò che due terreni ugualmente redditizi nel 1886 lo fossero in misura diversa nelle diverse epoche in cui furono misurati e stimati; la stima catastale essendo stata fatta per l’un terreno nel 1890, per l’altro nel 1913, i due terreni vengono disugualmente colpiti dall’imposta, sebbene nel 1886 avessero uguale reddito e magari siano tornati oggi ad avere ugual reddito.

 

 

Il legislatore ha adottato riguardo all’epoca censuaria un criterio diverso per la misura e per la stima. Ha scelto il secondo metodo, quello cioè della attualità, per quanto concerne la misura dei terreni, ritenendo che, in via normale non possano affatto verificarsi cambiamenti nella estensione dei fondi entro il periodo di tempo richiesto dalle operazioni catastali, quando si escludano i casi eccezionali di frane, inondazioni od altre.

 

 

Quindi in via normale una particella che aveva la superficie di un ettaro nel 1886 avrà ancora la stessa superficie di un ettaro nel 1886 avrà ancora la stessa superficie nel 1900 per tutti gli anni avvenire. Che se, per caso straordinario di frane, alluvioni, avulsioni avvenute dopo il 1886, nel 1913 si riscontra dai misuratori incaricati di fare la misura che una particella, che forse era di 2 ettari nel 1886, è ora diminuita ad un ettaro o cresciuta a 3 ettari nel 1886, è ora diminuita ad un ettaro o cresciuta a 3 ettari, e d’uopo assumere la misura attuale e non la misura antica, che oramai è un ricordo storico e nulla più.

 

 

437. Dell’epoca censuaria rispetto alla stima del prodotto lordo. – Diversamente operò il legislatore rispetto alla stima, per la quale adottò il criterio dell’epoca censuaria unica iniziale affermando all’art. 11 della 1 marzo 1886 che «i fondi saranno considerati in uno stato di ordinanza e duratura coltivazione secondo gli usi e le condizioni locali e la quantità del prodotto darà determinata sulla base della media del dodicennio 1874-1885, ovvero di quel periodo più lungo di tempo che per alcune speciali colture fosse necessario a comprendere le ordinarie vicende delle medesime».

 

 

Il concetto del legislatore era corretto, perché non vi ha perequazione possibile se i prodotti dei terreni non siano tutti stimati riferendoli al medesimo tempo. Due prodotti uguali, l’uno stimato però nel 1890 e l’altro nel 1913 possono essere in realtà diversissimi; come due prodotti stimati diversamente in due momenti diversi, possono essere uguali, se riferiti allo stesso tempo. Il legislatore italiano scelse, come tempo di riferimento, il dodicennio anteriore al 1886, anno in cui fu promulgata la legge di perequazione, considerando che un dodicennio è un periodo abbastanza lungo di tempo perché possano comperarsi le annate buone colle cattive, e verificarsi gli infortuni ordinari nella misura solita. Considerando però che per alcune speciali culture, come l’oliveto, il castagneto, ecc., il periodo di tempo occorrente a comprendere le ordinarie vicende di esse può essere più lungo, consentì che gli stimatori di questo più lungo periodo tenessero conto.

 

 

Malgrado tutto queste cautele, il problema dell’epoca censuaria è ogni tanto risollevato nella stampa e tra gli interessati. Causa di ciò è l’eccessivo prolungarsi delle operazioni catastali. Il catasto, cominciato nel 1886 è ancora mezza via né accenna ad essere tanto presto compiuto. Ciò ha prodotto l’effetto che oggi (1913) pare strano di dover valutare i prodotti quali erano nel dodicennio legale 1874-85. Talvolta non si hanno più ricordi scritti dello stato dei terreni e della loro produttività in quell’epoca; e quando si hanno, quei ricordi sono volontieri offerti dai proprietari quando fanno testimonianza di una cultura più arretrata, non mai quando conservano traccie per 100 il prodotto di un terreno solo perché era tale nel 1874-85, sebbene oggi sia di 200 o di 50. E l’inconveniente andrà accentuandosi col tempo, a mano a mano che ci allontaneremo dal dodicennio iniziale. Rimedio unico: acceleramento delle operazioni è pur d’uopo tener fermo il concetto del dodicennio legale se si vuole che l’opera di perequazione non sia esplicitamente fondata sul concetto sperequatissimo di riferire la stima a tanti tempi diversi quante sono le epoche in cui le diverse regioni d’Italia si proceda alla stima dei terreni.

 

 

La commissione censuaria centrale non ha mancato di temperare la rigidità assoluta del criterio del dodicennio legale 1874-85 – il quale, sia detto di passata, vale non solo per la stima del prodotto lordo, ma anche per la valutazione delle spese – quando insorgevano «speciali circostanze» valutabili, a norma dell’art. 109 del regolamento, della stessa commissione, che potessero persuadere a tener conto di fatti posteriori al 1885 e tali da esercitare una profonda influenza sulle sorti dell’agricoltura. Così, sebbene la peronospora delle vite sia stata segnalata la prima volta in Italia nel 1879 in un vigneto della provincia di Pavia, riscontrata l’anno dopo nel Veneto e di poi su vasta scala in Piemonte, ove negli anni 1881-82 e seguenti arrecò danni gravissimi, a stretto rigore non si sarebbe potuto tener conto, nel calcolo delle spese, di quelle occorrenti per il trattamento cuprico (col solfato di rame) perché questo cominciò ad attuarsi solo dopo il 1885 e si generalizzò in seguito dopo il 1890. Tuttavia la commissione centrale deliberò che, per tenere equo conto delle effettive condizioni della viticultura, e per conseguenza, anche delle spese pei trattamenti antiperonosperici, si dovessero ribassare, e in molti casi sensibilmente, le tariffe predisposte per tutte le qualità nelle quali entri in modo esclusivo o notevole il prodotto dell’uva.

 

 

Così pure la commissione censuaria centrale riconobbe che erano necessarie notevoli diminuzioni nelle tariffe dei castagneti, per tenere equo conto della malattia dovuta alla presenza di piante crittogramiche e specialmente alla septoria castaneacola, che attacca e fa disseccare le foglie, ostacola e talvolta impedisce la maturazione dei frutti. Quella crittograma è comparsa in Italia fino al 1873, e sebbene non avesse nel dodicennio 1874-85 invaso i castagneti italiani in guisa da preoccupare il coltivatore, è andata sempre progredendo d’intensità, assumendo un carattere duraturo, come l’oidium e la peronospora, portando un danno alla produzione del castagno; sicché il trascurarne gli effetti deprimenti sulla produzione stessa creerebbe una sperequazione tra le tariffe del castagneto da frutto e quelle delle altre qualità di cultura.

 

 

Cosicché si può concludere che se il sistema adottato per le stime è quello dell’epoca censuaria unica iniziale (dodicennio legale 1874-85), si apportano poscia al principio rigido della legge, modificazioni atte a tener conto di quei fatti d’ordine generale posteriori al 1886 che possono esercitare una influenza notevole sui prodotti o sulle spese.

 

 

438. Conversione del reddito in natura in reddito in moneta. – Finora si è parlato di prodotto in derrate e della sua determinazione, che va fatta sulla base del prodotto mediamente ottenuto nel dodicennio legale. Ma i prodotti in natura vanno convertiti in prodotti in moneta legale? Quale sarà il criterio che servirà di base nella fissazione dei prezzi dei prodotti agricoli? Anche qui si è applicato il criterio dell’epoca censuaria unica iniziale. La legge 1 marzo 1886 dispone infatti che la valutazione dei prodotti si faccia sulla media dei tre anni di minimo prezzo compresi nel dodicennio 1874-85.

 

 

La scelta dei tre anni di prezzo minimo è stata suggerita al legislatore dell’intento di non aggravare l’agricoltura con imposte molto forti e dalla considerazione che in quel periodo i prezzi delle derrate agricole si mantennero, in generale, a un livello eccezionalmente alto. In generale i prezzi erano elevati in tutto il mondo a causa delle scoperte delle miniere d’oro della California e dell’Australia, che avevano fatto svilire la moneta e valorizzare le merci e le derrate. Per l’Italia valeva inoltre una causa speciale ed era il corso forzoso della carta moneta ed il disagio della carta, per cui i prezzi in carta italiana erano più elevati che in oro estero. Per tener conto di quest’ultima circostanza fu stabilito che si dovesse calcolare il disaggio medio della carta rispetto all’oro e diminuire di altrettanto la media dei tre anni di minimo prezzo; così che la valutazione delle derrate agricole si facesse sulla base di prezzi moderati e ridotti a moneta buona d’oro.

 

 

Gravi difficoltà sorsero però ben presto intorno all’applicazione di questo concetto, di valutare cioè le derrate sulla base della media dei tre anni di minimo prezzo compresi nel dodicennio legale. Il legislatore era partito dal concetto che per ogni regione o mercato si abbiano mercuriali dei prezzi, così esattamente e regolarmente compilate, da permettere che da esse si possano direttamente desumere i prezzi del dodicennio 1874-85 di tutti o dei principali prodotti agricoli.

 

 

La pratica oramai compiuta in molte provincie ha dimostrato invece che sulle mercuriali dei prezzi non può farsi che uno scarso assegnamento. In molti luoghi le mercuriali mancano affatto per qualsiasi prodotto; altrove sono ristrette a poche annate o tenute in modo irregolare o limitate a pochi prodotti soltanto; generalmente manca la distinzione circa la qualità del prodotto ed i luoghi di provenienza; talvolta non si hanno mercuriali dei prodotti diretti del suolo, ma dei loro derivati, come dell’olio e non delle olive, del vino e non dell’uva. Anche i registri delle amministrazioni di enti morali o dei principali possessori sono rari a trovarsi e per lo più inattendibili.

 

 

Inoltre quand’anche si trovino mercuriali di prezzi o registri di amministrazione, i prezzi conseguenti o non rispecchiano il complesso della produzione locale o devono essere rettificati. Invero i prezzi, per essere adatti agli scopi della stima censuaria, debbono essere in rapporto alle qualità dei prodotti ed ai vari gradi di bontà dei medesimi, avendo riguardo alle produzioni di ciascun comune; debbono tener conto della maggiore o minore distanza dal luogo di produzione a quello di mercato o di smercio; appurare se il prodotto sia destinato a servire per i bisogni interni dei fondi o ad essere commerciato; tener conto dell’influenza che sul prezzo dei generi possono esercitare i prodotti similari provenienti da altre regioni o dall’estero, ecc. Inoltre i prezzi di mercato risultanti dalle mercuriali debbono essere resi netti e comparabili per ogni comune, depurandoli delle spese di trasporto, di pesatura, di facchinaggio, di senseria, di posteggio, le quali sono variabilissime da luogo a luogo secondo gli usi e le consuetudini locali, secondo che si contratti sul genere o su campioni che si negozi fra produttori e acquirenti direttamente o per mezzo di mediatori e via dicendo.

 

 

È chiaro perciò che i prezzi vengono in gran parte a dipendere non dalla pura e semplice constatazione dei fatti sulla base delle statistiche e delle mercuriali, ma dal criterio peritale degli organi incaricati di fare le stime. Il qual criterio peritale soggettivo ha ancor più largo campo di applicazione quando il prezzo di una derrata debba ricavarsi, per via di analisi, dal prezzo di altre. Il prezzo dell’uva è spesso ricavato da quello del vino o del mosto; quello delle olive dal prezzo dell’olio, quello della foglia di gelso dal prezzo dei bozzoli, e non di rado si dovettero ricavare il prezzo del fieno e dell’erba consumati sul luogo dai redditi della industria del caseificio o con l’applicazione delle teorie di celebri studiosi di agronomia sulle unità nutritive dei foraggi. Invero non bisogna dimenticare che, nel sistema della legge dell’1 marzo 1886, il reddito fondiario imponibile è quello dato dai prodotti grezzi della terra e non dai prodotti già manipolati, sia pure con una prima elaborazione; è dunque il reddito dell’uva e non del vino, delle olive e non dell’olio, della foglia di gelso e non dei bozzoli, dell’erba o del fieno e non del bestiame o del formaggio o burro ecc., ecc. Si comprende perciò come questo sistema implichi difficoltà non lievi per la determinazione dei prezzi, quando si conoscano i prezzi dei prodotti derivati e non dei prodotti primi; e come quindi i prezzi di questi ultimi siano sovratutto il risultato di valutazioni peritali e rimangano ben lontani dalla certezza di un dato positivo e indiscutibile.

 

 

Ma non basta; vi hanno molti o prodotti secondari di non trascurabile importanza, di consumo puramente locale, di cui non si fa commercio e pei quali non si ha un vero e proprio prezzo di vendita, ma che tuttavia hanno un valore nell’economia rurale. Ve ne hanno altri che sono che sono di solito consumati dal produttore; ed altri ancora dei quali si vendono solamente le qualità primaticcie, o le più pregiate, il cui prezzo sul mercato, quando si può ottenere, è ben diverso da quello del prodotto ordinario e comune. Per questi prodotti, gli stimatori debbono esclusivamente valersi del criterio peritale, tra i quali uno dei più comuni è quello di apprezzare i detti prodotti in rapporto con altri.

 

 

Né la stima dei prezzi può scindersi dalla stima dei prodotti; perché, dai terreni inferiori si traggono prodotti di qualità inferiore e che sul mercato sono venduti a prezzi inferiori alla media; laonde non è possibile procedere alla determinazione dei prezzi indipendentemente dalla conoscenza della classe a cui appartiene la particella e della qualità dei prodotti che se ne ricavano.

 

 

439. Organi incaricati della formazione del catasto. – Il legislatore ha voluto circondare tutte gelose e complesse operazioni di guarentigie intese ad assicurare nel tempo stesso il fisco ed i proprietari della correttezza dei metodi e criteri seguiti nella formazione del catasto. Quindi si divisero le funzioni in esecutive, di stima e di controllo. Le funzioni esecutive furono affidate alla direzione generale del catasto, retta da un direttore generale al cui fianco sta, per dar pareri sulle questioni di massima e di maggior rilievo, un consiglio del catasto, composto di 7 membri nominati per decreto reale. Il direttore generale ha sotto di sé direttori compartimentali e provinciali che provvedono, col personale dipendente di ingegneri, geometri e canneggiatori, a far eseguire le operazioni di misura ed alla compilazione delle mappe catastali. Gli uffici esecutivi compiono altresì la stima dei terreni, a controllo di quella che viene compiuta dall’apposito organo.

 

 

Il quale è la giunta tecnica catastale. Ve n’hanno per ogni provincia: ed è composta di periti nominati per metà dal ministro delle finanze, per l’altra metà dai consigli provinciali delle provincie interessate; e di un presidente nominato dal ministro delle finanze, il quale nomina pure un segretario, tolto dal personale del catasto. I componenti le giunte sono 7 nelle provincie di estensione maggiore di 500.000 ettari e con più di 200 comuni; 5 nelle altre. Si vede che il legislatore, mentre ha affidato le operazioni di misura che esclusivamente agli organi esecutivi del governo; ha voluto che le operazioni di stima fossero compiute coll’intervento di una indiretta rappresentanza dei contribuenti, a mezzo dei membri nominati dai consigli provinciali.

 

 

Ancor meglio questo concetto si afferma nel momento del controllo delle operazioni di misura e di stima, che viene affidato alle commissioni censuarie. Ve n’ha più di tra gradi. Innanzitutto la commissione censuaria comunale composta di 3 o 5 membri effettivi e 2 supplenti, nominati dai consigli comunali in seduta straordinaria, cui sarà invitato ad intervenire, con diritto di voto, un numero dei maggiori contribuenti all’imposta fondiaria uguale a quello dei consiglieri.

 

 

La commissione censuaria provinciale si compone di un presidente nominato dal ministro delle finanze e di quattro commissari effettivi con due supplenti nominati per metà dallo stesso ministro e per l’altra metà dal consiglio provinciale in adunanza straordinaria.

 

 

La commissione censuaria centrale è composta di dodici membri effettivi e di tre supplenti, nominati dal ministro delle finanze e cioè:

 

 

  • a) di quattro commissari scelti fra i membri del consiglio di Stato, della corte dei conti, del consiglio superiore dei lavori pubblici e della magistratura giudiziaria, in guisa che ciascuno di questi corpi vi sia rappresentato;
  • b) di un membro del consiglio superiore di agricoltura;
  • c) dell’avvocato generale erariale, o di un suo sostituto da lui delegato;
  • d) di un funzionario superiore dell’amministrazione centrale delle imposte dirette;
  • e) di cinque altri commissari effettivi e tre supplenti, scelti fra le persone esperte nella materia.

 

 

La commissione risiede presso il ministero delle finanze, ed è presieduta dal ministro o dal vice – presidente da lui nominato fra i membri effettivi.

 

 

Il direttore generale del catasto ha facoltà di intervenire alle sedute della commissione centrale e di prendere parte alle discussioni, senza diritto di voto.

 

 

I possessori possono reclamare alla commissione comunale sulla intestazione e sulla delimitazione, figura ed estensione dei rispettivi beni, e sull’applicazione della qualità e della classe. Possono reclamare altresì, per quanto li riguarda, le giunte comunali ed altri enti interessati.

 

 

La giunta tecnica, in tempi e modi prescritti, li trasmette alla commissione provinciale, esprimendo il proprio parere sui medesimi, e presentando i suoi eventuali reclami contro il voto della commissione stessa.

 

 

La commissione provinciale, a sua volta, fatte, tanto per le tariffe che furono argomento di reclamo, quanto per le altre, quelle indagini e verifiche e confronti che reputa opportuni, trasmette alla commissione centrale tutti gli altri atti relativi, colle sue osservazioni e colle proposte che crede necessarie, per ottenere la congruenza e la proporzionalità delle tariffe.

 

 

Finalmente la commissione centrale, esaminando gli atti e provocate su di essi le osservazioni e proposte dell’ufficio generale del catasto, determina le tariffe di tutti i comuni.

 

 

C) Il periodo transitorio tra l’inizio e il perfezionamento del nuovo catasto.

 

440. Lunghezza del tempo necessario alla formazione del catasto Inconvenienti che ne sono derivati. Conclusione. – Si comprende come, data la complessità delle operazioni tecniche ed economiche e le cautele imposte dal legislatore ad assicurare fisco e contribuenti, il catasto italiano non sia ancora stato condotto a termine né il termine di esso sembri vicino.

 

 

Quando si discuteva il disegno di legge che diventò poi la legge dell’1 marzo 1886, si faceva calcolo su un tempo di 10 anni e su una spesa da 50 a 60 milioni. Più anni sono già trascorsi dopo il 1886; né è probabile che il catasto sia finito prima del 1940. Ed il conto della spesa andrà sui 500 milioni di lire. Dapprima si era limitata l’aliquota al 7% del reddito imponibile, che col decimo di guerra tutt’ora esistente, diventava il 7,70% e si sperava di ricavare dai nuovi estimi un prodotto di 100 milioni. Anzi si era promessa una diminuzione d’aliquota, qualora il prodotto dell’imposta avesse superato i 100 milioni. Ma presto si vide che nelle provincie che avevano chiesto l’acceleramento dei lavori (e tutte potevano chiederlo, quando si fossero obbligate ad anticipare metà della spesa), gli estimi nuovi erano perequati bensì, ma erano anche assai miti; onde il prodotto dell’imposta scemava. Perciò con legge del 21 gennaio 1897, n. 23 l’aliquota fu portata all’8% che col decimo di guerra ed i due centesimi del terremoto diventano l’8,88%.

 

 

Ciononostante, le provincie, le quali avevano chiesto l’acceleramento dei lavori catastali e che erano tutte situate nel settentrione, salvo la provincia di Napoli, ottenevano forti sgravi d’imposta; il che si capisce perché l’acceleramento dei lavori era stato chiesto da quelle sole provincie, le quali speravano di ritrarne un vantaggio; ed erano queste le provincie settentrionali, sia perché i contingenti antichi erano davvero gravosi, sia perché nel dodicennio legale le sorti dell’agricoltura nel settentrione non erano state molto floride.

 

 

Nel frattempo, le regioni del mezzogiorno, che nel dodicennio legale avevano fruito di alti prezzi pel grano, per le olive e per il vino, vedevano, dopo il 1887 principalmente, ossia dopo la rottura del trattato di commercio con la Francia, in cui esitava gran parte del vino siciliano e pugliese, peggiorare le proprie condizioni: per la crisi negli agrumi, nel vino, nell’olive, per la crescente emigrazione, ecc. ecc. Onde chiesero, ad alte grida, provvedimenti riparatori e compensatori. Una prima legge, del 31 marzo 1904, statuì varie facilitazioni a favore della Basilicata: estimi provvisori e speditivi, applicazione immediata dell’aliquota dell’8% ai contribuenti aventi un reddito imponibile non superiore alle 8.000 lire; per quelli aventi reddito superiore, la differenza tra l’imposta vecchia e la nuova devoluta a favore di una cassa di credito agrario istituita dalla legge stessa a beneficio degli agricoltori. Siccome i procedimenti speditivi per la formazione degli estimi non si potevano applicare contemporaneamente in tutte le altre provincie napolitane, siciliane e sarde l’imposta erariale sui terreni stabilita sulla base dei vecchi catasti del 30% per i contribuenti aventi reddito non superiore a L. 6.000. Per gli altri, il 30% non abbuonato ad essi è devoluto alla formazione del capitale di casse di credito agrario. Da questo provvedimento furono escluse le provincie di Potenza (Basilicata), per cui si era già provveduto con la legge precedente del 1904 e di Napoli, la quale aveva chiesto subito l’acceleramento catastale ed aveva ottenuto, in virtù dei nuovi estimi, uno sgravio di tributo.

 

 

Se la norma di favore per la Basilicata poteva essere considerata ragionevole, in quanto si trattava solo di rendere più spicciativa la formazione degli estimi, salvo a perfezionarli in seguito, non così per lo sgravio del 30% concesso indiscriminatamente a tutti i proprietari delle altre provincie meridionali. Godettero infatti dello sgravio non solo i proprietari il cui carico tributario era effettivamente eccessivo, ma anche coloro che pagavano troppo poco in rapporto agli altri contribuenti ed a cui il nuovo catasto dovrà finire per aumentare l’imposta.

 

 

Talché di fatto lo Stato andrebbe ora compiendo la grande opera catastale, con un lavoro di più di mezzo secolo e con una spesa di mezzo miliardo di lire, per ottenere questi risultati fiscalmente poco lieti:

 

 

  • 1) di vedere diminuire il gettito dell’imposta nelle provincie, in cui il catasto è compiuto, e dove si tennero gli estimi dei redditi fondiari moderati ed inferiori al vero, sebbene tra loro perequati;
  • 2) di provocare le provincie in cui il catasto non è ancora iniziato (mezzogiorno ed isole) a chiedere subito una diminuzione dei vecchi contingenti, per equiparare il loro carico tributario in confronto alle provincie (settentrionali quasi tutte) che avevano chiesto l’acceleramento ed ottenuto uno sgravio, essendo ormai chiamate a pagare l’aliquota dell’8,88% sui nuovi estimi;
  • 3) di fomentare nelle regioni a cui gli sgravi furono concessi anzi tempo, la persuasione di aver diritto agli sgravi stessi anche quando il catasto nuovo sarà compiuto; onde c’è il pericolo che gli estimi dei redditi non si compiono oggettivamente per potervi applicare l’aliquota legale dell’8,88% ed ottenere l’imposta dovuta; ma si cominci a fissare l’imposta da pagarsi, in misura non superiore all’antica diminuita del 30%, e poi si calcoli l’estimo da attribuirsi ai terreni per ottenere il risultato preordinato. Con che tutta l’opera della perequazione andrebbe a rotoli;
  • 4) di eccitare provincie non appartenenti alle due categorie anzidette (settentrionali a catasto accelerato e meridionali a sgravio anticipato del 30%) ad influire sulla formazione degli estimi allo scopo di averli «manipolati» in maniera tale da pagare imposta non maggiore o minore di quella che si pagava prima coi vecchi catasti sperequati. Esempio di ciò la provincia di Portomaurizio la quale ha iniziato una agitazione scandalosa per ottenere che la somma totale d’imposta fondiaria pagata nella provincia non superi con le solite antiche 191.000 lire. (Cfr. uno studio, Per la perequazione catastale in «Riforma Sociale» del luglio-settembre 1912).

 

 

Con tutto ciò la perequazione ordinata dalla legge dell’1 marzo 1886 non esce condannata. Trattasi di critiche le quali muovono tutte da una fonte: la lunghezza del tempo che si è destinato alle operazioni censuarie. È il lungo tempo che rende difficile la perequazione, che ostacola e rende per certi versi assurdo il riferimento dei prodotti e dei prezzi al dodicennio legale 1874-85, che eccita le provincie non ancora favorite a chiedere l’illogica anticipazione degli sgravi, che spinge le altre a fare opera di rivolta contro leggi buone e corrette. Non il principio, né i criteri della catastazione nuova possono essere criticati. Tutti i metodi che furono proposti in sostituzione del catasto sono di gran lunga più arbitrari ed imperfetti. Laonde conviene far voti che si dedichino fondi maggiori e tempo minore a finire il catasto. Se anche questo non riuscirà perfetto, poco male. La parte più costosa del lavoro, che consiste nella misurazione e nella determinazione delle particelle sarà definitiva per sempre. Sarà d’uopo rinnovare le stime, per metterle in rapporto alle mutate condizioni, ad es.; del 1930. Con una spesa di gran lunga minore e in un tempo non superiore ai cinque anni, cotal revisione sarà possibile. Con un personale già sperimentato, le successive lustrazioni catastali potranno via via perfezionare il catasto e renderlo uno strumento ottimo di ripartizione dell’imposta fondiaria. Accanirsi oggi contro i difetti inevitabili della prima formazione di un lavoro gigantesco, non mai compiuto dappertutto in Italia, con uniformità di criteri, è un volere impedire che la perequazione abbia luogo, col pretesto che essa non è subito perfetta.

 

 

Mentre si deve concludere: compiamola e poi via via la perfezioneremo. Alla quale conclusione si deve venire anche per ciò che riflette i risultati fiscali del catasto. Oggi, è vero, l’imposta fondiaria per via dell’applicazione dell’aliquota dell’8,88% nelle provincie a catasto nuovo ultimato e dello sgravio del 30% nelle provincie meridionali rende 80 milioni invece dei 110 di prima. E forse il gettito diminuirà ancora. È l’unico tributo italiano il cui gettito sia diminuito, malgrado il crescere del prodotto lordo dell’agricoltura italiana da 3 miliardi nel 1860 circa a 7 miliardi intorno al 1910. Il che è certamente sconcertante e dipende, oltrecché dalla rigidità propria del metodo del contingente (cfr. par. 391), dai criteri di moderazione grande seguiti nella formazione delle tariffe d’estimo dei terreni.

 

 

Anche questo non è però un vizio intrinseco della catastazione. Può essere invece un espediente politico opportuno per rendere gradita l’opera della perequazione ai proprietari contribuenti. Costoro sono meno tratti a lagnarsi della novità, visto che ad essa traggono beneficio. A catasto finito, si potrà provvedere, con successive revisioni, ad avvicinare sempre più gli estimi legali del reddito ai redditi reali; così da far partecipare il fisco ai progressi dei redditi terrieri. Del resto, purché gli estimi siano perequati, poco monta che siano alti o bassi. Se due terreni rendono l’uno 100 e l’altro 200, non è necessario che gli estimi legali siano precisamente di 100 e 200; basta che siano una frazione costante di quelle due quantità. Se si vuol far pagare 4 lire al primo proprietario ed 8 al secondo, bisognerà stabilire un’aliquota dell’8% se i redditi legali sono uguali alla metà dei reali (ed infatti l’8% di 50 e 100 dà precisamente 4 ed 8 lire); o del 16% se i redditi uguali sono eguali al quarto dei reali (il 16% di 25 e 50 dà ancora rispettivamente 4 ed 8 lire).

 

 

Il male non sta nelle stime alte o basse, feroci o miti; sta invece nella loro perequazione. Se i due terreni che rendono effettivamente 100 e 200 lire, vengono stimati legalmente l’uno per la metà e l’altro per un quarto del loro reddito effettivo, l’imposta graverà su 50 e 50; e qualunque sia l’aliquota, sarà scorretta, perché tasserà egualmente due redditi uguali di nome, ma disuguali di fatto. Il catasto nuovo provvede abbastanza bene, già fin d’ora, alla perequazione e meglio provvederà con le successive revisioni. Quanto alla mitezza delle stime, non monta, purché sia mitezza uniforme. A impedirne i danni per lo Stato basterà un semplice gioco di aliquote.

 

 

Sezione seconda.

 

L’imposta sui fabbricati.

 

441. Oggetto dell’imposta sui fabbricati. – Anche qui importa distinguere le due indagini fondamentali per ogni tributo: ricerca dell’oggetto dell’imposta e ricerca della maniera di accertamento e valutazione dell’oggetto stesso. E prima dicasi dell’oggetto su cui cade l’imposta.

 

 

Anzitutto si deve osservare che l’imposta sui fabbricati ha per oggetto solo i frutti periodici dell’ente «fabbricato», non già i suoi apprezzamenti o deprezzamenti e neppure le accessioni eventuali e gratuite di ricchezza del medesimo. Nel sistema della nostra legislazione, l’imposta sui fabbricati per questo rispetto è in tutto simile alla imposta su terreni. E tale sua caratteristica si deduce chiaramente dalla legge organica del 26 gennaio 1866 n. 2136, modificata successivamente con leggi 11 agosto 1870 n. 5784, 6 giugno 1877 n. 3684 ed 11 luglio 1889 n. 6214. Oggetto dell’imposta è o dovrebbe essere il reddito netto del fabbricato per il proprietario della casa, dedotte tutte le spese inerenti alla produzione del reddito stesso. In realtà, assai disputa quali debbano essere i fabbricati il cui reddito vuolsi colpire con l’imposta sui fabbricati e la valutazione del reddito è fatta in modo che non si colpisce il reddito netto ma il prodotto lordo.

 

 

A) I redditi che sono oggetto dell’imposta sui fabbricati e confini tra questa e l’imposta di ricchezza mobile.

 

442. L’imposta sui fabbricati colpisce i fabbricati ad uso di abitazione. – Per risolvere le questioni che si presentano a proposito dell’oggetto proprio dell’imposta sui fabbricati, cominciamo intanto ad osservare che senza dubbio essa colpisce il reddito che danno i fabbricati destinati ad uso di abitazione. Infatti storicamente l’imposta sorse quando il reddito edilizio assunse una fisionomia particolare, autonomia, in guisa che dall’ente «fabbricato» derivò il reddito «fitto o pigione» dei fabbricati, reddito a sé stante, che può essere ottenuto senza bisogno dell’esercizio di altre industrie od occupazioni. Il che avvenne quando, per l’accentuarsi delle popolazioni nelle città, convenne venne ad imprenditori e capitalisti costruire case per affittarle altrui e ricavarne un reddito. E razionalmente in tanto è concepibile un’imposta autonoma in quanto abbia un oggetto proprio, separato ed indipendente dall’oggetto di altre imposte; come è appunto il caso dei fabbricati costrutti a scopo di abitazione, di ufficio, di negozio, il cui «frutto» caratteristico e periodico, frutto derivante dal possesso del fabbricato, a sé considerato, è appunto la pigione o fitto. Teoria e pratica legislativa si accordano dunque nell’affermare che o destinate a negozio od ufficio e feconde di fitti.

 

 

443. Le case abitate dai proprietari sono oggetto dell’imposta sui fabbricati? – Le cose dette dianzi intorno all’origine storica dell’imposta sui fabbricati spiegano come nella mente di taluni teorici sia sorto dubbio intorno alla correttezza di colpire con la nostra imposta anche il reddito dei fabbricati non dati a pigione altrui, ma abitati dal proprietario medesimo. Poiché l’imposta sorse quando l’industria edilizia acquistò importanza autonoma e ebbe di mira di reddito che il capitalista ricava affittando altrui la sua casa, pareva fuor di luogo colpire anche quei fabbricati che non sono costrutti per ricavarne reddito pecuniario, ma sono abitati dal proprietario medesimo.

 

 

Soggiunsero quei teorici a coonestare la loro ripugnanza a tassare i fabbricati abitati dallo stesso proprietario: costui non ricava un reddito dalla sua casa, ché anzi fa un consumo, simile a quello che si fa con l’uso dell’automobile, del mobilio, del pianoforte. L’uso della casa propria dura forse di più; ma è un consumo, non un reddito.

 

 

La teoria non è sostenibile, data il sistema della tassazione dei frutti forniti dalle fonti produttive, e più ampiamente della tassazione del reddito guadagnato. Non vi è nessun dubbio che tanto il reddito quanto il consumo della casa possono essere tassati, ma in nessuno dei due tipi d’imposta ha importanza il fatto che il proprietario di una casa sia inquilino di sé stesso.

 

 

Se, come accade nel gruppo delle imposte suntuarie e in Italia nell’imposta sul valore locativo (parte terza, capitolo II, sez. quinta), oggetto dell’imposta è il consumo della casa, devono essere tassati amendue i generi di inquilini, di case proprie o di case altrui, perché amendue hanno il godimento della casa. Non importa che l’uno paghi il fitto e l’altro no; perché il fatto del godimento è la dimostrazione che si aveva il reddito pecuniario con cui quel godimento della casa pagando parte del denaro che si era procacciato col lavoro o coll’impiego di capitali, e casi pure l’inquilino della casa propria ebbe il godimento in compenso dell’interesse spettantegli come frutto del capitale impiegato nella casa.

 

 

In ambi i casi vi è reddito e consecutivo godimento; e, poiché l’imposta sul valor locativo colpisce i godimenti, correttamente colpisce l’uso delle case godute da ambe le specie di inquilini.

 

 

Del pari l’imposta sui fabbricati, appartenendo al gruppo delle imposte sui frutti o sui guadagni, deve colpire tanta il frutta netto lei proprietario dli case abitate da lui stesso quanto di quelle date altrui in affitto.

 

 

Invero il proprietaria della casa data in affitto ricava un frutto lordo di 10.000 lire e, detratte le spese in 2000 lire, netto di 8000 lire: onde egli va colpito su queste 8000 lire, che di altrettanto avrebbero cresciuto il suo patrimonio, se egli in tutto o in parte non avesse preferito di consumarle. Il proprietario che è inquilino di se stesso ha due persone economico-finanziarie in sé congiunte: come inquilino paga 10.000 lire di fitto a se stesso considerato come proprietario; come proprietario spende 2000 lire per amministrazione, riparazioni, assicurazioni, deperimenti, ecc., ecc., e ottiene un reddito di 8000 lire.

 

 

Ognuno che tenga una contabilità, deve operare questa logica distinzione e segnare nel suo bilancio 10.000 lire di spesa pel fitto come inquilino ed 8000 lire di reddito netta come proprietario.

 

 

Se egli non tien conti, non v’è ragione si dimentichi di tenerli per conto suo il fisco; essendo contrario al canone dell’uguaglianza che di due persone, le quali amendue hanno il reddito netto di 8000 lire, l’una paghi su di essa imposta, perché la percepisce da altri e l’altra no, pel pretesto che le 8000 le percepisce da se stesso. Tale disuguaglianza sarebbe un privilegio, che andrebbe favore di coloro che impiegassero i capitali proprii nell’acquisto di case, e in esse andassero ad abitare. V’è qualche ragione, in un paese dove son tassati i frutti di tutti i capitali, per esentare precisamente e solo i frutti dei capitali quando essi frutti sono consumati direttamente dal capitalista? Alla stessa stregua dovremmo esimere dall’imposta il proprietario che mangia pane fatto col frumento o beve vino prodotto colle uve del suo fondo, l’industriale che scorrazza in automobili fabbricate nel suo opificio o veste panni da lui tessuti. Il che è assurdo. Altra cosa essendo il reddito consumato ed altra il reddito guadagnato; altra i frutti ed altra l’uso di essi. Si possono tassare o solo gli uni o solo gli altri od amendue; ma, in ogni caso, non si possono esimere arbitrariamente in una categoria taluni contribuenti dalla dovuta imposta.

 

 

444. Fabbricati che sono necessario complemento dell’esercizio di altre industrie. – Dubbi ragionevoli sorgono quanto si vuole estendere il campo di tassazione dai fabbricati destinati ad uso di abitazione o di commercio ai fabbricati destinati ad uso industriale. Per i primi il fitto è la regola; e dalle pigioni correnti per fabbricati affittati si possono dedurre, per via di paragone presuntivo, i valore locativi delle case abitate dal proprietario medesimo. Per i secondi invece il fitto è l’eccezione, sicché dalle eccezioni non si saprebbero ricavare regole per la determinazione del fitto della maggior parte dei fabbricati usati a scopo d’industria dal proprietario stesso. Ma sovratutto il reddito dei primi è reddito che i fabbricati danno in quanto tali; mentre il reddito dei fabbricati industriali è fornito solo a condizione che entro il fabbricato sia esercitata una industria. Da soli, i fabbricati civili danno reddito; mentre i fabbricati industriali non ne danno alcuno, e diventano fruttiferi solo se essi vengono messi in combinazione con altri fattori. Donde logica discende l’illazione che, essendo unico il reddito, del fabbricato e dell’industria insieme congiunti, unica debba essere la tassazione; una sola imposta colpendo l’intiero reddito.

 

 

445. Esenzione dei fabbricati rustici. – La qual verità fu accolta dal legislatore per quanto si riferisce ai fabbricati rustici. Per i quali si disse: qual’è il reddito di un fabbricato inserviente ad un fondo agricolo?

 

 

Consiste nell’incremento che dà al reddito fondiario. Il se stante, come fabbricato; il reddito suo è congiunto, connesso, con il reddito del terreno; si tratta di beni che in economia si chiamerebbero beni complementari l’uno dell’altro; che nono si possono pensare separatamente.

 

 

È certo difficile pensare un terreno senza fabbricato; se però è difficile non è assurdo. I prodotti del terreno possono essere raccolti e poi trasportati in città, ecc., e fino ad un certo punto si può concepire un terreno coltivabile senza annesso un fabbricato, ma il fabbricato rustico è assolutamente impensabile senza il terreno a cui serve; non essendoci il terreno, il fabbricato non può servire a nulla. Chi è che va a stare in campagna soltanto per abitare in un fabbricato rustico, quando non ci sia terra d’intorno e non ci si possa servire del fabbricato come mezzo strumentale per aumentare il reddito agricolo? Perciò si è detto: il reddito del fabbricato è un reddito che si confonde, che è parte del reddito del terreno e siccome questo è già colpito dall’imposta fondiaria, è inutile far duplicati. Si dichiarino perciò esenti da imposta i fabbricati rustici che non hanno un reddito autonomo né pur minimo, ma l’hanno solo congiunto con il reddito fondiario.

 

 

In verità i fabbricati rustici apparentemente sono esenti da amendue le imposte; sui terreni e sui fabbricati. Poiché‚ la legge 1 marzo 1886 sulla perequazione fondiaria esclude da tassazione I’area occupata dal fabbricato rustico e sue immediate adiacenze, corte, aia, pozzo e luoghi di deposito dei prodotti del fondo, e di nuovo l’art. 2 della legge 26 gennaio 1865 li esenta dall’imposta sui fabbricati. Ma è evidente che l’esclusione dall’imposta fondiaria sui terreni è solo formale ed ha per iscopo di impedire che dei fabbricati rustici si tenga conto due volte, prima nell’estimo delle particelle coltivate e poi di nuovo della particella destinata ad uso di fabbricato rustico. È chiaro che nell’estimo delle particelle destinate alla cultura si tiene conto del fatto che la particella stessa è servita da una casa vicina o lontana, che più, o meno forti sono le spese di manipolazione e di trasporto a seconda della distanza della casa ,rustica. Quindi questa è già entrata come fattore inseparabile nella determinazione del prodotto del terreno e delle sue spese, né se ne può tenere calcolo a parte, per tassarla con l’imposta sui terreni o con quella sui fabbricati.

 

 

446. Requisiti del fabbricato rustico esente. – La esenzione è però naturalmente limitata in modo stretto ai fabbricati che hanno le caratteristiche di rustici. Le quali caratteristiche sono le seguenti:

 

 

  • a) In primo luogo essi devono servire per abitazione di coloro che attendono col proprio lavoro alla manuale coltivazione della terra. Ciò per escludere quelle casa che, pur trovandosi in campagna anzi, sul fondo stesso, servono per l’abitazione del proprietario, ville, castelli, abitati da chi non si occupa della coltivazione oppure, pur dirigendola, non lavora manualmente. Così sono escluse le case destinate all’abitazione dei fattori o sovrastanti o fittaioli che non collaborano personalmente e manualmente alla coltura del suolo.
  • b) In secondo luogo sono considerati come fabbricati rustici anche le parti del fabbricato rurale che servono al ricovero del bestiame. Qui però bisogna definire qual sia il bestiame che può essere ricoverato in un certo fabbricato per dare ad esso il carattere di fabbricato rustico. Occorre cioè che quel bestiame serva al la coltivazione del fondo o si alimenti della produzione del fondo. In un fondo vi potranno essere molti capi di bestiame, per esempio le vaccine per la produzione del latte, che non servono alla coltivazione del fondo, eppure consumano i foraggi del fondo stesso. In un altro fondo invece, il bestiame non potrà essere tutto alimentato colla produzione del fondo, ove questo sia tutto a viti o a campi, ma pure serve alla coltivazione del fondo stesso. In amendue i casi, essendo il bestiame addetto alla coltura del fondo, sebbene alimentato in tutto od in parte con mezzi estranei al fondo ovvero essendo alimentato con foraggi prodotti del fondo, sebbene non serva alla coltura di esso, vi sarà esenzione per i fabbricati relativi. Se invece si trattasse di bestiame che non serve alla coltura del fondo ed è alimentato con foraggi recanti dall’infuori, il fabbricato destinato al suo ricovero sarebbe soggetto all’imposta sul fabbricato. Il proprietario invero che abbia un fabbricato destinato al ricovero il bestiame che non serve alla cultura ed è alimentato con foraggi provenienti dal di fuori, deve essere sottoposto a imposta perché in tal caso il fabbricato è destinato all’industria autonoma dell’allevamento del bestiame senza alcun nesso logico col fondo.

 

 

  • c) Inoltre sono considerati rustici quei fabbricati che servono alla conservazione ed alla manipolazione dei prodotti del fondo, nonché alla custodia e conservazione delle macchine che servono alla coltivazione dei terreni medesimi. Così per esempio son tali i fienili, i porticati per gli attrezzi rurali, le cantine per il vino, che servono per la prima manipolazione e non per l’elaborazione ulteriore. Si comprende come sia considerato fabbricato rustico la cantina od il frantoio perché senza questo fabbricato il produttore non potrebbe vendere il prodotto del fondo. Non sempre, per le condizioni dei luoghi o dei mercati, le uve o le olive si vendono come tali; ed occorre trasformale in vino o in olio per essere commerciali. Non si considera invece come fabbricato rustico quello che sia destinato non alla fabbricazione del vino, ma alle sue ulteriori manipolazioni in altre sostanze, come liquori, spiriti, ecc., poiché queste sono manipolazioni industriali indipendenti dalla proprietà del suolo. Sarà considerata però come prima manipolazione non solo la fabbricazione del vino usuale corrente, ma anche la fabbricazione dei vini fini di tipo speciale che sono la caratteristica e l’unica produzione di certe località, come il marsala, il barbaresco, il barolo, il gattinara, anche se questa manipolazione abbia già carattere industriale e richieda cognizioni tecniche speciali e consumo di altre materie – come per esempio, la concia per il marsala, – quando però queste materie siano secondarie rispetto all’uva destinata alla produzione di quel vino. Non si potrebbe certo obbligare un produttore di barolo o di marsala a fare un prodotto inferiore per non procedere oltre la prima manipolazione. Tuttavia si deve sempre trattare di prodotti del fondo, né potrebbe quindi chiedere l’esenzione il proprietario di una grossa cantina dove si manipolasse per 1/20 uva del fondo e 19/20 uva di fondi estranei.

 

 

d) Condizione necessaria all’esenzione dei fabbricati rustici è che essi appartengono allo stesso proprietario del terreno a cui servono. Non è necessario che la casa sia situata sul fondo stesso e nemmeno vicina ad esso; poiché, data la suddivisione della proprietà fondiaria in Italia, sono moltissimi i proprietari i quali posseggono la casa rustica in un luogo, in una borgata o concentrico di villaggio, e terreni ,magari sparsi in luoghi lontani; ma occorre che appartenga al proprietario del fondo e sia da lui destinata ad uno degli usi che furono sopra elencati.

