Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo IX – Della conversione dei prestiti pubblici

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo IX – Della conversione dei prestiti pubblici

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 965-1010

 

 

 

Sezione prima

La teoria economica della conversione – nozione, premesse logiche ed effetti

Immaginari.

 

742. Nozione della conversione e sua differenza dal ripudio. Un ultimo mezzo hanno i governanti, insieme con l’ammortamento ed il ripudio, di diminuire il carico del debito pubblico; ed è la conversione. – Per essa si intende la riduzione, «compiuta col consenso dei creditori», dell’interesse sui titoli di debito pubblico dal tasso convenuto ad un tasso minore, dal 5 al 4 per cento, dal 4 al 3 e 1/2 per cento, dal 3 e 1/2 al 3 per cento, ecc. Essa si distingue dalle riduzioni di cui parlò sopra in tema di ripudio perciò che queste sono «forzatamente» imposte dallo Stato ai creditori, nonostante le loro proteste, od accettate al più in conseguenza di un concordato, a cui i creditori sono mossi dal desiderio di salvare sé stessi, salvando nel tempo stesso lo Stato dal fallimento e dalla rivoluzione. Mentre le conversioni sono liberamente accettate dai creditori, ai quali è fatta facoltà di chiedere, ove non intendano acconciarsi alla riduzione dell’interesse, il rimborso del capitale mutato allo Stato. Mentre la riduzione forzosa è indice di disagevoli condizioni delle finanze dello Stato, le conversioni sono indice di prosperità e di forza. Soltanto uno Stato, il quale abbia un bilancio bene assestato ed in cui le condizioni economiche generali siano buone, può osare di mettere ai creditori l’alternativa: o voi vi contentate di un interesse minore di quello convenuto od io vi rimborso il capitale che mi avete mutato.

 

 

Della conversazione già si fece cenno, per necessità di trattazione, in un capitolo precedente (cfr. par. 667, 672, 674, 678, ecc.); qui se ne dirà in generale, rinviando a quello per le trattazioni particolari che vi sono contenute.

 

 

743. Delle diverse categorie di cause, per cui il tasso dell’interesse può diminuire dal momento in che il prestito fu conchiuso ed il momento in cui si compie la conversione: a) cause indipendenti dall’opera dei governanti. Si citano le cause monetarie. La teoria della conversazione del debito pubblico sta tutta in una differenza tra il tasso dell’interesse nel momento in che il prestito fu conchiuso (tasso relativamente alto) ed il tasso del momento in che la conversazione si rese possibile (tasso relativamente basso). – Senza questa premessa, è inutile discorrere di conversione; e sulle cause, le quali possono far diminuire da un momento all’altro il tasso dell’interesse, deve anzitutto appuntarsi la nostra indagine.

 

 

Le quali cause possono essere estranee all’opera dello Stato medesimo. Come quando uno Stato contrae un prestito in un momento in cui, per circostanze generali, il tasso dell’interesse tende al rialzo. Una di queste cause potrebbe essere quella che, insieme con le altre, ha cominciato ad agire dal principio del secolo ventesimo e non si sa quando vedrà svigorita la sua forza; ossia il rialzo dei prezzi. Si supponga che al principio d’un anno una moneta da 100 lire possa acquistare una tonnellata di merce-tipo: e si supponga altresì che il tasso dell’interesse sia del 4 per cento. Ciò vuol dire che il capitalista il quale ha 100 lire disponibili e potrebbe con esse procurarsi una tonnellata di merce – tipo, rinuncia all’uso delle 100 lire per un anno perché sa che alla fine dell’anno egli potrà, con le 104 lire che gli verranno restituite, procurarsi 1,04 tonnellate di merce-tipo. Se egli prevedesse di potere, con le 104 lire restituitegli, comprare appena la solita tonnellata di merce-tipo, che avrebbe potuto acquistare al principio d’anno, egli non avrebbe alcun interesse al mutuo e preferirebbe tenersi i denari tesaurizzati presso di sé. Suppongasi ora che, «durante» l’anno, i prezzi delle merci aumentino per modo che, per acquistare 1,04 tonnellate di merce-tipo (di cui 1 tonnellata rimborso del capitale, e 4 Mg. interesse dell’anno), occorra spendere 105 lire. Siccome il vero interesse non consiste nel «maggior nome monetario» ricevuto in restituzione, ma nella maggiore quantità di cose utili che si possono acquistare alla fine dell’anno, in confronto alla quantità che si poteva acquistare al principio dell’anno, è chiaro che se il capitalista ricevesse solo 104 lire in moneta egli non potrebbe acquistare 1,04 tonnellate di merce, ma soltanto 1,03 tonnellate circa[1], sicché l’interesse