 

 

Recentemente però con leggi 15 luglio 1906 n. 357 e 9 luglio 1908 n. 434, fu allargato il campo dell’esenzione dai fabbricati che sono per il proprietario uno strumento di coltivazione dei terreni, ai fabbricati anche situati in centri abitati e destinati ad abitazione di contadini che ne siano i proprietari e che ritraggono l’abituale sostentamento dalla manuale coltivazione di terreni altrui. Tale esenzione non muove però dal criterio di esentare i fabbricati che non danno un reddito autonomo, ma quei fabbricati che appartengono a persone che posseggono un reddito piccolo. Criterio personale dunque e non reale. Notisi che tale esenzione è limitata ai contadini delle provincie meridionali, della Sicilia e della Sardegna.

 

 

447. Fabbricati destinati a cantine sociali, latterie cooperative, ecc. – Poiché i fabbricati, per, essere considerati rustici ed esenti debbono appartenere al proprietario del fondo a cui servono, che cosa si dovrà dire delle cantine che sono usate per la manipolazione delle uve e conservazione del vino appartenente a parecchi proprietari riuniti in cooperativa per la produzione del vino (cantine sociali)? Ed analogamente dei locali adibiti ad uso di latteria sociale? Certo è che, economicamente, nessuna differenza vi è fra il singolo proprietario che vinifica le suo uve o manipola il suo latte in un locale di sua proprietà e la collettività di parecchi proprietari, che a risparmio di spese e per ottenere un prodotto migliore, producono vino, burro e formaggio in un locale di proprietà comune. Quindi il fabbricato dovrebbe essere sempre esente dall’imposta sui fabbricati, essendo desso in ambi i casi uno strumento complementare per la manipolazione dei prodotti del fondo.

 

 

Ma la giurisprudenza prevalente si è pronunciata contraria a questa esenzione, pel riflesso che il fabbricato adibito a cantina o latteria sociale non è di proprietà dei proprietari dei fondi a cui inserve. I fondi invero sono dei singoli proprietari; mentre il fabbricato appartiene alla cooperativa che è una persona diversa e separata dalla persona dei soci.

 

 

Parecchio ci sarebbe a dire su questa rigida interpretazione della lettera della legge e sulla attribuzione alle cooperative della qualità di persone distinte dalle persone dei soci. Ma tale è, per ora, la giurisprudenza prevalente.

 

 

448. Fabbricati destinati ad uso di opificio industriale. – Ma non dei soli terreni i fabbricati possono essere un bene complementare strumentale. Anche per i fabbricati inservienti ad opificio o manifattura si sarebbe dovuto applicare il medesimo concetto che per i fabbricati rustici. Come si era riconosciuto che il fabbricato rustico non dà reddito per sé stesso, ma solo in quanto è congiunto con una certa quantità di terreno, così il legislatore logicamente avrebbe dovuto riconoscere che per il fabbricato industriale non esiste alcun reddito autonomo a sé. Ed è chiaro che il fabbricato industriale non ha reddito autonomo ma solo congiunto all’industria. Infatti, se non vi è esercitata l’industria, un fabbricato industriale non può essere atto ad altra cosa; un padiglione costrutto per accogliervi macchine lavoratrici non può certo essere destinato ad abitazione di uomini. Anzi il carattere il complementarità è tale che un dato fabbricato non può servire indifferentemente a parecchie industrie: sarebbe assurdo destinare un mulino alla fabbricazione della seta o viceversa. Ogni edificio industriale insomma, per essere utilizzata al massimo della sua potenzialità, ha bisogno di una industria determinata. Lo stesso fabbricato può contribuire ad aumentare di 100 la produttività di una industria e di 200 quella di un’altra, per cui sia stato costruito appositamente.

 

 

Questo ragionamento semplicissimo doveva portare alle medesimo conclusioni che per i fabbricati rustici: di esentare i fabbricati industriali dall’imposta sui fabbricati e di colpire invece con l’imposta di ricchezze mobile tutto il reddito dell’industria complessivamente considerata, tenuto conto eziandio del contributo che al reddito stesso può dare il fabbricato adibito a quell’industria.

 

 

449. Ragioni pratiche per cui si sono voluti tassare i fabbricati industriali con l’imposta sui fabbricati. – Invece si è voluto per motivi pratici, dar vita a due entità fittizie, teoricamente assurde. La prima è quella di un fabbricato industriale che dà reddito per sé stante astraendo dall’industria entro esso esercitata, la seconda quella di un’industria che dà reddito per sé astraendo dal fabbricato industriale. Sono queste, ripeto, due finzioni, due astrazioni teoriche. Non esiste invero industria senza fabbricato industriale e fabbricato industriale senza industria. In realtà sono due fenomeni inscindibili l’uno dall’altro.

 

 

Le ragioni per cui si è andato contro a questa chiara premessa sono due:

 

 

  • 1) Anzitutto l’imposta sui fabbricati è stabilita in un’aliquota del 16,50% sui due terzi del reddito lordo, e quindi più elevata di quella la quale grava sul reddito industriale di R. M. che è del 20,80% sulla metà del reddito netto (categoria B dell’imposta di ricchezza mobile). Ed invero, sia un fabbricato industriale, il cui reddito lordo sia stimato in 10.000 lire. Se esso colpito dall’imposta sui fabbricati pagherà allo Stato il 16,50% sui due terzi di 10.000 lire, un terzo essendo dedotto a titolo di spese, ossia pagherà il 16,50% di 6666.66 lire, e cioè 1100 lire. Invece se fosse tassato, insieme col restante reddito dell’industria, coll’imposta di ricchezza mobile, pagherebbe il 20,80% sulla metà (20/40) dal reddito netto, ossia il 10,40& su tutto il reddito netto. Se noi supponiamo che il reddito netto sia eguale, come nel caso precedente, ai 2/3 del lordo noi avremmo che il contribuente pagherebbe il 10,40% su L. 6666,66 e cioè L. 693,33. È vero che l’imposta di R.M. si esige subito, mentre l’imposta sui fabbricati si esige, come vedremo, solo dopo tre anni, ma la differenza è abbastanza forte, perché lo Stato non abbia voluto considerare il reddito del fabbricato come parte del reddito dell’industria (R. M.), allo scopo di applicare ad esso la più elevata imposta dei fabbricati.
  • 2) Un’altra considerazione pratica è quella riferentesi agli enti locali che hanno il diritto di sovra imporre dei centesimi addizionali alla imposta fondiaria e alla imposta sui fabbricati. Il che vuol dire che provincie e comuni, per procacciarsi entrate, possono far pagare ai proprietari di terreni e di fabbricati una sovraimposta, la quale, normalmente, può andare sino a 50 centesimi per la provincia e altrettanti per il comune per ogni lira di imposta principale erariale. Spesso le sovrimposte sono assai superiori, sovratutto quelle comunali, al 50% dell’imposta erariale di Stato. Non possono invece provincie e comuni sovraimporre nulla alla imposta di ricchezza mobile. Quindi se il reddito, del fabbricato industriale fosse stato conglobato col reddito industriale, gli enti locali non avrebbero potuto colpirlo. Questa sarebbe stata grave ingiustizia e sperequazione a danno degli altri contribuenti, perché gli enti locali, a corto di mezzi, avrebbero dovuto colpire assai di più i fabbricati civili ed i terreni; ciò che sarebbe stato iniquo, specialmente nei comuni dove sono grandi fabbricati industriali che provocano il comune a fare -spese richiedendo opere pubbliche, come strade, illuminazione, scuole, nuovi funzionari e in generale accresciuti servigi pubblici per il verificatosi aumento di popolazione; spese tutte cui gli enti locali dovrebbero esclusivamente far fronte mettendo imposte sui terreni e sui fabbricati civili. Per ovviare a questo inconveniente si è preferito fare uno strappo alla logica, tassando con l’imposta sui fabbricati anche gli edifici industriali, sebbene non diano reddito autonomo. Parrebbe assi più semplice risolvere il problema dando agli enti locali il diritto di sovrimporre sulla imposta di ricchezza mobile; e parrebbe anche più corretto, non essendovi o regioni a priori perché percettori di redditi mobiliari non abbiano a contribuire alle spese delle provincie e dei comuni, di cui si avvantaggiano come i percettori di redditi immobiliari. Ma il diritto di sovrimporre sull’imposta mobiliare presentava difficoltà d’altro genere; di cui la principale è quella di localizzare redditi che sono per loro natura mobile, che non appartengono più ad un comune che all’altro. In certi casi le difficoltà sarebbero state inestricabili, laonde si preferì di risolvere il problema empiricamente dividendo il reddito dell’industria in reddito del fabbricato industriale e reddito dell’industria esercitata nel fabbricato; e tassando il primo con l’imposta sui fabbricati e il secondo con quella di R. M.; sovrimponibi9le la prima e non la seconda.

 

 

Ma ogni errore logico produce conseguenze dannose; e così fu anche l’errore accolto nostra legislazione di aver voluto creare due entità distinte per il fabbricato industriale e l’industria esercitata nel fabbricato.

 

 

450. Difficoltà di trovare la linea di distinzione tra fabbricato industriale ed industria. – Dove finisce il fabbricato industriale? Che cosa sarà considerato come fabbricato e che cosa come industria? Il fabbricato comprenderà solo tetto, mura e pavimenti, ovvero qualche cosa di più? La tecnica moderna costruire fabbricati che non sono di mattoni e di calce, ma di cemento armato, di ferro, di acciaio, ecc., quindi gli antichi criteri distintivi non bastano più. Inoltre vi sono certe parti del fabbricato industriale le quali sono costrutte qualche volta in calce, in mattoni, in cementi, parti che ordinariamente si intende che facciano parte del fabbricato industriale, ma invece sono strumenti dell’industria. Per es.: ma caldaia in parte è in cemento ed è incastrata entro il muro: il suo reddito sarà reddito del fabbricato o reddito dell’industria? Ci sono altre macchine, che per non dar luogo a troppi scuotimenti, devono essere fisse nel suolo e essere costruite in maniera da fare una cosa sola col fabbricato, sicché non è davvero facile poter sapere quando finisca il fabbricato e quando cominci l’industria. Ecco quali problemi fece sorgere l’irrazionale criterio seguito dal nostro legislatore.

 

 

451. I criteri seguiti dal legislatore italiano. – Il legislatore ha cercato all’uopo di dare delle definizioni. Infatti l’art. 5 della legge 26 gennaio 1865 recita: «saranno considerati come opifici tutte le costruzioni specialmente destinate all’industria e munite di meccanismi o apparecchi fissi». Che valore si deve dare a queste ultime parole? Sono messe lì per servire da contrassegno del fabbricato industriale, senza però che si intendesse di includere i meccanismi ed apparecchi fissi nel concetto del fabbricato industriale, ovvero sono adoperate per indicare che i meccanismi ed apparecchi fissi fanno parte integrante del fabbricato stesso? Evidentemente gli industriali preferivano la prima interpretazione, gli agenti del fisco seguivano la seconda. I primi affermavano che le parole «munite di meccanismi ed apparecchi fissi» furono inserite per indicare che dove v’erano quei tali meccanismi ed apparecchi v’era il fabbricato industriale e non quello civile. Distinzione questa importante per certi effetti tributari, tra cui importantissimi questi: che i fabbricati civili godono dell’esenzione per i primi due anni dalla costruzione e gli industriali per tre anni; che dal reddito lordo dei fabbricati civili si deduce il quarto del reddito stesso a titolo di spesa, mentre dal reddito lordo dei fabbricati industriali si deduce il terzo. Quindi poiché  quelle parole avevano un significato puramente di connotato, il fabbricato munito di meccanismi ed apparecchi fissi era bensì un «fabbricato industriale»; ma essi meccanismi non erano parte integrante del fabbricato. Onde i meccanismi stessi per il reddito che davano doveano essere sottoposti all’imposta di ricchezza mobile (il 10,40% sul netto) e non a quella sui fabbricati (16,50% sui due terzi del lordo più i centesimi addizionali che fanno aumentare l’aliquota complessiva al 25, 30, 40 ed anche 50 o 60 %). Il fisco invece, favorito dalla giurisprudenza, opinava in contrario che quelle parole «munite di meccanismi ed apparecchi fissi» erano state inserite per indicare che il fabbricato industriale comprendeva altresì essi meccanismi ed apparecchi fissi.

 

 

La questione fu risolta con la nuova legge dell’11 luglio del 1889, che diede un’interpretazione autentica contraria agli industriali in quanto che stabilì all’art. 7 che «nell’accertamento dei redditi degli opifici debbano considerarsi come parte integrante dei medesimi i generatori della forza motrice, i meccanismi e apparecchi che servono a trasmettere la forza motrice stessa, quando siano connessi o incorporati nel fabbricato. Non sono da considerarsi come tali le trasmissioni e le macchine lavoratrici.

 

 

Venne cioè fatta una grande distinzione: da una parte il fabbricato con gli apparecchi che generano o trasmettono la forza motrice, come la turbine, le caldaie, ecc. Tutto ciò è fabbricato o parte integrante di esso e deve essere colpito con l’imposta sui fabbricati. Dall’altra parte si ha l’industria, con i fattori produttori del lavoro, dell’intelligenza direttiva e delle materie prime e di tutte le macchine lavoratrici, delle macchine che servono cioè a manipolare la materia prima introdotta nella fabbrica per esempio, in un cotonificio, le macchine per la filatura e la tessitura del cotone greggio, che lo trasformano in materia filata o semifinita, in filati o in tessuti. Tutto ciò è colpito coll’imposta di ricchezza mobile (categoria B).

 

 

452. Se la forza idraulica sia da comprendersi tra i generatori della forza motrice colpiti con l’imposta sui fabbricati. – Questo disposto sembrava chiaro, ma sorsero invece nuovi dubbi a causa della interpretazione che ne volle dare il ministero delle finanze con una circolare del 15 giugno 1899.

 

 

Infatti questa diceva: «Sono da comprendersi nell’accertamento le forze motrici (è da notare che il ministero senz’altro sostituisce le parole forze motrici alle altre generatori di forza motrice usate dalla legge) e gli apparecchi trasmettitori del moto»; e, specificando, aggiungeva, a proposito degli opifici che impiegavano la forza del vapore, doversi colpire con l’imposta sui fabbricati innanzitutto l’interesse sul valor capitale delle caldaie, delle macchine motrici, dei gasometri, dei motori e gas ecc.

 

 

Non però il valore del carbone o del gas consumato, che non è per sé stesso forza motrice parte integrante del fabbricato, ma bensì materia inerte, trasformata per produrre del vapore, cioè della vera forza motrice.

 

 

Invece la circolare stessa diceva che, trattandosi di opifici che adoperano la forza idraulica, si doveva considerare l’acqua come generatrice della forza motrice, e quindi colpirne il valore annuo insieme coll’interesse del capitale rappresentato dai canali conduttori dell’acqua, dalle turbine e dagli altri apparecchi trasmettitori del moto. Fra i due casi dunque si faceva differenza profonda, si escludeva il carbone e si colpiva l’acqua, sia che essa appartenga allo stesso proprietario dell’opificio, sia che costui ne abbia una semplice concessione temporanea. Si usava questa sola avvertenza di colpire il presunto reddito non di tutta la forza potenziale della caduta d’acqua, ma della sola forza effettivamente utilizzabile dai motori.

 

 

Per dare questa interpretazione, il ministero delle finanze appoggiavasi all’art. 412 del codice civile, il quale stabilisce che i canali deducenti l’acqua in un edificio sono beni immobili e fanno parte dell’edificio o fondo a cui le acque devono servire; il che non implicava però ancora che immobili fossero le acque dedotte nei canali, ove almeno queste non volessero considerarsi come corsi d’acqua, che lo stesso art. 412 considerava pure immobili. Tutte queste osservazioni, benché importanti, non paiono pertinenti alla questione, essendoché il diritto finanziario è un diritto singolare; e non si può presumere che un oggetto sia sottoposto a tributo, senza una specifica dichiarazione del legislatore.

 

 

A tale uopo il ministero si basava sulla discussioni parlamentari. Non solo all’epoca della discussione della legge del 1865, ma ancora durante la discussione dell’art. 7 della legge del 1889 il ministero proponente aveva detto essere evidentemente l’acqua un generatore di forza motrice, in quanto essa è capace, ad esempio, di far muovere un mulino.

 

 

Date queste esplicite dichiarazioni contenute nei lavori parlamentari, può essere giustificata la giurisprudenza che, senz’altro indagare opinò, a scanso di fatica intellettuale, essere la forza idraulica parte integrante dell’opificio e doversi perciò tassare coll’imposta sui fabbricati.

 

 

È noto però che altre volte le corti regolatrici ebbero a porre in non cale le esplicite dichiarazioni di ministri e relatori durante le discussioni parlamentari ed a dare ai testi di legge quel proprio significato che si deduce dalla lettera e dallo spirito della legge, senza altrimenti impacciarsi delle opinioni personali dai ministri proponenti.

 

 

Ora, ragionando secondo i concetti informatori della nostra legislazione finanziaria, si deve notare:

 

 

  • 1) che la discussione non consiste nel vedere se il reddito delle forze idrauliche debba essere tassato od esente, ma solo se debba essere tassato coll’imposta sui fabbricati o con quella di ricchezza mobile;
  • 2) che è canone pacifico di interpretazione delle leggi fiscali che le imposte sui terreni e sui fabbricati hanno ad oggetto solo gli enti tassativamente indicati, i redditi di ogni altra fonte non indicata formando oggetto dell’imposta di ricchezza mobile. Ora nessun testo di legge esplicitamente assoggetta all’imposta sui fabbricati la forza idraulica;
  • 3) che il legislatore considerò come parte integrante del fabbricato solo i generatori della forza motrice. Ora tali sono le turbine e non l’acqua, che è anzi la materia bruta trasformata dalle turbine per ottenerne la energia elettrica. Nello stesso modo che, negli stabilimenti che impiegano il carbone, deve intendersi come generatore di forza motrice la caldaia e non già il carbone.

 

 

La estensione del concetto generatore di forza motrice, sino ad abbracciare anche la forza idraulica sarebbe stata corretta solo se nel linguaggio scientifico tale fosse il proprio significato delle parole. Il che non pare sia conforme all’uso accettato degli scienziati, come fu autorevolmente affermato in testimonianze di insigni scienziati.

 

 

In ogni modo, qualunque sia l’interpretazione che si vuol dare alla legge vigente, niun dubbio si è che questa dovrebbe essere da una legge nuova riformata, nel senso di escludere dall’imposta sui fabbricati la forza idraulica e colpirla con l’imposta di ricchezza mobile. Il sistema vigente invero instaura una protezione e rovescio, a favore delle industrie che trasformano il carbone straniero, il reddito della forza generata dal quale è esente dall’imposta fabbricati e colpito solo dalla imposta di ricchezza mobile, ed a danno delle industrie che trasformano l’acqua nazionale, colpita dall’imposta edilizia. Ora se il protezionismo a favore delle industrie nazionali è dannoso, è ugualmente dannoso il protezionismo a favore delle industrie straniere. Le forti imposte del 25,30 e fino 40 e 50% del reddito che vengono a colpire le forze idrauliche, in confronto del 10% che colpisce il reddito delle forze a vapore, sono un carico differenziale a danno delle industrie che utilizzano il cosidetto carbone bianco, e non sono certo un incoraggiamento a tale utilizzazione, che pure sarebbe desiderabilissimo nell’interesse dell’economia italiana.

 

 

453. La questione delle condutture del gas e dell’acqua potabile. – Un’altra questione interessante riguarda le condutture del gas o dell’acqua potabile. Saranno esse considerate parte integrante del fabbricato industriale perché trasportano il gas o l’acqua nei locali dei singoli utenti? Il fisco pretese che fossero immobili anche i condotti che recavano l’acqua da decine di chilometri di distanza. Di qui gravissimi danni per l’industria, che è costretta a pagare imposte che erano imprevedibili quando l’industria stessa sorse. Ed è veramente una scorretta interpretazione della legge quella che il fisco chiede. In quanto che, ragionando secondo la lettera e lo spirito degli articoli della legge, i canali che servono a trasportare, a convogliare l’acqua potabile sono mezzi tecnici atti a trasportare la merce già prodotta (acqua potabile) dai luoghi di produzione, dove si trovano gli edifici industriali forniti di forza motrice (fabbricati) e contenenti i meccanismi atti alla estrazione (macchine lavoratrici), sino al consumatore cittadino. Il fabbricato industriale ha già esaurito il suo compito e già da tempo hanno avuto fine le operazioni industriale, che si chiudono appunto col trasporto delle merce prodotta e sua distribuzione ai consumatori. Trasporto e dichiarazione, invece di effettuarsi su carri serbatoi con grande dispendio di tempo e di danno si effettuano più economicamente a mezzo di tubi in muratura, in cemento o in ferro. La maggior economicità del mezzo tecnico scelto per il trasporto nulla toglie alla natura intrinseca dell’operazione, che è essenzialmente industriale e non ha carattere immobiliare.

 

 

Gli esempi addotti – e se ne potrebbero elencare degli altri – provano come sia difficilissimo trovare una linea di distinzione precisa, netta tra il fabbricato da una parte e l’industria entro esso esercitato dall’altro.

 

 

L’industria muta sempre nei suoi ordinamenti tecnici e sorgono ognora nuove invenzioni o congegni per cui può essere dubbio trattarsi di fabbricato o di industria. Onde sempre nuove questione tra il fisco il quale vuole estendere il concetto di fabbricato industriale ed il contribuente il quale vuole restringerlo, il primo per applicare e il secondo per sottrarsi all’imposta sui fabbricati e rifugiarsi sotto le ali protettrici dell’imposta di ricchezza mobile, che, vista di malocchio per ogni altro verso, qui diventa simpatica ai contribuenti.

 

 

B) Valutazione ed accertamento del reddito dei fabbricati – L’imposta decima.

 

454. Come dovrebbe valutarsi il reddito dei fabbricati. – Sappiamo ora che a ragione od a torto oggetto dell’imposta è il reddito netto di tutti i fabbricati civili ed industriali e non solo nei fabbricati propriamente detti ma anche di altri enti imponibili, come generatori della forza motrice, forza idraulica conduttori, ecc. ecc. Questo reddito netto dovrebbe essere calcolato col solito procedimento dell’analisi del prodotto lordo e di detrazione delle spese, come si fa per i terreni col metodo catastale.

 

 

Dovrebbe cioè farsi l’analisi del prodotto lordo che si presume pagato dagli inquilini o affittuari e da quel prodotto lordo detrarre le spese che ad esso sono inerenti di guisa da ottenere il reddito netto. L’analisi sarebbe certo molto complicata in quanto che le spese che gravano sul reddito lordo dei fabbricati sono parecchie e variabile da un caso a un altro. Ma come da questa analisi non si rifugge per l’imposta sui terreni, così non v’è ragione si debba rifuggire per l’imposta sui fabbricati.

 

 

455. Le varie deduzioni per spese dal reddito dei fabbricati. – Conosciuto il reddito lordo o fitto pagato dagli inquilini od affittuari, dovrebbero detrarsi le seguenti principali spese:

 

 

  • a) spese di amministrazione. Così per ottenere i fitti bisogna che il proprietario amministri il suo fabbricato. Ora la amministrazione del fabbricato non è tale da dare luogo alle medesime spese in ogni caso. Se il proprietario possiede una palazzina o un fabbricato signorile non avrà che difficoltà scarsissime per queste amministrazione, perché i pochi inquilini, tutti in classe elevata, pagheranno puntualmente alla scadenza semestrale o trimestrale e non ci sarà bisogno neppure di un segretario: l’amministrazione potrà essere tenuta dallo stesso proprietario coll’aiuto di un portinaio. Viceversa in una casa destinata ad abitazione delle classi lavoratrici l’amministrazione costa assai di più. Gli appartamenti di solito piccoli, di una o due camere, saranno magari in numero di 100 o 150; il fitto non potrà essere esatto trimestralmente; poiché l’operaio esige il salario settimanale e settimanalmente lo consuma; bisognerà quindi avere un segretario e talvolta un segretario od amministratore molto energico, che non tema male parole e cattivi trattamenti quando reca ad esigere i fitti.
  • b) spese di riparazione ordinarie. Cotali inquilini non solo danno luogo a spese di amministrazione rilevanti, ma anche a spese di gestione ragguardevoli. L’inquilino agiato non distruggerà porte e finestre e pavimenti, mentre i guasti di questo genere sono abbastanza frequenti quando gli inquilini, appartenendo a classi povere, non sono ancora stati educati a trattar bene le case altrui. A fornire questa educazione devono concorrere anche i proprietari, insieme con la scuola ed altri mezzi di coltura. Sta di fatto che oggi l’educazione della casa spesso non esiste; e ciò cresce il costo di manutenzione.
  • c) spese di assicurazione. Anche le spese di assicurazione variano, a seconda del materiale impiegato nella costruzione della cosa. Se v’è materiale di legnami l’assicurazione contro gli incendi importerà somme molto più forti che se la costruzione è in cemento armato o in altra materia refrattaria al fuoco. L’assicurazione degli opifici sarà molto più costosa dell’assicurazione delle case civili, essendo più grave il pericolo di incendio; e da opificio ad opificio diversissimi saranno i premi da pagare per la diversa pericolosità delle industrie esercitate.
  • d) Spese di ammortamento. – Anche le spese di ammortamento, cioè quella somma che deve essere prelevata dal reddito lordo per potere in un dato numero di anni riavere il capitale impiegato nella costruzione della casa, variano secondo i fabbricati. Ci sono fabbricati industriali costruiti in maniera che abbiano a durare 20 anni; poiché sono edificati a mò di padiglione, in maniera leggera e sono soggetti a rapido logorio per lo scotimento delle macchine, ecc. Occorre quindi, in questi casi, una forte quota di ammortamento che ammortizzi il capitale impiegato nella costruzione, per esempio entro vent’anni.

 

 

Dal reddito lordo bisognerà quindi dedurre una quota fortissima che eguagli il 3, il 4 o il 5 per cento del capitale impiegato nella costruzione. Invece la quota sarà più bassa per i fabbricati civili. Ci sono dei fabbricati civili che hanno una vita media di 80 o 100 anni. Dopo questo periodo, se non vetusti, essi sono almeno divenuti disadatti per il quartiere su cui sono situati. Una casa operaia a Torino costruita ora in borgo Vanchiglia o alla Crocetta o alla borgata San Paolo può divenire inservibile di qui a 80 anni perché quei borghi potranno forse essere divenuti quartieri signorili. Quindi è necessario, che il proprietario abbia pausato ad ammortizzarla in quel determinato periodo con una spesa uguale, ad esempio, al 0,20% del valore della cassa. Vi sono invece case che devono durare più secoli; in questi casi la quota di ammortamento si riduce a una quota piccolissima del valore della casa. Le quote di ammortamento possono perciò variare dal 5% del valore della casa al 0,001% e anche meno.

 

 

  • e) Spese di sfitto ed insolvenza. – Così variano le spese dovute agli sfitti ed alla insolvenza degli inquilini. Non da per tutto questi fitti uguale intensità. Vi sono, specialmente nei villaggi, case in cui, quando un alloggio rimane sfitto, possono mancare gli inquilini per anni; mentre è più difficile ciò avvenga nella città. Può darsi che un appartamento di 20 camere duri fatica a trovare inquilini; mentre si trovano sempre ad affittare gli appartamenti da una o poche camere, corrispondenti alla gran maggioranza delle borse modeste.

 

 

Il pericolo dell’insolvenza è facile dove l’inquilino non ha niente di suo, oppure solo quel mobilio indispensabile che dalla legge viene sottratto a ogni sequestro, nel quale caso può darsi anzi che il proprietario trovi convenienza a dare qualche cosa all’inquilino perché se ne vada. È difficile potersi garantire dal pericolo dell’insolvenza, perché i proprietari che sfrattano l’inquilino non si prendono la briga di fargli un certificato d’insolvenza, e, pur di vederlo andar via, sono disposti a rilasciarli attestazioni di stima e puntualità.

 

 

  • f) Minore o maggiore importanza della parte edilizia in confronto all’area. – Un altra causa della variazione delle spese che gravano sul reddito lordo è la diversa composizione dello stesso reddito lordo. Esso per i fabbricati può ritenersi composto, per brevità, di due parti: una parte è rimunerazione del capitale investito nella casa e una parte è rimunerazione del capitale investito nell’area costruita. Prendiamo due case, una signorile, l’altra operaia, che diamo lo stesso reddito lordo di 20.000 lire. La casa signorile sarà situata, probabilmente, su un terreno centrale, o in un quartiere alla moda, il quale perciò avrà molto valore: quindi una notevole parte delle 20.000 lire di reddito, per es: 8.000 lire, costituirà il reddito puro e semplice dell’area, le altre 12.000 lire di reddito saranno il reddito dei capitale impiagati nella costruzione.

 

 

La casa operaia invece sarà situata in un quartiere eccentrico, e quindi il terreno, su cui si trova, avrà relativamente un valore scarso, di guisa che delle 20.000 lire soltanto 2.000, per esempio, rappresentano il reddito dell’area; le altre 18.000 saranno il reddito della costruzione.

 

 

È da osservare ora che, per quanto riguarda l’area, il reddito netto è quasi uguale al reddito lordo, non dovendosi detrarre spese di riparazione, di ammortamento, di assicurazione mentre, per ottenere il reddito netto dei capitali impiegati nella costruzione, bisogna detrarre dal reddito lordo tutte le varie quote di spesa di cui abbiamo parlato. Seguitando nell’esempio ora fatto la casa signorile avrà un reddito di 8.000 lire dell’area, tutto franco da spese, perché l’area né si ripara, né si ammortizza, né si assicura ed un reddito di 12 mila lire della costruzione, di cui un sesto, ossia 2 mila lire va in spese, lasciando nette 10 mila lire. Totale reddito netto 18 mila lire. Nella casa popolare solo 2 mila lire sono nette da spese poiché reddito di area; e supponendo che un sesto, ossia 3 mila lire delle restanti 18 mila lire, sia assorbito da spese, il reddito netto risulta di 2+(18-3)=17 mila lire. Ecco come la diversa importanza dell’area influisce e fa variare le spese da 2 a 3 mila lire ed il reddito da 18 a 17 mila lire.

 

 

Concludendo, se si dovesse procedere correttamente, che cosa si dovrebbe fare? Si dovrebbe formare un catasto delle case. In esso dovrebbe essere descritta e raffigurata, nelle sue varie parti, ogni casa. Si dovrebbe compiere un’analisi del reddito lordo di ogni casa e delle spese relative.

 

 

L’analisi potrebbe essere facilitata, compiendola per gruppi di case che si assomigliano, per posizione, esposizione, vicinanza a stabilimenti industriali ed uffici pubblici, metodo di costruzione, classe di inquilini, ecc. ecc.

 

 

456. Quale sia stato il sistema praticamente seguito per tener conto delle spese: detrazioni uniformi del terzo e del quarto. – Purtroppo tutte queste operazioni sono parse tanto compilate al legislatore italiano, ch’egli ha stabilito di non compierle affatto. Egli si è limitato a dire che debba essere accertato il reddito lordo della casa e che poi da questo reddito lordo debba essere detratta una percentuale di spesa, che è uniforme da una parte per tutte le case civili e dall’altra per tutti gli opifici. Per le case civili vi è la detrazione di 1/4 del reddito lordo, e di 1/3 per gli edifici industriali. Così una casa civile il cui reddito lordo o somma dei fitti effettivi o presunti pagati dagli inquilini è di 10 mila lire, è tassata su 10.000 meno 2500 (che è un quarto di 10 mila), ossia su 75.000 lire. Un opificio industriale dello stesso reddito lordo di 10.000 lire è tassato su 10 mila meno 3.333,33 (che è un terzo di 10 mila) lire di spese presunte, ossia su 6.666,66 lire. E tutte le case civili e tutti gli opifici sono trattati alla medesima stregua.

 

 

457. Come l’imposta sui fabbricati sia perciò una vera decima. – Il legislatore ha immaginato di aver così risolto il problema; ma in realtà il metodo delle detrazioni uniforme del terzo e del quarto fa siche la nostra imposta sui fabbricati sia ben lungi all’essere una imposta sul reddito netto, ma sia invece una imposta sul reddito lordo, e non tenga affatto conto delle spese cui il reddito lordo è sottoposto. In apparenza si dice: i fabbricati civili che hanno un reddito netto di 10.000 lire sono tassati soltanto su 7.500 lire perché 2.500 sono spesa; e sulle 7.500 nette cade l’imposta che è del 16,50 per cento. Ora si vede subito, facendo la proporzione, che una imposta del 16,50 per cento (aliquota erariale, senza i centesimi addizionali comunali e provinciali) sui 3/4 di 10.000 lire è perfettamente equivalente ad una imposta dei 3/4 di 16,50 per cento su tutte le 10.000 lire. Nella forma l’imposta sui fabbricati colpisce col 16,50 per cento il reddito netto, nella realtà colpisce coi 3/4 (fabbricati civili) o col 2/3 (fabbricati industriali) del 16,50 per cento tutto il reddito lordo.

 

 

Si sarebbe detto cosa più chiara, assoggettando i fabbricati civili ad un imposta del 12,375 per cento i fabbricati industriali ad una dell’11 per cento sull’intero reddito lordo. Ma poiché si voleva salvare il principio, generale per le tre imposte dirette sul reddito, di tassare il reddito netto, si finse di dedurre le spese tassando sui soli 3/4 o 2/3 del lordo.

 

 

In realtà con ciò non si fece altro se non ridurre di 1/4 o di 1/3 l’aliquota dell’imposta sul lordo.

 

 

Supponiamo tre case che rendano ugualmente 10.000 lire lorde; ma siamo diverse le spese effettive tutte insieme considerate e siano le tre case tutte civili, su cui si applica la detrazione costante del quarto. L’esempio può adattarsi, al caso dei fabbricati industriali.

 

 

 

A

B

C

Reddito lordo

10.000

10.000

10.000

Deduzione legale per spese

2.500

2.500

2.500

Reddito netto legale

7.500

7.500

7.500

Spese effettive

1.500

2.000

2.500

Reddito netto effettivo

8.500

8.000

7.500

Ammontare dell’imposta del 16,50% sul reddito netto legale

1.237,50

1.237,50

1.237,50

Proporzione (aliquota) percentuale dell’imposta pagata al reddito lordo

12,37½

12,37½

12,37½

Proporzione (aliquota) percentuale dell’imposta pagata al reddito netto legale

16,50

16,50

16,50

Proporzione (aliquota) percentuale dell’imposta pagata al reddito netto effettivo

14,55

15,46

16,50

 

 

Vediamo che l’imposta italiana sui fabbricati in apparenza è una imposta uniforme sul reddito netto; in realtà è uniforme solo sul lordo è variabile sul netto. Poiché il reddito netto legale non ha nessuna apparenza; è una finzione del legislatore che non esiste nella realtà, nella quale esistono solo i redditi lordi di 10.000 lire ed i netti effettivi di 8.500, 8.000, 7.500 lire. Ragguagliata e questi ultimi, l’aliquota dell’imposta è variabile. Noi conosciamo già il nome di questo tipo di imposta: decima; e già ne abbiamo esaminati i difetti e i danni (cfr. par. 230-32).

 

 

458. Difetti e danni del metodo della decima applicato all’imposta sui fabbricati. – I medesimi inconvenienti allora segnalati per la decima sui terreni si riscontrano per la decima sui fabbricati vigenti in Italia.

 

 

Innanzi tutto l’imposta è sperequata. L’imposta deve ragguagliarsi al reddito netto e non al lordo; e noi vediamo dal nostro esempio schematico che l’imposta sui fabbricati è del 14,44, 15,46 e 16,50 per ogni cento lire di reddito netto effettivo; ed in realtà le differenze possono essere ancor maggiori che nello schema dianzi compilato.

 

 

Inoltre l’imposta-decima danneggia i fabbricati del tipo B in confronto di quelli a tipo A e quelli a tipo C in confronto a quelli del tipo A e B; e in genere si può dire che la proporzione dell’imposta al reddito netto effettivo, la quale indica la vera passione dell’imposta sui contribuenti, tanto più cresce quanto più si elevano le spese effettive in confronto al reddito lordo. In altre parole le imposta decima è più pesante per le case dove le spese sono gravi che per le case in cui le spese sono leggere; e quindi favorisce la costruzione delle seconde a danno delle prime. Ciò è già in sé stesso dannoso, perché l’imposta non ha per ufficio di favorire più l’uno che l’altro impiego di capitali; anzi deve mantenersi imparziale dinnanzi alle diverse maniere di agire del contribuente. Ma il danno cresce, quando si pensa che le case ad alte spese sono (vedasi il precedente par. 455) le destinate ad abitazione di famiglia ricche e scarse.

 

 

Onde si vede che il nostro metodo di detrazione di quote uniformi a titolo di spesa, trasformando l’imposta in vera decima, produce l’effetto di incoraggiare la costruzione delle case signorili e di scoraggiare la costruzione di case popolari ed operaie. E chi fa ciò è quel medesimo legislatore, il quale si affanna, con altre leggi, ad incoraggiare, in modi spessissimo inefficaci, la costruzione di case popolari!

 

 

459. Dalle diverse maniere di ridurre gli inconvenienti della decima sui fabbricati. – Dalla constatazione dei danni prodotti dalla imperfetta maniera, tenuta da noi, di valutare le spese, discendono logicamente le proposte di varie possibili maniera di togliere i segnalati inconvenienti:

 

 

  • a) di cui la prima sarebbe di fare la valutazione delle spese effettive, casa per casa, come già si fa, casa per casa, la valutazione del reddito lordo. Ma si afferma che ciò sia troppo difficile, costoso e facilmente soggetto a tentativi di frodi da parte dei contribuenti. E si può ammettere che in queste obbiezioni vi sia qualcosa di vero;
  • b) laonde un secondo metodo si presenta ovvio; ed è quello di classificare le case in tre o quattro tipo principali e ad ogni tipo applicare una differente quota di detrazione. Se, per esempio, seguitando nello schema sopra costrutto, invece di una detrazione costante per spese del 25%, si stabilissero tre quote diverse del 15,20 e 25% per i tre tipi diversi di case A, B e C a basso, medio ed alto costo di gestione, gli inconvenienti non sarebbero tolti del tutto; ma almeno sarebbero diminuiti; poiché nel primo gruppo si potrebbero mettere tutte le case in cui le spese di amministrazione non superano il 15%, nel secondo quelle in cui non sono superiori al 20% e nel terzo quelle in cui le spese superano il 20 per cento. In tal modo gli errori non sarebbero tolti del tutto, perché godrebbero della frazione legale del 15% e sarebbero considerati come aventi un reddito di 8500 lire, anche i fabbricati in cui le spese sono solo del 10 o 12% del reddito; e quindi questi sarebbero tassati su un reddito netto presunto minore dell’effettivo. Ma l’inconveniente sarebbero minore d’ora, quando addirittura si presume tutte le case siano soggette ad una quota di spesa del 25 per cento. Certo il sistema proposto presenta qualche difficoltà; essendo più semplice supporre che le spese siano uniforme, che fare tre o quattro categorie di case a seconda dell’altezza proporzionale delle spese; ma è difficoltà non insuperabile, che a mano a mano potrebbe essere superata col perfezionamento progressivo dell’abilità ed esperienza degli organi fiscali incaricati di fare le stime;
  • c) un terzo metodo sarebbe questo: abbandonare addirittura la tassazione del reddito lordo o netto e proporzionare l’imposta al valore capitale delle case. Sia l’imposta dell’1% sul valore delle case in comune in commercio; e siano le solite case dei tre tipi, ad alto, medio e basso costo di gestione:

 

 

 

A

B

C

Reddito lordo

10.000

10.000

10.000

Spese effettive

1.500

2.000

2.500

Reddito netto effettivo al netto dell’imposta

8.500

8.000

7.500

Tasso di capitalizzazione netto %

4

4

4

Imposta %

1

1

1

Tasso di capitalizzazione lordo %

5

5

5

Valore capitale

170.000

160.000

150.000

Ammontare dell’imposta dell’1%

1.700

1.600

1.500

Reddito effettivo al netto dell’imposta

6.800

6.400

6.000

Totale come sopra

8.500

8.000

7.500

 

 

Lo schema metta in chiaro come funzionerebbe l’imposta. La casa A del reddito lordo di 10.000 lire e che sopporta 1.500 lire di spese effettive, dà un reddito netto effettivo di L. 8.500, nette da ogni altra spesa, ma non ancora dall’imposta. Per calcolare l’imposta, bisogna sapere quale è il valor capitale della casa in comune commercio. Si sa che i valori capitali si deducono dal reddito netto e da un certo tasso di interesse. Se il tasso di interesse è del 4% netto da imposte per gli impieghi del tipo di quelli in case, è evidente che il capitale in essa investito deve rendere il 4%, più 1% a titolo di imposta, in tutto il 5%. Capitalizzando al 5% il reddito annuo, netto da ogni spesa, ma ancora al lordo da imposte, di L. 8.500 otteniamo il valore capitale di L. 170.000. L’imposta dell’1% su 170.000 lire risulta di L. 1.700, e il reddito netto residuo, deducendo le 1.700 lire delle 8.500, è di 6.800 lire, che sono appunto il 4% del capitale di L. 170.000. Ripetasi il calcolo sulle altre due case e si otterranno in L. 1.600 e 1.500 gli ammontari rispettivi dell’imposta. Si vede che l’imposta è minore dove le spese sono maggiori ed è una proporzione costante, il 20%, del reddito netto di L. 8.500, 8.000 e 7.500. Proporzionando le aliquote, si può far si che l’imposta sia uguale al 10, o 15, o 20, o 25% del reddito netto, come si desidera.

 

 

Come accade che, cambiando l’imposta da una proporzione del reddito lordo ad una proporzione del capitale si fa in modo che l’imposta sia proporzionata al reddito netto? Perché sul mercato si capitalizzano non mai i redditi lordi, bensì solo i netti; e quindi l’imposta essendo proporzionale al valore capitale e questo essendo proporzionale ai redditi netti, l’imposta riesce proporzionale ai redditi netti.

 

 

Sembra difficile però che si possa mutare d’un tratto il sistema di commisurazione delle imposte, riferendole une al reddito e le altre al valore capitale; senza tener calcolo di alcuni altri inconvenienti derivanti dal fatto che il mercato non valuta tutte le case al medesimo tasso di interesse, 4%, ma le une valute al 4, le altre al 4 1/2, e la terza al 5%, cosicché i valori capitali potrebbero non essere più rispondenti al reddito netto od almeno a quel reddito netto che si vuol colpire. Laonde sembra che il partito più sicuro sia ancora il secondo, di classificare le case in tre o quattro tipi principali ed a ciascuno di essi applicare una diversa quota di detrazione.

 

 

460. Esenzioni e condoni di imposta che hanno per iscopo di tener conto di talune spese particolarmente importanti: l’esenzione per il biennio o triennio iniziale. – Il legislatore italiano si è trovato però dinnanzi a taluni casi di spese importanti od eccezionali che in nessuna maniera possano essere contenute nel quarto o terzo di detrazione normale. Ed in questi casi ha concesso sospensioni o condoni temporanei d’imposta. Uno dei casi più importanti è quello del periodo iniziale di tempo dopo la costruzione della casa. Notisi che per «spesa» noi intendiamo anche l’assenza di reddito che normalmente dovrebbe esistere.

 

 

Una casa dovrebbe rendere 10.000 lire lorde; ma per un anno non può essere utilizzata, onde si perdono 10.000 e il reddito netto si riduce a zero. La perdita delle 10.000 lire è una vera «spesa». Ora è notorio che, nei primi anni in cui una casa è costrutta od un opificio è attivato, non sempre si riesce ad affittare del tutto la casa od a trarre un utile dall’opificio industriale; ci sono perdite iniziali da sopportare, spese di avviamento dell’industria da ammortizzare. Perciò il legislatore saggiamente ha voluto che la case civili fossero assoggettate ad imposta solo dopo due anni dalla data in cui lo stabile fu dichiarato abitabile; e dopo tre anni se trattasi di fabbricati industriali, definiti come sopra si disse, ossia fabbricati destinati specialmente ad una industria o manifattura e muniti di meccanismi od apparecchi immobili per necessaria infissione, come pure quelli, che senza essere muniti di meccanismi od apparecchi fissi, sono formati in modo da non potere servire ad altri usi manifattieri o commerciali (mulini, forni, fornaci, ecc.).

 

 

461. L’esenzione o rimborso per sfitti. – Così un’altra causa di perdite rilevanti è lo sfitto. Del quale, trattandosi di sfitti parziali o di breve durata, già si tiene conto nella deduzione del terzo o del quarto. Ma sorge il legittimo quesito, se queste detrazioni possano tener conto degli sfitti duraturi per lungo tempo ed estesi a tutto il fabbricato. Ed anche qui correttamente il legislatore con l’art. 9 della legge 11 luglio 1889 prescrisse doversi accordare il rimborso dell’imposta quando un fabbricato civile destinato ad affitto rimanga intieramente chiuso e non affittato pel corso interrotto di un anno, oppure quando un opificio rimanga inattivo per lo stesso periodo di tempo.

 

 

Come si deduce dal contesto della norma ora citata: 1) l’esenzione per sfitto si concede solo per i fabbricati destinati ad essere affittati, quindi non per le case o palazzi abitabili normalmente dal proprietario medesimo, e cioè i castelli, i luoghi di delizia o di villeggiatura. Si pensò che la nono abitazione è un fatto ordinario per queste case, e se ne tiene conto nella estimazione del reddito che viene tenuta più bassa; 2) lo sfitto deve essere assoluto, ossia deve verificarsi per tutto un dato fabbricato civile, spettante allo stesso proprietario. Quindi se una casa composta di 10 appartamenti, ne ha nove sfitti ed uno solo affittato o magari abitato dallo stesso proprietario, non può fruire dell’esenzione per sfitto; 3) per gli opifici industriali è condizione sufficiente che essi rimangano «inattivi» per quanto ha tratto all’esercizio dall’industria potendo un locale adiacente essere destinato ad uso di abitazione dell’industriale od a locale di commercio dei prodotti in precedenza fabbricati in essi; 4) la durata dello sfitto e della inattività deve essere di un anno non interrotto.

 

 

Contro questa condizione e contro l’altra che lo sfitto sia totale si mossero molte lagnanze dai proprietari; i quali non del tutto a torto si lamentano di dover pagare imposta anche quando ottengano solo metà od un terzo dei fitti consueti. D’altro conto fare larghe concessioni di condoni per sfitti potrebbe equivalere, dato che degli sfitti già si tenne conto nella detrazione di un quarto o di un terzo, ad incoraggiare i proprietari, non più costretti a pagare ugualmente le imposte, a tenere i locali vuoti nella speranza di ottenere fitti più elevati. Forse una soluzione praticamente possibile sarebbe quella di concedere condoni proporzionati per sfitti, quando lo sfitto o l’inattività, oltre a durare un anno intiero, si riferisse ad almeno metà del fabbricato. Ciò anche nell’intento di evitare frodi.

 

 

462. Gli accertamenti dei redditi. – Questi si fanno ad opera dell’amministrazione finanziaria, ogni volta venga costrutto un fabbricato nuovo o venga sopraelevato, ampliato, abbattuto, od altrimenti modificato un fabbricato antico. In tal caso si fa luogo all’estimazione del reddito da parte dell’amministrazione, salvo al contribuente il diritto di fare opposizione, dopo invano essersi esperita la via del concordato amichevole, dinnanzi alle commissioni delle imposte dirette, di cui ve n’ha di tre ordini, comunale, provinciale e centrale, le prime due competenti per ogni specie di questioni, le ultime solo per le questioni di diritto, non per questioni riflettenti fatti o stime di redditi, e salvo facoltà di ricorso alla magistratura ordinaria, come meglio si dirà parlando dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

463. Le revisioni generali. – La stima dei redditi edilizi non può essere perpetua, onde il legislatore provvede a revisioni, le quali possono essere generali o parziali. Le revisioni generali si compiono per tutto il territorio del regno e devono essere ordinate per legge. In origine, s’era detto che le revisioni dovessero farsi ogni quinquennio. Di fatto dopo il 1865, data d’origine dell’imposta, si ebbero tre sole revisioni generali, nel 1870, nel 1877 e nel 1889.

 

 

La mancanza di una revisione generale dopo il 1889 condusse a risultati deplorevoli. Le stime del 1889 più non corrispondono ai redditi d’oggi; spesso sono inferiori, e non infrequentemente superiori. Inoltre si ha una forte sperequazione fra i fabbricati vecchi, censiti secondo i fitti del 1889 ed i nuovi, censiti secondo i fitti che correvano all’epoca della costruzione. Ecco uno schema dei casi che si possono presentare:

 

 

 

Case vecchie stimate nel 1889

Casa nuova stimata nel 1913

 

A

B

C

Reddito lordo legale

L. 8.000

12.000

10.000

Reddito lordo effettivo attuale

10.000

10.000

10.000

Aliquota dell’imposta (erariale comunale e provinciale) sul reddito legale netto: 40%, equivalente ad una aliquota sul lordo legale del

30%

30%

30%

Imposta pagata

2.400

3.600

3.000

Proporzione dell’imposta pagata al reddito lordo effettivo

24%

36%

30%

 

 

La casa A, in cui il reddito lordo nel 1889 era di 8.000 lire, continua a pagare solo 2.400 lire d’imposta, sebbene il suo reddito sia salito a 10.000; la casa B, paga tuttora 3.600 lire solo perché nel 1889 il suo reddito era di lire 12.000, trascurando il fatto che il reddito è ora diminuito a 10.000 lire; e la sola casa C, essendo di costruzione recentissima, paga su tutto il reddito effettivo.

 

 

Una revisione generale si impone dunque; quanto più si tarderà a farla, tanto più cresceranno le opposizioni dei proprietari del tipo A, i quali sono i più numerosi di tutti. A renderla bene accetta, il legislatore potrebbe diminuire l’aliquota al disotto del 16,505, sicuro, come sarebbe, di ottenere ciò nonostante un forte aumento di provento; e potrebbe cogliere l’occasione per attuare la riforma, che fu sopra accennata (cfr. pag. 459), consistente del dividere i fabbricati in più gruppi ed applicare ad essi una detrazione differente per spese. Sempre per rendere bene accetta la revisione generale, si potrebbe anche fissare la detrazione minima al 25%, come è oggi la detrazione uniforme, ed aumentare al 30 e al 35% le detrazioni per le case in cui le spese sono più forti, ossia per le case di abitazione delle classi medie e popolari. Il fisco farebbe sempre un buon affare, tanto grave è il divario fra i fitti d’una volta e quello d’oggi, almeno in moltissimi luoghi.

 

 

464. Le revisioni parziali. – Per diminuire i danni delle mancate revisioni generali, le agenzie delle imposte si appigliano al rimedio delle revisioni parziali, le quali si possono fare, senza uopo di legge nuova, ma per espressa disposizione della legge vigente, casa per casa, quando concorrano espressamente le due condizioni seguenti:

 

 

  • a) che i redditi dei fabbricati riveduti siano aumentati o diminuiti almeno del terzo in confronto del reddito precedentemente accertato. Così per un fabbricato, il cui reddito sia stato accertato in lire 10.000, potrà operarsi la revisione parziale quando il reddito sia aumentato a 13.333,33 o diminuito a 6.666,66 lire.
  • b) che la variazione sia dipendente da causa con effetto continuativo.

 

 

Si capisce che la prima condizione, essendo puramente numerica, non offra campo a dibattiti di principio, ma tutt’al più ad avvedimenti pratici da parte dei proprietari per non lasciare accertare un aumento del terzo, tenendosi al disotto di L. 13.333,33 o per esagerare le diminuzioni, in guisa da arrivare alle L. 666,66. Mentre il fisco esagererà in senso contrario. Tutte cose in cui la scienza non ha occasione di intromettersi.

 

 

Vivaci sono invece i dibattiti intorno alla seconda condizione, per cui l’aumento deve derivare da causa con effetto continuativo. Per lungo tempo prevalse una interpretazione restrittiva di questa condizione: volendosi cioè che la causa, oltre ad essere tale da produrre effetti permanenti, duraturi, fosse particolare per il fabbricato in questione; così ad esempio ritenendosi che fosse causa con effetto continuativo lo ampliamento di una via o di una piazza, la vetustà della costruzione, che avessero aumentato o diminuito permanentemente il reddito della casa. Così pure la trasformazione di una casa di abitazione civile ad uso albergo o di uffici o di negozi, ecc. ecc. Sempre cioè doveva essere dimostrato che la causa dell’aumento o della diminuzione del reddito stava nello stesso edificio, od in circostanze aventi un diretto rapporto con l’edificio.

 

 

Ma via via, sotto la pressione del fisco, desideroso di assoggettare ad imposta i notevoli aumenti di reddito verificatisi, specie nelle grandi città, si andò affermando una opinione più lata la quale dichiara potersi considerare cause con effetto continuativo anche quelle che hanno tratto alle condizioni generali del comune, o di tutto un quartiere di esso o di tutta una categoria di edifici nel comune. In sostanza se i fitti in generale sono aumentati in una città e se l’aumento è dovuto ad aumento della popolazione, ad incremento dei traffici, ad apertura di nuove vie di comunicazione, si afferma che esiste la causa con effetto continuativo e si procede a revisione parziale per quelle case per cui l’aumento è stato di un terzo almeno. Contro la quale più larga interpretazione nulla ci sarebbe da obiettare, specialmente essendo persuasi che il pregio massimo delle imposte è la loro uguaglianza o perequazione. Ma si rimane in dubbio se si pensa.

 

 

  • 1) che il fisco, tanto sollecito ad accertare l’esistenza di cause di aumento con effetto continuativo, è assai restio a riconoscere l’esistenza di cause analoghe di diminuzione di reddito; ed allora richiede prove minuziose e precise e riferite alle singole case, di cui il contribuente pretende diminuiti i fitti. La ragione dei due pesi e due misure non si vede;
  • 2) che le revisioni parziali non possono mai estendersi alla generalità delle case; ma possono essere compiuti solo in quei casi in cui l’aumento sia evidentemente molto forte e possa essere riferito ad una causa permanente purchessia. Laonde le revisioni parziali saranno sempre sperequate e vi sono forti ragioni per credere che non si compiono dappertutto, ma prediligano le città ed i borghi in cui si è sicuri di non trovare troppa opposizione. Esse saranno perciò mai sempre sperequate;
  • 3) né si dimentichi che le revisioni parziali non possono operarsi se l’aumento o la diminuzione del reddito non giunga al terzo; regola rigidamente osservata specie quanto alle diminuzioni.

 

 

Concludendo, alle revisioni speciali sembra sia di gran lunga da preferirsi la revisione generale, compiuta con quegli avvedimenti che sopra si dissero.

 

 

Sezione terza

 

L’imposta sui redditi di ricchezza mobile.

 

456. Preliminari. Come essa sia una imposta generale residuale sui redditi. – L’imposta sui redditi di ricchezza mobile, benché ultima venuta in ordine storico e logico, è diventata la più importante delle tre imposte italiane sui redditi. I proventi annui che da esse si ricavano, malgrado talune recenti ragguardevoli esenzioni, battono sui 300 milioni di lire all’anno; mentre l’imposta sui fabbricati frutta 100 milioni e soltanto 80 l’imposta e soltanto 80 l’imposta sui terreni. Il qual fatto è dovuto al crescere dei redditi di lavoro e degli impieghi di capitali non investiti in terreni e fabbricati. L’agricoltura si è industrializzata; e quindi sono cresciuti i redditi degli affittaiuoli e degli altri coltivatori della terra, redditi che non essendo dominicali, non sono colpiti dall’imposta sui terreni.

 

 

Commerci, industrie hanno importanza assai più grande d’un giorno; le popolazioni che si affittiscono nelle città e nei borghi industriali hanno redditi professionali, di impieghi, pubblici e privati, di lavoro, ecc. ecc. che non derivano dalla proprietà terriera od edilizia. Si sono moltiplicate le forme di impiego di risparmio; il capitalista oltre che terre, oggi può far mutui, comprare azioni, obbligazioni titoli di Stato. Di qui la necessità di una imposta la quale colpisce tutti gli svariatissimi redditi che non rientrano nel ristretto campo di quei due che sono tassati colle imposte fondiarie.

 

 

Laonde già cominciamo a scorgere netto uno dei caratteri fondamentali della imposta di ricchezza mobile. In sostanza, essa è una vara imposta generale sul reddito, sul tipo della income tax inglese; è, cioè, un conglomerato di parecchie imposte, le quali vogliono esaurire l’intiero campo tributario, nulla immune da tassazione. Salvo due eccezioni: i redditi dei terreni e dei fabbricati, per cui esistono già due organismi speciali tributari. Ma, ogni volta i terreni ed i fabbricati medesimi diano luogo ad un reddito – sia quello del fittaiolo o del segretario di case, o dello speculatore su terreni o case – che non sia già colpito dalle due imposte fondiarie, essi soggiacciono all’imposizione mobiliare. L’imposta di ricchezza mobile è dunque, quando non si dimentichi la contemporanea esistenza delle altre due imposte, una vera imposta generale sui redditi; e può anche essere detta residuale, perché vuol colpire tutti i redditi, che non siano stati tassati dalle altre due imposte.

 

 

Per l’ampiezza della materia imponibile sua, l’imposta mobiliare richiede più vario discorso che non l’imposte fondiarie; e noi divideremo la trattazione in varie parti; studiando anzitutto il soggetto dell’imposta; poi il luogo a cui si devono riferire i redditi soggetti al tributo; in terzo luogo l’oggetto dell’imposta; e qui verranno in, campo le discussioni più gravi; e finalmente i metodi di valutazione, accertamento e riscossione dell’imposta.

 

 

A) Soggetto dell’imposta di ricchezza mobile.

 

466. Persone fisiche e persone giuridiche come soggetti d’imposta. – La questione del soggetto d’imposta aveva poca importanza per le due imposte fondiarie; poiché, dovendosi pagare il tributo su tutte le terre e gli edifici esistenti nel regno, nulla poteva sfuggire all’imposta qualunque definizione si fosse dato del soggetto dell’imposta. In questa terza imposta mobiliare, si ha riguardo, è vero, ai redditi oggettivamente esistenti; ma poiché i redditi mobiliari sono spessissimo legati alla persona di chi li produce, e, scomparsa od ignorata la persona, scompaiono o rimangono ignoti altresì i redditi, è evidentemente necessario definire quali sono i soggetti tenuti a pagare l’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Il problema principale era il seguente: sono soltanto le persone fisiche od anche le persone giuridiche od altri enti creati o riconosciuti dal legislatore e non aventi vita fisica gli obbligati a pagare l’imposta? La risposta al quesito derivava dalla natura del tributo.

 

 

Questa non è già una imposta globale sul reddito, esatta all’arrivo del reddito presso chi ne potrà godere (cfr. par. 392 e segg.); nel qual caso sarebbe stato logico che percuotesse solo le persone fisiche, le quali unicamente possono godere la ricchezza. Essa invece è una imposta sulla diverse categorie di reddito, esatta, possibilmente, alla partenza del reddito presso chi lo paga. Onde convenne dichiarare che soggetto dell’imposta potessero essere tanto le persone fisiche, quanto le persone giuridiche, in guisa da poter imporre l’obbligo tributario anche agli enti o società che pagano il reddito alle persone fisiche. Epperciò l’art. 2 della legge fondamentale (del 24 agosto 1877, n. 4021) afferma: «Ogni individuo od ente morale, sia dello Stato che straniero, è tenuto all’imposta sui redditi della ricchezza mobile che ha nello Stato». La condizione prima, perché vi sia l’obbligo tributario è che esista un reddito mobiliare; ma dato ciò, non importa che chi lo ha sia, come impropriamente si esprime il legislatore, un «individuo» ovvero sia un «ente morale». Chi sia l’«individuo» dell’art. 2 è chiaro: le persone fisiche. Ed è detto altresì esplicitamente che la persona fisica può essere cittadina o straniera. Quando abbia nello Stato reddito mobiliare, è «soggetto» d’imposta. Maggiori chiarimenti esige la parola «ente morale».

 

 

467. Chi sono gli enti morali soggetti dell’imposta. – Parecchi sono gli enti i quali possono farsi rientrare sotto questa denominazione.

 

 

  • a) gli enti morali propriamente detti, sia corporazione che fondazione, come le provincie, i comuni, le opere pie, gli enti legalmente riconosciuti come persone giuridiche;
  • b) le società commerciali, legalmente costituite, in quanto queste società sono strumenti per la produzione del reddito. Naturalmente il reddito, essendo tassato al nome della società non è più tassato al nome dei soci, salvo in ognuno di questi l’obbligo di dichiarare i redditi mobiliari che possedessero indipendentemente dalla società;
  • c) le società di fatto, che la giurisprudenza sempre più considera come aventi una personalità propria, indipendente dalle persone dei soci. Valgono del resto, dal punto di vista fiscale, le stesse considerazioni di convenienza che furono fatte (cfr. par. 398) per spiegare l’utilità di tassare i contribuenti veri, che sono i soci, al nome di questi contribuenti fittizi;
  • d) le società civili, le quali abbiano redditi mobiliari, per le stesse ragioni ora dette;
  • e) le eredità giacenti ed accettate col beneficio di inventario, e ciò per evitare che i redditi relativi sfuggano ad imposta;
  • f) le colonie parziarie e le affittanze agrarie, anche se i coloni siano parecchi, purché siano coloni di un medesimo fondo e di uno stesso proprietario. Ciò ha la solita motivazione: non essere conveniente al fisco tassare il colono singolo, che potrebbe essere insolvente; ma tassare l’ente fittizio «colonia parziaria o mezzadria», che si presume domiciliato presso il proprietario, il quale dovrà pagare l’imposta, salvo a lui il diritto di rivalersi sul colono o sui parecchi coloni da lui dipendenti.

 

 

Vediamo dunque che il concetto dell’«ente morale» ai fini tributari è assai più vasto di quanto non sia per altri fini; e meglio possa adoperarsi la parola «ente collettivo», con la quale appunto si sogliono indicare nel linguaggio amministrativo finanziario tutti i contribuenti che non son persone fisiche, ma aggregati o collettività di persone che insieme contribuiscono capitale o lavoro od amendue per produrre reddito, oltre, s’intende, gli enti morali propriamente detti. Ricordiamo però sempre che questo del considerare contribuenti gli enti collettivi è solo un avvedimento fiscalmente opportuno, usato allo scopo di meglio colpire i contribuenti veri, che sono le persone fisiche, per conto di cui i contribuenti enti collettivi producono il reddito. Gli enti collettivi non sono cioè tassati per sé stessi, ma in qualità di esattori per conto del fisco. Producono il reddito a favore delle persone fisiche ed, innanzi di versarlo ad esse, ne deducano la tangente di tributo da solvere al fisco.

 

 

B) Il luogo dell’imposta.

 

468. Generalità. – La determinazione del campo territoriale a cui si riferisce l’imposta ha grande importanza; perché è chiaro essere diversa la massa dei redditi assoggettabili a seconda che l’imposta possa o non possa estendere la sua azione oltre i confini del territorio dell’ente che preleva il tributo. I metodi all’uopo seguiti possono essenzialmente dividersi in due tipi:

 

 

  • a) se l’imposta è reale, ossia colpisce i redditi separatamente all’origine, presso la cosa o fonte produttiva del reddito, di solito il suo campo di applicazione è ristretto al territorio dove sono situate le fonti del reddito. Supponendo che l’imposta sia di Stato, essa colpirà le case, i terreni, le industrie, le professioni, gli impieghi, i mutui esistenti o domiciliari nel territorio dello Stato e che ivi producono reddito; non potendo manifestamente l’imposta trascorrere oltre i confini del territorio dove sono situate le fonti del reddito.
  • b) o l’imposta è personale e vuol colpire l’intiero reddito guadagnato della persona fisica; ed in quanto caso essa trascende i confini dello Stato. Ed invero il reddito guadagnato di Tizio è dato dalla differenza fra il patrimonio al principio ed il patrimonio alla fine dell’anno; ed a nulla monta quale sia il luogo da cui proviene l’incremento di ricchezza avuto nell’anno. Sempre questo incremento è reddito per Tizio; e deve essere colpito dall’imposta che si riferisce a Tizio.

 

 

Tra questi due tipi estremi di imposta, vi ha una varietà infinita di variazione intermedie, a cui si accostano i diversi legislatori. In Italia il tipo seguito si può dire sia quasi intieramente il primo. Del che non si può dubitare rispetto all’imposta sui terreni e sui fabbricati. Come, invero, sarebbe possibile che lo Stato italiano potesse colpire d’imposta il reddito dei terreni e di case situate all’estero? È possibile che l’imposta italiana colpisca Tizio, cittadino italiano o straniero residente in Italia, su tutto il suo reddito e quindi anche sul reddito di terreni o fabbricati posti all’estero; ma non è pensabile che una imposta italiana colpisca, come tali, terreni posti fuori del raggio dalla sovranità italiana; come neppure è pensabile che la sovrimposta provinciale di Torino colpisca terreni posti in provincia di Milano, o che sovrimposta comunale di Genova, colpisca terreni o case situate nel territorio di Roma.

 

 

469. Territorialità dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile. – Poteva dubitarsi se il medesimo dovesse applicarsi ai redditi mobiliari, posseduti all’estero. Ma la discussione parlamentare, sovratutto in Senato, mise in chiaro come, essendo l’imposta di ricchezza mobile una imposta reale, la quale colpisce le cose e non le persone, essa può colpire soltanto i redditi che si producono, che hanno la loro provenienza, la loro origine nello Stato, non quelli che si producono all’estero. Vi furono, è vero, specialmente alla Camera, numerosi oratori i quali sostennero la scorrettezza di lasciare immuni da imposta quei cittadini italiani, i quali, vivendo in Italia e godendo della protezione delle leggi e del governo italiano, traevano loro reddito da fonti straniere, come ad es., dal possesso di titoli di debito pubblico o da azioni di imprese d’altri paesi.

 

 

E si additava l’esempio dell’Inghilterra, dove malgrado l’income tax sia un conglomerato di parecchie imposte reali, come l’italiana imposta di ricchezza mobile, non si era temuto di fare uno strappo alla rigida teoria della territorialità, tassando anche i redditi provenienti dall’estero e spettanti a cittadini inglesi.

 

 

Prevalse però il concetto della territorialità; come è messo in chiaro dall’art. 2 della legge, il quale fa obbligo di pagare l’imposta sui redditi mobiliari che il contribuenti ha nello Stato. Ed a dirimere i dubbi che potevano sorgere dall’uso della frase avere nello Stato, la quale non prescriveva che i redditi originassero ovverosia si producessero nello Stato, ma solo che si possedessero nello Stato, da qualunque luogo fossero proceduti, valgono altre norme contenute nell’art. 3, il quale esplicitamente spiega doversi colpire da imposta «i redditi procedenti da industrie, commerci, impieghi e professioni esercitate nel regno» ed ancora «gli stipendi, pensioni, annualità, interessi e dividendi pagati in qualunque luogo e da qualunque persona per conto dello Stato, delle provincie, dei comuni, dei pubblici stabilimenti e delle compagnie commerciali, industriali e di assicurazione che abbiano sede nel regno» e finalmente «ogni specie di reddito non fondiario, che si produca nello Stato, o che sia dovuta da persone domiciliate o residenti nello Stato».

 

 

Manifesto è quindi che l’imposta può colpire solo i redditi che hanno origine in Italia, sia che in Italia si producano, ovvero siano dovuti in Italia da persone ed enti in corrispettivo di capitali ricevuti a mutuo.

 

 

470. Controversie intorno alla territorialità dell’imposta di ricchezza mobile. – Senonché è naturale che, per la dizione non del tutto chiara dell’art. 2 (redditi che il contribuente ha nello Stato), e malgrado la esplicita spiegazione contenuta nell’art. 3 ed il significato non equivoco delle discussioni parlamentari, il fisco cercasse di estendere l’applicazione dell’imposta anche a redditi non strettamente territoriali.

 

 

Caso tipico è quello della società per azioni che ha sede in Italia ed esercita imprese all’estero, come cotonifici in Argentina o Brasile, cavi sottomarini in Spagna, commercio di prodotti italiani in Cina, ecc. ecc.

 

 

Diremo noi che il reddito è tassabile in Italia, perché ivi ha sede la società che gode il reddito e lo ripartisce fra i suoi azionisti ed obbligazioni ovvero che il reddito non è tassabile, essendo desso stato prodotto all’estero?

 

 

Infinite essendo le singole fattispecie, la dottrina ha dovuto elaborare un criterio per decidere la questione; ed il criterio fu trovato nella destinazione fra ciò che è produzione e ciò che è realizzazione del reddito. La società o ditta con sede in Italia produce in un cotonificio situato in Italia i tessuti che sono poi venduti all’estero? Si prodotti i tessuti ed il reddito si può dire conseguito integralmente, sebbene ancora sotto la forma di prodotto in natura. All’esterno si ebbe soltanto la realizzazione del reddito, ossia lo scambio dei prodotti contro il loro equivalente monetario. I tessuti già valevano 1 milioni di lire e già contenevano un profitto di 50.000 lire, sebbene fossero ancora sotto forma di «tessuti».

 

All’estero si operò solo il realizzo in moneta del milione di lire di prezzo e delle 50.000 lire di profitto tassabile in esso contenuto. Quindi la vendita all’estero non aggiunse nulla al profitto o reddito che già era stato prodotto all’interno.

 

 

La distinzione è forse un po’ sottile, essendo impossibile negare che anche la vendita e la realizzazione monetaria del prodotto sia un atto produttivo; la scienza economica più recente non dando importanza alle antiche distinzioni della produzione dalla circolazione e della distribuzione della ricchezza, distinzioni che hanno valore meramente scolastico espositivo. Ma poiché in cose fiscali bisogna per via di larghe approssimazioni, il criterio ora esposto può essere accolto. Talché si può concludere che quando una ditta italiana produca in Italia tessuti di cotone o cavi sottomarini e li venda all’estero, debba su tutto il reddito così ottenuto essere tassata.

 

 

Ove però questa ditta abbia istituto, per la vendita all’estero, una filiale straniera, con proprio capitale e con proprio personale, allora non può più dirsi che tutto il reddito sia stato ottenuto all’interno; poiché indubbiamente la filiale straniera ha contribuito col proprio lavoro di organizzazione e di propaganda, con i suoi commessi viaggiatori o negozi alla produzione del reddito. Se la ditta italiana avesse volute vendere quei prodotti all’estero solo per mezzo di listini, annunci, commessi viaggiatori proprii o non sarebbe riuscita a vendere od avrebbe venduto una minor quantità di merce, oppure ancora avrebbe venduta la medesima quantità a prezzi minori. Se vendette tutto il prodotto ricavandone un milione di lire, in parte il merito è della filiale straniera, ossia in parte il reddito è frutto del lavoro e del capitale impiagati all’estero e non è quindi tassabile in Italia. La questione è sovratutto di fatto, dovendosi dal contribuente e dalle agenzie delle imposte equamente apprezzare la quota sul reddito prodotto in Italia e la quota ottenuta all’estero.

 

 

Più facile è la risoluzione ove la ditta italiana abbia soltanto in Italia la sua sede ed all’estero abbia luogo non solo la vendita, ma anche sia situato lo stabilimento produttivo. In tal caso il reddito dovrebbe intendersi onninamente prodotto all’estero e non tassabile in Italia salvo per quella parte di lucro che può considerarsi il frutto dell’opera direttiva dei dirigenti l’impresa che in Italia si sia svolta.

 

 

Che dire delle imprese le quali hanno sede in Italia, qui hanno la loro organizzazione centrale, i loro stabilimenti più importanti, i loro organi ispettivi; ma esercitano la loro industria in notevole parte all’estero in guisa che mal si possa distinguere il reddito prodotto in Italia da quello che fu ottenuto all’estero? È il caso delle imprese di navigazione, le cui navi battano bandiera italiana, i cui cantieri di raddobbo siano in Italia, che abbiano i loro organi di direzione in Italia, ma esercitino la loro industria un po’ in tutti i porti del mondo, pel traffico tra porti italiani ed esteri od anche tra soli porti esteri. Qui fu considerato che solo criterio del decidere poteva essere la prevalenza delle operazioni compiute o concepite, prevalenza che indubbiamente si aveva per l’Italia, sede della società. le vie del mare essendo aperte a tutte le bandiere, il reddito prodotto dalla navigazione non poteva essere considerato più straniero che nazionale; onde, in caso di dubbio, venne accolto il criterio della nazionalità.

 

 

Dicasi lo stesso di una banca che abbia filiali all’estero; e per cui riesca quasi impossibile distinguere le operazioni che hanno origine esclusivamente locale estera e quelle che sono, come spesso avviene, la prosecuzione di affari che in Italia ebbero origine od il logico complemento di operazioni di sconti a ditte commercianti italiane od anticipazioni sui documenti di merci viaggianti per l’Italia. Spesso la realtà è così aggrovigliata da impedire di fare distinzioni nette e conviene contentarsi di larghe approssimazioni.

 

 

Le cose dette giovano a risolvere i problemi relativi alle ditte o società straniere che vendano in Italia i prodotti, che esse hanno fabbricato all’estero. Poiché in Italia ha luogo solo la realizzazione del reddito già ottenuto all’estero, questo non deve essere colpito coll’imposta italiana. Se però la ditta estera non si contenta di vedere in Italia dietro ordinazione dirette dalla clientela italiana, o di procurarsi affari con commessi viaggiatori volta per volta inviati dall’estero od adendo nei singoli casi opportuni ad appalti o forniture pubbliche; ma istituisce in Italia una filiale, una casa di rappresentanza, un ufficio di vendita, una organizzazione qualsiasi intesa a procacciarle ordinazioni, è chiaro che si avrà in Italia la produzione di una quota del reddito dovuto ad un’opera che si è svolta in Italia ed in Italia ha contributo a rendere più alto il reddito della ditta straniera. Valutare la parte di reddito che in Italia si è prodotto è problema di fatto, che dovrà essere deciso a seconda delle particolari circostanze d’ogni caso.

 

 

Certo è che la risoluzione di questi problemi di territorialità ha grande importanza per evitare le doppie tassazione, in che troppo spesso incorrono gli Stati ognuno dei quali vuole stendere il più possibile il campo d’applicazione dei suoi tributi. E qui notisi come i due Stati adottano l’uno il criterio dell’imposta sulle persone. L’Italia ad esempio, colpisce colla sua imposta di ricchezza mobile il reddito di una società ferroviaria italiana, come è ragionevole, essendo il reddito prodotto in Italia. ma un cantone svizzero, che ha l’imposta personale sul reddito d’ogni suo cittadino, torna a colpire il medesimo reddito, in quanto il cittadino svizzero possiede azioni od obbligazioni della società italiana e ne lucra i dividenti od interessi. Il che è di nuovo ragionevole, dal punto di vista suo, essendo l’imposta svizzera relativa alla persona e non alle cose. Tuttavia le due tassazioni, amendue in sé stesse logiche, sono insieme illogiche, perché un medesimo reddito viene tassato due volte solo perché l’Italia ed il cantone svizzero hanno adottato due diversi criteri di repartizione delle imposte. A togliere i quali casi di doppie tassazioni, destinate a moltiplicarsi coll’affittarsi dei rapporti internazionali, si dovrà ricorrere a trattati finanziari fra i diversi Stati, dei quali qualche inizio si ha, sebbene disgraziatamente inteso più a crescere che a diminuire il malanno delle doppie tassazioni.

 

 

C) L’oggetto dell’imposta.

 

471. Difetto di una definizione autentica. – Il legislatore italiano, trovandosi di fronte a una imposta che ha carattere insieme generale e residuale (cfr. par. 465) si astenne appositamente dal dare una definizione dei redditi di ricchezza mobile che pure voleva colpire con imposta. A che prò definire, col pericolo di restringere concetti che dovevano essere mantenuti nel campo delle più late generalità, se si voleva che l’imposta raggiungesse il fine di colpire davvero tutti i redditi non colpiti dalle altre due imposte fondiarie? Omnis definitio periculosa, dice il vecchio broccardo; e non a torto il legislatore del 1864 si astenne dal definire un concetto che poteva assumere, col progredire della vita economica, sempre nuovi aspetti. E, tutto considerato, fu savio avviso; perché il «reddito» non è ciò che vuole il legislatore, ma ciò che di tempo in tempo gli uomini convengono sia o ciò che l’esperienza ammaestra utili reputare tale.

 

 

Grave però divenne il compito della dottrina e della giurisprudenza a cui venne così affidato il compito di elaborare e di trasformare via via il concetto del reddito soggetto all’imposta; né sempre si può dire che la dottrina abbia ben assolto il suo compito.

 

 

472. Prima elaborazione del concetto di reddito mobiliare: frutti delle cose mobiliari. – Primamente la dottrina concepì il reddito mobiliare come qualche cosa di simile ai redditi fondiari; e come questi sono esclusivamente i frutti netti dominicali delle cose madri terreni e fabbricati, così si opinò che i redditi mobiliari fossero soltanto i frutti netti delle cose mobiliari o degli enti mobiliari che si reputano produttori di redditi. Coma la terra dà il reddito dominicale fondiario, come i fabbricati fruttano fitti netti, così si finsero enti mobiliari: mutui dei capitali, imprese industriali e commerciali, professioni, impieghi ecc. ecc. produttivi di frutti netti periodici simili ai frutti dei terreni e delle case. E si disse: sono redditi le ricchezze nuove che nascono, o, per così dire, escono da una fonte capace di produrre quei frutti. Di qui la notissima e ormai celebre definizione del reddito dominante nella dottrina italiana ed accolta dal Quarta nel suo Commento alla legge sulla imposta di ricchezza mobile (tre volumi editi dalla Società editrice libraria), che è il più reputato riassunto della dottrina e della giurisprudenza patria in materia. Reddito, secondo la teoria dominante, riassunta a carte 111 del commento citato del Quarto, si ha quando concorrano tre condizioni:

 

 

  • 1) che vi sia una ricchezza novella;
  • 2) che tale ricchezza sia in relazione di effetto a causa con una energia o forza produttiva;
  • 3) che vi sia la possibilità del ritorno o successiva produzione di altra somigliante ricchezza.

 

 

Le quali tre condizioni indubbiamente giovano a raffigurare il concetto del frutto.

 

 

La prima pone in chiaro che una ricchezza già esistente nel patrimonio del contribuente non può considerarsi frutto tassabile. Chi ha già 1.000 lire al principio dell’anno, non potrà su di esse nuovamente essere tassato, sibbene soltanto sulle 40 lire di interessi che potrà, impiegando le 1.000 lire, percepire nell’anno.

 

La seconda condizione dichiara che la nuova ricchezza ottenuta dal contribuente durante l’anno deve essere l’effetto di una energia o fonte produttiva. Ciò allo scopo di escludere quelli che sopra (par. 386) abbiamo chiamate accessioni gratuite ed eventuali di ricchezze. Non si considerano come reddito le eredità, i lasciti, i guadagni dovuti alle sorte, al gioco, alla vincita di un biglietto di lotteria e simili. La nuova ricchezza deve essere il frutto, la conseguenza di un capitale già posseduto dal contribuente, della applicazione del capitale e del lavoro o del lavoro soltanto alla produzione. Il contribuente deve, cioè, già possedere la fonte od energia capace di produrre la nuova ricchezza. Se questa si ha per elargizione gratuita altrui senza alcuna controprestazione da parte del contribuente non si ha reddito.

 

 

Ma una terza condizione fa d’uopo, secondo i commentatori; non solo deve esistere la connessione della ricchezza nuova con una fonte produttiva, ma deve ancora esistere la possibilità del ritorno della medesima nuova ricchezza, finché la fonte produttiva permanga in grado di produrre i medesimi effetti. «Possibilità», diciamo, non «certezza» poiché se è certo che il capitale dato a mutuo ad un certo tasso di interesse frutterà ogni anno gli interessi pattuiti, per il periodo convento; non è niente affatto certo che i clienti continuino ogni anno a frequentare la bottega del commerciante Tizio o che si abbia periodicamente bisogno di ricorrere ai servigi dell’avvocato o del medico. Si vuol dire non ciò soltanto essere presumibile che, finché esiste la fonte produttiva, azienda commerciale, abilità dell’avvocato o del medico, abbia a riprodursi l’effetto: guadagno industriale, commerciale o professionale. Mentre invece è ignoto se abbiano a ripetersi le eredità, le donazioni, le vincite al giuoco, ove anche il contribuente continui a porre in essere la medesima causa produttiva. Così se noi supponiamo che la causa produttiva di un’eredità sia il fatto dell’esistenza di uno zio ricco o della vincita al giuoco il fatto della giuocata, non perciò la eredità o la vincita diventeranno reddito, perché il nipote ha parecchi zii ricchi o il giuocatore seguita a giuocare. Non dal fatto che il primo zio ricco ha fatto suo erede il nipote Tizio, nasce la possibilità che il secondo zio benefici pur anche lui; ma dal rapporto di affetto tra il secondo zio e il nipote, che è una causa produttiva tutt’affatto diversa; e neppure dal fatto delle continuative giuocate il fatto della prima e della seconda vincita, ma dal caso che ha favorito due volte e poteva favorire una volta sola o nessuna.

 

 

Così pure non sarebbe reddito il tesoro trovato in un campo; perché il ritrovamento del tesoro non è l’effetto della forza produttiva del campo, che è atto a produrre frumento e non tesori; e nessuna probabilità vi è che il ritrovamento del tesoro abbia a riprodursi nel medesimo campo.

 

 

473. Anche i proventi avventizi possono essere frutti imponibili. – La condizione della possibilità del ritorno non è però la stessa cosa di quella della necessità del ritorno stesso. Anzi si può dire che il campo più ampio di applicazione dell’imposta mobiliare sia quello dei redditi che non debbono necessariamente ritornare.

 

 

Se essa comprendesse solo i redditi che hanno natura costante e regolare e che sono dovuti per contratto, il suo campo di applicazione sarebbe ristrettissimo: potrebbe colpire solo l’interesse dei capitali a mutuo e lo stipendio dei funzionari a stipendio fisso. Invece questi sono, per l’imposta di ricchezza mobile, gli oggetti meno importanti di tassazione. Il suo campo d’azione è specialmente quello dei redditi variabili industriali e commerciali, che sono ottenuti da un determinato imprenditore in ragione della sua abilità, del suo spirito di intrapresa e che cessano, collo scadere di queste qualità o quando il capitale è impiegato male. Così sono variabili od aleatori i redditi professionali, i quali cessano quando la clientela si stanca od il professionista non riesce più ad attirarla.

 

 

Il nostro legislatore è stato esplicito riguardo ai redditi accidentali ed incerti, sovratutto dopoché una men buona formulazione della legge fondamentale aveva lasciato adito a dubbi. Erasi dubitato ad esempio se le offerte ed oblazioni per le messe e per i servizi religiosi dovessero essere oggetto dell’imposta di ricchezza mobile, perché si affermava che non erano compreso per un servizio reso ma erano solo offerte volontarie fatte e persone che coprivano determinate funzioni di natura tutta spirituale e sacra. Fu osservato che la natura delle funzioni non influisce minimamente sulla sostanza economica della rimunerazione: è sempre un compenso dato da certe persone a certe altre. Queste oblazioni hanno si carattere volontario, ma ad ogni modo non sono pagate gratuitamente dei fedeli, ma in vista di una certa controprestazione di natura spirituale. Qualunque sia l’indole morale dei guadagni ottenuti dal lavoro dell’uomo, per l’esercizio di qualsiasi funzione tanto nobile che ignobile, tanto materiale che spirituale essi siano pagati, sempre devono essere soggetti all’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Il che fu meglio chiarito dall’art. 17 della legge del 1877, il quale dichiarò doversi considerare redditi di ricchezza mobile anche i «proventi avventizi derivanti da spontanee offerte fatte in corrispettivo di qualsiasi ufficio o ministero». Le parole in corrispettivo non stanno ad indicare che i proventi siano ottenuti in corrispettivo convenuto di un lavoro prestato, ché allora non vi sarebbe stato dubbio sulla tassabilità, né i proventi sarebbero derivanti da offerte spontanee. Ma sta ad indicare che le spontanee offerte tassabili non sono le donazioni od i doni gratuiti fatti da una persona ad un’altra senza alcun corrispettivo né materiale né morale, ché questi non vanno soggetti all’imposta di ricchezza mobile, bensì a quella sulle donazioni, bensì sono le offerte le quali implicano una controprestazioni, sia pure di servizi spirituali. Lo zio istituisce erede il nipote di 100 mila lire; ecco una accessione gratuita di ricchezza al patrimonio del nipote senza che lo zio nulla riceveva in cambio, la quale non è, agli occhi del nostro legislatore, reddito soggetto ad imposta di ricchezza mobile, bensì acquisto gratuito soggetto all’imposta di successione. Lo stesso zio in vita usava elargire 100 lire all’anno alla chiesa, per averne il suffragio di messe; ecco una oblazione cambio il corrispettivo di suffragio di messe. Sempre siamo nel campo dei frutti, poiché l’onorario del medico, l’oblazione spontanea fatta al sacerdote, l’offerta al cantante di passaggio (ove praticamente queste ultime potessero essere accertate) sono frutti dell’opera prestata da una persona, opera spirituale, o umanitaria o fors’anco immortale.

 

 

474. Ulteriore elaborazione del concetto di reddito mobiliare: gli apprezzamenti patrimoniali. – Ma ben presto la limitazione del concetto del reddito ai frutti, o, come dicono i commentatori, alle ricchezza nuove, originate da una energia o forza produttiva, la quale sia capace di riprodurre successivamente simiglianti nuove ricchezze si dimostrò irrazionale.

 

 

È irrazionale economicamente, perché tutta fondata sulla verità della dottrina della produttività della ricchezza, dottrina che non occorre qui distesamente esaminare, ma non è certo tale da spiegare tutti i fatti. Il terreno non dà reddito al proprietario perché, o solo perché esso sia produttivo; ma perché in un dato paese, in un dato momento storico si è creduto conveniente di riconoscere il diritto di proprietà privata della terra, essendosi riflettuto che, senza questo riconoscimento, i risparmi non si sarebbero formati, o, formatisi non si sarebbero impiegati nella terra; perché il terreni di una certa qualità ne esiste in quel paese solo una data estensione e non più; perché gli impieghi concorrenti attraggono i risparmi in una data misura e non in un altra; perché i salari ai lavoratori della terra sono di 3 lire al giorno e non di 4; perché il lavoro è abile od inabile, ecc. ecc. Insomma il reddito netto dominicale non è «prodotto» dalla terra; ma è una risultante di numerosissimi fattori, i quali ad un certo istante si trovano tra di loro in un dato rapporto.

 

 

Altrettanto si dica dell’interesse del capitale; il quale non viene pagato perché o solo perché il capitale sia fecondo di frutti; ma perché bisogna pagare in un dato momento quel certo interesse del 4 o 5 o 6 per cento affinché la offerta del capitale sia uguale alla domanda che di capitale si fa per scopi produttivi consuntivi. L’operaio abile è pagato 10 lire al giorno, l’avvocato principe guadagna 100.000 all’anno, il cantante si fa pagare 1 milione di lire annue non perché essi producono merci lavorate, consulti legali o canto; ma perché in quel dato momento il numero degli operai abili, degli avvocati famosi o di ugole di prim’ordine è tale che, data la ricchezza esistente nel paese, la sua distribuzione fra le diverse classi sociali, i gusti e le abitudini degli uomini, tale è la domanda di stoffe tessute dall’operaio abile, di consulti giuridici e di audizioni teatrali che quei salari debbono essere pagati. Caruso potrebbe cantare assai meglio di quanto non faccia; ma in una società barbara guadagnerebbe pressoché nulla: né l’avvocato non potrebbe vendere pareri legali, anche se fosse doppia la sua sapienza ed abilità, dove non fossero liti.

 

 

Se il concetto di «frutto» prodotto da una cosa madre si appalesa insufficiente, del pari lo è il concetto della «ricchezza nuova effetto di una forza produttiva». Il rapporto di causa ad effetto non è il rapporto logico che meglio spiega i fenomeni economici. L’interesse può sembrare «effetto» della «causa»: capitale dato a mutuo. Ma in realtà, se l’interesse non si percepirebbe senza aver dato il capitale a mutuo, d’altro canto molti capitali non esisterebbero se non si sperasse di darli a mutuo con interesse; talché il capitale diventa l’effetto dell’interesse o del reddito. In realtà spessissimo è illogico parlare di causa ed effetto; dovendosi parlare di rapporto di interdipendenza, per cui due fatti, ad es., il capitale e l’interesse, sono fra loro collegati in modo che data una certa massa di capitale esiste un certo tasso d’interesse e si forma una certa massa di capitale.

 

 

Perciò noi possiamo affermare che la restrizione del concetto di reddito ai «frutti» è illogica, essendoché è difficilissimo precisare correttamente il concetto di «frutti»; ed essendo le definizioni che sopra si sono date utili sovratutto come guida pratica, più che per il loro valore teorico.

 

 

Specialmente si vide che, oltre ai cosidetti «frutti», vi sono altre quantità che avevano indole assai somigliante ad essi, sebbene non potessero farsi rientrare nella stretta definizione dei frutti. Perché noi consideriamo i frutti come reddito? Perché si suppone che l’uomo possa consumare le 5 lire di interesse senza intaccare le 100 lire di valor capitale del titolo di debito pubblico, le 5.000 lire di reddito dell’azienda commerciale, senza menomare il valore patrimoniale dell’azienda; le 2.000 lire di reddito netto del fondo senza intaccare il fondo. Ma se, per le condizioni del mercato, il titolo del debito pubblico ribassa da 100 a 99, il capitalista si sentirebbe rimordere la coscienza a consumare tutte le 5 lire di interessi. Benché tutte le 5 lire siano frutti distaccati dalla sorte capitale, il capitale avveduto vedrebbe la necessità di prelevare 1 lira dalle 5 per ricostituire da 99 a 100 il suo capitale. E che cosa vuol dire ciò, se non che il capitalista considera come reddito disponibile solo le 5-1=4 lire? Lo stesso si dica ove l’azienda commerciale richiegga una spesa per rinnovazione, ad es., delle vetrine e della facciata per conservare la clientela che un negozio vicino più elegante e nuovo minaccia di portar via. Il negoziante avveduto crederà di poter spendere solo 3.000 delle 5.000 lire di frutti, destinando le altre 2.000 alla conservazione della clientela. E così anche il proprietario del fondo destinerà 500 delle 2.000 di frutti a ristorare un argine di difesa contro le corrosioni del fiume. I quali esempi tutti dimostrano che l’uomo non considera reddito i «frutti»; e non si impaccia di sapere se la ricchezza sia nuova o vecchia, legale dal rapporto logico di causa od effetto con una forza produttiva od improduttiva, suscettibile di ritorno o meno. Tutte queste sono astrazioni mentali, utili per l’analisi di certi concetti economici; ma non sono quelle che persuadono l’uomo dell’esistenza o meno di un reddito guadagnato. L’uomo fa i suoi calcoli assai più semplicemente: aveva egli 100.000 al 1 gennaio? durante l’anno la sua fortuna si è elevata a 110.000 lire? non tenendosi conto delle eredità o donazioni o vincite al giuoco che mentalmente l’uomo, ed il legislatore con lui (cfr. par. 387), riporta al 1 gennaio e considera capitale? Ed il reddito sarà valutato a 10.000 lire; sia che le 10.000 lire siano tutti frutti, sia che siano per 7.000 lire frutti e per 3.000 aumenti di valore della sorte capitale (cfr. par. 386, b).

 

 

Ecco il ragionamento semplice per cui, come si tiene talvolta conto dei deprezzamenti della sorte capitale per diminuire il reddito, così si tiene conto degli apprezzamenti, ossia degli aumenti di valore capitale, nel calcolo del reddito. Talvolta, diciamo, perché le imposte sui terreni e sui fabbricati si tengono strette al concetto di «frutto» e non tassano gli «apprezzamenti»; ed è sola imposta di ricchezza mobile che, in certi casi, ha manifesta tendenza a colpire, oltre i frutti, gli apprezzamenti.

 

 

Ricordiamo taluni dei casi, in cui la tendenza si manifesta; non senza prima notare che questa tendenza è logica solo se si parte dal concetto del reddito guadagnato, non se si vuole tassare il reddito consumato. Ma noi sappiamo che ogni imposta va studiata secondo la logica sua propria; onde l’imposta di ricchezza mobile va tratta alle sue conseguenze logiche, come imposta del gruppo sul reddito guadagnato. Salvo a studiare poi le detrazioni a titolo di risparmio presunto: e salvo a constatare, occorrendo i risultati, utili o dannosi, di quella logica.

 

 

475. La tassazione del prezzo d’avviamento. – Sia Tizio un commerciante il quale ha impiegato nel suo negozio un capitale di 100.000 lire per l’arredamento interno, da vetrina, le facciate, la scorta di merci pel magazzino, ecc. ecc. Nei primi anni poco gli frutta il negozio; ma via via, per la sua abilità, buona amministrazione, cortesi maniere ed adescamenti diversi alla clientela, questa cresce, sicché il frutto netto progredisce da 3.000 a 5.000, a 10.000, a 15.000, a 20.000 lire all’anno. L’imposta di R.M. del 10% (20% sui 20/40 del reddito) sempre colpì questi frutti netti in tutti gli anni in cui si verificarono riducendoli a 2.700 … 4.5000 … 9.000 … 13.500 … 18.000 lire nette. Dopo trent’anni, quando da qualche tempo di reddito netto del negozio si è fissato in media sulle 20.000 lire e queste sembrano durevoli in avvenire, il negoziante decide di ritirarsi dal commercio. A quel prezzo cederà egli la sua azienda? Non certo al prezzo di costo di 100.000 lire, ché il cessionario senza fatica otterrebbe il vantaggio della abilità e costanza sua. Il prezzo verrà determinato dalle condizioni del mercato; e dal frutto che i capitalisti usano ripromettersi da quella sorta di impieghi. Il reddito non potrà essere solo del 4%, come sarebbe quello di una casa; perché una casa ha lunga durata; mentre un negozio corre molte alee, richiede molta sorveglianza, personale, ecc., ecc.

 

 

Supponiamo che il frutto corrente sia del 9 per cento. Il prezzo di cessione di un negozio, che rende 20.000 lire all’anno, ossia 18.000 lire nette da imposta, sarà perciò di 200.000 lire, perché 18.000 lire annue nette da imposta al 9% valgono in capitale 200.000 lire. È indubbio che il cedente, il quale in ogni anno passato ha già lucrato i reddito o frutti netti di … 3.000 … 5.000 … 10.000 … 20.000, e su questi ha pagato tributo, nel momento della cessione lucra inoltre la differenza fra 100.000 lire costo iniziale d’impianto del negozio e 200.000 prezzo di cessione. Il qual lucro di 100.000 lire è detto prezzo d’avviamento e dalla giurisprudenza prevalente è considerato tassabile.

 

 

Vedasi come d’imposta di R.M., oltre ai frutti netti, periodici, riproducentisi, tenda anche a colpire gli apprezzamenti del valor capitale della fonte del reddito. Qui abbiamo una fonte di reddito: l’impresa commerciale, il negozio, che in origine era costata 100.000 lire. Abbiamo un reddito annuo progressivo di … 3.000 … 5.000 … 10.000 … 20.000 lire; ed abbiamo un valor capitale che via via aumenta, a mano a mano che i frutti annui aumentano e si prevede conserveranno in avvenire gli aumenti acquisiti in passato. Il valore attuale di 200.000 è la capitalizzazione, al 9 per cento, del reddito futuro di 20.000 lire annue, lorde da imposta e di 18.000 nette da imposta. Teoricamente l’imposta, volendo tassare l’intiero reddito guadagnato, avrebbe dovuto ogni anno colpire, oltre i frutti, la frazione d’incremento di valor capitale verificatasi nell’anno. Praticamente aspetta a colpire l’intiero incremento all’atto della cessione;

 

 

  • a) per evitare di colpire aumenti immaginari non ancora realizzati e che potrebbe darsi esistessero solo nella mente del negoziante speranzoso di vendere e dell’agente delle imposte desideroso di tassare;
  • b) per evitare di colpire aumenti temporanei, che in un certo momento avrebbero potuto essere, ma non furono realizzati dal negoziante. Se al 25esimo anno l’azienda avesse potuto vendersi a 250.000 lire, con un lucro di 150.000 lire, ma il negoziante non volle e preferì attendere e poté poi solo ottenere 200.000 lire; sarebbe stato scorretto tassarlo per le 50.000 di maggior guadagno che avrebbe potuto ottenere, ma non ebbe di fatto.

 

 

Le resistenze, che in una parte della giurisprudenza italiana si incontrano, alla tassazione del prezzo d’avviamento sono inconsapevolmente fondate sulla percezione di una verità insegnata dalla teoria della tassazione del reddito consumato (cfr. sopra par. 254): essere la tassazione del prezzo d’avviamento una doppia tassazione. Invero le 20.000 si ricevono dal cedente in cambio della cessione del reddito di 20.000 all’anno in futuro; e in parte, e cioè per 100.000 lire, sono un guadagno per lui. Ma su di esso guadagno già egli pagò l’imposta, sebbene di pagarla abbia dato l’incarico al cessionario; ed infatti, se le 20.000 lire di reddito annuo da lui ceduto non dovessero essere decurtate, a mani del cessionario, dall’imposta di 2.000 lire e ridotte a 18.000 lire, egli avrebbe ricevuto un prezzo di cessione corrispondente, al 9%, a 20.000 e non solo a 18.000 lire; e quindi avrebbe ricevuto L. 222.222 invece che 200.000 lire. Se egli incassa solo 200.000 lire, ciò fa perché ha lasciato a mani del cessionario L. 22.222 a titolo di rimborso o rivalsa dell’imposta di 2.000 lire all’anno che al cessionario toccherà di pagare. Ma l’imposta l’ha pagata ben lui e non li cessionario.

 

 

Laonde colla tassazione del prezzo d’avviamento, il cedente che, per causa dell’imposta già percepisce solo 200.000 invece che 222.222 lire, pagherà ancora 10.000 lire, ossia il 10% su 100.000 lire di guadagno, ossia sulla metà del prezzo di cessione pagherà due volte l’imposta. Perché il cedente, che lucra solo la differenza fra 222.222 e 100.000 lire ossia 122.222, debba pagare 22.222 lire per un titolo e 10.000 lire per un altro, ossia 32.222 lire, non si capisce, in un regime dove i redditi sono tassati col 10 per cento. Ma questa critica alla tassazione dei prezzi d’avviamento, se discende logicamente dal postulato dell’uguaglianza e dal teorema dell’esenzione del risparmio è ignota alla teoria della tassazione del reddito guadagnato, per cui la tassazione è logica. Onde l’imposta di R. M. È formalmente interpretata in modo logico dalla prevalente giurisprudenza che vuole la tassazione.

 

 

476. La tassazione della plusvalenza dei titoli. – Una società ha acquistato 100 azioni di un’altra società al prezzo di L. 100, spendendo 100.000 lire. In borsa le azioni aumentano di prezzo e sono quotate 150 lire. Sinché la società non vende le azioni, ma le conserva in portafoglio inventariandole all’antico prezzo di L. 100, il maggior valore è latente e fu giudicato non essere tassabile, alla stessa maniera che non è tassabile il prezzo d’avviamento del negozio, finché il negozio non è ceduto. Ove invece la società venda le azioni a 150 realizzando L. 150.000, il guadagno da latente diventa realizzato e la società è tassata sulla differenza fra 100.000 prezzo d’acquisto e 150.000 prezzo di vendita, ossia su 50.000 lire.

 

 

La quale plusvalenza dei titoli di portafoglio non è sicuramente un reddito della natura dei frutti periodici, ma un apprezzamento della fonte del reddito. Eppure la giurisprudenza la reputa reddito; il che dimostra non essere elemento necessario del concetto del reddito la possibilità del ritorno.

 

 

Dove invece c’è la possibilità del ritorno nel prezzo di avviamento o nella plusvalenza dei titoli? Un titolo è aumentato di valore da 100 o 150; ma da ciò non discende che esso abbia ancora ad aumentare da 150 a 200; che anzi, ove si prevedesse tale aumento, non varrebbe solo 150 ma 200, salvo il conguaglio degli interessi pel tempo a decorrere. Neppure si può dire che l’aumento di valore sia dovuto ad una causa produttiva; ché, se si volesse parlare di cause e di effetti, esso sarebbe l’effetto dell’aumento del reddito da 6 a 9 lire all’anno, ove si supponga corrente il tasso d’interesse del 6 per cento. Laonde, ragionando come fanno i commentatori, le 9 lire sarebbero considerate reddito perché effetto della causa «azione del valore di 150 lire»; e l’aumento di valore da 100 a 150 lire sarebbe ancora reddito perché effetto della causa «reddito dell’azione cresciuto da 6 a 9 lire». Non è meglio, per togliersi da queste confusioni verbali, riconoscere il fatto che l’imposta italiana di ricchezza mobile, mossa dalla logica sorta della tassazione del reddito guadagnato, tende a considerare come reddito la differenza fra due inventari patrimoniali, compiuti ad un anno di distanza, ed a tassare quindi le 9 lire di frutti e dividenti e le 50 lire di aumento di valore della azioni, se ambe le quantità si realizzarono, si incassarono durante l’anno?

 

 

Notisi che, siccome si tratta di una tendenza, la tassazione della plusvalenza dei titoli di portafoglio non è ancora generalizzata. Per ora essa riflette solo le plusvalenze accertabili dei titoli posseduti da banche, società anonime, casse di risparmio ed altrettali istituti obbligati a pubblicar bilanci. Ma verrà giorno in cui colpirà anche le plusvalenze dei titoli posseduti dai privati, ove appena si riesca, cosa che sembra difficile, ad organizzare un sistema efficace di accertamento delle plusvalenze medesime.

 

 

477. La tassazione della plusvalenza nella vendita degli immobili. – La moltiplicazione dei pani e dei pesci, vogliono dire la doppia tassazione (agli occhi della teoria del reddito consumato), sotto colore di tassazione di un incremento di un incremento di valore che andrebbe altrimenti esente (agli occhi della teoria del reddito guadagnato), prosegue con la tassazione dei guadagni che si fanno nelle rivendite dei beni immobili. Mentre però, per i guadagni ottenuti colla vendita di valori mobiliari (azioni ed obbligazioni, cartelle fondiarie, titoli di Stato) basta il fatto oggettivo della plusvalenza realizzata; per i guadagni ottenuti colla compra e successiva rivendita di immobili, fa duopo inoltre l’elemento soggettivo della intenzione di rivendere. Se un privato od una società compra per un milione un immobile a scopo di investimento e poi lo rivende per 1.200.000 lire, il guadagno di L. 200.000 non è considerato reddito; ma semplice realizzazione di un «incremento patrimoniale». Se invece l’immobile era stato acquistato da chi si può dimostrare o si presume dedicarsi alla speculazione immobiliare, la plusvalenza è considerata tassabile, quasi frutto di capitale e di lavoro indirizzati al fine della speculazione. Il che dimostra una certa ripugnanza della giurisprudenza a procedere innanzi nella via che le è tracciata dalla tassazione dei prezzi d’avviamento e della plusvalenza dei titoli di portafoglio. Ripugnanza la quale, essendo naturale in chi muove i primi passi su una via inesplorata, scomparirà quando su di essa si sia proceduto innanzi per un bel tratto.

 

 

478. La tassazione del sovraprezzo delle azioni. – Né fa d’uopo di incoraggiamenti a spingere fisco e giurisprudenza innanzi sulla mala via delle doppie tassazioni, essendo ché già sono divenuti famigerati, per la loro ripugnanza alla ragion logica ed economica, i casi che han nome tassazione del sovraprezzo della azioni, tassazione degli interessi di conguaglio, e tassazione del prezzo di cessione delle annualità. Dei quali tre casi brevemente si discorrerà cercando di ridurre il discorso al maggior schematismo possibile per evitare le numerose questioni collaterali ed extravaganti onde il dibattito si inacerbì e dilagò oltremisura.

 

 

E prima della tassazione del sovraprezzo delle azioni.

 

 

Sia una società anonima esercente una qualunque industria, costituitasi nel 1890 con un capitale versato di 1 milione di lire, diviso in 1.000 azioni da 1.000 lire ciascuna. Coll’andar degli anni, grazie alla buona e prudente amministrazione, la società, oltre ad avere conservato intatto il suo capitale, – per semplicità supponiamo non l’abbia aumentato, mandando somme a riserva, cosa che del resto, come si dirà poi, non muterebbe le conclusioni – ha aumentato i guadagni da 30 a 40, a 50, a 60, a 70 ad 80 a 90 lire per ogni azione. L’azione, la quale nei primi anni a stento manteneva la pari, finì alla lunga per valere in borsa più di 1.000 lire, che era la pari o il versato; e, supponendo che il tasso corrente d’interesse per impieghi industriali di tal fatta sia del 6%, nel 1913 l’azione del versato o valor nominale o pari di 1.000 lire è contrattata correntemente al prezzo di L. 1.500. Infatti chi l’acquista a tal prezzo, ottenendone il dividendo anno di L. 90 , ricava ancora il 6% del capitale impiegato di 1.500 lire.

 

 

A questo punto, sarebbe logico che il fisco, muovendo del concetto della tassazione del reddito guadagnato, dicesse ad ognuno degli azionisti originari, il quale realizzare l’azione, per cui ha versato L. 1.000, al prezzo di L. 1.500: tu hai lucrato, oltre i dividendi annui di L. 30 … 40 … 50 … 60 … 70 … 80 … 90 … lire, già tassati, altresì la differenza fra 1.000 e 1.500 ossia 500 lire, e su queste devi pagare l’imposta. Supponendo che nel 1913 tutti i vecchi azionisti realizzassero le azioni a 1.500 lire, il fisco potrebbe tassare L. 500 (lire 1.500-1.000) x 1.000 azioni = L. 500.000 lire di lucro realizzato dai vecchi azionisti.

 

 

Ciò sarebbe scorretto, per chi ricordi le cose tante volte ripetute intorno alla doppia tassazione che origine dal tassare gli incrementi di valore non consumati (cfr. par. 254); ma sarebbe logico a norma di quella logica inesorabile, sebbene in fondo storta, che è propria della teoria tassazione del reddito guadagnato.

 

 

Senonché al fisco dà noia:

 

 

  • a) il dover aspettare a tassare le 500 lire di guadagno insino al momento in che all’azionista piaccia di realizzare la sua azione. E se l’azionista si terrà stretta la sua azione dovrò – pare dica il fisco – aspettare invano per sempre di tassare l’incremento di valore, che esiste, sebbene e non realizzato?
  • b) il non saper come fare a scoprire gli azionisti che posseggono azioni al portatore. Se anche costoro realizzano l’azione e lucrano le 500 lire, come farò, si chiede angosciato il fisco, a scoprire il fatto della vendita?
  • c) il non essere riuscito a scoprire un mezzo praticamente efficace di far pagare l’imposta sugli incremento «realizzati» alla società per conto dello sconosciuto portatore. Parecchi mezzi furono proposti (Cfr. Benvenuto Griziotti, Le imposte sugli incrementi di valore nei capitali e sulle vendite nei redditi, pagg. 121 e segg.); ma non furono ancora abbastanza elaborati da sembrare facilmente applicabile. Infatti, unica via sembra quella di tassare la società ad ogni anno od a ogni quinquennio od altro periodo sull’aumento di valore verificatosi nel frattempo nelle azioni sociali, salvo diritto di rivalsa sugli azionisti. Ma la tassazione sarebbe scorretta, poiché supponendo che le azioni siano aumentate di valore da L. 1.000 a L. 1.500 da un anno all’altro, il fisco tasserà 1.000 azioni x 500 lire = 500.000 lire, sebbene forse solo una piccola parte degli azionisti abbia realizzato il guadagno delle 500 lire e la più parte conservi ancora le azioni nel proprio portafoglio, dove potranno magari nuovamente diminuire a 1.000 lire.
  • d) si aggiunga che, nel sistema della nostra legge, sebbene la società sia tassata allo scopo di colpire gli azionisti, ciò non è detto esplicitamente. Laonde, essendo unicamente la società considerata come contribuente, e rimanendo essa estranea ai guadagni che gli azionisti fanno colla vendita della azioni sociali ad un prezzo più elevato di quello d’acquisto, non si sa qual ragione giuridica addurre per tassare la società per il guadagno ottenuto dagli azionisti nel modo ora detto.

 

 

Or dunque, avendo considerato che tassare i vecchi azionisti sul guadagno singolarmente da essi ottenuto al momento del realizzo delle azioni al corso di 1.500 era cosa impossibile o lenta ed era scorretto tassare la società su tutto l’aumento di valore, il fisco si appiglio ad un espediente, il quale, sebbene fosse grottescamente scorretto, trovò favore presso la corte di cassazione a sezioni riunite.

 

 

Supponiamo invero che la società abbia bisogno di raddoppiare il proprio capitale da 1 a 2 milioni di lire; e supponiamo che le 1.000 nuove azioni da 1.000 lire nominali ciascuna siano offerte al pubblico. Essa non potrà farsi pagare solo 1.000 lire per ogni azione nuova; perché, in tal caso, i vecchi azionisti subirebbero una perdita. Infatti essi, prima della nuova emissione, possedevano:

 

 

Capitale versato

L. 1.000.000

Valor d’avviamento dell’azienda

L. 500.000

Totale

L. 1.500.000

 

 

 

le quali divise tra 1.000 azioni, davano un valore di 1.500 lire, come era appunto la valutazione corrente in borsa.

 

 

Dopo la nuova emissione, la consistenza patrimoniale sarà la seguente:

 

 

Capitale versato antico

L. 1.000.000

Valor d’avviamento preesistente dell’azienda

L. 500.000

Capitale versato nuovo

L. 1.000.000

Totale

L. 2.500.000

 

 

 

Il valor d’avviamento dell’azienda non cresce per fatto del versamento del nuovo capitale di 1.000.000 lire. L’azienda, per il fatto di aver 1 milione di lire di più in cassa, non vede cresciuta la sua clientela, i suoi affari, ecc. ecc. Li crescerà poi in proporzione ai nuovi impianti che farà, alla nuova rete di affari; ma tutto ciò in proporzione al milione ricevuto e non più. Sarà solo col tempo che forse, l’azienda si metterà in grado di lucrare 90 lire anche per ognuna delle nuove azioni. Per ora, ragion vuole che normalmente essa guadagni solo 60 lire, che è il tasso corrente di interesse del 6 per cento. Sarebbe comodo che ogni intrapresa che guadagna il 9% potesse aumentare i suoi guadagni sempre allo stesso tasso del 9% solo aumentando il capitale. E sarebbe impossibile, perché, con questi successivi aumenti, la produzione crescerebbe per modo da far ribassare i prezzi e da ridurre i profitti al tasso normale del 6% e nulla più.

 

 

Quindi il nuovo capitale di 1 milione non acquista, magicamente, il valore di un milione e mezzo per il fatto solo del passare dalla cassa degli azionisti alla cassa della società; epperciò anche accade che la consistenza patrimoniale, dopo l’emissione a 1.000 lire, essendo di L. 2.500.000, divisa fra 2.000 azioni, darà un quoziente di L. 1.250 per azione.

 

 

Il qual risultato dimostra l’assurdità di emettere le azioni alla pari, ossia a 1.000, essendo ché, in tal modo, i vecchi azionisti vedrebbero diminuire il valore della loro azione da 1.500 a 1.250 lire; ed i nuovi azionisti otterrebbero dai vecchi il gratuito dono di 250 lire, versando 1.000 lire ed ottenendo un titolo che vale ed è negoziato a 1.250 lire.

 

 

Di qui, non potendosi supporre che i vecchi azionisti agiscano illogicamente, la necessità di emettere le nuove azioni a 1.500 lire; di guisa ché dopo la nuova emissione la consistenza patrimoniale sia la seguente:

 

 

A) Capitale versato antico

L. 1.000.000

B) Valor di avviamento preesistente dell’azienda

500.000

Capitale versato nuovo

C) nominale L. 1.000 per azione

1.000.000

D) sovraprezzo L 500 per azione

500.000

Totale

L. 3.000.000

 

 

che divise per 2.000 azioni, danno il quoziente di L. 1.500. I vecchi azionisti nulla perdono e nulla guadagnano in confronto a ciò che prima già possedevano ed i nuovi hanno una quota di patrimonio uguale alla somma versata, senza alcun lucro.

 

 

L’emissione delle nuove azioni non ha dunque dato alcun guadagno né ai vecchi né ai nuovi azionisti, né per conseguenza alla società, non essendo concepibile che dove i componenti la società nulla lucrano, la società guadagni qualcosa.

 

 

Tuttavia il fisco ebbe il consenso della magistratura suprema alla sua cervellotica opinione che le 500.000 lire di cosidetto sovrapprezzo fossero un guadagno. Della quale opinione è inutile si dicano le giustificazione, essendoché queste sono incomprensibili. Volendo però usare la indulgenza maggiore possibile nell’interpretare le erronee altrui opinioni, si può riconoscere che la tassazione del sovraprezzo di 500.000 lire (sotto D) sia un accorgimento, un espediente immaginato allo scopo di tassare il valor d’avviamento antico (sotto B). Si può cioè ammettere che il fisco, adirato per l’impotenza sua a tassare B, si sia appligliato all’espediente di tassare D, ritenendo che le due quantità siano tra loro eguali.

 

 

Il che, nell’esempio ora fatto, è vero; ma non ne discenderebbe la correttezza di tassare tutte le 500.000 lire di sovraprezzo. Poiché noi sappiamo che delle 500.000 lire di valor d’avviamento (B) sarebbero tassabili solo singolarmente le singole quote che dai singoli azionisti siano state realizzate mercé la vendita delle azioni. Non v’è nessuna ragione di credere che, pel fatto della nuova emissione, alcuno dei vecchi azionisti si sia trovato indotto a vendere le sue azioni.

 

 

Si dirà forse che il fatto medesimo della nuova emissione implica vendita dell’avviamento da parte dei vecchi ai nuovi azionisti; cosicché le 500.000 lire di sovraprezzo siano tassabili, non in qualità di sovraprezzo versato dai nuovi azionisti, ma in qualità di sopraprezzo incassato dai vecchi azionisti, i quali avrebbero ceduto in cambio ai nuovi le loro 500.000 di avviamento?

 

 

Si noti al riguardo:

 

 

  • a) che in ogni caso, i vecchi azionisti non hanno personalmente realizzato nulla; essi non hanno realizzato un guadagno che prima fosse latente. Avevano prima un’azione che valeva 1.500 e conservano dopo la medesima azione. Nulla prova che in quel momento vi siano state vendite effettive di azioni da parte dei vecchi azionisti; ed in tal caso dovrebbero essere tassati i singoli sporadici guadagni di 500 lire per azione e non il totale sovraprezzo di 500.000 lire;
  • b) che, in conseguenza della nuova emissione, si effettuò soltanto un amalgama di valori patrimoniali. Prima vi erano:
    • azionisti vecchi i quali avevano un’azione a cui corrispondevano 1.000 lire di capitale versato ed investito in macchine, edifici, ecc. e 500 lire di avviamento:
    • aspiranti azionisti nuovi, i quali avevano 1.500 lire di denaro contante;

 

 

Dopo vi furono:

  • azionisti vecchi e nuovi i quali avevano azioni a cui nel patrimonio sociale corrispondevano:

500 lire di vecchio capitale, già investito in macchine, edifici ecc.

250 lire di valor d’avviamento

500 lire di nuovo capitale ancora liquido in contanti

250 lire di sovraprezzo nuovo in contanti

Totale 1.500

 

 

Basta il fatto che i vecchi azionisti ad una consistenza patrimoniale di 1.000 lire in macchine, edificii ecc. e 500 in valor d’avviamento sostituirono una uguale consistenza patrimoniale diversamente composta, e viceversa i nuovi, per far sorgere il lucro? Sembra di no, essendosi soltanto avuto uno scambio tra equivalenti. È vero, ed è qui il punto, che, facendo astrazione dalle 1.000 lire di capitale versato, il vecchio azionista a 500 lire di valor d’avviamento ha sostituito 250 lire di valor d’avviamento + 250 lire di sovraprezzo in contanti; ma ciò non vuole ancora dire che egli abbia «realizzato» per metà di valor d’avviamento. Le 250 lire di sovraprezzo in contanti non le possiede egli, ma la società. Finché la società non abbia ripartito il sovraprezzo a titolo di dividendo od egli non abbia venduto l’azione – ma ciò poteva fare indipendentemente dalla nuova emissione – egli non ha realizzato il valor d’avviamento; e si trova nella stessa situazione del commerciante, la cui azienda vale 200.000 invece delle 100.000 lire da lui impiegate. Il guadagno potenziale esiste; ma non è tassabile (cfr. pag. 475), finché il negoziante non venda l’azienda. Perché dovrebbe essere tassato l’azionista il quale non ha venduto la sua azione?

 

 

  • c) vedesi perciò come la tassazione possa concepisce solo facendo la finzione – assurda e priva di senso, la quale può ammettersi solo in via di ipotesi – che realizzo per la società voglia dire realizzo per gli azionisti e che il realizzo si abbia per la società per il fatto della nuova emissione di azioni, altra finzione incomprensibile. Ma anche in questo caso, ciò che verrebbe a realizzarsi sarebbero non tutte le 500.000 lire di valor d’avviamento ma la metà di esse. Poiché la società «vecchia» composta dei vecchi azionisti vende, non tutto il valor d’avviamento di 500.000 lire, ma una metà di esso: essendoché, come si legge nello specchio ultimo della composizione patrimoniale dell’azione dopo l’emissione, i vecchi azionisti conservano 250 lire di valor d’avviamento ed hanno messo al posto soltanto delle altre 250 altrettanto denaro. Dunque, ove pure si ammettesse l’opinione che si realizzi di valor d’avviamento anche quando nessun azione si vende, l’avviamento ceduto e tassabile sarebbe solo della metà di 500.000 lire. Ovvero del terzo se l’emissione nuova fosse stata di sole 500 azioni, o dell’undicesimo se l’emissione fosse stata di sole 100 azioni, come un breve calcolo basta a dimostrare.

 

 

Supponiamo invero che la società aumenti il capitale nominale da 1 milione ad 1.100.000 lire, con nuove azioni da 1.500 effettivo.

 

 

Dopo l’emissione, la consistenza patrimoniale e la composizione delle vecchie e nuove azioni saranno le seguenti:

 

 

Vecchio capitale in macchinari ecc. L. 1.000.000 : 1.100 azioni = L. 909.09
Valor d’avviamento antico L. 500.000 : 1.100 azioni = L 454.54
Nuovo capitale nominale L. 100.000 : 1.100 azioni = L. 90.90
Sovrapprezzo L. 50.000 : 1.100 azioni = L. 45.45
  L. 1.650.000 : 1.100 azioni = L. 1500.00

 

 

Anche qui non c’è stato lucro effettivo né da parte dei nuovi né dei vecchi azionisti. I nuovi hanno sostituito a 1.500 lire in contanti un’azione la quale trova la sua corrispondenza nelle soppraddette quote del patrimonio sociali; i vecchi ad un’azione che aveva il corrispondente di bilancio stimato a 1.000 lire di macchinario ed a 500 lire di valor d’avviamento hanno sostituito 1.500 lire di consistenze patrimoniali diversamente composte. Ove anche vogliasi ammettere l’assurdo, che cioè un modificazione nelle scritturazioni sociali voglia dire realizzo del valor d’avviamento, chiaro si vede che il vecchio azionista o la vecchia società a 500 lire per azioni di valor d’avviamento ha sostituito 154.54 lire dello stesso valor d’avviamento a 45.45 lire di denaro contante.

 

 

Dunque, il cosidetto realizzo si limita ad 1/11 parte del valor d’avviamento.

 

 

Nei due casi estremi ora fatti, si avrebbe:

 

 

  Aumento del capitale sociale da 1.00.000 lire a
 

2.000.000

1.100.000

Valor d’avviamento ceduto dalla vecchia società

L. 250.000

L. 45.545

Sovraprezzo delle nuove azioni tassato dal fisco

L. 500.000

L. 50.000

 

 

Dal che si vede che il sovraprezzo tassato dal fisco è una quantità diversa dall’avviamento cosidetto ceduto; ed è una quantità che tanto più se ne discosta quanto più la nuova emissione è importante in confronto al capitale nominale preesistente. Onde scorretta si presenta la tassazione del sovraprezzo, anche ove si voglia ammettere la assurda tesi fiscale che la confusione nel patrimonio sociale del vecchio valor d’avviamento e del nuovo sovraprezzo dire realizzo del primo. Poiché inoltre, finora, le due parole ed i concetti di confusione e di realizzo non sono sinonimi, conviene riconosce che la pretesa del fisco di tassare i sovraprezzi è un espediente scorretto adottato per tassare gli incrementi di valore alle vecchie azioni, i quali soltanto sono reddito tassabile, ed ancora le sono, ove si parta dalla falsa teoria della tassazione del reddito guadagnato.

 

 

Le conclusioni non mutano ove, come accade frequentemente sovratutto nelle società cooperative, il sovraprezzo sia fatto pagare alle nuove azioni per controbilanciare non un valor d’avviamento che è materia di pura valutazione opinabile, ma le riserve accumulate con prelievo sugli utili.

 

 

Sia una società cooperativa, con un capitale di 100.000 lire diviso in 1.000 azioni da 100 lire l’una. Coll’andar degli anni, la società è riuscita, con prelievi sugli utili, prelievi sugli utili, prelievi a suo tempo già colpiti d’imposta già colpiti d’imposta, ad accumulare una riserva di 20.000 lire; talché le azioni valgono ora 100 lire per quota del capitale versato + 20 lire per quota della riserva accumulata; in totale 120 lire. Ai nuovi azionisti – e si sa che le cooperative hanno capitale illimitato – si fanno versare 120 lire; essendo manifestamente scorretto che si facciano versare 100 lire soltanto dando alle nuove azioni diritti uguali a quelli che hanno le vecchie azioni, i cui proprietari hanno versato 100 lire ed inoltre hanno rinunciato a ripartirsi tra di loro gli utili negli anni decorsi. Contuttociò fisco e magistratura persistono a reputare reddito le 20 lire di sovraprezzo versato dai nuovi azionisti e le vogliono tassate. Nessuna dimostrazione comprensibile è data dell’asserto fiscale; né è possibile darla.

 

 

Essendoché, supponendo che il numero degli azionisti raddoppi, si ha:

 

 

Prima dell’emissione nuova

Vecchio capitale

L. 100.000

: 1.000 azioni

= L. 100

Riserva già tassata

L. 20.000

: 1.000 azioni

= L. 20

Totale

L. 120.000

: 1.000 azioni

= L. 120

Dopo l’emissione nuova

Vecchio capitale

L. 100.000

: 2.000 azioni

= L. 50

Riserva già tassata

L. 20.000

: 2.000 azioni

= L. 10

Nuovo capitale nominale

L. 100.000

: 2.000 azioni

= L. 50

Nuovo sovraprezzo

L. 20.000

: 2.000 azioni

= L. 10

 

L. 240.00

: 2.000 azioni

= L. 120

 

 

Né vecchi né nuovi azionisti guadagnano alcunché, e solo mutano la forma del capitale. Come una «trasformazione» possa concepirsi come un guadagno è ignoto; sicché noi rinunciano a perseguire la scoperta del mistero.

 

 

479. La tassazione del conguaglio interessi. – Una società che ha sempre distribuito su un capitale di 1 milione di lire un dividendo del 6% e le cui azioni non fanno premio sul mercato oltre la pari, essendoché il tasso corrente di interesse è del 6% per quella sorta di impieghi, emette a metà dell’esercizio finanziario 1913 una nuova serie di 1.000 azioni da 1.000 lire l’una alla pari, per un totale di 1 milione. Sennonché questo nuovo milione di capitale, essendo incassato solo il 1 luglio 1913, frutta per un solo semestre ed avrebbe diritto a dividendo solo per un semestre. Due vie possono essere seguite dalla società:

 

 

  • a) pagare il dividendo intiero, supponiamo del 6%, alle vecchie azioni per il 1913; e metà del dividendo, ossia il 3%, alle nuove azioni. Si dovrebbero pagare i 3/4 se le azioni fossero state emesse il 1 aprile, 1/4 se emesse il 1 ottobre e così via, a seconda dei casi. Ove si segua questa via, il fisco non ha nulla a dire; tassa le 60 mila lire di utile delle vecchie e le 30 mila delle nuove.
  • b) ovvero farsi pagare a titolo di conguaglio interessi o dividendo, dai nuovi azionisti, 30 lire oltre le 1.000 di capitale, incassando così 30 mila lire in più del capitale. Alla fine dell’anno, è possibile distribuire il dividendo intero ad ambe le specie di azioni; 60 mila (ossia 6%) al vecchio capitale di 1 milione che fu attivo per tutto l’anno; e 60 mila lire (anche il 6%) al vecchio capitale di 1 milione che fu attivo per tutto l’anno; e 60 mila lire (anche il 6%) al nuovo capitale di 1 milione, di cui 30 mila guadagnate durante il corso del secondo semestre e 30 mila rimborso di quelle versate dai nuovi azionisti appunto allo scopo di permettere il pagamento dello stesso dividendo alle vecchie e nuove azioni.

 

 

In fondo, la differenza tra la soluzione (a) e quella (b) è puramente formale. È un espediente contabile che può essere utile allo scopo di far sì che, fin dal primo momento, le due specie di azioni, vecchie e nuove, abbiano i medesimi diritti e non vi siano due diverse quotazioni di borsa.

 

 

Tuttavia il fisco, che nel caso (a) colpisce ragionevolmente come reddito solo 60 + 30 = 90 mila lire; nel caso (b) vuole colpire 60 + 60 = 120 mila lire, sebbene sia manifesto che 30 mila lire sono un puro rimborso di ciò che dagli azionisti fu pagato allo scopo del conguaglio dividendo. Vista la quale incomprensibile opinione del fisco, spalleggiata dalla magistratura, alle società non rimane che abbandonare la vita (b) e seguire quella (a), sottraendosi in tal modo al preteso scorrettissimo balzello.

 

 

480. La tassazione del prezzo di cessione delle annualità. – Una società costruisce per conto dello Stato una ferrovia, che fu appaltata per 100 milioni di lire. Nel prezzo d’appello naturalmente è compreso il costo per la società costruttrice ed il profitto corrente della impresa; supponiamo 90 milioni costo a 10 milioni profitto. Se lo Stato pagasse subito i 100 milioni del prezzo d’appalto, l’operazione si liquiderebbe senz’altro; la società, pagati i 90 milioni di costo, accerterebbe il guadagno in 10 milioni e su questo lucro d’impresa sarebbe chiamata a pagare l’imposta di ricchezza mobile: in cifra tonda 1 milione d’imposta in categoria B su 10 milioni d’utile.

 

 

Ma lo Stato non ha i 100 milioni del prezzo d’appalto da pagar subito; e si impegna invece, accettando la società, a pagare una annualità costante di 5.477.700 lire per 50 anni. Ciò è più comodo per lo Stato; ed è indifferente per la società, la quale sa che 5.477.700 lire all’anno per 50 anni consecutivi equivalgono, all’interesse commerciale del 55, a 100 milioni di lire in oggi. Qualunque tabella delle annualità dimostra l’equivalenza di queste due quantità. E difatti la società, la quale ha bisogno di avere, se non i 100, almeno i 90 milioni di lire subito per pagare le spese, emette 90 milioni di obbligazioni e le colloca tra i capitalisti del paese, obbligandosi a pagare il 5% d’interesse ed a rimborsarle in 50 anni; destinando a ciò una somma costante di 4.929.930 lire. Ecco come si imposta allora il suo bilancio annuo.

 

 

Attivo   Passivo  
Annualità costante dello Stato L. 5.477.700 Annualità di interesse ed ammortamento agli obbligazionisti L. 4.929.930
    Utile L. 547.770
    Totale L. 5.477.700

 

 

Che cosa sono le L. 547.770 che la società lucra ogni anno, per 50 anni? Sono l’equivalente dei 10 milioni che avrebbe lucrato d’un tratto, se lo Stato avesse subito pagato il prezzo d’appalto in 100 milioni si lire. Come è ragionevole, le L. 547.770 sono soggette all’imposta di R. M. in categoria B, a titolo di lucro industriale. Lo Stato, se le cose continuassero così sino alla fine, ogni anno per 50 anni riscuoterebbe L. 54.777 d’imposta, equivalenti in oggi ad 1 milione di lire.

 

 

Passano dieci anni. La società, volendo allargare la sua cerchia d’azione ed avendo bisogno di capitale o per qualunque altro motivo, delibera di cedere ad una cassa di risparmio il suo diritto all’annualità costante di L. 5.477.700 lire per i residui 40 anni. Poiché il diritto ad avere L. 5.477.700 all’anno per 40 anni equivale in oggi a L. 93.992.000 lire, così la cassa di risparmio paga alla società le suddette lire 93.992.000. Ecco ora l’incredibile bilancio impiantato pel 1913 (supponiamo che l’operazione di cessione avvenga all’1 gennaio 1913) del fisco;

 

 

Attivo   Passivo  
Prezzo di cessione di annualità L. 93.992.000 Annualità di interesse ed ammortamento agli obbligazionisti come sopra L. 4.929.930
    Utile L. 89.062.070
    Totale L.93.992.000

 

 

Dice il fisco: non è forse vero che i bilanci si fanno anno per anno? Che nel 1913 la società incassa L. 93.992.000 e spende solo L. 4.929.930? La differenza non è di L. 89.062.070? Dunque poiché i saldi attivi nei bilanci significano utile, le L. 89.062.070 sono utile e quindi si debbono colpire con l’imposta di ricchezza mobile.

 

 

È chiaro il sofisma. Nel primo bilancio, la differenza di L. 547.770 era vero utile e quindi imponibile perché uguale alla differenza fra l’incasso costante di L. 5.477.700 e la spesa costante di L. 5.477.700 e la spesa costante di L. 4.929.930 per ognuno dei 50 anni a decorrere. Tassare 547.770 lire ogni anno era, ripetasi, equivalente a tassare subito la differenza di 10 milioni fra 100 milioni prezzo d’appalto e 90 milioni costo di costruzione delle ferrovia.

 

 

Ma nel secondo bilancio, da un lato, all’attivo, mettiamo L. 93.992.000 ossia il cumulo scontato al momento attuale di tutte le entrate future sperabili dalla società per i 40 anni decorrenti, ma al passivo collochiamo una sola delle 40 annualità ancora da pagare agli obbligazionisti[1].

 

 

Certo, con questa allegra contabilità, figura un utile di 89.062.070 lire. Ma che cosa accadrebbe se la società prendesse in parola le asserzioni del fisco e distribuisse come utile la detta somma? Che per i 39 anni a venire il bilancio della società si impianterebbe così:

 

 

Attivo   Passivo  
Incassi L. 0.000.000 Annualità di interesse ed ammortamento agli obbligazionisti come sopra L. 4.929.930
Perdita L. 4.929.930 Utile L. 89.062.070
Totale L. 4.929.930 Totale L.93.992.000

 

 

In qual lagrimevole risultato dimostra che le L. 89.062.070 non erano utile, ma valor capitale del diritto a percepire per 40 anni consecutivi l’annualità di L. 5.477.700. Solo dopo aver rimborsato anticipatamente tutto il debito obbligazionario, il residuo poteva essere considerato utile imponibile.

 

 

A dimostrare viemmeglio l’assurdità delle pretese fiscali, basti considerare che ove la tesi del fisco trionfasse, la società avrebbe pagato in imposte, per ognuno dei primi dieci anni il 10% sull’utile di L. 547.770 ossia L. 54.777 all’anno ed all’11 anno il 10% su L. 89.062.070 ossia L. 8.906.070. Ora pagare L. 54.777 all’anno per 10 anni equivale a pagare subito L. 689.104; e pagare L. 8.906.070 fra dieci equivale a pagare subito L. 5.468.326 sempre scontando le somme future al momento attuale al tasso del 5 per cento. In tutto la società pagherebbe d’imposta L. 6.157.431, mentre, se lo Stato avesse liquidato subito il suo debito in 100 milioni di lire contanti, avrebbe pagato solo un milione. In poche parole, gran parte dell’utile ripromessosi di 10 milioni sarebbe stata consacrata a pagare imposta; il che è assurdo, perché nessuna società è disposta a correre rischi per il gusto di pagare imposte e di non guadagnar nulla.

 

 

La conclusione è questa: che se il fisco si ostina a voler pretendere l’imposta di ricchezza mobile su ciò che è chiaramente capitale e non reddito, le società costruiranno in avvenire ferrovie od altre opere pubbliche per conto dello Stato, solo se: – lo Stato paghi il prezzo d’appalto in 100 milioni contanti, nel qual caso, la liquidazione avvenendo subito, si vede che il guadagno tassabile è di 10 milioni e l’imposta di 1 milione; ovvero lo Stato elevi l’annualità da L. 5.477.700 a L.6.086.333. Poiché allora la società potrà cedere la nuova annualità cinquantennale di L. 6.086.333 alla cassa di risparmio pel prezzo capitale di L. 111.11.111; e potrà, dopo aver pagato la imposta pretesa del 10% su L. 111.111.111 ossia L. 11.111.111 rimanere con i 100 milioni netti pattuiti e, fatta la spesa di 90 milioni, lucrare netti i previsti 10 milioni. Il fisco avrà così soddisfatta la sua libidine tassatrice, incassando un’imposta di L. 11.111.111; ma rimarrà con un pugno di mosche, perché desse erano le L. 11.111.111 che aveva pagato in più a titolo di maggior prezzo d’appalto.

 

 

La questione non ha perciò importanza per l’avvenire; perché le società, prevedendo la pretesa fiscale, aumenteranno il prezzo d’appalto da 100 a 111 milioni di lire. Ma ne ha molta per gli appalti già in corso, conchiusi quando nessuno aveva sentore che il fisco un giorno avrebbe preteso l’imposta anche sui capitali. Per questi casi l’imposta perde la sua corretta natura tributaria e si converte in uno strumento di confisca.

 

 

481. Se la destinazione del reddito possa modificare la sua indole rispetto all’imposta. – Le cose dette dinanzi mettono in chiaro che il legislatore e la giurisprudenza considereranno come reddito o, più semplicemente, oggetto dell’imposta di ricchezza mobile quelle somme che si sogliono dire «frutti» ed inoltre talvolta gli incrementi di valore patrimoniali delle cose madri che son feconde di frutti. Tendenzialmente oggetto dell’imposta di ricchezza mobile è la differenza di valore tra il patrimonio al principio dell’anno e il patrimonio alla fine dell’anno, nell’ipotesi che nulla sia nel frattempo stato distratto dall’azienda. Dato ciò, è evidente che il legislatore non volle tener conto del fatto che il contribuente abbia destinato il reddito ad uno piuttosto che ad altro uso. Qualunque sia l’uso del reddito, reddito rimane esso sempre ed è perciò imponibile. Epperciò il legislatore espressamente dichiarò all’art. 30 del testo unico 24 agosto 1877 che «nel reddito delle società anonime ed in accomandita per azioni, compresevi le società di assicurazione mutua od a premio fisso, saranno computate indistintamente tutte le somme ripartite sotto qualsiasi titolo fra i soci e quelle portate in aumento del capitale o del fondo di riserva ed ammortizzazione od altrimenti impiegate anche in estinzione di debiti».

 

 

Il che vuol dire che se una società lucra in un anno 100.000 lire, e di queste destina 50.000 lire a dividendo per gli azionisti, 25.000 a pagamento di un debito e 25.000 a formare od aumentare la riserva sociale, l’imposta deve colpire tutte le 100.000 lire e non le sole 50 mila repartite tra gli azionisti, anche le altre 50 essendo utile dell’anno, ed il pagar debiti o costituir riserve essendo un aumentare il patrimonio sociale. Oggetto dell’imposta essendo la differenza fra i due inventari di principio e di fine anno, tutte le 100.000 lire debbono essere tassate, come è manifestato dal seguente quadro:

 

 

  1 gennaio 31 dicembre Aumento patrimoniale
Capitale sociale

1.000.000

1.000.000

Riserva

100.000

125.000

25.000

Debiti

500.000

475.000

25.000

Dividendo a distribuire

50.000

50.000

 

100.000

 

 

La diminuzione dei debiti è un vero aumento patrimoniale; ed il dividendo a distribuire andrebbe ad aumento del patrimonio ove non fosse repartito.

 

 

Laonde è logico che tutte le 100.000 lire siano tassate.

 

 

Si può osservare soltanto che:

  • a) la medesima conclusione non sarebbe corretta, se si fosse partiti dal concetto della tassazione del reddito consumato, essendoché il mandar utile a riserva o il pagare debiti sono atti di risparmio; e, dove si reputi corretto esentare il risparmio, anche le somme impiegati negli anzidetti scopi andrebbero esenti. Essendo però l’imposta di ricchezza mobile fondata sulla tassazione del reddito guadagnato non si può tener conto di questa osservazione;
  • b) spesso le riserve non costituiscono un vero aumento patrimoniale; bensì un accantonamento di fondi destinati a sopperire a perdite future per crisi industriali, fallimenti, ribassi di valore dei titoli posseduti in portafoglio, ecc. ecc. Ragion vorrebbe che le riserve destinate a far fronte a perdite previste non fossero tassate se non il giorno in cui si constatasse che le perdite non vi furono o si subirono in misura minore del previsto, sì da consentire un avanzo effettivamente disponibile a favore degli azionisti.

 

 

Purtroppo nel nostro sistema legislativo non siamo ancora giunti a questo punto. Ogni esercizio finanziario sta a sé; le perdite si compensano durante l’esercizio coi benefici; ma le perdite del 1913 non sono conteggiate in deduzione dei benefici del 1914. Il sistema seguito da noi è il seguente:

 

 

  • 1) le perdite effettive del 1913 sono ammesse e dedotte nell’anno medesimo;
  • 2) le perdite effettive del 1913, che non poterono essere coperte con i proventi del medesimo 1913 non si possono si possono dedurre dai proventi dell’esercizio 1914, per il principio dell’indipendenza dei bilanci;
  • 3) le perdite presunte nel 1913 e già calcolate nel bilancio 1913 dalla società, non sono ammesse dalla finanza per l’anno stesso; essendoché si deducono solo le perdite effettivamente sostenute e non quelle presunte. Se però esse di fatto si verificheranno nel 1914, la finanza le ammetterà in questo anno 1914, anche se non comparissero nel bilancio sociale, per essere state coperte col fondo stanziato in bilancio nel 1913.

 

 

Da ciò si deduce che le somme mandate a riserva per sopperire all’onere di perdite eventuali negli esercizi futuri sono nel sistema della nostra legislazione considerate utili e come tali tassate. Sarebbe augurabile che, senza fare sfregio al concetto della tassazione del reddito guadagnato, si permettesse per i contribuenti privati la compensazione delle perdite coi benefici per dieci anni almeno, periodo che comprende in media l’intiero ciclo delle crisi economiche, annate buone, mediocri e cattive, e per le società l’esenzione delle riserve dall’imposta, finché, colla distribuzione loro agli azionisti, non si dimostri che il fine di far fronte ad eventuali perdite è venuto meno (cfr. in proposito A. Geisser, La riforma del regime fiscale delle società per azioni in «Riforma Sociale» del settembre 1910 e Benvenuto Griziotti, Sulla impossibilità degli utili mandati a riserva, nel volume degli studi in onere di Angelo Maiorana, Catania).

 

 

482. Tassabilità delle somme ripartite tra i consumatori a titolo di restituzione di parte del prezzo delle merci acquistate. – Il canone che la quantità di reddito dipende dalla natura originaria di una data somma e non dalla sua destinazione, ha giovato a far considerare reddito anche somme che secondo la logica ordinaria tali non sono.

 

 

Sia una società cooperativa di consumo, il cui scopo è di vendere a soci e non soci date merci al costo. Naturalmente siccome il costo non si può calcolare esattamente a priori, esso viene presunto solo in modo approssimativo; cosicché la cooperativa incassa dai consumatori 1 milione di lire durante il 1913 come prezzo di vendita di merci ai suoi clienti.

 

 

Fatti i conti, la società constata che il costo effettivo è stato solo di 950.000 lire; cosicché essa delibera di restituire ai consumatori le 50.000 lire percepite in più, bastando ad essa di non perdere e non desiderando lucrare. La finanza partendo dal concetto che la cooperativa è una persona giuridica distinta dalla persona dei soci, che il milione di lire era già entrato nel patrimonio della società, concludeva che la società ha guadagnato la differenza fra l’incasso di 1 milione e la spesa di 250 mila lire; onde le 50.000 lire sono utili della società e quindi tassabili, qualunque sia poi l’uso che la società ne taccia, sia che le riparta tra i soci o la distribuisca in opere di beneficienza o le destini a fondo di riserva.

 

 

La quale conclusione è corretta solo formalmente e dimostra quali sono i danni di voler attribuire alla personalità giuridica delle società commerciali una efficienza che per sé stessa non ha. La personalità giuridica non deve essere un concetto bastevole a far diventare reddito ciò che tale per sé stesso non è; bensì si deve vedere quale sia il significato della personalità giuridica in rapporto al fine che la società vuole raggiungere. La cooperativa di consumo deve essere considerata persona distinta dai soci, se questo considerarla distintamente giova a farle raggiungere meglio lo scopo suo, che è quello di fare acquisti al costo per conto dei soci. Non si capisce come l’aver pagato, per esigenze contabili, 1 milione di lire invece che 950 mila lire basti a dar natura di reddito, ossia di guadagno, a ciò che invece è una sovra spesa, la quale poi viene rimborsata.

 

 

Attribuire al concetto di personalità giuridica, tale virtù creativa da cambiare i connotati delle cose, è volere recar danno grave alle società cooperative. Le quali vivono spesso vita scatenata, perché per la paura di avere un avanzo e di vederlo tassato, tengono i prezzi vicinissimo al costo, talora falliscono per mancanza di margine, non possono costituirsi fondi di riserva, ecc. ecc.

 

 

483. Deducibilità delle annualità passive. – Sebbene nel sistema della nostra legislazione l’imposta colpisce il reddito nella sua quantità originaria, senza tener conto della destinazione sua, è evidente però che bisogna guardare se ciò che è reddito in sé stesso lo sia altresì per l’ente che è contribuente. Il caso tipico è quello delle annualità passive. Sia Tizio un industriale che ricava dalla sua azienda un reddito di 5.000 lire all’anno. Il reddito oggettivamente e di 5.000 lire; ma se Tizio ha dovuto per l’esercizio della sua industria contrarre un debito di 20.000 lire su cui paga a Caio un interesse annuo di L. 1.000, il reddito per Tizio si ridurrà a 4.000 lire; e Tizio potrà ottenere la detrazione delle 1.000 lire annue di annualità passiva, aggravandosi contemporaneamente d’imposta Caio per altrettanta somma.

 

 

Perché la detrazione dell’annualità passiva sia consentita, occorrono cioè due condizioni, che si deducono dall’art. 31 del vigente testo unico 24 agosto 1877;

 

 

  • a) che l’annualità passiva gravi il reddito del contribuente Tizio ha ottenuto a mutuo 20.000 lire per poter comprare il macchinario o avere il fondo circolante necessario alla sua azienda; senza il mutuo e senza pagare le 1.000 lire di interesse annuo, egli non otterrebbe il reddito; e quindi è corretto, nel sistema reale della nostra imposta di R. M., dedurre le 1.000 lire dal reddito di Tizio.

 

 

Con ciò si escludono le annualità passive che si pagano per debiti incontrati per altra causa che non sia la produzione del reddito. Così se Tizio ha contratto un muto di 20.000 lire per costituire una palazzina, il mutuo non aggrava il reddito industriale e le 1.000 lire non sono deducibili dal suo reddito.

 

 

In verità, non si capisce la ragione di non dedurre anche questa seconda annualità passiva; permanendo il fatto indiscutibile che il reddito di Tizio (il quale però sarà di 5.000 lire di reddito dell’industria + 800 lire, ad es., reddito presunto alla palazzina) è diminuito dalle 1.000 lire che deve pagare a Caio. Permettendo questa detrazione il fisco nulla perderebbe; perché Tizio dovrebbe pagare l’imposta su (5.000 + 800) – 1.000 = 4.800 e Caio su 1.000 lire; ed in tutto l’imposta sarebbe percetta su 5.800 lire, che è appunto il totale reddito dei due contribuenti. Ma il fisco vuole scorrettamente tassare Tizio su 5.000 + 800 = 5.800 e poi ancora Caio su 1.000; dando luogo ad una doppia tassazione (cfr. par. 236). Dopo aver lamentato il quale inconveniente, dobbiamo riconoscere il fatto che il nostro legislatore ha ammesso la detrazione della annualità passive, solo quando queste si devono pagare allo scopo di permettere il sorgere del reddito mobiliare. Il legislatore insomma non ha voluto spingere il suo sguardo al di là dei confini strettissimi dei redditi di ricchezza mobile e solo entro questi ristretti confini ha concesso la detrazione delle annualità passive.

 

 

La giurisprudenza si è ingegnata poscia a restringere vieppiù questi già ristrettissimi confini; poiché arzigogolando sulla differenza tra annualità «gravanti sul reddito» ed annualità «gravanti sul patrimonio» ha preteso che, se un industriale o società anonima esercente industria compra lo stabile della fabbrica per 100.000 lire e si procura le 100.000 mediante mutuo al 5%, le 5.000 lire di interesse annuo non siano una annualità passiva gravante sul reddito industriale, non siano cioè pagate per l’uso di un capitale investito in operazioni di carattere industriale, ma siano pagate per procurarsi un capitale che è andato a crescere il patrimonio sociale, e quindi non siano deducibili.

 

 

Tutto ciò è incomprensibile secondo la logica economica. Perché: – non esiste differenza fra annualità passiva gravante sul reddito ed annualità gravante sul patrimonio. Le 5.000 lire di annualità passiva non possono gravare sul patrimonio in altra maniera fuorché col diminuire d’altrettanto il reddito;

 

 

  • le 100.000 lire sia che siano state impiegate a comprare le stabile, la che siano state impiegate a comprare il macchinario o le materie prime, sempre hanno accresciuto d’altrettanto le attività od il patrimonio del contribuente, ed a queste attività cresciute corrisponde il debito; come al reddito cresciuto, corrisponde l’obbligo di pagare le 5.000 lire annue di interessi;
  • – come si può dire, che la compra dello stabile non sia necessaria per esercitare l’industria ed ottenere il reddito? Può forse questo ottenersi all’aperto, senza edifici appositi?

 

 

Si noti che per stabili si comprendono non solo i fabbricati propriamente detti, ma anche impianti complessi come ad esempio, officine idroelettriche, compreso il macchinario destinato alla produzione dell’energia elettrica.

 

 

Le or descritte aberrazioni si legittimano con pretesti, quali son quelli che il debito grava sul patrimonio e non sul reddito, o che si tratta di un patrimonio immobiliare e non mobiliare; mentre sono in realtà tentativi rivolti a rendere possibili doppie tassazioni.

 

 

  • b) che siano accertati: la persona ed il domicilio del contribuente nello Stato. La quale seconda condizione è ragionevolissima, essendo evidente che se Tizio ottiene la deduzione di 1.000 lire di interessi passivi dal suo reddito industriale o commerciale di 5.000 lire, il fisco deve aver modo di conoscere il creditore Caio e di colpirlo nello Stato per il reddito di cui egli gode. Altrimenti il fisco potrebbe colpire solo le 4.000 lire di reddito netto di Tizio, mentre il reddito industriale sorto in Italia (e noi sappiamo che l’imposta di ricchezza mobile ha limiti territoriali e colpisce tutto il reddito sorto in Italia) è di L. 5.000 e tutte esse devono essere tassate, 4.000 presso Tizio e 1.000 presso Caio. Talvolta non è necessario conoscere il nome e il domicilio nello Stato del creditore; come quando una società anonima ha un debito in obbligazioni di 1 milione di lire su cui paga 50.000 lire all’anno di interessi. Allora, per comodità del fisco e dei contribuenti, si adotta il sistema della tassazione al nome della società, salvo il diritto a questa di rivelarsi sugli obbligazionisti. È il sistema della tassazione per interposta persona di cui già parlammo (cfr. par. 392 e 398). E notisi ancora che, il più spesso, dove i debiti sono cambiari o chirografari, i debitori preferiscono non denunciare l’annualità passiva. Invero se la denunciasse, Tizio pagherebbe l’imposta solo su 5.000 – 1.000 = 4.000 lire, ma Caio la pagherebbe su 1.000. Tizio pagherebbe in categoria B (redditi misti di capitale e lavoro) circa il 10% ossia 400 lire, e Caio in categoria A2 (redditi di capitale puro) il 5% circa, ossia 150 lire; in tutto 550 lire. Mentre se Tizio non denuncia l’annualità e paga su tutte le 5.000 lire, il suo onere è del 10% su 5.000 lire ossia di 500 lire; e dal canto suo Caio nulla paga, rimanendo ignoto il suo credito. Onde si ha un risparmio di 50 lire di imposta, evitandosi di far passare 1.000 lire dalla categoria B, tassata col 10%, alla categoria A2, tassata col 15 per cento.

 

 

484. Deducibilità delle spese di produzione. Concetto generale delle spese deducibili. Spese di produzione e spese di erogazione. – Le nozioni esposte rispetto alla detrazione delle annualità passive, giovano a chiarire altresì il concetto del legislatore rispetto alla detrazione delle spese di produzione. Come per i reddito dei terreni e dei fabbricati, anche per i redditi di ricchezza mobile è d’uopo detrarre dal prodotto lordo dell’azienda le spese di produzione, per ottenere quel reddito netto che solo è imponibile.

 

 

Il problema si presenta importante sovratutto per i redditi di industria o commercio, essendoché per gli interessi dei capitali, gli stipendi ed i lucri professionali si debbono unicamente dedurre il fitto dello studio, il consumo degli strumento dei libri necessari per l’esercizio della professione; cose le quali non presentano difficoltà. Invece è delicatissima la detrazione delle spese per industriali e commercianti, i quali vedono di solito assorbita dalle spese la maggior parte dei loro incassi. Il tessitore in lana si stimerà spesso fortunato di lucrare 50 centesimi netti per ogni metro di stoffa che venderà a 10 lire, tutto il resto essendo spesa. Il grande magazzino lavorerà talvolta con un margine di profitto del 5% fors’anco minore, sul prezzo di vendita. Se non si ammettesse l’esatta detrazione delle spese, spesso l’imposta assorbirebbe l’intiero profitto dell’impresa.

 

 

Ecco ora il testo dell’art. 32 del testo unico 24 agosto 1877, che regola questa materia: «Per la classe dei redditi industriali si terrà conto, in deduzione, delle spese inerenti alla produzione, come il consumo di materie grezze e strumenti, le mercedi agli operai, il fitto dei locali, le commissioni di vendita e simili».

 

 

L’inciso essenziale è nelle parole «inerenti alla produzione», le quali mettono in chiaro che si possono detrarre dal prodotto lordo dell’azienda soltanto quelle spese le quali sono inerenti alla produzione del reddito, che devono cioè necessariamente farsi affinché si produca il reddito che si tratta di tassare.

 

 

Il concetto del legislatore viene ulteriormente spiegato con l’esemplificazione, che viene fatta di poi, di spese che indubbiamente sono da considerarsi detraibili. L’elenco non è tassativo, essendo anzi esplicitamente dichiarato che possono detrarsi tutte le spese «simili» a quella elencate. E meglio ancora il concetto stesso è chiarito da talune esclusioni che esplicitamente il legislatore il legislatore volle enunciare; dicendo nel capoverso dello stesso art. 32:

 

 

«Non potranno far parte di tali spese:

 

 

  • 1) L’interesse dei capitali impiegati nell’esercizio, siano proprii dell’esercente o tolti ad imprestito, salvo per questi ultimi il disposto dell’articolo precedente». Che è quello relativo alla detrazione delle annualità passive. Salvo dunque che sia consentita la detrazione delle annualità passive, nel qual caso il fisco tassa presso il creditore il reddito detratto a favore del debitore, l’interesse dei capitali impiegati nell’azienda non è mai considerato come una spesa detraibile. Il che è logico, essendo anzi l’interesse del capitale parte del reddito che si vuole tassare. Tizio ha impiegato nell’azienda industriale sua un capitale di 100.000 lire; e ricava, detratte tutte le altre spese, un reddito di 10.000 lire. Il qual reddito è frutto del capitale di 100.000 lire ed insieme del lavoro dell’industriale. Se noi deduciamo dal reddito l’interesse al 5% del capitale di 100.000 lire, il reddito imponibile si ridurrebbe a L. 5.000; ma le altre 5.000 lire, di interesse del capitale, dovrebbero pure essere in altro modo tassate, poiché nessun reddito può sfuggire al tributo. Dal che si deduce che tutte le 10.000 lire devono essere tassate.
  • 2) « il compenso per l’opera del contribuente, di sua moglie e di quei suoi figli, che fossero occupati nell’esercizio ed al cui mantenimento è obbligato per legge, quando coabitano col padre». È chiaro che, per la medesima ragione detta di sopra, non si può dedurre dal reddito delle 10.000 lire dell’azienda, il compenso, supponiamo, di 3.000 lire all’anno dovuti al commerciante pel suo lavoro, di 1.000 lire dovuti alla moglie e di 1.000 lire al figlio occupato nell’esercizio del padre e col padre convivente. Se queste deduzioni fossero ammesse, che cosa rimarrebbe ancora del reddito? Nulla. Il reddito è il compenso del capitale e del lavoro del commerciante e di quelle persone che si possono considerare come tutt’una persona col contribuente stesso e cioè la moglie ed i figli, da lui dipendenti. Notisi anche che si si concedesse la detrazione degli assegni dovuti alla moglie ed ai figli, questi assegni dovrebbero pur sempre essere tassati come redditi di costoro, salvo che i redditi stessi fossero esenti da imposta perché non superiori alle 640 lire all’anno. E potrebbe darsi che il contribuente, a scopo di frode, assegnasse ad ognuno dei suoi figli ed alla moglie uno stipendio annuo di 640 lire, anche se essi in nulla contribuissero al lavoro svolto nell’azienda.
  • 3) «La spesa per l’abitazione del contribuente e della sua famiglia» è chiaro altresì che, se è logica la detrazione del «fitto dei locali» inservienti all’industria od al commercio, perché senza quei locali non si otterrebbe il reddito, non altrettanto logica sarebbe la detrazione della spesa per l’abitazione personale del contribuente e della sua famiglia. Tizio spende 2.000 lire di fitto pel locale del suo negozio; ed è una spesa necessaria allo scopo di ottenere il reddito ed è quindi deducibile. Tizio, dopo avere ottenuto il reddito del negozio, ne spende una parte, per es., 2000 lire all’anno, per procacciare a sé ed alla famiglia l’abitazione. Questa non è più spesa sostenuta per ottenere il reddito; è spesa fatta mercé il reddito più ottenuto; e non è quindi deducibile. L’eccezione esplicita fatta dal legislatore per il fatto dell’abitazione del contribuente giova a distinguere nettamente fra:
    • a) Le spese di produzione, che sono anteriori e necessarie alla produzione del reddito, e sono deducibili;
    • b) e le spese di erogazione che sono logicamente posteriori alla produzione del reddito, e sono un modo di spendere od erogare il reddito già prodotto.

 

 

Le quali non sono deducibili. Se deducessimo dal prodotto lordo, ossia esentassimo dall’imposta la spesa per l’abitazione, non vi sarebbe ragione per non dedurre anche le spese per il cibo, i vestiti, i divertimenti ecc. ecc. E, di nuovo, che cosa rimarrebbe del reddito? Nulla, poiché tutto il reddito può essere speso.

 

 

Chiarito così il concetto delle spese deducibili o detraibili, discutiamo talune questioni che sono sorte a questo proposito. Oltre, infatti, alle spese sicuramente detraibili, come:

  • spese per l’acquisto delle materie prime:
  • spese per l’acquisto dei combustibili;
  • spese per l’acquisto degli strumenti che si consumano nell’anno;
  • mercedi degli operai;
  • fitto effettivo o presunto (nel caso che si tratti di locali proprii, il cui fitto si deve ugualmente dedurre, essendoché forma oggetto dell’altra imposta sui fabbricati) dei locali destinati all’industria od al commercio;
  • spese per la vendita, come commissioni di vendita, provvigioni ai commessi viaggiatori e piazzisti, spese di viaggio per la vendita, ecc. ecc.,

 

 

vi sono altre spese, che non presentano altrettanto nitidi i caratteri delle spese di produzione; ed intorno a cui è sorto qualche ragionevole dubbio.

 

 

485. Se nel fitto detraibile dei locali siano comprese anche le spese inerenti ai locali stessi. – Sia una società la quale affitta un fabbricato industriale per la somma annua di L. 10.000. Come fu sopra avvertito, la società ha diritto di detrarre dal suo reddito lordo industriale, che, al netto da tutto spese, supponiamo sia di 50.000 lire, la detta somma di L. 10.000, che rappresenta una spesa per l’esercizio dell’industria, rimanendo il reddito di ricchezza mobile di sole L. 40.000. Se il fabbricato è di proprietà sociale, le 10.000 lire – le quali saranno semplicemente presunte, sulla base del reddito lordo che al fabbricato è attribuito nel relativo catasto compilato ai fini dell’imposta sui fabbricati – saranno egualmente detratte; perché la società in quanto esercente l’industria si presume paghi le 10.000 lire di fitto a sé stessa, in quanto proprietaria.

 

 

Dato ciò, si presentano varie questioni:

 

 

  • a) È, inoltre, deducibile la spesa di manutenzione e di riparazione del fabbricato medesimo e dei macchinari che sono reputati, ai fini tributari, parte integrante dei fabbricati (cfr. par. 451)? Si risponde distinguendo fra le spese di riparazione e manutenzione straordinarie, che fanno carico al proprietario del fabbricato e quelle ordinarie che sono normalmente sopportate dall’affittuario od inquilino. Le prime, spettando al proprietario, non costituiscono spesa per l’industria affittuario (sia pur di sé stesso) e non possono quindi da costui essere dedotte dal suo reddito. Esse si reputano comprese in quel terzo di detrazione che viene concesso ai proprietari di fabbricati industriali secondo la vigente legge sull’imposta dei fabbricati (cfr. par. 456). Le seconde, essendo sopportate dagli affidatari, sono veramente una spesa dell’industria come tale e possono quindi essere dedotte dal reddito sono di ricchezza mobile;
  • b) È, inoltre, deducibile la spesa derivante dall’imposta sui fabbricati? No. Perché, l’imposta medesima è dovuta non dalla società come industriale, ma dalla società come proprietaria di fabbricati. L’imposta sui fabbricati è un carico delle 10.000 lire di reddito del fabbricato, non delle residue 40.000 di reddito dell’industria. Se oltre le 10.000 lire di fitto dei locali, si detraessero anche le 2.000 lire (per ipotesi) di imposta sui fabbricati, l’industriale godrebbe della detrazione di 12.000 lire, mentre il proprietario pagherebbe l’imposta solo su 10.000; e 2.000 lire sfuggirebbero al tributo;
  • c) È, inoltre, deducibile la spesa sopportata per i canoni dovuti allo Stato per la concessione delle forze idrauliche? Alla domanda logicamente pur si debba rispondere come alla precedente. Già soppresso anche il reddito delle forze idrauliche inservienti industria. Quindi i canoni per la concessione delle forze idrauliche essendo un peso di una parte integrante dei fabbricati dovranno essere detratti dal reddito lordo dei fabbricati, dalle 10.000 lire cioè e non mai dalle 40.000 lire di redditi industriale, per la produzione del quale le forze idrauliche non sono reputate essere, per volontà del legislatore, un fattore necessario.

 

 

Un ragionevole dubbio, in punto di equità, sorge soltanto per ciò che per l’art. 2 della legge 26 gennaio 1985, i detti canoni non sono nemmeno deducibili come spesa dal reddito dei fabbricati; cosicché, mentre la logica vuole che non siano deducibili dal reddito di ricchezza mobile, la legge ne esclude del pari la deducibilità dal reddito dei fabbricati.

 

 

Né è ammissibile che i canoni stessi siano una di quelle spese che, in massa, vengono reputate uguali al terzo del reddito dei fabbricati. Poiché quel terzo sembra consistere esclusivamente di spese necessarie alla produzione del reddito edilizio: riparazione, ammortamenti, assicurazioni, sfitti ordinari, amministrazione ecc. I canoni di concessione pagabili allo Stato non sono una spesa rientrante nel terzo, sebbene sono una quota di partecipazione dello Stato, che ha la proprietà eminente delle acque pubbliche, al reddito netto, già deputato da spese, delle forze idrauliche, quota che viene, per semplicità, precisata in L. 3 per cavallo idraulico.

 

 

Certo è questa una strana situazione: l’onere dei canoni di concessioni, che è un vero onere, non può essere dedotto dal reddito mobiliare, perché grava sul reddito edilizio; ed il legislatore vieta espressamente che sia dedotto dal redditi edilizio. Né il contribuente ha il conforto di supporlo compreso nella deduzione generica del terzo per i fabbricati, non essendo quel canone una spesa di produzione del reddito edilizio, ma una quota di compartecipazione dello Stato al reddito stesso. Si comprende perciò come, in via di equità, taluni magistrati ne abbiano ammesso, contrariamente alla logica la detrazione dal reddito di ricchezza mobile;

 

  • d) È, inoltre, deducibile la spesa per le quote di assicurazione contro gli incendi? Nessun dubbio per quanto riflette l’assicurazione delle scorte di magazzino, materie prime, prodotti dell’industria e per quella parte di macchinario che ha natura di «macchina lavoratrice», ed è quindi ritenuto fattore del reddito industriale. Trattasi di spesa manifestamente necessaria all’esercizio dell’industria, perché nessun industriale vorrebbe correre il rischio della produzione col periodo di veder distrutto dall’incendio il frutto dell’opera sua.

 

 

Dubitasi invece per quanto tocca la quota di assicurazione contro l’incendio del fabbricato industriale e di quella parte del macchinario che dal legislatore è considerata parte integrante del fabbricato. La quota, si disse, è onere gravante sul fabbricato e non sull’industria e va dedotta dal reddito del fabbricato – ossia compresa nel noto terzo generico – e non dal reddito dell’industria.

 

 

Ma poi si rifletté che la quota di assicurazione del fabbricato industriale comprende due parti: di cui la prima, e la minima per importanza, è quella corrispondente al rischio di incendio che corre il fabbricato come tale, che correrebbe anche ove non fosse destinato ad industria, mentre la seconda ed assai più importante corrisponde al maggior rischio che il fabbricato corre di incendiarsi in quanto è destinato all’esercizio dell’industria; essendo ben noto che le operazioni industriali sono assai pericolose dal punto di vista del sorgere di incendi. Perciò, si concluse, ma minore parte della quota di assicurazione dovrebbe far carico al reddito del fabbricato e la maggior parte al reddito dell’industria. E, nella quasi impossibilità di distinguere l’una dall’altra parte e per l’adagio che l’accessorio segue il principale, è ormai giurisprudenza prevalente che la quota di assicurazione contro gli incendi per il fabbricato industriale debba essere dedotta dal reddito di ricchezza mobile.

 

 

486. Se nelle mercedi agli operai e negli stipendi agli impiegati siano compresi anche i loro accessori. – Le mercede o stipendio può assumere forme diverse, le quali nulla mutano alla sua natura propria e quindi alla sua detraibilità dal reddito lordo. Così:

 

 

  • a) se al salario o stipendio degli operai od impiegati viene aggiunta una quota di partecipazione degli utili dell’azienda, questa conserva natura di rimunerazione dell’opera prestata dall’operaio od impiegato. Nulla importa che il compenso sia pagato sotto forma di una quota parte di un reddito incerto nel suo ammontare; ché anzi quella forma è preferita appunto per stimolare il lavoratore a crescere la sua operosità, e quindi gli utili dell’azienda. Quale spesa più efficace di questa a produrre il reddito? Concluderemo però che tutto ciò che sotto nome di gratificazioni, partecipazioni agli utili, premio ecc. viene promesso in somma incerta od eventuale ad operai per stimolare la loro solerzia è parte del salario e come tale va dedotto dal reddito lordo;
  • b) dubitasi invece per le quote di partecipazione agli utili attribuite agli amministratori di una società per azioni. Costoro non sono in senso stretto impiegati della società, di cui invece sono i dirigenti. Ma essi, in quanto amministrano, prestano il loro lavoro ad incremento dell’azienda sociale; né v’è ragione di distinguere fra il loro lavoro e quello dei funzionari od impiegati, salvoché dal punto di vista qualitativo. Delle quali differenze qualitative l’imposta non tien conto, colpendo essa tutti i redditi di qualunque specie di lavoro, ordinario o superiore, morale od immorale, spregiato o tenuto in gran conto. Ed invece la giurisprudenza già considerata spesa le somme pagate agli amministratori a titolo di gettone o medaglia di presenza alle sedute del consiglio o di stipendio fisso, riconoscendo trattarsi di remunerazione dovuta per un lavoro prestato a prò della società di cui costituisce un onere. Rilutta invece la giurisprudenza a reputare compenso di lavoro e quindi spesa di produzione detraibile il compenso pagato agli amministratori sotto forma di partecipazione agli utili sociali. La partecipazione, dicesi, viene fissata dopo che gli utili sono già ottenuti; non è una condizione ma una erogazione di essi utili (cfr. sopra al par. 484 la distinzione fra spese di produzione e spese di erogazione). Osservisi però che, a giudicare se una spesa sia anteriore o posteriore alla produzione del reddito, non bisogna guardare all’antecedenza cronologica ma a quella logica. Un compenso può essere, in ordine di tempo, pagato dopo che il reddito fu prodotto; ma, se l’aspettativa di esso fu condizione necessaria efficace perché gli amministratori compiessero quell’opera di direzione e di deliberazione che era d’uopo perché il reddito si procedesse, la posteriorità cronologica non monta; dovendosi badare soltanto all’anteriorità logica. Concludasi perciò che, logicamente, la quote di partecipazione agli utili degli amministratori sono, per la società, una spesa detraibile; e dovranno, insieme con i gettoni o medaglie di presenza o stipendi, essere tassate come redditi degli amministratori, al nome sempre della società, ma con diritto di rivalsa sugli amministratori;
  • c) è noto che, nella società moderna, al salario pagato agli operai, si aggiungono spesso premi di assicurazione contro gli infortuni, le malattie, le maternità, la vecchiaia, l’invalidità ecc. Sono queste quote o premi veri accessori del salario, perché l’operaio, oltre il salario giornaliero, riceve vantaggi diversi, valutabili in stato a prò dell’industriale. L’industriale trae vantaggio dal pagamento di questi premi, perché l’operaio che è sicuro di essere indennizzato in caso di infortunio, di ricevere un soccorso in caso di malattia o di maternità, una pensione quando sia divenuto vecchio ed invalido, è più tranquillo e fiducioso nell’avvenire, più affezionato all’azienda, può nutrirsi meglio, non dovendo più prelevare dal suo salario tutto ma solo parte di ciò che è necessario per premunirsi contro le eventualità dolorose della vita. A parità di condizioni, l’impresa la quale ha istituito opere di previdenza a favore degli impiegati ed operai è meglio prospera ed immune da scioperi e violenti conflitti colla maestranza, ed ottiene redditi più sicuri e copiosi delle imprese che tali avvedimenti non hanno applicato. La verità della quale osservazione è così evidente, che essa si applica anche alle altre istituzioni sociali che l’imprenditore possa aver creato a prò degli operai del suo stabilimento; come scuole operaie; asili d’infanzia per i bambini, che le madri avrebbero dovuto abbandonare sulla strada, case operaie affittate a prezzo inferiore al costo ecc. ecc. Tutto ciò che rende ilare e contenuto l’operaio, che ne accresce la salute fisica e la vigoria intellettuale e nervosa, giova alla produzione del reddito e deve essere considerato un complemento del salario detraibile.

 

 

Non così opina purtroppo la giurisprudenza italiana, al quale, grettamente avvisando, reputa spesa detraibile solo le quote di assicurazione che per legge siano obbligatorie: ad es. le quote per l’assicurazione contro gli infortuni e la maternità. Per le quali l’obbligatorietà legale l’ha persuasa trattarsi di spese che non possono essere evitare se il reddito vuole essere ottenuto. Concezione questa non solo gretta, ma benanco erronea; poiché spese detraibili non sono soltanto quelle che son fatte obbligatorie per virtù di legge, bensì quelle che giovano alla produzione del reddito. Niun dubbio che, ponendo mentre al concetto, dianzi svolto, della anteriorità logica, le spese che si possono chiamare «sociali» di un’impresa moderna non debbano essere reputate una erogazione del reddito già prodotto, come falsamente opina la giurisprudenza prevalente, bensì una condizione efficace un reddito più sicuro ed abbondante. Quindi una spesa di produzione detraibile.

 

 

487. Se nel consumo degli strumenti siano compresi anche i consumi non apparenti o le quote ideali di consumo. – Una società spende 10 mila lire all’anno per comperare lime, martelli, tenaglie, strumenti svariati che rapidamente si consumano e che ogni anno devono essere rinnovati. Niun dubbio che, trattandosi di una spesa ricorrente tutti gli anni, essa debba essere detratta dal reddito. Ma se la società compra una macchina lavoratrice, per es., un telaio meccanico del costo di 10.000 lire, una macchina rotativa per la stampa dei giornali del costo di 100.000 lire, non potrà la spesa relativa essere considerata come spesa dell’anno ed intieramente detratta dal reddito lordo; inquantoché questa è una spesa la quale va ad aumentare il patrimonio sociale e non ha d’uopo di essere reintegrata intieramente nell’anno.

 

 

Spesa può essere considerata solo quella che non lascia traccia nell’inventario alla fine dell’anno, salvoché per il reddito prodotto mercé sua; non essendo spesa quella che è invece semplice trasformazione di un valore patrimoniale di 100.000 lire in contanti in 100.000 lire di macchinario.

 

 

Tuttavia il macchinario non ha durata perpetua; esso nell’anno non si consuma intieramente, ma in parte si deteriora, si guasta, invecchia; onde alla fine dell’anno il valore suo non sarà più di 100.000 lire, solo di 95.000 lire. Si è consumata cioè una quota parte della macchina; e questo consumo è vera spesa.

 

 

Per chiarire il problema, fa d’uopo elaborare ulteriormente questo concetto delle spese detraibili per il consumo del capitale impiagato nell’imposta.

 

 

Se l’imprenditore vuole conservare intatto il patrimonio iniziale investito al principio d’anno in macchinari ed impianti industriali, uopo è che provveda a dedurre dal reddito lordo le seguenti quote:

 

 

  • a) Quote di manutenzione o riparazione. – Innanzi tutto e da detrarre una quota di manutenzione, che serve a mantenere impianti e macchinario in buon ordine, puliti, a riparare i guasti ecc. È certo questa una spesa e va detratta.
  • b) Quote di deperimento ovvero sostituzione. – Oltre alla quota di manutenzione sono da detrarsi le quote di deperimento. Esse infatti sono quote destinate annualmente alla formazione di un fondo che, dopo un certo tempo, quando per qualsiasi ragione le macchine attualmente in uso non serviranno più, verrà erogato nell’acquisto di nuove macchine, di nuovi impianti, che prenderanno il posto delle macchine e degli impianti attuali.

 

 

Si tratta, come si vede, di quote che non hanno per iscopo di aumentare il capitale ma di conservarlo nelle condizioni attuali, di impedire che diminuisca.

 

 

Le quote di deperimento prendono anche il nome di quote di sostituzione. Le quali quote di deperimento o sostituzione possono costituirsi in due modi; o mettendo da parte, per 10 anni, ogni anno, una somma di 10.000 lire per sostituire una macchina del valore di 100.000 lire che sarà alla fine dei 10 anni divenuta inservibile; ovvero, ove l’ampiezza dello stabilimento lo consenta, consacrando senz’altro ogni anno 100.000 lire alla sostituzione della macchina divenuta inservibile con una nuova. Siccome ogni anno una parte del macchinario va fuori d’uso, ogni anno si debbono spendere 100.000 lire a tal scopo, senza dovere costituire un fondo apposito. Tali quote rappresentano effettivamente una spesa, onde è giusta anche per esse la detrazione dal reddito lordo.

 

 

Notisi che le quote di deperimento o sostituzione debbono provvedere a far fronte al logorio fisico ed al logorio economico. Dicesi logorio fisico quello della macchina che dopo 20 anni è materialmente divenuta inservibile perché logora e guasta e non più riparabile. Dicesi logorio economico quello della macchina che, fisicamente, potrebbe ancora andar avanti per anni parecchi, ma deve essere messa da parte perché è stata inventata una macchina nuova migliore che ha soppiantata la vecchia. L’industriale se non vuol essere vinto dalla concorrenza deve buttare fra i ferravecchi la macchina vecchia e comprare la nuova. Se per poter far ciò non ha provveduto con opportune quote di deperimento, egli perde del suo capitale.

 

 

Le cose dette rispetto ai macchinari ed agli impianti industriali si possono estendere anche ai fabbricati industriali ed a quella parte del macchinario che dei primi è reputata parte integrante? No. Le quote di manutenzione o riparazione e quelle di sostituzione o deperimento relative ai fabbricati industriali e loro accessori fanno invero già parte del terzo che vien detratto dal reddito lordo dei fabbricati ai fini dell’applicazione della imposta sui fabbricati; e non possono quindi detrarsi una seconda volta dal reddito industriale.

 

 

Ove però l’esercizio dell’industria dia luogo a spese di riparazione e deperimento del fabbricato eccezionali, come nella fabbricazione dei prodotti chimici, del vetro, ecc., allora le spese relative ragionevolmente non possono più essere comprese nel terzo di detrazione per l’imposta dei fabbricati; e tutto ciò che supera le quote ordinarie deve essere ammesso come spesa detraibile dal reddito industriale.

 

 

  • c) Quote di ammortamento in senso stretto. – Cosa affatto diversa sono le quote di ammortamento in senso stretto[2], le quali mirano alla ricostituzione del capitale, in aggiunta ed indipendentemente dalle quote destinate a risarcire il deterioramento o deprezzamento cui desso va soggetto coll’uso.

 

 

Tali quote possono solo in certi rari casi essere considerate come spese, quindi detratte dal reddito; normalmente invece la detrazione non è ammissibile. Sia, ad es., una azienda avente vita indefinita, quale può essere quella di un industriale privato; supponiamo che l’industriale, oltre a prevalere ogni anno una quota del reddito per riparare il capitale macchine (quote di manutenzione) ed un’altra per reintegrare i guasti fisici ed economici (quota di deperimento), prelevi anche dal reddito stesso un’altra quota allo scopo di rimborsare, di ricostituzione, entro un certo numero di anni, il capitale originario impiegato nell’industria. Questa terza quota sarebbe una vara e propria quota di ammortamento, per effetto del quale, decorso un certo numero di anni, l’industriale si troverebbe possessore non solo del capitale di 1.000.000 di lire che aveva in principio (investito in macchine, impianti, ecc.), mantenuto al valore originario mercé le quote di manutenzione e di deperimento, ma anche di un nuovo capitale di un altro milione di lire, messo insieme con le quote di ammortamento, uguale al primo in valore, di cui avrebbe la libera disponibilità.

 

 

Sarebbe quindi un errore considerare la quota di ammortamento come una spesa, essendo essa null’altro che una parte del reddito economizzata e trasformata in capitale. Se l’imposta di ricchezza mobile colpisse solo il reddito consumato, essa dovrebbe esentare altresì le quote di ammortamento propriamente detto. Ma poiché invece essa è fondata sul concetto del reddito guadagnato, la quota di ammortamento la quale serve non a conservare ma ad aumentare il capitale, non deve essere considerata come spesa bensì come reddito e come tale soggetta ad imposta.

 

 

Se invece consideriamo una intrapresa avente vita temporanea, per esempio una società ferroviaria, che abbia ottenuto dallo Stato la concessione per 60 anni, trascorsi i quali deve passare in proprietà dello Stato, senza compenso, il materiale e le linee da essa costruite coi propri capitali, evidentemente sarà indispensabile per questa società mettere da parte, oltre la quota per le spese di manutenzione e la quota di deperimento – le quali sono necessarie perché la società deve consegnare gli impianti alla fine del sessantennio in perfette condizioni allo Stato – un’altra quota destinata a ricostituire il suo capitale, a rimborsare le azioni, non potendo valersi a questo scopo dal capitale rappresentato dal materiale e dall’impianto, diventando questo proprietà dello Stato. La quota di ammortamento in tale ipotesi è una spesa necessaria (non lo sarebbe invece se al termine dei 60 anni, lo Stato dovesse rimborsare alla società il valore dell’impianto e del materiale); e perciò è logico che tale quota venga detratta dal reddito lordo, oltre alla detrazione delle quote di manutenzione e di deperimento.

 

 

Così dicasi pure per le società delle tramvie, del gas, della luce elettrica, per le imprese idroelettriche che abbiano avuto una concessione a termine e che siano obbligate a consegnare gli impianti in buono stato all’ente concedente senza diritto ad indennità. Sempre la società avrà diritto a detrarre, oltre la quota di manutenzione e deperimento dell’impianto, una quota di ammortamento del capitale investito, il quale andrebbe perduto se la società non provvedesse a ricostituirlo sui proventi dell’esercizio durante il periodo della concessione.

 

 

È chiaro altresì che, se l’ente concedente alla fine del termine rimborsa al concessionario in tutto o in parte il valore degli impianti, la società o non avrà diritto a detrarre alcuna quota di ammortamento o soltanto una quota eguale alla differenza fra il valore degli impianti e l’indennizzo ricevuto dall’ente concedente.

 

 

488. Se alle quote di deperimento degli impianti possono assimilarsi le quote di ammortamento delle spese di impianto o di prezzo d’avviamento. – Gli industriali e specialmente le società, per impiantarsi, hanno bisogno di fare spese che non si traducono in risultati materiali, ma sono nulladimeno necessarie perché l’impresa abbia a funzionare. Tali sono le spese per l’atto costitutivo delle società, la registrazione e le pubblicazioni relative, le spese di bollo, di emissione e di stampa delle azioni. Tale è anche il prezzo di cessione dell’avviamento, nel caso che l’industriale o commerciante abbia rilevato l’azienda altrui.

 

 

La giurisprudenza italiana prevalente è però contraria a concedere la detrazione, come spesa, della somma che gli industriali e le società sogliono iscrivere nella parte passiva del loro bilancio a titolo di quota di ammortamento delle spese di primo impianto e del prezzo d’avviamento.

 

 

Sembra che la negativa si fondi sulla considerazione che quelle spese non diminuiscono il patrimonio sociale, anzi ridondano a vantaggio del patrimonio stesso, il quale si conserverebbe in perpetuo nella cifra originaria, senza deteriorarsi. Così, se una società si è costituita col capitale di un milione ed ha speso 10.000 lire per le spese di costituzione, emissione azioni ecc. e 100.000 per rilevare l’avviamento di una cessante impresa privata, si pretende che non faccia d’uopo ammortizzare queste 110.000 lire di spesa, perché nel patrimonio sociale queste 110.000 lire permangono in perpetuo, essendoché l’avviamento si presume non si distrugga e le spese di costituzione seguitano a produrre il loro frutto finché la società viva.

 

 

La quale opinione è contraria all’esperienza. Oggi società seria la quale abbia a cuore il capitale degli azionisti, prevede ad ammortizzare le spese d’impianto ed il prezzo d’avviamento; le prime, perché nessuno può seriamente sostenere che le somme spese in bolli, stampe, registrazioni, diritti notarili siano un capitale fruttifero; il secondo dipendente come e forse più del macchinario, che pur si ammette possa essere ammortizzato, dalla moda, dalle abitudini dei consumatori, dall’influenza della novità, della posizione, dal sorgere di nuovi concorrenti ecc. ecc.

 

 

L’amministrazione prudente non si illude che l’avviamento acquistato con 100.000 lire duri in perpetuo; e quindi provvede ad ammortizzare quella spesa d’acquisto. Perché il fisco vuole essere imprendente laddove gli amministratori, assai migliori giudici di lui, deliberano e tutti gli scrittori competenti consigliano di procedere all’ammortamento delle spese d’impianto?

 

 

Niun danno del resto può venire al fisco da questo riconoscimento della necessità di ammortizzare le spese di primo impianto e il prezzo d’avviamento. Poiché:

 

 

  • o quelle spese non avevano aumentato il patrimonio sociale o l’avevano aumentato solo temporaneamente ed allora la detrazione era corretta, non potendo il fisco pretendere che il capitale diminuisca ma solo che non cresca;
  • o quelle spese avevano aumentato in perpetuo il patrimonio sociale e le quote di ammortamento relative andarono ed incremento del patrimonio sociale; ed in tal caso il patrimonio si ritroverà cresciuto, allo scioglimento della società, od alla sua trasformazione od ad una nuova cessione dell’avviamento ad altra impresa o società. Ed in tal caso potrà essere colpito quell’incremento dall’imposta.

 

 

489. Se tra le spese di produzione debbano noverarsi anche le tasse ed imposte. – Alla quale domanda si risponde affermativamente quando le tasse od imposte siano una spesa inerente alla produzione del reddito mobiliare che si vuol tassare e negativamente in caso contrario.

 

 

Distinguiamo perciò fra:

 

 

  • a) imposte le quali sono una spesa inerente alla produzione del reddito industriale o commerciale che si vuol tassare; e che quindi sono detraibili dal reddito lordo. – Così per esempio:
    • le imposte di fabbricazione (cfr. in questa parte il cap. II, sez. seconda), le quali sono una vera e propria spesa di produzione poiché il fabbricante di zucchero, di spiriti, di cicoria, di birra, di gas, luce od energia elettrica non può estrarre le merci prodotte dai suoi magazzini, o venderle, ossia realizzare il reddito senza aver pagato la imposta di fabbricazione. È quindi il pagamento dell’imposta una condizione logicamente anteriore alla produzione del reddito;
    • i dazi doganali sulle materie prime dell’industria, che si siano dovute introdurre dall’estero. Così il filatore di cotone deve pagare il dazio doganale di 3 lire quintale sul cotone greggio introdotto dall’estero. Quel dazio è per lui una spesa necessaria di produzione;
    • i dazi di consumo su ciò che è materia prima o combustibile dell’industria. Per es. i dazi sulla legna o carbon fossile adoperati dall’industria;
    • le tasse postali, telegrafiche e telefoniche, non potendosi immaginare esercizio di attività economica senza pagamento di quelle tasse;
    • le tasse di bollo e di registro quando sono pagate per atti o contratti che si riferiscono al normale andamento dell’industria. Per es. le tasse di bollo per le ricevute, per la vidimazione dei libri copialettere, libri giornali ecc. ecc.

 

 

  • b) imposte le quali non sono una spesa inerente alla produzione del reddito e non sono quindi detraibili. – Così:
    • di nuovo le tasse di bollo e registro, quando si riferiscono ad atti o contratti relativi alla costituzione della società. La giurisprudenza prevalente le considera in tal caso spese di primo impianto ed a torto, come sopra vedemmo (cfr. par. 488), non ne concede la detrazione;
    • le tasse imposte di negoziazione dei titoli emessi dalle società anonime (cfr. sotto, par. 550 e segg.), perché sono reputate afferenti non alla produzione del reddito, ma alla negoziazione del capitale azionario od obbligazionario. L’interprete in tal modo si contenta, è vero, di guardare alla forma esteriore della imposta di negoziazione, senza badare alla sostanza che è e non può essere quella di una vera imposta sul reddito, percetta, per comodità tecnica fiscale, sotto forma di imposta sul capitale. Ma l’errore della giurisprudenza è formale ed innocuo, in quanto, come diciamo subito, anche le imposte sul reddito non sono detraibili;
    • le imposte sul reddito di ricchezza mobile; verità chiarissima, poiché una imposta che colpisce il reddito, non può essere reputata logicamente anteriore alla produzione di esso, bensì è una conseguenza del reddito già prodotto. Tizio lucra 10.000 lire annue, nette da ogni altra spesa, salvo l’imposta di ricchezza mobile. L’imposta di R. M. deve colpire le 10.000 lire, ovvero le 10.000 già depurate dalle 1.000 lire pagate a titolo di imposta di ricchezza mobile? Evidentemente le 10.000 lire, perché l’imposta di R. M. non è una condizione necessaria per ottenere il reddito delle 10.000 lire; bensì si paga solo se e dopo che si sia ottenuto il reddito stesso;
    • per lo stesso motivo non sono detraibili le cosidette tasse di esercizio, che sono imposte comunali sul reddito degli industriali e commercianti e le imposte camerali che sono analoghi tributi prelevati dalle camere di commercio. Non può trattarsi di spesa di produzione laddove l’imposta si preleva sul reddito già prodotto;
    • l’imposta fondiaria sui terreni e l’imposta sui fabbricati neppure possono essere dedotte, essendo tributi che gravano non sul reddito mobiliare ma sul reddito dei terreni e dei fabbricati rispettivamente, come del resto largamente dianzi già si dimostrò (cfr. par. 485, b).

 

 

D) I confini tra l’oggetto dell’imposta mobiliare e l’oggetto delle altre due imposte sul reddito,

 

490. Richiamo alla sezione precedente dell’imposta sui fabbricati. – L’oggetto dell’imposta di ricchezza mobile deve essere distinto nettamente dall’oggetto delle due altre imposte sui redditi dei terreni e dei fabbricati per evitare duplicazioni. Già vedemmo sopra, discorrendo dell’imposta sui fabbricati (Cap. IV, sezione seconda, par. 450 e segg.) come lungamente si sia discusso per conoscere dove finiva il fabbricato industriale e dove cominciava l’industria esercitava nel fabbricato medesimo. A quei concetti facciamo richiamo senza uopo di più riandarli.

491. Richiamo alla trattazione della tassazione degli incrementi patrimoniali immobiliari. – Così pure facciamo richiamo, senz’altro aggiungere, a quanto fu detto nella presente sezione (cfr. par. 477) intorno alla tassazione degli investimenti patrimoniali immobiliari. Vedemmo che le imposte sui terreni e sui fabbricati rigorosamente si attengono alla tassazione dei frutti; mentre l’imposta di ricchezza mobile talvolta tende a colpire gli incrementi dei valori patrimoniali, sia che siano patrimoni mobiliari, ovvero immobiliari. Con ciò essa non invade il campo degli altri due tributi, che è limitato alla tassazione dei frutti degli immobili; ma certamente si allarga sino a tassare gli immobili, quando essi in certi casi subiscano un aumento di valore.

 

 

492. Confini tra l’imposta di ricchezza mobile e l’imposta sui terreni. – Fatti questi rimangono da trattare solo i confini tra l’imposta di ricchezza mobile e l’imposta sui terreni. E qui i punti da trattare sono tre:

 

 

  • a) l’imposta di ricchezza mobile colpisce talvolta lo stesso reddito fondiario dominicale che dovrebbe essere oggetto esclusivo dell’imposta sui terreni?
  • b) quid della scelta tra le due imposte di fronte a redditi di natura immobiliare, ma rispetto ai quali si può legittimamente dubitare se essi siano redditi fondiari dominicali proprii?
  • c) qual influenza l’imposta sui terreni ha esercitato sulla tassazione dei redditi industriali agrarii e dei redditi del lavoro agricolo?

 

 

Sarà opportuno tener sott’occhio il quadro generale dianzi compilato dei redditi diversi derivanti alla terra (par. 423).

 

 

493. Redditi fondiari dominicali colpiti dall’imposta di ricchezza mobile. – Dice l’art. 4, capoverso del testo un del testo unico del 1877 che «anche i redditi di natura fondiaria, reale od immobiliare saranno soggetti alla tassa di ricchezza mobile, se non risulti che dal possessore del fondo dal quale provengono già si paghi un tributo stabilito in contemplazione dei redditi stessi». Il significato del quale capoverso fu chiarito dal senatore Pallieri, relatore al Senato di un progetto che divenne poi legge nel 1874 e conteneva la disposizione qui ricordata. «Ove il possessore di un reddito di natura fondiaria od il possessore del fondo dal quale proviene già non paghi un tributo in contemplazione del reddito stesso, va soggetto all’imposto di ricchezza mobile. Laonde il proprietario di una miniera, d’una torbiera, d’una cava, d’un corso d’acqua, che sia indipendente dal fondo che irriga o dall’opificio che attiva, è possibile dell’imposta di ricchezza mobile, sempre che non paghi già un tributo che riguardi il reddito procedente da tali immobili. Così, per esempio, il proprietario d’una miniera, il quale sia anche proprietario della superficie e per questa sola paghi un tributo, non andrà esente dall’imposta di ricchezza mobile, giacché quel tributo è estraneo del tutto alla miniera».

 

 

Scopo della disposizione pare sia dunque di impedire che un reddito, il quale sia sfuggito di fatto all’imposta sui terreni, per la sua natura immobiliare sfugga legalmente altresì all’imposta mobiliare. Parrebbe perciò che qualunque reddito immobiliare non colpito dall’imposta terreni debba essere colpito dall’imposta di ricchezza mobile che ha natura residuale.

 

 

Così fu giudicato, con decisione del 21 luglio 1873 della commissione centrale delle imposte dirette, che il reddito dei terreni del lago Fucino prosciugato dal principe Torlonia dovesse andar soggetto all’imposta di ricchezza mobile, essendo dimostrato che per esso non si pagava alcun tributo fondiario. La decisione fu annullata da sentenza del tribunale di Avezzano del 27 aprile 1875, però senza plausibile motivazione. Dato il sistema della legge tutti i terreni e tutti i redditi non compresi nei vecchi catasti sui terreni, che noi sappiamo quanto fossero manchevoli, dovrebbero andar soggetti all’imposta di ricchezza mobile finché la nuova catastazione non vanga a togliere di mezzo tutte queste inconseguenze.

 

 

Così del pari sembra ragionevole ammettere che se un privato cittadino loca un’area ad un comune a scopo di cimitero, e l’area diventa esente dal tributo fondiario, perché agrariamente improduttiva, debba però il privato cittadino pagare l’imposta di ricchezza mobile sul reddito che ricava mercé l’affitto dell’area.

 

 

Parimenti, sebbene le aree delle strade ordinarie siano state dichiarate esenti da imposta sui terreni perché agrariamente improduttive, ove si avveri di fatto che provincia o comune ricavino un reddito dall’affitto delle erbe o pascoli sorgenti sui margini della strada, deve quel reddito essere soggetto all’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Naturalmente i redditi dominicali fondiari che, per le strane circostanze ora menzionate ed altre simiglianti, sono soggetti all’imposta di ricchezza mobile sono considerati redditi di capitale puro e non come reddito di capitale misto a lavoro, perché essi derivano soltanto dalla proprietà del terreno, ossia da puro impiego di capitale. – E questi redditi hanno anche una qualità che li distingue dagli altri redditi dominicali fondiari: essi cioè usufruiscono dei privilegi di cui godono tutti i redditi mobiliari. I redditi mobiliari infatti non potendo essere soggetti a sovraimposta da parte degli enti locali, anche i redditi dominicali fondiari extravaganti, non catastati, sfuggono alle sovrimposte locali.

 

 

494. Distinzione fra redditi dipendenti e redditi indipendenti da condominio o dominio diretto. – Recita lo stesso articolo 4: «I percepiti sui frutti, e commisurati in una ragione qualunque al prodotto del fondo, sono soggetti all’imposta di ricchezza mobile»; e continua l’art. 5: «tra i redditi di natura reale od immobiliare, soggetti all’imposta sulla ricchezza mobile sono compresi i censi in qualunque modo costituiti, le decine di qualsiasi genere, ogni redditi che non dipenda da condominio o dominio diretto».

 

 

Questo articolo meriterebbe un lungo commento, che qui invece si deve ridurre a brevissimo chiosa, per non nuocere all’euritmia del corso. Diremo soltanto che l’articolo si riferisce a talune specie di redditi che oggi sono pressoché cadute in dessuetudine, nel senso che redditi nuovi somiglianti si formano assai di rado, mentre sussistono ancora numerosi casi di cotali tramandati a noi dai periodi storici decorsi. Queste specie arcaiche di redditi si possono distinguere in due categorie:

 

 

  • a) l’una ha a proprio prototipo la decina dominicale, canone in denaro od in derrate che il possessore di un fondo deve prestare ad una terza persona, chiamata decimante. Quale è la natura della decima dominicale? Senza dilungarsi in minute disquisizioni storiche e giuridiche, diciamo soltanto che, ai fini della imposta, il legislatore italiano che ritenuto che la decima dominicale non fosse un reddito proveniente del dominio e condominio del fondo. Il decimante gode la decima non perché sia il proprietario o il comproprietario del fondo. Forse sarà stato tale in passato più o meno lontano; ma nel momento attuale tale non è considerato del nostro legislatore ai fini tributaria. Il decimante è invece una persona che gode di un diritto reale sulla proprietà altrui. Ha il diritto di farsi prestare ogni anno 100 lire, ovvero 10 sacchi di frumento, ovvero 20 ettolitri di vino dal possessore del fondo; ma non è comproprietario del fondo. Tradotto in linguaggio moderno il decimante equivalente al creditore ipotecario, la decima all’interesse di un mutuo garantito con ipoteca sul fondo. Perciò il legislatore ha voluto che la decima non fosse considerata come parte integrante del reddito dominicale fondiario già colpito dall’imposta sui terreni, ma come reddito di un capitale indipendente della terra e soggetto all’imposta di ricchezza mobile. Della stessa natura della decime sono i livelli, i censi, i quartesi, i frutti di capitali quandocumque, le soggiogazioni, che sono tutti nomi di vecchi istituti oramai non più usati.

 

 

Notisi che la tassazione mobiliare delle decime dominicali e dei redditi ad esse assimiliati dà luogo al danno della doppia tassazione che replicatamente già denunciammo (cfr. par. 236 e 483, a); poiché il proprietario del terreno paga su tutte le 500 lire di reddito dominicali del terreno, malgrado debba prestare una decima di 100 lire all’anno al decimante, il quale a sua volta paga l’imposta di ricchezza mobile sulle 100 lire. E notisi che i vecchi legislatori applicavano più correttamente del moderno italiano il canone dell’uguaglianza tributaria, perché colpivano con una sola imposta, per esempio quella sui terreni, tutte le 500 lire presso il possessore del fondo, dando però a costui il diritto di rivalersi per la quota d’imposta relativa alle 100 lire di decima, all’atto del pagamento della decima al decimante. Cosicché possessore del fondo e decimante pagavano ognuno la propria quota corretta di tributo: il primo sulle 400 lire per lui residue e il secondo sulle 100 lire di decima. Invece scorrettamente il legislatore italiano scrisse all’art. 6: «Sono abolite le ritenute, che in relazione al tributo fondiario, furono per legge stabilite a favore dei debitori di censi in qualunque modo costituiti, di decime di qualunque specie, di quartesi, di frutti capitali quandocumque, di soggiogazioni e di ogni prestazioni che non dipenda da condominio o da dominio diretto». Il che vuol precisamente dire che il possessore del fondo paghi l’imposta sui terreni su tutte le 500 lire di reddito del fondo e il decimante l’imposta di ricchezza mobile sulle 100 lire della decima;

 

 

  • b) l’altra ha a proprio prototipo il canone enfiteutico; che è il canone in denaro od in derrate che il colono enfiteuta od utilista paga al dominio diretto o direttario del fondo. In questo caso il dominio diretto, che ha concesso il suo fondo ad un colono in enfiteusi, non si è spogliato del tutto del suo diritto di proprietà. Questo diritto di proprietà si scinde idealmente in due parti, di cui l’una, il dominio diretto, spetta al dominio e l’altra, il dominio utile, al colono enfiteuta. Il dominio non ha rinunciato al dominio suo sul fondo; talché, ove il colono per due anni consecutivi non paghi il canone pattuito, il dominio utile si devolve al dominio che nuovamente riunisce in tal caso in sé stesso le due parti del dominio idealmente scisso. Quindi il canone enfiteutico percepito dal domino diretto, essendo reddito dominicale proprio, derivante dal dominio o condominio sul fondo, è reddito fondiario e non mobiliare e si reputa già tassato dall’imposta sui terreni che colpisce il fondo, sebbene il codice civile faccia obbligo al colono di pagarle. S’intende che dominio diretto e colono enfiteuta avranno tenuto conto del fatto che l’onere dell’imposta sui terreni fa carico al colono nella fissazione del canone ed il canone sarà scemato in proporzione. È questa una transazione di carattere privato, che non interessa il fisco, al quale basta che il reddito dominicale fondiario non sfugga all’una od all’altra imposta.

 

 

Ai canoni enfiteutici sono assimilati i canoni per il godimento della superficie di un’area concessa altrui a scopo edilizio, il reddito dell’usufruttuario od usuario del fondo, di cui la nuda proprietà spetta ad altrui ecc. ecc. In tutti questi casi il reddito, provenendo da condominio o dominio diretto, si reputa già colpito dall’imposta sui terreni e non più assoggettabile all’imposta di ricchezza mobile.

 

 

495. Influenza dell’imposta sui terreni sulla tassazione dei redditi industriali agrari e dei redditi del lavoro agricolo. – Nel quadro dei redditi ricavati dalla terra (cfr. par. 423) abbiamo veduto come, accanto al reddito dominicale colpito dall’imposta sui terreni, vi siamo i redditi:

 

 

  • a) industriali agricolo, che dovrebbe essere colpito dall’imposta di ricchezza mobile, in categoria B, come reddito misto di capitale e lavoro spettante all’imprenditore agricolo, sia desso il proprietario medesimo o un affittavolo e un mezzadro;
  • b) di salario o stipendio dei contadini o fattori i quali attendono alla coltivazione manuale o alla sorveglianza dei lavori del fondo, salari e stipendi da tassarsi in categoria C (redditi di lavoro puro) dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

Quanto a questi ultimi si nota che di fatto, ben di rado i salari dei contadini sono tassati, poiché si reputano inferiori al reddito minimo imponibile, che è di 641 lire all’anno o 3,50 al giorno; e quindi sono esenti.

 

 

Quanto ai primi, occorre distinguere tre tipi di impresa agricola: in economia, diretta cioè a proprio rischio dallo stesso proprietario del fondo; in affitto, in cui il fondo è dato in locazione ad un affittavolo che paga un canone al proprietario; a mezzadria o colonia parziaria, quando il fondo è coltivato da un mezzadro o colono ed il prodotto viene ripartito per metà tra proprietario e mezzadro, ovvero in altre parti aliquote, due terzi ed un terzo, tre quarti ed un quarto tra proprietario e colono parziario. Differente è il trattamento tributario del reddito industriale agricolo in questi tre casi.

 

 

496. L’esenzione dei redditi agricoli industriali ottenuti dal proprietario che è anche coltivatore del suo fondo. – Se un terreno è coltivato in economia dal suo medesimo proprietario il legislatore ha esentato il reddito industriale agricolo dall’imposta di ricchezza mobile.

 

 

È un privilegio che teoricamente e ingiustificato, ne dirige la cultura in economia può essere distinto in due figure economiche: da una parte è proprietario, dall’altra è affittavolo dei suoi stessi terreni e come tale v’impiega capitale, lavoro e direzione, lavoro manuale ecc. e per tal modo otterrà un reddito come fittavolo di sé stesso. Orbene questo reddito industriale non è colpito dall’imposta di ricchezza mobile, ed il proprietario coltivatore è solo quando le due figure teoriche economiche del proprietario e del coltivatore si materializzano concretamente in due diversi individui allora il proprietario è colpito nel suo reddito dominicale (dall’imposta sui terreni) e il coltivatore per il suo reddito industriale (dalla categoria B della imposta di ricchezza mobile).

 

 

Si è fatta questa distinzione perché si è ritenuto opportuno di incoraggiare la condotta in economia dei fondi. Il legislatore ha cioè ritenuto che, tra i tanti modi che ci sono di coltivare i terreni, il migliore sia quello in economia perché così il proprietario diventa egli stesso interessato alla coltivazione dei suo terreni; non essendo assenteista, farà meglio progredire l’agricoltura. Allo scopo di favorire questo tipo di coltivazione il legislazione volle esentato il proprietario che coltiva il suo fondo dell’imposta di R. M., che dovrebbe pagare per la sua qualità non di proprietario, ma di coltivatore.

 

 

Questo ragionamento ha un valore non sempre ugualmente perspicuo.

 

 

Certo può essere utile che l’economia diretta si estenda, ma non forse che, si estenda troppo. Se prendiamo a considerare l’agricoltura estensiva di molte regioni italiane, specialmente nel centro, nel mezzogiorno e nelle isole dove i grandi proprietarii sono spesso assenteisti ed sua scarsa la classe di coltivatori affittuari intelligenti, la estensione dell’economia diretta potrebbe utile, per evitare che proprietari e coltivatori siano amendue sfruttati da intermediari o gabelloti, i quali non esercitano una propria funzione economica, ma vivono sulla differenza tra il fitto all’ingrosso che pagano al proprietario ed i fitti o prestazioni suddivise maggiori che prelevano sui contadini. Ma se consideriamo qualche terreno irriguo al nord, per esempio del Novarese o della Bassa Lombardia, dove i proprietari sono per lo più ricchi signori, la cosa cambia. Le qualità di questi proprietari sono appunto quelle dei ricchi signori e non quelle dei coltivatori. Un proprietario siffatto non può aver l’abitudine di alzarsi alle cinque di mattina per correre a dar gli ordini di boari, e alla sera stare nella stalla fino a mezzanotte per vedere come il bestiame è accaduti; un simile proprietario sarà sempre un dilettante di agricoltura, che avrà magari la tendenza a fare degli esperimenti agricoli pure da dilettante, dell’agricoltura rustica e simiglianti sprechi di capitale.

 

 

Invece la categoria dei fittabili comprende degli individui che fanno di professione i coltivatori, che avranno forse seguito i corsi di qualche scuola pratica di agricoltura, acquistando un’abilità specializzata. È evidente che questa classe intermedia potrà spingere la produttività dei terreni molto più in alto di quel che non possano i proprietari dilettanti, i quali sarebbero tutt’altro capaci di portare attraverso i campi le allegre brigate di ricchi amici, che non distinguerebbero probabilmente il grano dalla segale. Le preferenze del legislativo verso l’economia diretta se talvolta sono ragionevoli, tal’altra riescono inutili.

 

 

Si può osservare a favore dell’esenzione, che essa si riferisce sovratutto alla media ed alla piccola proprietà che più frequentemente vengono amministrate in economia; ed allora l’esenzione è un mezzo per constatare che di solito si tratta di redditi mediocri e piccoli, che per altri motivi e cioè per la loro mediocrità, andrebbero esenti da tributo. E per questo motivo si può ammettere come ragionevole l’esenzione, sebbene abbia il torto di riferirsi anche ai redditi industriali dei grandi proprietari.

 

 

497. Trattamento speciale tributario dei mezzadri e dei coloni parziari. – Per i mezzadri e coloni parziari che coltivano il fondo altrui bisogna fare qualche speciale avvertenza. Sono invero assoggettati, come dicemmo sopra, all’imposta di ricchezza mobile, categoria B quando il reddito oltrepassi le 400 lire, solo coloro che prendono in affitto il terreno altrui in denaro o in natura. Invece coloro che coltivano il terreno altrui, ottenendo come loro remunerazione una parte del prodotto del fondo, coloro che sono cioè mezzadri, terziari o quartaroli, e sono compensati con la metà, la terza e la quarta parte dei prodotti, non sono tassati nella categoria B dell’imposta di ricchezza mobile. Si è riflettuto che era difficilissimo fare l’accertamento dei redditi di costoro. Quando un coltivatore paghi un tanto d’affitto allora il suo reddito industriale si può presumere in una certa proporzione col fitto pagato; per il mezzadro invece è difficile fare l’accertamento ed inoltre sarebbe spesso inutile trattandosi di redditi piccolissimi. Perciò, in questo caso, si adotta un metodo speciale di tassazione. Si è creata all’uopo una categoria a parte dell’imposta di ricchezza mobile la quale viene anzi indicata col nome speciale di imposta sulle colonie agricole. Pei redditi delle colonie agricole non si fa accertamento diretto. Si è stabilito che il colono parziario sia tassato quando il proprietario del fondo paghi all’erario. Più di 50 lire d’imposta erariale principale sui terreni. In caso contrario il colono è esente dell’imposta. L’imposta è stata stabilita nella misura del 5%, più 1/10, ossia il 5,51% dell’imposta dominicale: per es. un proprietario paga lire 100 d’imposta erariale principale sui terreni, il mezzadro paga il 5,51 d’imposta di ricchezza mobile, sotto forma d’imposta sulle colonie agricole. L’imposta poi in realtà non è nemmeno pagata direttamente pagata direttamente dal colono parziario (mezzadro, terziario ecc.) ma, col metodo della tassazione all’origine, è anticipata dal proprietario, che oltre all’imposta sui terreni paga così il 5,51% dell’imposta stessa a titolo di imposta sul reddito dei suoi mezzadri o coloni salvo, naturalmente, il diritto di rivalsa sul mezzadro o colono parziario. Notisi ancora che l’unità contributiva, per così dire, non è data da ogni singolo mezzadro o colono, ma della mezzadria o colonia in sé stessa, la quale forma una unità contrattuale, inscindibile anche se più siano i coloni vincolati a lavorare un dato fondo con un solo contratto. E cioè se il proprietario di un fondo ha stipulato due contratti separati con due famiglie per la coltivazione delle due parti del fondo, l’imposta colonica sarà dovuta solo per quella delle parti del fondo che sia colpita da almeno 50 lire d’imposta erariale principale sui terreni. Se invece fu stipulato un contratto solo per il fondo intiero, l’imposta deve pagarsi appena il fondo intiero sia tassato con almeno 50 lire di tributo erariale sui terreni, sia che una o parecchie siano le famiglie coloniche.

 

 

E) Classificazione dell’oggetto dell’imposta. Delle categorie dei redditi di ricchezza mobile e loro diversa imposizione.

 

498. Natura e fondamento della diversificazione dei redditi. – Or che sappiamo quale sia l’oggetto medesimo non è in tutte le sue parti omogeneo, non è un blocco unico, ma si divide in diverse parti, ad ognuna delle quali il legislatore riserba un trattamento diverso. Intorno alla classificazione dei redditi adottata dal legislatore italiano ed al suo fondamento dottrinale già si discorse largamente trattando della esenzione del risparmio e delle maniere diverse di esentare il risparmio presunto nel gruppo delle imposte sul reddito guadagnato (cfr. par. 289 e sovratutto 406 a 408); ed alle cose dette allora senz’altro ci riferiamo.

 

 

In virtù della legge 23 giugno 1877 la tripartizione originaria dei redditi, così armonica e razionale, in:

 

 

A redditi di capitale puro tassati sugli 8/8
B redditi di capitale misto a lavoro sui 6/8
C redditi di lavoro puro sui 5/8

 

 

si è oggi trasformata in una ripartizione in cinque categorie:

 

 

Categoria Qualità del reddito Quota parte del reddito
  nel linguaggio finanziario nel linguaggio economico tassata esente
A1 Reddito (interessi e premi) di capitale puro mutuato a Stato, provincie, comuni, società che hanno emesso obbligazioni aventi per base garanzie o sovvenzioni da parte dello Stato. Interessi 40/40
A2 Reddito di capitale puro mutuato a privati, enti morali, società commerciali ecc. Id. 30/40 10/40
B Redditi misti di capitale e lavoro. Profitti industriali e commerciali 20/40 20/40
C Redditi di lavoro puro prestato a favore di privati. Salari, stipendi, onorari, guadagni professionali. 18/40 22/40
D Redditi di lavoro puro prestato a favore di Stato, provincie e comuni. Salari, stipendi, assegni, ecc. 15/40 25/40

 

 

La vecchia classificazione era assai più elegante della nuova per due motivi:

 

 

  • 1) sono vi è ragione teorica di distinguere fra capitale mutuato allo Stato ed altri enti pubblici e capitale mutuato a privati; come pure tra lavoro privato e lavoro pubblico. La ragione pratica addotta è insussistente, come subito si vedrà, per la categoria A, essendo purtroppo esatta ma non molto elogiativa per gli organi del fisco quella addotta per la divisione della C in C e D (cfr. par. 407);
  • 2) se era ragionevole che i contribuenti di categoria B risparmiassero i 2/8 e quelli di C i 3/8 del loro reddito, come si può presumere sul serio che i contribuenti della A2 risparmio i 10/40 del reddito, essi che possedendo redditi di capitale puro, non dovrebbero aver ragione di risparmiare, ed i 20/40 quelli della B, i 22/40 quelli della C ed i 25/40 finalmente i contribuenti della D? Non sembra che possa essere ammesso in via generale la presunzione che i contribuenti risparmio così cospicua parte, e taluni anzi la maggior parte del loro reddito.

 

 

Invero il motivo di presumere risparmi così larghi nel contribuente medio italiano è tutt’affatto contabile. Quando vigeva il sistema degli ottavi, l’aliquota dell’imposta era del 12%, e col decimo, del 13,20%; epperciò l’aliquota effettiva era del 13,20% in cat. A, del 9,90% in cat. B, (poiché il 13,20% sui 6/8 del reddito è il 9,90% su tutto il reddito), e dell’8,25% in cat. C. Quando, nel 1894, l’aliquota generale fu portata al 20%, se le quote di riduzione a titolo di risparmio fossero rimaste immutate, si sarebbe dovuto pagare il 20% sul reddito totale in cat. A, il 15% in cat. B, ed il 12,50% in cat. C. L’aumento d’imposta sarebbe stato enorme. Perciò, volendosi, per le ragioni che si diranno aumentare l’aliquota al 20% per una parte dei redditi e precisamente sui redditi della sotto categoria A1, si creò appunto la A2, alla quale si concesse la detrazione dei 10/40, cosicché l’aliquota effettiva divenne del 15%; si dice alla B la riduzione dei 20/40, cosicché l’aliquota effettiva su tutto il reddito divenne del 10%, di poco superiore all’antico 9,90% ed alla C dei 22/40, cosicché l’aliquota passò solo dall’8.25 del 9% effettivo. La D, la quale era stata creata già da prima e godeva di una detrazione dei 4/8, godette d’allora in poi della detrazione dei 25/40, cosicché l’aliquota effettiva che era prima del 6,60% aumentò al 7,50 per cento. La spiegazione delle forti detrazioni a titolo di risparmio è dunque puramente contabile ed ha per iscopo di fissare l’aliquota generale al 20% e nel tempo stesso non gravare troppo sulla maggior parte dei contribuenti.

 

 

499. Categorie speciali extravaganti dei redditi di ricchezza mobile. – Oltre le cinque categoria A1, A2, B, C e D, che si possono considerare le categorie normali dei redditi mobiliari, vi sono due altre categorie di redditi che godono di un trattamento speciale:

 

 

  • a) i redditi già ricordati dei mezzadri o coloni parziari (cfr. par. 497), i quali sono tassati col 5,51% sulla imposta erariale principale gravante sui terreni. Se noi supponiamo che l’imposta erariale principale dell’8% sul reddito netto dominicale dei terreni, il 5,55% dell’8% equivale al 0,44% del reddito. Supponendo ancora che il reddito netto dei mezzadri o coloni parziari sia eguale al reddito dominicale, mentre probabilmente in media è maggiore, si vede che l’imposta colonica non giunge al 0.50% del reddito dei coloni, e per i soli coloni di fondi che pagano almeno 50 lire di imposta erariale principale ossia hanno almeno 625 lire di reddito imponibile;
  • b) i redditi dei mutui conchiusi dagli istituti di credito fondiario sono tassati nei modi normali col 20% sui 30/40 del reddito fornito dalle cartelle ai capitalisti portatori di cartelle fruenti di un interesse superiore al 3,75 per cento. Se però l’istituto ha emesso cartelle al saggio del 3,75-3,50-3,25 o 3%, in virtù della legge 22 dicembre 1905, l’imposta è ridotta al 10% sugli interessi dei mutui non superiori a L. 10.000 ed al 12% sugli interessi dei muti superiori a tale cifra. In sostanza, invece di pagare il 20% sui 30/40, ossia il 15% per gli accessori, si paga il 10 od il 12% senz’altro. L’aliquota è così ridotta: invece di calcolare il 20% su una parte del reddito, si calcola il 10 o 12% su tutto il reddito.

 

 

500. Liquidazione dell’imposta di R. M. – Volendo indicare come venga liquidata l’imposta di ricchezza mobile, bisogna invece tener conto di quattro avvertenze;

 

 

  • a) i redditi si distinguono agli effetti fiscali in redditi su cui l’imposta si esige col metodo della ritenuta (operata direttamente dallo Stato sui redditi pagati dalle sue casse a suoi creditori o impiegati), o col metodi dei ruoli, quest’ultimo metodo usato per la gran massa dei contribuenti. In questo caso, all’aliquota principale dell’imposta si aggiunge il 2% dell’aliquota stessa per spese di ripartizione dell’imposta;
  • b) a tutti i redditi, salvo quelli di cat. A1, si aggiunge inoltre all’aliquota principale il 2% dell’aliquota stessa, a titolo di addizionale nel terremoto di Messina e Reggio Calabria;
  • c) all’erariale principale, all’addizionale pel terremoto ed alle spese di distribuzione, che sono tutte entrate del tesoro, si aggiungono gli aggi o compensi pagati al ricevitore provinciale ed all’esattore. Questi aggi variano da provincia a provincia e da comune a comune. Noi supporremo che l’aggio del ricevitore provinciale sia del 0,20% e quello dell’esattore del 2% della somma riscossa dal tesoro. Notisi che gli aggi sono riscossi solo nel caso dei ruoli;
  • d) oltre ai due metodi sovra indicati dell’esenzione per ritenute e per ruoli, v’è ancora un terzo metodo del versamento diretto in tesoreria, che si applica a taluni enti, che invece di passare per la tariffa dell’esattore e del ricevitore provinciale, possono fare direttamente i loro versamenti in tesoreria, con risparmio degli aggi. Per non complicare il discorso, dato il suo scarso interesse per la generalità dei contribuenti, faremo astrazione da questo terzo metodo.

 

 

Ciò premesso, l’aliquota dell’imposta viene calcolata nel seguente modo:

 

 

Esazione per ritenuta

A1

D

Erariale principale

20

20

Addizionale 2% terremoto

0,40

Totale

20

20,40

Esazione per ruoli

Cat. A1

Cat. A2, B, C, D

Erariale principale

20

20

Addizionale terremoto 2%

0,40

Spese di distribuzione 2%

0,40

0,408

Aggio { al ricevuto0,20%

0,04

0,0408

{ all’esattore 2%

0,40

0,408

Totale

20,84

21,2568

 

 

Notisi che le spese di distribuzione sono il 2% dell’erariale principale del 20%, più addizionale del terremoto del 0,40%; e notisi ancora che gli aggi sono calcolati sull’ammontare dell’erariale principale e dell’addizionale del terremoto, non tenendo conto delle spese di distribuzione.

 

 

Calcoliamo ora le aliquote dell’imposta sul reddito effettivo:

 

 

 

Reddito netto effettivo

Frazione tassata

Reddito imponibile

Aliquota % sul reddito imponibile

Imposta pagata

A1 per ritenuta

100

40/40

100

20

20

A1 per ruoli

100

30/40

75

20,84

15,63

B per ruoli

100

20/40

50

21,2568

10,6284

C per ruoli

100

18/40

45

21,2568

9,56556

D per ritenuta

100

15/40

37,50

21,2568

7,9713

D per ruoli

100

15/40

37,50

20,40

7,65

 

 

L’imposta pagata (ultima colonna) è in sostanza l’aliquota effettiva (mentre quella della penultima colonna è l’aliquota nominale sul reddito imponibile) su tutto il reddito netto del contribuente.

 

 

Vedesi come le aliquote effettive siano minori sempre del 20%, che è l’aliquota generale nominale dell’imposta. Notisi che l’aliquota effettiva (ultima colonna) può variare, per l’imposta esatta coi ruoli, di qualche piccola frazione da comune a comune e da provincia a provincia a seconda dell’altezza degli aggi al ricevitore provinciale ed all’esattore.

 

 

501. Esenzione dei redditi minimi e detrazione per i redditi mediocri. – Le aliquote effettive vengono poi a diminuire ancora per taluni redditi, che sono considerati come troppo piccoli per potere sopportare tutta l’imposta.

 

 

Onde è opportuno parlare qui delle esenzioni e delle detrazioni.

 

 

Il testo unico del 1877 non concedeva nessuna esenzione, nemmeno per i redditi piccolissimi, a quelli compresi nella categoria A, in qualunque modo avvenisse l’esenzione sia per ritenuta o per a ruoli; lo stesso dicasi per i redditi della categoria D, quando l’imposta veniva esatta per ritenuta.

 

 

Invece concedeva l’esenzione ai redditi inferiori alle lire 400 imponibili appartenenti alle categorie B e C ed a quelli colpiti con ruoli nominativi appartenenti alla categoria D. Avendosi riguardo nello stabilire il limite della esenzione, non al reddito effettivo, ma al reddito imponibile ed essendo questo rappresentato per le categ. B dai 6/8 del reddito effettivo, per la categoria C, dai 5/8 e per la categ. D dai 4/8 il limite massimo di esenzione risultava in realtà di lire 534,640 e 800 effettive rispettivamente.

 

 

Quando nel 1894 si introdussero le modificazioni, che conosciamo, ossia si sostituì il metodo dei 40 ml a quello degli 8i, si disse però che, agli effetti delle esenzioni dei redditi minimi, si continuerebbe a fare i calcoli secondo le regole antiche di riduzione del reddito effettivo in reddito imponibile, cioè in realtà sarebbero stati esenti anche per l’avvenire i redditi effettivi non superiori rispettivamente a L. 534,640 e 800 per le tre categorie.

 

 

Fin qui nulla di difficile: le difficoltà nascono a proposito delle detrazioni. Prima del 1894, oltre l’esenzione per i redditi non superiori alle lire 400 imponibili, era concessa ai redditi delle categorie B, C e D compresi fra le 400 e le 800 lire imponibili una detrazione da farsi sull’imponibile prima di applicare la aliquota. E cioè, per i redditi delle categorie B e C compresi fra le 400 e 500 lire imponibili, la detrazione da farsi era di 250 lire; per quelli compresi fra 500 e 600 era di 200 lire, per quelli compresi fra 600 e 700 di 150, ed infine per i redditi fra 700 ed 800 la detrazione si riduceva a 100 lire; per i redditi della categoria D la detrazione era ammessa solamente per quelli compresi fra le 400 e le 500 lire imponibili ed era di 100 lire.

 

 

La legge del 1894 disse che si continuerebbe a seguire le antiche regole anche per stabilire se e per quale somma dovesse concedersi la detrazione.

 

 

Questa disposizione se applicata alla lettera, avrebbe portato a tali complicazioni ed a tali assurdi risultati che si è dovuto interpretarle logicamente. E di tali difficoltà non è difficile convincersi. Supponiamo di avere un reddito di categoria B ammontante a 535 lire; l’imponibile, calcolato col sistema antico degli ottavi, è di L. 401,25, cioè di poco superiore al limite massimo di esenzione. Essendo questo imponibile compreso fra le 400 e le 500 lire, dovrà applicarsi la detrazione di lire 250.

 

 

Ma tale detrazione su quale imponibile dovrà essere calcolata?

 

 

Su quello nuovo stabilito dalla legge del 1894 dei 20/40 per i redditi appartenenti alla categoria B, imponibile che in questo caso è di L. 535×20/40 ossia 535/2 = 267,50? Allora, togliendo da L. 267,50, lire 250 di 40 2 detrazione, restano 17,50 lire ed applicando queste l’aliquota del 20% – trascuriamo le frazioni – si otterrebbe come ammontare dell’imposta L. 3,50. Ma lire 3,50 di imposta su un reddito di L. 535 rappresentano evidentemente una percentuale troppo piccola, quando si pensi che i contribuenti della categoria B pagano, in genere, un’aliquota superiore al 10% e che quel medesimo reddito, prima del 1894, quando l’aliquota effettiva per i redditi della stessa categ. B era del 9,90% (cioè pochissimo dissimile dell’attuale), sarebbe stato colpito con un’imposta di molto superiore a L. 3,50. Infatti allora, determinato in L. 401,25 il reddito imponibile, e sottratte da esso L. 250, si sarebbe applicata alla differenza, L. 151,25, l’aliquota del 13,20% rimanendo così stabilita d’imposta in L. 19,96. Ed è illogico che il legislatore del 1894, il quale aumentava l’imposta in genere, avesse voluto diminuirla per taluni contribuenti. Né di questa volontà è traccia nei lavori legislativi. Si aggiunga che la legge del 1877 diceva che la detrazione delle L. 250 può solo applicarsi se il reddito imponibile sia compreso fra le L. 400 e 500; nel caso nostro risulta di L. 267,50, quindi non solo andrebbe colpito con detrazione, ma andrebbe esente. Viceversa non può ammettersi l’esenzione, pur essendo imponibile di L. 267,50 poiché, come abbiamo poc’anzi detto, si tiene conto a questo proposito dell’imponibile antico, che risulta di L. 401,25.

 

 

Si potrebbe seguire un altro sistema: ridurre l’effettivo ad imponibile secondo la regola antica dei 6/8 ossia a L. 401,25, che, diminuite di L. 250, danno 151,25 di reddito tassabile. In questo ultimo caso l’aliquota nuova del 20% darebbe un’imposta di L. 30,25. I risultati sarebbero eccessivi. Questi piccoli contribuenti pagherebbero L. 30,25 invece di 19,96, mentre l’aumento generale dell’aliquota effettiva è stato solo dal 9,90 al 10 per cento. Ciò non può aver voluto il legislatore.

 

 

Inoltre la legge del 1894 conservava in vigore quella del 1877 solo per il calcolo delle detrazioni e non per il calcolo degli imponibili, per cui vige sempre la regola dei quarantesimi; l’imposta deve essere calcolata in base all’imponibile, quale è fissato dalla legge del 1894.

 

 

Visto che nessuno di questi metodi poteva applicarsi, si è ricorso ad uno spediente: anziché conservare l’antica detrazione di L. 250, che avrebbe portato ad un imponibile definitivo troppo basso, si è pensato di determinazione questa detrazione mediante una proporzione. Nel caso speciale ora considerato, la proporzione verrebbe stabilita così: se l’imponibile antico, che per un reddito di L. 535 era di L. 401,25, godeva una detrazione di L. 250, di quale detrazione godrà l’imponibile nuovo in L. 267,50, corrispondente al medesimo reddito? Si pone cioè l’equazione:

 

 

400,50 : 250 :: 267,50: x.

 

 

Così la detrazione, cioè x, risulta di L. 166,66. La differenza fra 267,50 e 166,66 è di L. 100,84; applicando a queste l’aliquota del 20% si ha l’imposta cercata in L. 20,17 cioè in misura poco superiore – come deve essere – a quella che si sarebbe avuta prima del 1894, già stata da noi calcolata in L. 19,96.

 

 

Applicando questo procedimento, si ha il notevole vantaggio di ottenere dei risultati, che sono ragionevoli. Diamo a pag. 595 il calcolo delle detrazioni come si facevano secondo la legge del 1877 e formalmente si dovrebbero fare ancora e come si fanno ora effettivamente dopo il 1894; facendo notare che, nel calcolo dei redditi netti effettivi e degli imponibili vecchi, si sono arrotondate le lire e trascurate le frazioni di lira. Il quadro, dimostra che:

 

 

  • in categoria A1 e A2 tutti i redditi anche minimi sono colpiti dalle aliquote normali indicate sopra (cfr. par. 500);
  • in categoria B, sono esenti i redditi inferiori a 535 lire; e quelli tra L. 535 e 1067, dopo essere stati ridotti ad imponibili colla regola dei quarantesimi, godono inoltre di una detrazione decrescente, col crescere del reddito, da L. 166,66 a L. 66,66, e solo sul residuo, che è l’imponibile vero, pagano l’aliquota normale;
  • in categoria C, il reddito esente va sino a 640 lire effettive; e godono di detrazioni i redditi tra L. 641 e le L. 1280;
  • in categoria D sono esenti i redditi sino ad 800 lire effettive e godono di una detrazione i redditi fra 801 e 1.000 lire. L’imposta italiana è dunque progressiva; ed applica il metodo di progressività che dicesi per detrazione di una frazione del reddito. In categoria B infatti, un reddito di L. 535 pagando, come vedemmo sopra, un’imposta di L. 20,17 paga solo il 3,77% del reddito, aliquota che va salendo fino a giungere, per i redditi superiori a 1067 lire, al massimo del 10,62 per cento.

 

 

Ma tutte queste attenuazioni: – qualitative per la detrazione dei 10, 20, 22, 25 quarantesimi a titolo di risparmio presunto; quantitative per la esenzione dei redditi minimi e le detrazioni di somme decrescenti per i redditi mediocri – sono confuse, poco chiare, ignote ai contribuenti.

 

 

L’impressione generale si è che l’imposta di ricchezza mobile sia del 20% per tutti i redditi, aliquota gravosissima; mentre in realtà essa si applica con aliquote svariatissime sul reddito netto guadagnato dal contribuente, aliquote che vanno dal 3,50% circa, (che è l’aliquota minima per il reddito di L. 641 in cat. C) al 20% che è l’aliquota massima vigente per tutti i redditi di categoria A2. Sono pur sempre aliquote forti; ma meno impressionanti di quella che si suol dire del 20 per cento.

 

 

È certo dannoso che le imposte siano troppo gravi; ma è anche dannoso che paiano più gravi di quanto in realtà non siano. Onde

 

 

 

 

Redditi netti effettivi

Redditi imponibili corrispondenti secondo la regola degli ottavi

Detrazione antica

Redditi imponibili corrispondenti secondo la regola dei quarantesimi

Detrazione nuova

 

Categoria B

tra L. 535 e L. 667 tra L. 401 e L. 500 L. 250 tra L. 267,50 e L. 333,50 L. 166,66
tra L. 668 e L. 800 tra L. 501 e L. 600 L. 200 tra L. 333,33 e L. 400 L. 133,50
tra L. 801 e L. 934 tra L. 601 e L. 700 L. 150 tra L. 400,05 e L. 467 L. 100
tra L. 935 e L. 1067 tra L. 701 e L. 800 L. 100 tra L. 467,05 e L. 533,50 L. 66,50
 

Categoria C

tra L. 641 e L. 800 tra L. 401 e L. 500 L. 250 tra L. 288,45 e L. 360 L. 180
tra L. 801 e L. 960 tra L. 501 e L. 600 L. 200 tra L. 360,05 e L. 432 L. 144
tra L. 961 e L. 1120 tra L. 601 e L. 700 L. 150 tra L. 432,05 e L. 504 L. 108
tra L. 1121 e L. 1280 tra L. 701 e L. 800 L. 100 tra L. 504,05 e L. 576 L. 72
Categoria D tra L. 801 e L. 1000 tra L. 401 e L. 500 L. 100 tra L. 300,37 e L. 375 L. 75

 

 

 

sarebbe opportuna una riforma che, mantenendo la classificazione odierna dei redditi ed opportunamente migliorandola (cfr. par. 408), conservando ed allargando le detrazioni per redditi mediocri, rendesse la imposizione chiara a tutti i contribuenti, modificando il sistema delle aliquote nel senso che tutti potessero calcolare facilmente il gravame d’imposta che a loro spetta, cosa che oggi è possibile solo agli iniziati.

 

 

F) Duplicazione dell’oggetto dell’imposta di ricchezza mobile.

 

502. Divieto generale di duplicazioni. – Il legislatore ha voluto espressamente vietare che uno stesso reddito potesse due volte essere assoggettato all’imposta di ricchezza mobile, quando all’art. 8 (secondo capoverso, n. 2) dichiarò eccettuati da tassazione «i redditi che per disposizione della presente legge siano già una volta assoggettati all’imposta in essa stabilita».

 

 

Sembra questa, ma non è, disposizione superflua. Invero nulla di più facile del cadere nell’errore di duplicazione, essendo che i medesimi redditi passano attraverso a parecchie persone ed attraverso a questi passaggi possono prendere configurazione di redditi diversi.

 

 

Enunciamo talune norme principali, le quali ci possono servire a scorgere quando vi sia e quando non vi sia duplicazione di imposta:

 

 

  • a) Tizio, avvocato, guadagna ogni anno 10.000 lire, di cui 1.000 servono a pagare lo stipendio allo scrivano. Tizio dovrà pagare soltanto su 9.000 lire; e vi sarebbe duplicazione se pagasse anche sulle altre 1.000 lire, poiché queste sono una spesa necessaria per ottenere il reddito netto delle 9.000 lire. Le 1.000 lire sono un reddito non suo ma dello scrivano. Egli non potrebbe spendere per i bisogni suoi personali, 10.000 lire, ma solo 9.000 lire; e quindi solo su 9.000 lire dovrà essere tassato. Lo stesso Tizio, delle 9.000 lire residue ne paga 500 annue al domestico suo personale. Non vi sarà duplicazione se egli sarà tassato su tutte le 9.000 lire e di nuovo il domestico sulle 500 lire; poiché le 500 lire in tal caso non sono una spesa fatta per ottenere il reddito, bensì una erogazione del reddito già ottenuto. Tizio del suo reddito di 9.000 lire fa parecchi usi, fra cui anche l’acquisto dei servigi del domestico. L’imposta di R. M. che colpisce i guadagni, senza badare all’erogazione loro, deve colpire tutte le 9.000 lire. Scrivano e domestico dovranno pagare allo loro volta su 1.000 e 500 lire, essendo queste indubbiamente loro reddito; né monta che queste 500 lire siano materialmente quelle medesime lire su cui pagò imposta Tizio. Tutte le lire prima di essere in possesso di taluno, furono in possesso di altri; e nulla potrebbe mai essere tassato, se la duplicazione consistesse in ciò. Mentre consiste nel tassare due volte la stessa somma presso due persone diverse, quando essa è reddito di una sola delle due persone;
  • b) la stessa duplicazione si avrebbe se si tassasse prima il reddito presso la società che lo produsse e poi di nuovo lo stesso reddito quando viene distribuito a titolo di dividendo fra gli azionisti poiché il reddito non può essere della società e degli azionisti; ma è dei soli azionisti, e la società è solo uno strumento per produrlo. Per comodità fiscale, invece di tassare gli azionisti si tassa la società;
  • c) si avrebbe duplicazione se una società, la quale trae ogni anno 100.000 lire di reddito dall’esercizio dell’industria cotoniera, fosse tassata dell’imposta di ricchezza mobile su tutte le 100.000 lire, senza tener conto che 20.000 lire di esse provengono, o sono presunte provenire dal fabbricato in cui è esercitata l’industria, fabbricato che è già colpito dall’imposta sui fabbricati. Laonde l’imposta di ricchezza mobile percuote solo L. 100.000 – 20.000 = L. 80.000. Il che fu esplicitamente affermato dal legislatore al n. 1 del medesimo capoverso dell’art. 8 in cui sono eccettuati dall’imposta mobiliare «i redditi procedenti da beni stabili che si trovano soggetti alla contribuzione fondiaria o prediale». Il divieto della quale duplicazione è specialmente importante per le società le quali hanno ad oggetto la gestione di proprietà rustiche od edilizie. Esse dovrebbero, altrimenti, pagare dapprima l’imposta sui terreni e fabbricati di loro proprietà e poi di nuovo l’imposta di ricchezza mobile su tutto il reddito sociale che pure è derivato da fondi e case già soggetti a tributo;
  • d) una duplicazione non è tolta ed è quella della tassazione del risparmio; la quale però è insita nel principio stesso delle imposte sul reddito guadagnato; ed a cui si ovvia parzialmente coll’esenzione della quota presunta di risparmio;
  • e) ad un’altra duplicazione si ovvia solo parzialmente ed è quella nascente dall’onere dei debiti. Gli interessi sui debiti od annualità passive vengono detratti solo in taluni casi ben determinati e che furono sopra spiegati (cfr. par. 483 e segg.). In tutti i casi in cui un contribuente abbia un debito e su di esso paghi interesse, ma il debito non sia stato creato per produrre il reddito, si paga su tutto il reddito, come se di tutto si avesse la disponibilità. Cosicché vi ha duplicazione, essendoché Tizio debitore paga sul suo reddito di 1.000 lire, malgrado lo debba trasferire a Caio creditore, che di nuovo paga. Ma è duplicazione voluta dal legislatore.

 

 

503. Avulsione dei redditi. – Fonte perenne di dispute intorno alla duplicazione di imposte è la divisione dei redditi in cinque diverse categorie. Sovratutto i dubbi sono numerosi per i redditi delle categorie A2 e B. Un industriale lanaiuolo vende panni ad un negoziante grossista. Costui paga a tre mesi; ed evidentemente paga l’1 o 2% di più che non se avesse pagato a contanti. Questo 2% in più è un vero interesse di mora; ma non è considerato come reddito di capitale puro (A2), non trattandosi di mutuo che l’industriale abbia fatto al negoziante grossista; bensì è parte del reddito complessivo dall’industria (B), essendo impossibile che l’industriale lanaiuolo venda panni se non concede le more solite ai negozianti.

 

 

Però se uno dei grossisti suoi clienti alla scadenza dei tre mesi non paga una fattura di 10.000 lire, ad esempio, e rilascia invece una cambiale a dodici mesi di 10.000 lire di cui 10.000 lire pel prezzo scaduto della merce e 600 di interessi per un anno al 6%; ovvero se il cliente, non avendo pagato, è giudizialmente condannato a pagare la somma delle 10.000 lire insieme con gli interessi, allora il capitale di 10.000 lire non rimane nell’impresa industriale, non serve più a produrre tessuti, e metterli in vendita, e ad aspettare che trascorra la mora normale pei pagamenti. Esso è uscito, è avulso dall’impresa: è un capitale che in modo autonomo si può dire sia stato mutuato dall’industriale, in qualità di capitalista puro, al negoziante, considerato come debitore. Esso quindi non è più capitale che, unitamente col lavoro, produca il reddito industriale misto di categoria B; ma è capitale puro produttivo di interessi tassabili in cat. A2.

 

 

Lo stesso accade per il banchiere, il quale è tassato in cat. B per i suoi redditi bancari, benché essi provengano esclusivamente dal mutuo di capitali, perché il reddito bancario è frutto insieme del capitale e dell’opera direttiva, di scelta e sorveglianza della clientela da parte del banchiere. Ma, ove uno dei clienti del banchiere non ritiri la cambiale alla scadenza ed il banchiere sia costretto, per garantirsi, ad accendere un’ipoteca sullo stabile del cliente, allora il capitale così mutuato viene avulso dal giro normale degli affari bancari; non può più venire reimpiegato in altri sconti di carta commerciale od anticipazioni su titoli od operazioni di riporto; esso è immobilizzato in un mutuo ipotecario, così come potrebbe farlo un privato qualsiasi.

 

 

Questa è la teoria dell’avulsione dei redditi, la quale importa:

 

 

  • a) che il reddito di 600 lire per un anno del negoziante grossista, o dell’interesse del mutuo ipotecario del cliente del banchiere deve, dopo l’avulsione, essere tassato a parte, come reddito di capitale puro nella categoria A2. Il che è poco piacevole per il contribuente, il quale paga su 30/40 invece che sui 20/40 del reddito; e paga maggiormente, quando forse egli meno lucra, essendo il suo capitale immobilizzato e sottratto al fecondo giro normale degli affari, od in procinto di andar perso;
  • b) che lo stesso reddito, essendo avulso dal reddito complessivo dell’azienda commerciale od industriale, non debba più essere in questo reddito compreso, poiché altrimenti si avrebbe duplicazione d’imposta. La qual deduzione è facile per le società per azioni per le quali l’agenzia delle imposte, facendo ogni anno l’analisi della partite attive del bilancio, facilmente colloca le une partite in A2, le altre in B, le altre ancora in C, a secondo della loro natura intrinseca, evitando ogni duplicazione. Ma è difficile per il commerciante od industriale privato, il quale dovrebbe dalle 20.000 lire di reddito suo complessivo, tassato in B, ottenere, per un anno, la detrazione delle 600 lire di frutto del capitale di 10.000 lire avulso per un anno dall’impresa e tassabile in A2. Dicesi per un anno, poiché, pagato il debito ed estinta la cambiale, il capitale, provvisoriamente avulso, ritorna all’azienda e di nuovo fruttifica redditi di cat. B. Sarebbe persino legalmente impossibile operare l’avulsione per un anno solo, essendoché i redditi di cat. B sono rivedibili solo ogni 4 anni ad opera del fisco ed ogni 2 anni a domanda del contribuente; talché è lodevole consuetudine dell’amministrazione di tassare in A2 gli interessi di un capitale «avulso» dal commercio o dall’industria solo con decorrenza del biennio successivo a quello in cui l’avulsione ebbe luogo; e ciò per evitare gli imbrogli delle avulsioni e delle successive rivulsioni troppo frequenti e di troppo breve durata.

 

 

504. Interessi dei mutui concessi dagli istituti di credito fondiario. – È noto quale sia l’ufficio degli istituti di credito fondiario: essi sono intermediari fra il capitalista acquisitore delle «cartelle di credito fondiario» emesse dall’istituto e su cui questo paga un interesse ed i proprietari a cui l’istituto mutua le somme che si è procurato colla vendita delle cartelle. Questa è la sostanza dell’operazione; che non muta pel fatto che l’istituto consegna le cartelle al mutuatario e questi le vende a suo rischio o beneficio al disotto o al disopra della pari. Quindi, in sostanza, supponendo che il mutuo sia di 100.000 lire al 4%, vi è un solo reddito, di 4.000 lire, il quale viene pagato dal debitore ipotecario all’istituto a titolo di interesse sul mutuo e dall’istituto trasmesso al capitalista a titolo di interesse 4% sulle cartelle. Il fatto del passaggio attraverso l’istituto non crea due redditi, uno dell’istituto verso il debitore e l’altro del portatore delle cartelle verso l’istituto. Il reddito è un solo e l’istituto funge solo da intermediario perché più facilmente ed a buon mercato i proprietario bisognosi di capitali possano trovare i capitalisti disposti a concedere il mutuo. Tassare l’interesse del mutuo ed inoltre l’interesse delle cartelle sarebbe una manifesta doppia tassazione; e ciò fu riconosciuto dal fisco il quale tassa il solo interesse delle cartelle se l’interesse è superiore al 3,75% od il solo interesse dei mutui se l’interesse è del 3,75% od inferiore. Il qual diverso modo di evitare la doppia tassazione non ha importanza e fu imposto solo dalla necessità di distinguere, in virtù della legge 22 dicembre 1905 (cfr. sopra par. 499), i redditi dei mutui inferiori o superiori alle 10.000 lire, a cui si applicano le due diverse e specialissime aliquote del 10 e 12 per cento.

 

 

505. Interessi sui mutui concessi dalle Casse di risparmio a Provincie, Comuni, Opere Pie ed altri Enti morali. – E fu il medesimo intendimento di evitare una doppia tassazione e non, come comunemente si afferma, di concedere una esenzione di favore per certi generi di mutui particolarmente prediletti dal legislatore, che questi all’art. 61 del testo unico vigente concesse il diritto alle casse di risparmio di non pagare l’imposta, per conto dei depositanti, fino a conoscenza dell’imposta già pagata sugli interessi dei mutui. Sfrondando la questione da molti elementi accessori ed ingombranti, che qui non accade di discendere, essa si presenta così. La cassa di risparmio abbia ricevuto in deposito dai librettisti 10.000.000 di lire a cui paga il 3% d’interesse; e tutti li abbia impiegati in mutui a provincie, comuni, opere pie ed enti morali al tasso del 4 per cento. Ecco il bilancio della cassa:

 

 

Attivo   Passivo  
Interessi di mutui attivi

L. 400.000

Interessi ai depositanti

L. 300.000

    Spese di servizio

L. 50.000

    Utile della cassa

L. 50.000

     

L. 400.000

 

 

Teoricamente quale dovrebbe essere il reddito tassabile? Unicamente quello risultante dalle cifre iscritte al passivo del bilancio, poiché in realtà si hanno:

 

 

  • a) lire 300.000 che sono vero reddito dei depositanti, tassabili al nome della cassa in cat. A2, salvo rivalsa;
  • b) parte dalle L. 50.000 di spesa di esercizio, che sono vero reddito degli impiegati della cassa; tassabili in cat. C al nome della cassa, salvo rivalsa;
  • c) L. 50.000 di utile della cassa, che è l’unico reddito della cassa medesima, tassabile in cat. B. Ma è chiarissimo che le L. 400.000 iscritte all’attivo non dovrebbero essere tassabili, perché esse non sono reddito per nessuno; non per gli enti mutuatari, di cui sono un debito, non della cassa, la quale è in semplice ente intermediario fra gli enti mutuatari ed i depositanti, la quale tutt’al più potrà essere considerata – ed anche qui fittiziamente, perché in realtà i veri redditieri sono le persone o gli istituti a cui là cassa devolve in beneficenza i suoi utili – come percettrice della differenza fra incassi e spese, ossia dell’utile di L. 50.000.

 

 

Di fatto, accade che, per circostanze particolari, il nostro legislatore ha tassato le L. 400.000 di interessi di mutui al nome degli enti mutuatari, salvo rivalsa; e, dopo ciò, non ha potuto fare a meno di esentare, non espressamente, ma per via del modo di calcolo dei redditi imponibili delle casse di risparmio, le 300.000 lire di interessi a depositanti e le 50.000 lire di utile della cassa.

 

 

Il che fu detto favore o privilegio; mentre in realtà non è che riconoscimento confuso e incerto del principio che vieta le doppie tassazione. Anziché privilegio devesi affermare che le casse sono soggette ad una tassazione in parte doppia; poiché sulle 50.000 di spese di esercizio, pagano dapprima quando fanno parte delle lire 400.000 di interessi attivi dei mutui, e poi di nuovo perché son redditi dei loro impiegati.

 

 

506. Riserve matematiche delle imprese di assicurazione. – Esistono due miniere di assicurazione sulla vita: o premio naturale ed a premio medio. Col premio naturale l’assicurato paga ogni anno una somma o premio corrispondente al rischio di morire nell’anno. E poiché il rischio è tenuissimo nelle età giovani e cresce quanto più si procede nella vecchiaia, l’assicurato dovrebbe pagare un premio crescente di anno in anno, dall’1% o meno della somma assicurata ai 20 anni sino al 100% ai 90-95 anni.

 

 

Il metodo è poco simpatico ed è caduto in disuso perché le imprese hanno veduto che avevano molti assicurati in età giovane, ma rapidamente li perdevano quanto più essi avanzano in età. E fu sostituito col metodo del premio medio, per cui l’impresa si fa pagare, ad esempio, il 3% della somma assicurata ogni anno, che è superiore al necessario a coprire il rischio di morte per le età giovani ed inferiore per età avanzate. Le imprese provvidero a ciò, mandando a riserva il supero oltre il rischio di morte dell’anno nelle età giovani e consumando poi la riserva nelle età avanzate. L’assicurato ha il vantaggio della costanza del premio: invece di pagare premi progressivamente crescenti: l’1 … 2 … 3 … 4 … 5 … 10 … 20 … 30 … e più %, paga subito e sempre il 3 per cento. Le somme che le imprese accantonano nelle età giovani per sopperire al deficit delle età avanzate chiamansi riserva matematica.

 

 

Per lunghi anni il fisco si ostinò a considerare come reddito od utile della società queste somma mandate alla riserva matematica, ed a tassarle in cat. B, sebbene fosse chiarissimo che essi none erano utili ma accantonamenti provvisori destinati ad essere restituiti agli assicurati.

 

 

A nulla valsero le dimostrazioni più chiare, essendo ché esse si infrangevano contro la lettera della legge, la quale aveva dichiarato che dovevano essere tassate tutte le somme destinate a riserva (cfr. par. 481).

 

 

A nulla valse dimostrare che l’essere una somma mandata a riserva non era tal fatto che bastasse a farla considerare reddito, se tale esse non era fin dall’origine. Fu d’uopo intervenisse apposita legge interpretativa dell’11 aprile 1889 n. 6010, la quale stabilì il principio che nel reddito delle imprese di assicurazione sulla vita non dovessero essere comprese «le somme destinate a costituire la riserva matematica». E sono eccettuate da tassazione anche gli interessi o frutti della riserva matematica medesima, quando anch’essi vadano a dare alla riserva nuovo incremento. S’intende che riserve matematiche e loro incrementi vanno calcolati secondo il tasso di interessi e di mortalità adottato da ogni singola impresa. Tutto il sovrappiù di entrare della impresa, sia costituito da premi o da redditi dei fondi sociali o riserve matematiche, dedotti i rischi dell’anno e le somme devolute ad incremento della riserva matematica, è reddito sociale e come tale va colpito dall’imposta.

 

 

507. Delle somme distribuite a titolo di rimborso di capitale. – Ad evitare duplicazioni, l’art. 8 sancisce del pari siano eccettuate da imposta le somme pagate a titolo di rimborso di capitale; essendo evidente che se una società, costituita col capitale di 1 milione, in prosieguo di tempo riconosce l’esuberanza del capitale e ne rimborsa la metà agli azionisti, la somma di 500.000 lire rimborsata, per il solo fatto della distribuzione agli azionisti, non diventa tassabile. Essa continua ad essere capitale, il che, in linguaggio finanziario, vuol dire che essa fu altra volta già assoggettata ad imposta, prima che gli azionisti la conferissero in società, quando essi la avevano guadagnata col lavoro o coll’impiego di capitale. Allora fu tassata in qualità di reddito guadagnato; né il fatto che gli azionisti in seguito la risparmiarono e la versarono per costituire il capitale delle società, e questa poi tornò a rimborsarla agli azionisti per esuberanza riconosciuta, fa scomparire la originaria tassazione; la quale vieta una susseguente tassazione.

 

 

La somma rimborsata deve essere stata effettivamente versata dagli azionisti. Ché se la società costituitasi col capitale di un milione sciogliendosi riparte tra gli azionisti a titolo di quota di riparto del patrimonio sociale due milioni di lire, e questi due milioni siano così composti;

 

 

a) Capitale versato dagli azionisti

L. 1.000.000

b) Riserve palesi costituite con prelievi sugli utili annui e già state assoggettate all’imposta

L. 500.000

c) Riserve nascoste ossia sovrappiù di valore del patrimonio sociale, non mai stato tassato ed accertato in sede di liquidazione

L. 500.000

 

L. 2.000.000

 

 

il milione sotto (a) dovrà essere esente perché rimborso di capitale, le 500.000 lire sotto (b) dovranno pure essere esenti per il canone che vieta di tassare una seconda volta le somme già colpite dalla stessa imposta di ricchezza mobile (cfr. par. 502); ma le 500.000 lire sotto (c) dovranno essere tassate, perché, sebbene ripartite formalmente a titolo di rimborso di capitale, in realtà sono utili accumulati durante la vita sociale e non mia stati prima soggettati all’imposta.

 

 

508. Quid dei premi sulle obbligazioni, cartelle o altri titoli di debito? – Un ente pubblico od una società per azioni emette una serie di obbligazioni da 500 lire l’una, obbligandosi a pagare l’annuo interesse del 4% ed inoltre, al momento del rimborso, per estrazione a sorte, dell’obbligazione in 500 lire, un premio di 100 lire. Evidentemente queste 100 lire sono un sovrappiù di interesse o reddito, il quale per ciò solo si differenzia dall’interesse annuo che, invece di essere pagato ogni anno, si accumula alla fine del periodo di vita dell’obbligazioni. Dunque correttamente queste 100 lire andranno assoggettate ad imposta di ricchezza mobile. E questo è il caso delle obbligazioni del canale Cavour, delle ferrovie centrali toscane e di altre ancora a debito dello Stato.

 

 

Illogicamente invece ha voluto il legislatore che se lo Stato ha emesso obbligazioni del valore nominale di L. 500, per cui cioè si è riconosciuto debitore di 500 lire, ad un corso inferiore alla pari, per es. a 300 lire, e poi, giunto il momento dell’estrazione, restituisce le 500 lire, la differenza in più rimborsata oltre il versato di 300 lire non sia reddito.

 

 

Ciò deriva dalla lettera della legge, la quale vuole escluse da tassazione le somme pagate a titolo di rimborso di capitale; e lo Stato precisamente, dicesi, paga tutte le 500 lire all’atto dell’estrazione «a titolo di rimborso di capitale». Poiché il legislatore volle così, e su di ciò non cade dubbio, le 200 lire vanno esenti da tributo. L’unica giustificazione del qual privilegio può essere, oltre quella della convenienza dello Stato, di cui sotto si dirà (cfr. par. 514), la difficoltà di conoscere il prezzo esatto di emissione, se 300 o 350 o 280 lire, onde poter fare il confronto colla somma rimborsata e tassare la differenza. Ma tale difficoltà non esiste trattandosi di emissioni pubbliche, per le quali sempre si conosce il prezzo effettivo pagato dei capitalisti. E che trattisi di privilegio il quale in principio non ha ragion d’essere è chiarito dal fatto che il capitalista pagò solo 300 lire e che quindi, ottenendo egli il rimborso in L. 500 lucra 300 lire oltre il capitale versato, le quali 200 lire hanno, come i premi, di cui si disse dianzi, natura di interesse accumulato alla fine della vita della obbligazione.

 

 

La giurisprudenza però ha riconosciuto trattarsi di privilegio ed ha cercato di ridurne la portata, ogni volta che glie se ne porgeva il destro.

 

 

Così fu giudicato che, se una società anonima acquista obbligazioni al disotto della pari, per es. a 3.000 lire e poi ne ottiene il rimborso alla pari in 500 lire, non si debba badare al titolo per cui la somma fu pagata dal debitore, che sarebbe di rimborso di capitale, ma al titolo per cui la somma entra nelle casse della società. Per questa, essendo indubbio che il capitale versato fu di 300 lire, mentre il rimborso ottenuto fu di 500, le 200 lire di differenza appaiono reddito ripartibile fra gli azionisti senza intaccare il capitale; onde sono tassabili. Altra dimostrazione della tendenza della dottrina e della magistratura ad allargare il concetto del reddito imponibile dai frutti puri (interessi) agli incrementi della sorte capitale (differenza di 200 lire oltre il versato).

 

 

509. Quid dei cosidetti redditi delle società filantropiche, scientifiche, letterarie, di divertimento ecc.? – Per analoga ragione, essere desse pagate a titolo di conferimento capitale, si è riconosciuto che non erano possibili di imposta le contribuzioni dei soci delle società non aventi scopo industriale, ma educativo, o filantropico o di divertimento, erogate per gli scopi sociali. Si costituisce un circolo di cultura od una associazione fra studenti universitari, con 500 soci i quali pagano 12 lire all’anno. Il circolo od associazione introita ogni anno 6.000 lire che eroga pei fini sociali. Quelle 6.000 lire non sono re dito per la società, bensì conferimento di capitale da parte dei soci, per conseguire il fine comune dell’istruzione o del divertimento. Se quelle 6.000 lire fossero tassate, si avrebbe manifesta duplicazione; essendoché esse erano già state tassate quando erano state guadagnate dai soci ed erano entrata a far parte del loro reddito. Naturalmente essi poi vollero spendere il loro reddito; ed in parte lo spesero singolarmente ed in parte divisarono di spenderlo in comune. La circostanza, puramente accidentale, della spendita in comune di parte (12 lire a testa) del reddito dei singoli studenti, non fa siche le 12 lire debbano essere una seconda volta tassate.

 

 

Ove però il circolo sulle 6.000 lire di incasso annuo, risparmiasse 1.000 lire ed in capo a 10 anni costituisse un capitale di 10.000 lire a questo investisse in un mutuo ipotecario al 5%, sul reddito delle 500 lire annue per tal modo ottenuto a buon diritto graverebbe l’imposta, essendo questo un reddito in più, ottenuto, oltre le contribuzioni dei soci, da un capitale proprio del circolo. Ciò, s’intende, secondo la logica della tassazione del reddito guadagnato, che è la logica che noi dobbiamo osservare, come quella che è voluta dal legislatore.

 

 

510. La cosidetta esenzione delle società di mutuo soccorso. – Vuole l’art. 8 del testo unico che siano esenti dall’imposta i redditi delle società di mutuo soccorso. E fu affermato trattarsi di un vero favore o privilegio concesso alle società di mutuo soccorso, allo scopo di promuovere l’incremento, reputato socialmente utile. Mentre invece:

 

 

  • a) o trattasi di entrate delle società medesime derivanti dalle contribuzioni dei soci ed erogate al fine sociale, di soccorsi in caso di malattie od infortuni o morte od altre disgrazie di soci, ed allora la tassazione sarebbe stata indebita, perché le contribuzioni dei soci non sono reddito per la società; bensì capitale sociale; e sarebbesi verificata, come sopra si dimostrò, duplicazione d’imposta;
  • b) ovvero trattasi dei redditi che la società di M. S. ricava dall’impiego capitalistico delle contribuzioni dei soci; ed allora per un altro verso si verificherebbe la doppia tassazione se quei redditi fossero tassati. Supponiamo invero che una società di M. S. abbia costituito, colle quote dei soci, un fondo di un milione di lire, con cui provvede a sussidi di vecchiaia o di incapacità al lavoro a favore dei suoi soci. Essa ricava dal milione di fondo sociale un reddito annuo di 50.000 lire, di cui si serve, ricorrendo inoltre, ove faccia d’uopo, a prelievi dal fondo sociale, per ripartire sussidi tra i soci di 100 lire all’anno durante la loro tarda età od incapacità al lavoro. È chiaro che, se non si vuole commettere l’errore di duplicazione d’imposta, occorre, anche partendo dal concetto informatore della legge vigente, esentare o le 50.000 lire di reddito della società ovvero quella parte delle 100 lire di sussidio ai soci che è costituita dai frutti del fondo sociale. Se si tassassero amendue, si tasserebbe due volte lo stesso reddito, una volta mentre è indiviso e la seconda mentre è ripartito a titolo di sussidio fra i soci. Ciò non si volle per le società per azioni, delle quali si tassa solo il reddito indiviso presso la società e non più il dividendo frazionato presso gli azionisti. Nel caso delle società di mutuo soccorso il legislatore preferì seguire il metodo invero: lasciando immune il reddito indiviso delle 50.000 lire e tassando le 100 lire o quella parte delle 100 lire che non è rimborso di capitale presso i soci. Ed è corretto il metodo tenuto dal legislatore, inverso a quello tenuto per le società per azioni. Per queste nulla importava conoscere la persona dell’azionista, essendoché il reddito viene tassato come tale; presumendosi che gli azionisti non siano di solito poveri e meritevoli di riguardo speciale.

 

 

Mentre i società di M. S. vale la presunzione inversa; che essi siano cioè contribuenti modestissimi, cadenti nel limite del minimo esente delle 400 lire imponibili. Onde il legislatore volle che il reddito delle 50.000 lire della società di mutuo soccorso da noi immaginata fosse esente; ma fossero tassati i sussidi delle 100 lire ai soci. E qui si devono usare due avvertenze: la prima delle quali si è che, essendo difficile calcolare, quanta parte delle 100 lire è rimborso del capitale non tassabile e quanto frutto o reddito imponibile, si presume che la parte di frutto sia uguale ai 18/40 del sussidio totale e quindi si tassano le 100 in categoria C, sebbene non si possa certamente dire che esse siano reddito di capitale puro[3]; e la seconda è che le 100 lire saranno tassate soltanto se sono riscosse da contribuenti i quali non abbiano diritto a pretendere l’esenzione dall’imposta mobiliare, perché il loro reddito complessivo è inferiore alle 400 lire imponibili, che in categoria C equivalgono a 640 lire effettive.

 

 

Laonde accade spesso che i redditi delle società di mutuo soccorso siano effettivamente esenti; non però in quanto siano redditi delle società stesse, per cui l’esenzione ha solo il significato di un divieto di duplicazione; bensì in quanto sono redditi di soci che hanno diritto all’esenzione generale concessa a tutti coloro che hanno redditi piccoli.

 

 

E notisi ancora due altre singolarità: se i sussidi pagati ai soci fossero tassati, per la sola quota d’interesse in essi contenuta in cat. A1 od A2, essi non godrebbero mai alcuna esenzione, perché questa non è consentita ai redditi di categoria A1 od A2; ma la godono perché, a guisa d’espediente, tutte le 100 lire, ridotte ai 18/40 sono tassate in C, la quale categoria, essendo reputata sempre composta di redditi di lavoro, ammette le esenzioni dei redditi minimi. Questa è la prima singolarità: essersi concessa l’esenzione ai redditi minimi di capitale puro, quando essi, per essere l’interesse confuso col rimborso di capitale, sono tassati in categoria C; talché non è esatto affermare che l’imposta di ricchezza mobile ammetta esenzioni e detrazioni solo pei redditi misti o di lavoro puro e non mai ai redditi di capitale puro. La seconda singolarità consiste in ciò: che la società di mutuo soccorso può ricavare il suo reddito di 50.000 lire dall’imposto in fondo di Stato esenti da tributo; nel qual caso l’esenzione dovrebbe mantenersi anche quando le 50.000 lire sono ripartite tra i soci a titolo di sussidio, come si manterrebbe ove fossero ripartite tra azionisti a titolo di dividendo. Ed invece, scorrettamente, le 100 lire di sussidio, ove il contribuente non sia esente per propria virtù di povertà, sono tassate in cat. C. Non ultima fra le illogicità di applicazione, non di principio, che renderebbero necessaria una attenta revisione del testo unico vigente.

 

 

Ricordiamo da ultimo che i redditi delle società di mutuo soccorso per essere esenti devono essere tassabili al nome delle società stesse; laonde non sono esenti le società per i titoli al portatore, per cui non v’è garanzia che esse ne siano le vere proprietarie; e nemmeno sono esenti per i redditi che sono pagati dallo Stato, come interessi di titoli di debito pubblico o sussidi governativi; su cui l’imposta si esige per ritenuta.

 

 

Essendoché, in virtù dell’art. 11 del testo unico, nessuna esenzione di veruna specie è ammessa per i redditi su cui l’imposta è esatta per ritenuta diretta dallo Stato.

 

 

G) Esenzioni dall’imposta di ricchezza mobile.

 

511. Premessa. – Poco rimane da osservare in tema di esenzioni, dopo quanto sopra fu discorso delle duplicazioni. Parecchie che paiono esenzioni da tributo in realtà sono ossequio al principio che vieta le doppie tassazioni. Talché rimane solo da accennare a talune esenzioni vere e proprie, che non rientrano nella categoria precedente. Non faremo un elenco compiuto, ma solo esemplificativo.

 

 

512. Esenzioni a titolo di reddito minimo. – Entrano in questa categoria:

 

 

  • a) l’esenzione concessa a coloro che hanno reddito non superiore alle 400 lire imponibili, corrispondenti alle 534 lire in categoria B, alle 640 in categoria C, alle 800 in cat. D. Di questa esenzione già abbastanza si è discorso (cfr. par. 501);
  • b) agli operai aventi reddito non superiore a L. 3.50 al giorno, che si reputano equivalenti a L. 640 all’anno. Regola adottata per la difficoltà di conoscere i redditi annui degli operai;
  • c) ai militari in attività di servizio nell’armata di terra o di mare, inferiori al grado d’ufficio, per le loro competenze militari. Si suppone che il reddito di questi militari rientri nel novero di quelli minimi che il legislatore ha voluto esentare;
  • d) le rendite vitalizie inferiori a L. 1.500 dovute dalla Cassa nazionale per la invalidità e la vecchiaia degli operai;
  • e) le rendite vitalizie corrisposte agli operai della manifattura dei tabacchi.

 

 

513. Esenzioni a titolo di privilegio per la funzione esercitata. – Sono essenzialmente tre:

 

 

  • a) l’esenzione concessa alla dotazione della Corona ad agli appannaggi dei membri della famiglia reale, essendoci reputato che il sovrano, nel cui nome sono esatti i tributi, non potesse egli medesimo venire assoggettato ad imposta;
  • b) l’esenzione concessa alla dotazione della Santa fede dalla legge sulle guarentigie;
  • c) l’esenzione concessa agli agenti diplomatici per ragioni di cortesia internazionale; ed agli agenti consolari, quest’ultima limitatamente agli agenti consolari che non siano né regnicoli né naturalizzati, purché esista reciprocità di trattamento negli Stati dai quali essi dipendono.

 

 

514. Esenzioni determinate dalla convenienza dell’erario. Esenzioni concesse e taluni titoli di debito pubblico. – Le precedenti esenzioni sono poco interessanti dal punto di vista dottrinale, salvo quelle pei redditi minimi, di cui già si vide la grandissima portata teorica (cfr. par. 303 e 305). Più interessante è la esenzione la quale viene concessa ad una gran parte dei titoli di debito pubblico.

 

 

Teoricamente il problema si pone così: conviene allo Stato colpire il reddito annuo di titoli di Stato con una imposta? Sembra che la cosa sia indifferente. Poiché è evidente che lo Stato:

 

 

  • vendendo un titolo 5%, soggetto all’imposta del 20%, in realtà vende un titolo il quale frutta al capitalista nette solo L. 4; quindi, ove il tasso di interesse corrente sul mercato sia precisamente del 4%, lo Stato potrà incassare L. 100 dalla vendita del titolo;
  • vendendo un titolo 4% netto da imposta, il prezzo ricavabile sarà pure di 100 lire.

 

 

In ambi i casi lo Stato ottiene a mutuo 100 lire e si obbliga a pagare 4 lire di interesse annuo. Nel primo caso la visione netta del fatto è oscurata dall’obbligo, che lo Stato si assume, di versare 5 lire in qualità di ente debitore e dal diritto che si erroga, in qualità di ente tassatore, di trattenere per sé 1 lira a titolo di imposta, pagando nette 4 lire. Il secondo metodo è più semplice, il primo è più complicato e richiede maggiore sfoggio di contabilità.

 

 

In fondo si tratta di differenza formale, che lascia indifferenti rispetti alla soluzione preferibile però a far prendere la bilancia:

 

 

  • a favore della tassazione:
    • a) che sarebbe scorretto, anche se formalmente indifferente, concedere una esenzione ai capitalisti; la quale sarebbe un vero privilegio, assise in special modo su di essi; ma ugualmente scorretto esentarli da ogni imposta;
    • b) che se è indifferente in un primo momento tassarli od esentarli può non esserlo più seguito; perché, se il fabbisogno dello Stato aumenta e le imposte generali vengono aumentate dal 20 al 25%, lo Stato potrà, se i titoli di debito pubblico suo tassati, aumentar l’imposta dal 20 al 25%, aumentando la ritenuta da 1 lira ad 1,25 e riducendo l’interesse dal 4 al 3,75%; mentre, se il titolo è esente, l’interesse rimarrà fino al 45 ed i portatori di titoli di debito pubblico sfuggiranno al nuovo onere di tributi che grava su tutti gli enti cittadini.
  • a favore della esenzione:
    • c) che l’argomento addotto sotto (a) lascia i dubbiosi nell’indifferenza primitiva; poiché non si può sul serio sostenere che si renda omaggio al principio della università dell’imposta, quando allo scopo di potere fingere l’esenzione di una imposta di 1 lira, si aumenta l’interesse nominale dal 4 al 5% e, trattenuta 1 lira a titolo di imposta, si pagano le 4 lire che unicamente il capitalista pretendeva. Il principio della università viene ugualmente violato, essendoché il capitalista nulla paga sul suo reddito che voleva essere ed è di 4 lire nette; ed all’offesa si aggiunge il rigiro inteso a far credere che una imposta sia prelevata mentre di fatto non è: a far credere che una imposta sia prelevata mentre di fatto non è:
    • d) che l’argomento addotto sotto (b) si può agevolmente ritorcere a favore dell’esenzione. Poiché se è vero che lo Stato potrà, in una futura occasione di maggior fabbisogno pubblico, elevare l’imposta da 1 a 1,25 lire, ricavandone un vantaggio sostanziale e non apparente; non è men vero che la possibilità di cotal futuro aumento di balzelli è preveduta dai capitalisti. Cosicché, se essi pagano 100 lire il titolo 4% netto da qualunque imposta presente e futura, pagheranno soltanto 95 lire o forsanco meno un titolo 5% lordo soggetto oggi ad 1 lira di trattenuta, perché essi ragionevolmente vogliono premunirsi contro il rischio di un aumento dell’imposta da 1 a 1,25 lire. Ed è probabile che i capitalisti temano un danno maggiore della realtà e quindi sottovalutino esageratamente il prezzo del titolo soggetto ad imposta. Cosicché non par possibile che lo Stato possa istituire oggi o riservarsi il diritto di istituire domani un’imposta sui titoli di debito pubblico, senza doverne pagare subito il fio di una diminuzione del valore capitale del titolo. Laonde miglior consiglio appare l’esenzione assoluta; congiunta alla facoltà di potere o subito o dopo un limitato numero di anni rimborsare il mutuo, ove l’interesse non sia più corrispondente del mercato. Così da poter sempre usufruire delle migliori condizioni di interesse che in avvenire saranno possibili.

 

 

Il legislatore italiano non ha seguito esclusivamente né l’uno né l’altro principio. O meglio, il principio generale affermato nello Statuto, nella legge fondamentale sul debito pubblico e nella legge d’imposta di ricchezza mobile è che gli interessi del debito pubblico non debbono andare soggetti a nessuna imposta speciale, ma solo alle imposte generali che colpiscono anche gli altri redditi. Principio corretto, perché solo in tal modo si può evitare che lo Stato prometta, come mutuatario od ente di diritto privato, ai creditori il 5%, e poi manchi ai patti conventi, ritogliendo, in qualità di ente di diritto pubblico, a titolo di imposta una quota arbitraria dell’interesse pattuito. Ad evitare che l’abuso delle imposte speciali, usitatissimo negli Stati di antico regime, andasse a detrimento del credito pubblico, si volle garantire ai portatori di titoli di debito pubblico che, ove essi fossero stati colpiti da tributo, avrebbero potuto esserlo solo da tributi generali, ossia gravanti su tutti gli altri redditi della medesima specie. Con ciò si evitare la creazione di imposte in odio ai portatori di titoli di debito pubblico; sembrando difficile che si vogliono tassare tutti i contribuenti solo per arrecar danno a taluni di essi, ed essendo certo che gli altri contribuenti, difendendo sé stessi contro le imposte eccessive, debbono contemporaneamente difendere anche i portatori di titoli di debito pubblico.

 

 

La regola della imposizione generale fu voluta osservare, almeno formalmente, persino quando nel 1894 il legislatore fu costretto ad aumentare l’imposta di ricchezza mobile sui titoli di debito pubblico dal 13,20 al 20 per cento. In sostanza erano i titoli di debito pubblico che più specialmente si volevano colpire; ma, per giungere allo scopo, si dovette aumentare l’aliquota generale dal 13,20 al 20 per cento. In sostanza erano i titoli di debito pubblico che più specialmente si volevano colpire; ma, per giungere allo scopo, si dovette aumentare l’aliquota generale dal 13,20 al 20% su tutti i redditi imponibili, e mutare poi il criterio di riduzione dei redditi, da effettivi ad imponibili, da quello degli ottavi all’altro dei quarantesimi (cfr. par. 498), più nella categoria A1, la quale in origine doveva tassare ai 40/40 solo gli interessi del debito pubblico, si dovettero collocare anche i titoli di debito comunale e provinciale e delle società riceventi garanzie dallo Stato (cfr. par. 498).

 

 

Tuttociò per evitare che la tassazione di fatto speciale del 20 per cento sui 40/40 del reddito, avesse apparenza di imposta odiosa contro i detentori dei titoli di debito pubblico.

 

 

Il principio dominante era però, fino a poco tempo fa, quello della tassazione: generale bensì, ma tassazione. Il che si comprende in tempi in cui il giovane Stato italiano traversava momenti fortunosi della sua storia finanziaria; e doveva mettere imposte su tutto, non badando al danno che ne risentiva pel deprezzamento dei titoli di debito pubblico. Ma, migliorate, col tempo, le condizioni della finanza si mitigarono gli appetiti tributari e, mentre prima l’erario aveva cercato di ridurre l’onere degli interessi del debito pubblico con imposte forzose, che avevano ridotto a poco a poco l’interesse per il titolo principale di rendita del 5 lordo al 4% netto, con la conversione del 29 giugno 1906 si convertì, col pieno e libero consenso dei creditori, il 5% lordo o 4% netto in un 3,75% netto destinato a ridursi ulteriormente ed automaticamente al 3,50% netto nel 1912. In quell’occasione il legislatore si persuase dell’inutilità della vecchia finzione di una imposta esatta solo formalmente ed il nuovo titolo fu emesso al 3,75-3,50% netto da qualunque imposta presente e futura. Poiché il titolo, che oggi è del 3,50%, comprende circa otto miliardi in capitale e poiché l’esempio fu imitato per i titoli di debito emessi di poi, si può oggi dire che per circa due terzi i titoli dei debito pubblico italiano sono esenti da imposta e solo un terzo vi è soggetto.

 

 

H) Valutazione ed accertamento dei redditi di ricchezza mobile.

 

515. Esazione per ritenuta e per versamento diretto. – Già vedemmo come l’imposta di ricchezza mobile sia esatta nelle tre maniere della ritenuta, del versamento diretto in tesoreria e dei ruoli. Rispetto al primo metodo la valutazione dei redditi, l’accertamento dell’imposta dovuta e la sua riscossione avvengono, si può dire, in un sol momento, all’atto in cui lo Stato paga il reddito e trattiene l’ammontare dell’imposta dovuta. Affine assai è il metodo del versamento diretto, che è usato per le grandi amministrazioni dipendenti dallo Stato (cassa dei depositi e prestiti, fondo per il culto, amministrazione delle strade ferrate) o per istituti semi-pubblici (istituti di credito fondiario). In tal caso la valutazione del reddito imponibile, l’accertamento dell’imposta dovuta ed il suo versamento non presentano difficoltà o pericoli di frode veruna.

 

 

516. Esenzione per ruoli. – Le difficoltà possono sorgere per la grande massa dei redditi, su cui l’imposta viene esatta col metodo dei ruoli nominativi, e cioè di liste contenenti il nome, la qualità, i redditi dei contribuenti e l’imposta da essi dovuta.

 

 

Secondo la lettera della legge, la valutazione dei redditi è fondata sulla dichiarazione del contribuente, la quale dovrebbe essere stesa sull’apposito modulo o scheda e fatta tenere all’agente direttamente od a mezzo del sindaco del comune. Nella dichiarazione il contribuente dovrebbe essere tenuto a denunciare non solo i redditi proprii, ma anche quelli che egli ritrae in nome della moglie, dei figli e degli altri membri della famiglia e in generale dei propri rappresentati; deve inoltre indicare le annualità passive che gravano i redditi e le spese di produzione ecc. ecc.

 

 

In realtà tutto questo sta scritto sulla carta; ma è eseguito solo in parte. Per sapere come in realtà le cose procedano, bisogna rifarsi alla distinzione ben nota tra enti collettivi, ossia pseudo contribuenti o contribuenti esattori, i quali pagano l’imposta per conto dei loro azionisti, creditori, impiegati ecc. ecc., salvo rivalsa ed i contribuenti privati i quali pagano l’imposta per conto proprio.

 

 

517. La base di valutazione pei redditi dei contribuenti esattori od enti collettivi è il bilancio. – Per questi v’è una base solida di valutazione dei redditi: il bilancio che annualmente deve essere dai comuni, dalle provincie, dagli enti morali, dalle società per azioni comunicato all’agenzia delle imposte. Certamente il bilancio non è l’unica base delle valutazioni, perché l’agente delle imposte, quando abbai dubbi ragionevoli sulla veridicità delle appostazioni può controllarle col sussiste dei libri sociali. Inoltre il bilancio, se fornisce i mezzi per valutare il reddito proprio degli enti morali e degli azionisti od obbligazionisti delle società per azioni, dà appena il mezzo di conoscere il montante complessivo degli altri redditi di impiegati dipendenti e capi operai su cui dalla società od ente deve pagarsi l’imposta, salvo rivalsa. Onde, a corredo del bilancio, gli enti collettivi debbono presentare l’elenco degli stipendi dovuti ai proprii dipendenti, onde si possa calcolare se e quanta imposta sia dovuta dall’ente in contemplazione di quegli stipendi.

 

 

Perché l’ente collettivo sia obbligato a pagare l’imposta per conto di altre persone occorre che queste persone siano dall’ente collettivo dipendenti con un rapporto avente una certa stabilità. Così la società ed il comune dovrà pagare l’imposta sullo stipendio pagato all’impiegato del suo ufficio legale, ma non sull’onorario dell’avvocato scelto a patrono in una determinata lite. L’avvocato non è dipendente dalla società, bensì un professionista libero che dovrà pagare l’imposta al proprio nome. Così pure se l’impresa ha un laboratorio di aggiustaggio per le macchine pagherà per lo stipendio dei sovrastanti o capi operai di esso, i quali sono alle sue dipendenze; non pagherà invece per conto dell’artigiano indipendente che ha un proprio laboratorio ed esegue lavori di riparazione nello stabilimento dell’impresa. L’artigiano non è un salariato, bensì un lavoratore per proprio conto, che deve essere tassato al proprio nome.

 

 

Poiché la legge parla soltanto di stipendi, pensioni ed assegni pagati degli enti collettivi ai propri dipendenti, si è dubitato se l’obbligo di denunciare i redditi e di pagare, salvo rivalsa, l’imposta dovuta su essi, si estendesse anche ai salari degli operai. La difficoltà che si incontra deriva dalla instabilità degli operai, la quale fa si che difficilmente si possa constatare se l’operaio debba essere assoggettato ad imposta tenuto conto del suo guadagno annuo totale, superiore od inferiore alle 640 lire; ed anche tenuto conto del fatto che una circolare del novembre 1899 del ministro Carmine esente i salari operai non superiori alle lire 3,50 giornaliere, rimane la difficoltà di distribuire l’imposta sulle varie aziende, in proporzione al periodo di tempo per cui l’operaio è rimasto alle rispettive loro dipendenze. Occorrerebbe fare ruoli per ogni giorno od almeno per ogni mese. Laonde si fa obbligo della denuncia per cui solo operai, e sono i capi operai o sovrastanti, i quali sono rimunerati a mese e la cui opera è permanentemente necessaria all’andamento dell’impresa, escludendo quelli le cui prestazioni sono precarie e discontinue.

 

 

Pur con queste limitazioni, la tassazione all’origine presso i cosidetti enti collettivi è un prezioso strumento di accertamento dei redditi, che si compie in maniera assai più sicura e facile di quanto non avverrebbe con l’accertamento diretto.

 

 

518. La base di valutazione dei redditi dei contribuenti privati è il criterio peritale dell’agente. – Ben diversamente avvengono le cose per i redditi dei contribuenti privati. Questi di fatto non presentano mai la dichiarazione che è loro imposta dalla legge. Essi assistono passivi gli accertamenti che d’ufficio compiono le agenzie, per nulla aiutate dai sindaci e dalle giunte comunali, a cui pure la legge devolve tale ufficio.

 

 

Cosicché:

 

 

  • a) per i redditi in cat. A2, che sono redditi certi, in cifra fissa e per un determinato periodo di tempo, il fisco conosce solo quelli che traggono origine da mutui ipotecari, perché i conservatori quelle ipoteche sono astratti ad inviare d’ufficio notizia del mutuo e dell’interesse convenuto. Di tutti i mutui chirografari e cambiari non commerciali (quelli commerciali danno redditi che sono già compresi nei redditi degli esercenti commercio od industria) il fisco nulla sa; a meno che si tratti di redditi risultanti da bilanci pubblici di enti collettivi; ed allora si ricade nel caso precedente. I redditi relativi rimangono esenti di fatto dall’imposta fino a che non sorga il triste giorno in che il debitore chirografario o cambiario più non paga l’interesse pattuito o ritarda il rimborso del capitale. Allora il creditore deve chiamare in giudizio il debitore ed allora il fisco viene a conoscere l’esistenza del mutuo e può colpire d’imposta gli interessi. I quali perciò di fatto sfuggano all’imposta finché sono puntualmente riscossi e la debbono pagare quando, non che pagare gli interessi, il debitore minaccia di non rimborsare nemmeno più il capitale;
  • b) per i redditi di cat. B e C, industriali, commerciali, e di lavoro puro, per cui si compie la revisione ogni quattr’anni ad iniziativa dell’agente delle imposte ed ogni due anni ad iniziativa del contribuente, l’unico criterio è quello peritale, di estimazione, dedotto dai dati che l’agenzia si poté procurare intorno all’importanza assoluta dell’impresa e del negozio od ai guadagni professionali del contribuente, e relativa in confronto ad altre imprese o ditte, di cui, per essere costituite a forma di società per azioni, si conosce con precisione il reddito. Giova riconoscere che, coll’andar del tempo, i funzionari delle agenzie hanno progredito in esperienza, dottrina ed abilità, cosicché minori sono gli occultamenti della materia imponibile. Sono però ancora abbastanza imponenti, specie in talune categorie dei professionisti, perché non si debba concludere che l’imposta di ricchezza mobile esatta per ruoli su contribuenti privati è ben lungi dalla perfezione.

 

 

519. Risoluzione delle controversie tra fisco e contribuenti. – Le maniere sono parecchie:

 

 

  • a) il concordato, il quale è un amichevole compimento a cui l’agente delle imposte e il contribuente possono addivenire;
  • b) il ricorso alle commissioni amministrative, le quali sono di tre ordini. Le commissioni mandamentali e comunali delle imposte dirette risiedono in ogni mandamento; ma nei grandi comuni, che comprendono parecchi mandamenti, vi ha una sola commissione. Le commissioni mandamentali sono composti di un presidente, nominato dall’intendente di finanza, di quattro membri e due supplenti, eletti dalle rappresentanze dei comuni del mandamento, ovvero dal consiglio comunale se il mandamento è di un comune solo o se il canone è diviso in più mandamenti. Esse giudicano sulle questioni di fatto, ad esempio sulla esistenza o stima dei redditi o sulle questioni di diritto, ad esempio se una certa entrata od incasso sia redatto ovvero capitale, sia esente od imponibile. Le commissioni mandamentali possono iscrivere i redditi omessi dall’agente ed aumentare gli accertamenti; anche se non vi sia reclamo dell’agente. Di queste ultime facoltà non fanno però quasi mai uso. Lamentano i contribuenti di aver soltanto diritto ad essere sentiti in persona dalle commissioni; mentre gli agenti non solo sono sentiti, ma rimangono in camera di deliberazione, dopoché il contribuente fu licenziato e possono influire sui pronunciati di commissioni, i cui membri poco sanno di diritto finanziario per la loro incoltura, ma sono in grado di ribattere le ragioni esposte, nel segreto dell’istruzione, dagli agenti. Alle commissioni di prima istanza si può ricorrere entro 20 giorni dalla notificazione dall’accertamento da parte dell’agenzia; e contro i loro pronunciati hanno facoltà di ricorrere, contro 20 giorni dalla notificazione, ambe le parti: Ove si tratti di questioni relative all’imposta sui fabbricati, alle commissioni, composte come sopra, si aggiungono due commissari effettivi ed un supplente, che abbiano perizia tecnica.

 

 

Le commissioni provinciali e di seconda istanza delle imposte dirette risiedono in ogni capoluogo di provincia e si compongono di cinque membri e quattro supplenti: uno nominato dal consiglio provinciale, un altro dalla camera di commercio, due dalla direzione generale delle imposte dirette ed il quinto, che ha la presidenza, dal prefetto. L’elemento governativo ha qui la maggioranza. Le commissioni provinciali giudicano sulle questioni di fatto e di diritto, in appello dalle decisioni delle commissioni di prima istanza; ed in primo grado nelle questioni di duplicazione territoriale; allorché lo stesso redditi venga accertato in due comuni di diverso distretto di agenzia.

 

 

Per le questioni relative alla imposta sui fabbricati si aggiungono due ingegneri, l’uno nominato dalla direzione generale delle imposte dirette e l’altro dal consiglio provinciale.

 

 

In terza istanza sugli appelli dalle decisioni delle commissioni provinciali giudica la commissione centrale, la quale risiede in Roma e si compone di un presidente, di due vice presidenti e nove commissari, tutti nominati dal ministero delle finanze. Essa di regola giudica soltanto sulle questioni di diritto; ma può anche decidere sulle questioni di fatto circa l’esistenza e la valutazione dei redditi. In prima istanza la commissione centrale può giudicare nei casi di iscrizione di un contribuente nei ruoli di più comuni appartenenti a diverse provincie.

 

 

Lamentasi, ancor più che per le commissioni provinciali, la scarsa o nessuna indipendenza della commissione centrale dal governo. La giurisprudenza della commissione centrale, se in molti casi ha obbedito a criteri logici dedotti dal sistema generale dell’imposta di ricchezza mobile, in non pochi casi apparve diretta allo scopo di coonestare il prelievo dell’imposta, come quello che prima facie torna di vantaggio al fisco. Sovratutto quando la somma in gioco era cospicua, parve doveroso alla commissione centrale escogitare sofismi con cui più tanto potesse essere il provento immediato dell’imposta; senza riflettere che il lauto gettito presente, quando sia ottenuto in isfregio alla intima del tributo, non può non distruggere la materia imponibile a ridurre al nulla il gettito futuro dell’imposta per l’erario.

 

 

  • c) il ricorso alla autorità giudiziaria, il quale può dai contribuenti compiersi in qualunque stadio del procedimento dinnanzi alle commissioni amministrative ed anche direttamente, senza uopo di ricorrere in via amministrativa; non però dopo sei mesi dalla decisione della commissione centrale. L’azione giudiziaria è prescritta dopo sei mesi dal giorno dell’applicazione del ruolo e della ritenuta. All’autorità giudiziaria non si ricorre per questioni di fatto, neanco relative alla estimazione del reddito ma per pure questioni di diritto. Il magistrato competente in prima istanza è il tribunale, essendo sembrato inopportuno di far decidere gravi fiscali dal pretore. A poter proporre l’istanza dinnanzi al tribunale occorre provare di aver soddisfatto le imposte scadute, in omaggio al principio del solve et repete. Contro le sentenze dei tribunali e delle corti d’appello si può ricorrere in cassazione; ma unica competente in materia è la cassazione romana. Dicesi allo scopo di dare uniformità alla giurisprudenza in una materia in cui una delle parti contendenti è sempre la stessa, ossia il fisco. E sarebbe la motivazione appaia ragionevole, pare altresì ai contribuenti che la cassazione romana, sebbene assai meno ligia agli interessi fiscali della commissione contrale, tutta di nomina governativa, non sempre abbia saputo resistere al desiderio di evitare all’erario il danno di dover rimborsare cospicue somme d’imposte logicamente non dovuta. L’interesse pubblico fiscale del momento non si poté sempre escludere sia stato più forte dell’interesse pubblico permanente di giudicare secondo pura giustizia.

 

 

Vorrebbe taluno abolire il diritto di ricorso alla magistratura ordinaria, pel riflesso che le commissioni amministrative sono più competenti e versate soggetta materia. La quale opinioni è inaccettabile, come quella che toglierebbe ai contribuenti l’ultima, sebbene non bastevole, garanzia che essi posseggono contro le esorbitanti pretese del fisco. Ragion vorrebbe invece che le commissioni amministrative diventassero vere magistrature, in cui le due parti fossero ugualmente rappresentante, ma in cui, almeno nei due ultimi gradi, la presidenza e la decisione ultima fosse riservata ad un magistrato o ad un collegio assolutamente indipendente dal governo. In materia così gelosa gran cura dovrebbesi prendere affinché il magistrato incaricato di decidere in ultima istanza nulla potesse sperare mai dal governo e dai contribuenti. E così dovrebbe egli diventare incapace di essere chiamato a cariche elettive od a sedere in senato, anche quanto per la grave età dovesse andare a riposo; né dovrebbe poter essere insignito di onorificenze cavalleresche od onorato di missioni od incarichi o perizie od arbitrati lucrosi. Nulla potendo sperare da veruna persona e godendo della inamovibilità, salvo i casi di indegnità od incapacità espressamente indicati nella legge, cotal magistrato amministrativo giudicherebbe, è lecito presumerlo, con giustizia. Ed in tal caso potrebbesi rinunciare al diritto di ricorso alla magistratura ordinario, il quale sarebbe divenuto davvero superfluo, mentre oggi è garanzia necessaria, sebbene non sempre bastevole.

 

 

Sezione quarta.

L’imposta di famiglia.

 

520. Ragione dell’imposta. – Fu già esposta quando si dimostrò (cfr. par. 402) che la tassazione del reddito all’origine, presso i possessori delle cose o fonti da cui proviene il reddito, dà luogo all’inconveniente che:

 

 

  • a) non è facile tener conto dei redditi, i quali hanno avuto origine fuori del territorio dello Stato o del comune che mette l’imposta;
  • b) è imponibile, non conoscendo la somma totale del reddito del contribuente, graduare l’imposta in guisa da tener conto di quella parte del risparmio che è in funzione dell’altezza del reddito. Ad evitare i quali inconvenienti si osservò che poteva essere accolto l’espediente di sovrapporre alle imposte reali sulle singole fonti di reddito, che dovrebbero perciò essere mantenute in misura assai lieve, una imposta completamente personale sul complesso del reddito, con detrazioni sul risparmio.

 

 

In Italia questa sovrapposizione ad opera dello Stato è sempre parsa difficile o perché le imposte reali sono già talmente elevate che tutti, poveri, mediocri e ricchi pagano troppo; talché appare ardua impresa far pagare di più che eccessivamente.

 

 

I comuni, per antica tradizione, vivacissima specialmente in Toscana, dove solo 4 su 247 comuni ne difettano, applicano però una simile imposta di sovrapposizione chiamata tassa od imposta di famiglia. La ragione di applicarla era per i comuni meglio sentita che per lo Stato; poiché se è relativamente scarso il numero degli italiani che traggono redditi da fonti straniere, è invece frequente il caso dei residenti in Torino, Milano, Roma ecc., i quali traggono reddito da case, terreni, azioni, obbligazioni, situate o domiciliate fuori del territorio comunale. È vero che a tassazione siffatte persone provvede in parte il dazio consumo, ma è anche vero che il dazio consumo è insufficiente a tassare la quota di reddito che si investe in consumi superiori in consumi durevoli. All’uopo dovrebbe giovare il gruppo delle imposte suntuarie (cfr. par. 376 e segg. in sez. quinta del capitolo II di questa parte); ma sappiamo già che all’imposta sul valore locativo i comuni poco volentieri ricorrono perché legati alle due tariffe, l’una proporzionale del 2% e l’altra progressiva dal 4 al 10% che sono disadatte (cfr. par. 377) e sappiamo anche che l’imposta sui velocipedi, motocicli ed automobili nulla frutta ai comuni per quanto riflette le vetture automobili (cfr. par. 378); che scarso è il gettito delle imposte sui domestici, cavalli e cani (cfr. par. 379). Sono questi difetti che potrebbero agevolmente essere tolti, ove solo si volesse. Ma è fatto certo che non furono tolti, né pare lo debbano essere presto laonde si comprende come i comuni abbiano fatto ricorso all’imposta di famiglia. La quale è teoricamente scorretta, come quella che colpisce tutto il reddito guadagnato, compreso il risparmio ed escluso il consumo del capitale presistente; ma può essere spiegata come un mezzo per rimediare alle disuguaglianze che originano, come sopra fu spiegato, dalla tassazione separata delle varie specie del reddito guadagnato. Ogni sistema tributario è un complesso di ripieghi, arduo essendo costrurre praticamente un sistema perfetto. L’imposta di famiglia è un ripiego che si suppone atto a rimediare i difetti delle imposte reali, che erano già esse un ripiego.

 

 

521. Se l’imposta di famiglia colpisce il reddito guadagnato od il reddito consumato. – Vero è che la legge 26 luglio 1968, n. 4513, la quale è la legge regolatrice in materia, non afferma esplicitamente che l’imposta di famiglia o fuocatico debba colpire il reddito guadagnato. Anzi nulla dice in proposito, limitandosi ad autorizzare i comuni a stabilirla, colle norme fissate da un regolamento provinciale da deliberarsi dalla giunta provinciale amministrativa e da sanzionarsi con decreto reale. Talché potrebbero le giunte provinciali amministrative costrurre un tipo d’imposta che colpisse la spesa o reddito consumato anziché il reddito guadagnato. Un parziale tentativo di concepire e costrurre l’imposta di famiglia come imposta sulla spesa fu compiuto dal prof. Alessandro Garelli in una pregevole relazione su l’imposta di famiglia nella finanza erariale e locale al VI congresso delle società economiche tenutosi in Torino nell’ottobre 1911. Non pure che, disgraziatamente, tale sia il concetto dominicale nella più parte dei regolamenti provinciali e comunali vigenti; i quali, spesso confusamente ed in modo incoerente, partono dal concetto che l’imposta di famiglia sia assisa sul reddito guadagnato. E tale concetto, come quello di fatto prevalente, noi seguiremo, noi seguiremo, sebbene si riconosca che più acconciamente avrebbe dovuto prevalere il concetto apposto.

 

 

522. Soggetto dell’imposta. – È, come dice la parola stessa, la «famiglia». Ma vuole esso significare solo il complesso di individui insieme conviventi, stretti fra loro da vincoli di parentela od affinità, ed aventi patrimonio unico od interessi o redditi o beni comuni? Ovvero come prescrive il regolamento milanese, che specialmente scegliamo come tra i più recenti e più profondamente studiati, è «l’unione di più individui, stretti da vincoli da parentela e di affinità, coabitanti e viventi alla stessa mensa e così pure le aggregazioni di persone tra loro conviventi con fine sia di istruzione che di culto?» Ambi i concetti sono errati, ma specialmente il secondo. È errato ritenere la famiglia in senso stretto come soggetto d’imposta perché i bisogni pubblici sono sentiti dagli individui e non dalle collettività. La famiglia esiste in quanto meglio provvedesi con i vincoli derivanti da essa, alla vita ed all’educazione delle nuove generazioni ed al soddisfacimento di certi bisogni di affetto, di consuetudine, di vita comune, ecc. ecc. Ma la famiglia non ha per iscopo di soddisfare ai bisogni pubblici. Si comprende che il padre di famiglia coi redditi suoi provveda al soddisfacimento dei bisogni pubblici e privati delle privati delle persone da lui dipendenti; non si comprende che di questo onere, a cui egli volontariamente soggiace, si debba trarre partito contro di lui, sommando coi suoi i redditi delle altre persone delle sua famiglia. Marito e moglie sono operai e lucrano il primo 2.000 e la seconda 1.000 lire all’anno. Se fossero tassati separatamente, e se il reddito minimo esente da imposta fosse di 1.200 lire, pagherebbe soltanto il marito su 2.000 – 1.200 = 800 lire. Tassandoli insieme, come componenti dell’unica famiglia, essi saranno tassati per 2.000 + 1.000 – 1.200 = 1.800 lire.

 

 

L’imposta agisce come multa contro le convivenze famigliari composte di numerosi lavoratori, i quali hanno ciascuno redditi proprii. Essi avrebbero vantaggio a separarsi per esimersi dall’imposta o ridurla al minimo.

 

 

Peggio accade colla definizione milanese della famiglia; poiché, concependo come famiglia anche le aggregazioni di persone tra loro conviventi, si va diritti alla conseguenza che un convento di 50 monache, viventi coll’esercizio di opere educative od ospitaliere, e lucranti ognuna 1.000 lire, è tassato come se avesse un reddito di 50.000 lire, precisamente come i professionista celebre che da solo guadagna la stessa somma. Si può sostenere sul serio che la capacità di far consumi privati e pubblici sia la stessa nel convento e nel professionista? Mentre è certissimo che le monache faranno quasi soltanto consumi primari ed hanno ciascuna redditi minimi che dovrebbero andare esenti; mentre grande è la copia dei consumi secondari che il professionista può fare. Laonde, – siccome le imposte non hanno ad ufficio di perseguitare e multare i conventi di monache e di frati, e neppure, sebbene l’avvicinamento sia illecito ed inverecondo, i postriboli, che agli occhi del regolamento milanese dovrebbero pure essere reputati «famiglie» soggetto d’imposta, – sembra potersi concludere che soggetto d’imposta non dovrebbe essere la famiglia, ente incertissimo a definirsi, ma la persona fisica individua. Se la persona fisica è anche padre di famiglia, tale circostanza dovrà giovare a diminuire il carico d’imposta su di lui gravante, essendo maggiore il risparmio di cui è bisognoso. Insomma l’esistenza della famiglia in quanto imponga maggiori obblighi di risparmio, deve essere un argomento per diminuire il carico del capo di famiglia, non mai per aumentarlo. Naturalmente il carico dovrà essere scemato quando altri sia vivente a carico delle persona fisica contribuente non quando, pur convivendo ed essendo stretta con essa da vincoli di parentela od affinità, abbia redditi proprii sui quali dovrà essere tassato.

 

 

Cagion degli errori che in tale materia si commettono è il nome di imposta di famiglia che al tributo si dà per antica consuetudine di linguaggio. Ma le abitudini verbali non dovrebbero avere virtù di pervertire il contenuto degli istituti tributari. Il nome di «imposta di famiglia» non vuol però significare, anche laddove si dà al concetto di famiglia una interpretazione lata, che non possano essere contribuenti le persone che non fanno parte di una famiglia propriamente detta.

 

 

Invero, secondo il regolamento milanese, sono considerate come altrettante famiglie e sono assoggettate all’imposta:

 

 

  • a) le persone che vivono sole, sia pure negli alberghi o nelle pensioni;
  • b) le persone sottoposte a tutela ed aventi rendite proprie, sebbene convivano col tutore;
  • c) le persone che abitano presso altre famiglie senza avere con queste vincolo di parentela, né comunione di beni od interessi.

 

 

Le quali norme, pur necessarie ad evitare che gli scapoli, i singoli vagabondi, i dozzinanti in alberghi o pensioni sfuggano ad imposta, dimostrano come sia scorretto il concetto della «famiglia» come soggetto d’imposta. Il tenitore di una pensione, il quale lucra 2.000 lire all’anno col suo mestiere, è tassato sulle sole 2.000 lire; mentre sono separatamente tassati i 12 operai che usano convenire alla sua mensa, e con lui coabitare, ciascuno per il proprio reddito di 1.000 lire.

 

 

Siccome probabilmente il reddito di 1.000 lire è esente perché minimo, il solo reddito tassato sarà quello delle 2.000 lire. Invece il padre di numerosa famiglia, poiché e allietato da una corona di 12 figli o nuore tutti lavoratori, sarà tassato sul reddito proprio, che per uniformità fissiamo in L. 2.000 più sul reddito di 1.000 lire a testa dei suoi famigliari; ossia per 14.000 lire. Se l’aliquota dell’imposta, come di solito accade, è progressiva, vedasi quale sperequazione sorga tra due gruppi di 13 persone, fruenti del medesimo reddito complessivo di 14.000 lire; dei quali il primo è tassato su 2.000 ed il secondo su 14.000 lire; e come l’imposta premi le maniere di vita dissipatrici, irregolari, frutto del vagabondaggio moderno e della scarsa disciplina famigliare e multi i legami tenaci che avvincono i membri delle famiglie numerose. Non essendo ufficio dell’imposta di dar cotali premio e multe, è d’uopo riconoscere che unica via d’uscita è l’abbandono del concetto di famiglia a favore del concetto di persone fisica singola come soggetto di imposta.

 

 

Notisi che l’importanza del definire in un modo piuttosto che in un altro l’oggetto dell’imposta deriva tutta dal fatto che l’imposta di famiglia è ad aliquota progressiva e concede esenzioni pei redditi minimi. Se l’aliquota fosse costantemente proporzionale al reddito, qualunque fosse l’ammontare del reddito, e non esistessero esenzioni pei redditi minimi, sarebbe indifferente tassare la persona fisica individua o le aggregazioni anche di 10 persone; come una breve riflessione basta a dimostrare, senza dovercisi attardare intorno più oltre.

 

 

523. Luogo dell’imposta. – Trattandosi di imposta personale, essa è dovuta nel luogo dove il contribuente ha la dimora abituale. Questa risulta dall’abitazione di fatto in un dato luogo, senza che faccia d’uopo la intenzione del contribuente di rimanervi.

 

 

A dirimere le controversie sorgenti fra i diversi comuni, tra i quali il contribuenti ripartisca nell’anno la sua residenza, si seguono diversi criteri. A Milano, ad esempio, vige la norma che la famiglia la quale, essendo iscritta tra i contribuenti, porta altrove la sua residenza nel primo semestre solare, sarà iscritta nei ruoli per la sola metà della tassa; oppure essa avrà diritto a rimborso della metà della tassa, se nei ruoli sarà stata iscritta per l’intiera annualità.

 

 

Ragion vorrebbe che l’imposta fosse ripartita tra i diversi comuni in proporzione del periodo rispettivo di residenza del contribuente. Che se il contribuente risiede entro l’anno in due comuni, di cui l’uno abbia e l’altro no l’imposta di famiglia, egli dovrebbe ugualmente pagare l’imposta nel primo di essi solo pel periodo di tempo per cui dura ivi la sua dimora. Base dell’imposta è l’obbligo di far fronte al costo dei servizi comunali. Se di questi si gode solo per 6 mesi, ragion vuole che l’imposta sia pagata solo per 6 mesi.

 

 

È tendenza tuttavia della giurisprudenza di allargare il concetto della dimora abituale, allo scopo di ovviare alle cosidette frodi dei contribuenti, i quali tengono casa in un comune vicino alle grandi città di Roma, Milano, Genova, Firenze, ecc., ed ogni giorno e sera si recano nel comune, dei due servigi godono. Così fu sentenziato che avesse dimora abituale in Milano anche chi indubbiamente risiedeva in Milano per meno di sei mesi all’anno, perché dal complesso degli indizi e prove addotte fu dimostrato che egli passava parte del giorno a Milano anche quando la sua residenza era in campagna.

 

 

624. Oggetto dell’imposta. – Normalmente è il reddito globale netto della famiglia. Nel regolamento milanese la imposta dovrebbe essere applicata in «ragione del grado di agiatezza delle famiglie, desunta da redditi e proventi di qualsiasi natura». Ma siccome il «grado di agiatezza» è criterio vago ed incerto per la riparazione di tributi, si dice subito dopo che «per determinare il grado di agiatezza delle famiglie, si terrà conto del cumulo delle rendite e dei proventi netti annui delle persone che le compongono».

 

 

Soltanto quando non si possa accertare direttamente il «reddito guadagnato» della famiglia, si assume a criterio di valutazione del reddito di spesa. «In mancanza od insufficienza», dice il regolamento milanese, «di elementi diretti di accertamenti dei redditi e proventi, si procederà ad un accertamento di reddito desunto dalle spese, in quanto siano sintomo di agiatezza». Ma, come agevolmente vedesi, non si tassa la spesa od il reddito consumato per sé medesimo, ma in quanto la spesa sia «indice» del reddito guadagnato. La spesa non è l’oggetto proprio dell’imposta, bensì uno spediente atto, in mancanza di notizie dirette, a valutare il reddito guadagnato, vero oggetto di imposizione.

 

 

Trattandosi di imposta personale, essa colpisce i reddito globali delle famiglie al netto da ogni spesa od onere, e non soltanto, come accade per le tre imposte di Stato, al netto dalle spese ed oneri inerenti alla produzione del reddito stesso. Tale almeno è la tendenza. Così Firenze detrae dai redditi i debiti accertati, le spese di produzione e le tasse di qualunque specie; Bologna depura la rendita complessiva dagli oneri passivi e dalle tasse; Milano esplicitamente deduce dai redditi dei terreni e dei fabbricati le imposte e le sovrimposte, i censi, i livelli e pesi ipotecari che li gravano, e dai redditi mobiliari l’imposta di ricchezza mobile se effettivamente sostenuta. In genere, essendo i redditi tassati al netto, si ha ragione di chiedere la detrazione dei pesi la cui esistenza sia comprovata.

 

 

525. Detrazione qualitativa del risparmio. – La si opera in diverse maniere:

 

 

  • a) talora si riducono certi redditi ad imponibili detraendo una proporzione che si presume destinata al risparmio, seguendo l’esempio della imposta italiana di ricchezza mobile. Così a Firenze gli stipendi e le pensioni sono ridotti di un quarto; a Bologna si detrae un quinto sui redditi temporanei dipendenti dall’opera dell’uomo senza aggiunta di capitale (redditi professionali e stipendi); a Milano si riducono di un quarto i redditi colpiti da ricchezza mobile in categoria D, ossia gli stipendi ed assegni in cifra certa dei funzionari pubblici (di Stato, provincia e comuni), e ad essi si equiparano i redditi dei funzionari ed impiegati delle opere Pie e di altre amministrazioni ed istituti quando in base alle denuncie delle amministrazioni, e dall’esame degli organici, dei bilanci e degli altri documenti del caso si sarà constatata con certezza la misura degli stipendi e dei salari percepiti. La limitazione, voluta a Milano, della riduzione del quarto agli stipendi noti in cifra, parte dalla considerazione che gli altri redditi, dei professionisti e dei lavoratori privati, siano già abbastanza ridotti dalla frode;
  • b) talvolta si riducono i redditi di una somma fissa o variabile a seconda del numero dei componenti la famiglia, ragionandosi che il padre di numerosa prole abbia maggior bisogno di risparmio dell’uomo solo o della famiglia sterile. Così a Milano dal reddito netto complessivo della famiglia, la quale abbia un reddito netto complessivo della famiglia, la quale abbia un reddito non superiore a 70.000 lire, si deducono L. 400 per ogni membro della famiglia. Così, per una famiglia composta dei genitori e di tre figli, uno dei quali già esercente professione, la quale abbia i seguenti redditi:

 

 

Reddito fondiario di terreni

L. 500

reddito di titoli mobiliari

L. 1.000

Stipendio del capo famiglia, impiegato dello Stato, L. 4.000, ridotto ai ¾

L. 3.000

Reddito professionale del figlio primogenito

L. 2.000

Totale

L. 6.500

A dedurre le imposte, tasse ed oneri gravanti sui redditi

L. 700

Totale

L. 5.800

 

 

si dedurranno dal reddito netto complessivo cinque volte L. 400, ossia L. 2.000; ed il reddito imponibile risulterà di L. 3.800.

 

 

Siffatta detrazione è un mezzo per ovviare parzialmente al danno di assumere a soggetto dell’imposta la famiglia, invece dell’individuo (cfr. par. 522). Ma si ovvia solo parzialmente perché il capo famiglia deve ancora pagare l’1,15% sulle L. 3.800 di reddito imponibile, ossia L. 43,70. Mentre, se il genitore ed il figlio fossero tassati separatamente, il primo pagherebbe sul seguente reddito:

 

 

Reddito fondiario di terreni

L. 500

Reddito di titoli mobiliari

L. 1.000

Stipendio di impiegato L. 4000, ridotto ai ¾

L. 3.000

Totale

L. 4.500

A dedurre le imposte, tasse ed oneri

L. 500

Totale

L. 4.000

 

 

da cui deducendo L. 400 per i quattro membri della famiglia, eccettuato cioè il figlio provveduto di redditi proprii, ossia L. 1.600, si avrebbe un reddito imponibile di L. 2.400, che essendo tassato coll’1,10% pagherebbe L. 26,40 di tributo.

 

 

Il figlio a sua volta pagherebbe su L. 2.000 di reddito professionale, da cui occorrerebbe detrarre L. 200 di imposta di ricchezza mobile (circa) e L. 400 come deduzione virile per ogni membro della famiglia, composta in questo caso di una persona sola, e cioè pagherebbe se un imponibile di 1.400 lire.

 

 

L’imposta essendo dell’1,05 sarebbe di lire 14,70. Il totale delle due imposte sarebbe di L. 26,40 + 14,70 = L. 41,10 inferiore alle L. 43,70 che si dovrebbe pagare conglobando insieme i redditi del padre e del figlio. Si vede dunque che neppure la detrazione della L. 400 per ogni componente la famiglia giova a togliere la scorrettezza di assumere ad oggetto di imposta la famiglia.

 

 

Il che si vede meglio calcolando ciò che debbono pagare le 10 suore di un convento, le quali siano diversamente provvedute di redditi di capitale e di lavoro, supponendo la tassazione per famiglia o per individuo:

 

 

 

Reddito netto da spese a carichi

Detrazione delle 400 lire

Reddito imponibile assumendo ad oggetto di imposta l’individuo

Aliquota

Imposta dovuta

1° suora

3.000

400

2.600

1,10

28,60

2° suora

2.700

400

2.300

1,10

25,30

3° suora

2.500

400

2.100

1,10

23,10

4° suora

2.200

400

1.800

1,05

18,90

5° suora

2.100

400

1.700

1,05

17,85

6° suora

2.000

400

1.600

1,05

16,80

7° suora

2.000

400

1.600

1,05

16,80

8° suora

1.500

Esente

9° suora

1.000

Esente

10° suora

800

Esente

 

19.800

147,35

 

 

Se invece oggetto dell’imposta è la famiglia intesa nel senso stravagante di aggregazione di persone insieme conviventi, la famiglia monacale viene sul reddito netto complessivo di L. 19.800 meno la detrazione di L. 400 X 10 persone = L. 4.000, ossia su L. 15.800; paga l’aliquota dell’1,80% ossia L. 284,40. Forse coloro i quali fini morali avranno qualche buona ragione di far pagare L. 284,40 invece che L. 147,35, quante sarebbero dovute, se l’imposta fosse individuale; ma non esistono ragioni prettamente finanziaria per raddoppiare l’imposta su certi contribuenti i quali preferiscono vivere insieme piuttosto ché separatamente. Il fatto di vivere insieme per scopi religiosi o di culto non interessa punto il finanziere, il quale deve ugualmente rispettare tutte le maniere di vivere e di pensare.

 

 

Certo, vivendo insieme le 10 suore, vivono con spesa minore che non vivendo separatamente. Ma, in tal caso perché non dovrebbero tassarsi insieme i 10 dozzinanti di una affittacamere e tenitrice di pensione, i quali realizzano un’economia dalla vita in comune? E perché non andar sindacando le famiglie, in cui una moglie parsimoniosa ed un marito economo riescono a vivere decorosamente ed a fare qualche risparmio con 3.000 lire di reddito, laddove altri, con lo stesso reddito, ognor si lagna ed è assillato dai debiti? E perché non colpire da maggiori balzelli la prima famiglia e non essere misericordiosi verso la seconda?

 

 

526. L’esenzione dei redditi minimi. – Non tutti, ma moltissimi regolamenti tengono conto del fatto che i redditi minimi sono prevalentemente destinati a consumi risparmio ed esentano in cifre variabili i redditi qualificati come minimi. Il prof. Garelli, nella citata memoria, così riassume alcune norme più interessanti: «Nelle provincie di Alessandria e Piacenza il reddito minimo imponibili è di L. 400 in tutti i comuni. In reddito minimo imponibile è di L. 1.300 per Firenze; L. 600 per Pistoia e Prato; L. 500 pei comuni di 20.000 abitanti ed oltre; L. 400 per quelli da 15.000 a 20.000 e di L. 300 per altri. In quella di Bologna è rispettivamente di L. 1.200 pei comuni superiori a 50.000 abitanti e scende man mano, attraverso cinque categorie, fino a 500 per quelli non superiori a 400. A Milano il minimo del reddito annuo netto tassabile per famiglia sale a ben 2.500 lire, che si riduce poi ad imponibile deducendo L. 400 (come sappiamo) per ogni membro della famiglia, e l’ammontare minimo tassabile è di L. 600, tolte le persone sole, che sono assoggettate al saggio dell’1% anche se il reddito loro è inferiore a L. 2.500 ma superiore a L. 1.999».

 

 

527. Progressività dell’imposta. – In molti comuni italiani l’aliquota è proporzionale al reddito; in altri è una specie di capitazione o testatico, lievemente differenziata in alcune poche classi.

 

 

Tende però l’aliquota a diventare progressiva, in guisa da tener conto del canone che il bisogno ragionevole del risparmio diminuisce col crescere dell’ammontare del reddito (cfr. par. 415). Nella provincia di Firenze il tasso dell’imposta progredisce dal 0,50% per i redditi bassi al 3% per i redditi altissimi. A Bologna il minimo ed il massimo variano a seconda delle categoria dei comuni; e cioè dal 0,60 al 5,20% per i comuni superiori a 50.000 abitanti, dal 0,40 al 0,80% in quelli non superiori a 4.000 abitanti. A Milano si va dall’1% per i redditi da L. 600 a 1.199 imponibile al 4% per i redditi superiori a 100.000 lire. Le aliquote a primo tratto appaiono tollerabili; ma non bisogna dimenticare che l’imposta di famiglia è un’imposta che si sovrappone alle imposte e sovrimposte sulle diverse specie di redditi, le quali sono ad aliquote enormi.

 

 

528. L’accertamento dei redditi. – È la parte più difettosa dell’ordinamento della imposta di famiglia. È difficile che la valutazione dei redditi sia fatta in modo esatto, perché manca il saldo fondamentale di una esatta valutazione delle varie specie di redditi.

 

 

Così a Milano:

 

 

  • a) i redditi dei terreni sono valutati in base all’estimo per i terreni. E dove gli estremi sono vecchi e lontani dal vero per la vecchiaia e la sperequazione dei catasti?
  • b) i redditi dei fabbricati sono valutati in base al reddito imponibile. Basti ricordare ciò che sovra si disse (cfr. par. 4630 intorno alle conseguenza della mancata revisione dei redditi dei fabbricati dopo il 1889, per vedere quanto sperequate debbano essere le relative valutazioni;
  • c) i redditi mobiliari sono conteggiati nel loro ammontare netto accertato dall’agenzia delle imposte. Il che di nuovo implica che le agenzie delle imposte sappiamo valutare esattamente i redditi mobiliari, cosa che è ben lunghi dall’essere vera.

 

 

Una parte dei quali inconvenienti è insormontabile, come quella che dipende dalla natura umana invincibilmente frodolenta; e dimostra la eccellenza delle imposte suntuarie (cfr. par. 376) in confronto a questa di famiglia; ma un’altra parte e specialmente quella relativa ai redditi di terreni e fabbricati è superabile, purché si voglia.

 

 



[1] Nei casi concreti, che si discussero, talvolta il debito agli obbligazionisti era in parte già stato pagato con altri capitali provenienti da altre fonti. Ciò però non monta nulla ai fini del nostro ragionamento; poiché il fisco ragionava come è detto nel testo.

[2] Dicesi ammortamento «in senso stretto» perché consuetamente si comprendono col nome «quota di ammortamento» anche quelle che sopra si sono dette, per chiarezza, quote di deperimento sostituzione. Trattandosi di cose diverse è parso opportuno adottare, per ognuna di esse, una terminologia speciale.

[3] Notisi che questa regola è osservata per tutti i casi di pensione vitalizie ed annualità temporanee in cui siamo insieme confusi il rimborso del capitale e gli interessi. Invece di tassare la esatta quota di interessi in categoria A1 od A2 lasciando immune la quota di rimborso di capitale, si tassano i 20/40 od i 18/40 dell’intiera pensione vitalizia od annualità temporanea in cat. B o C. In B quando si tratta di annualità temporanea; in C quando si tratta di pensione vitalizia, dipendente dalla vita della pensione. È un espediente grossolano ed è anche uno strappo all’euritmia dell’imposta mobiliare; ma è un espediente che parve necessario ad evitare conteggi troppo complessi, ove si fosse dovuta tassare in A1 od A2 la quota pura di interessi compresa nella pensione ed annualità.

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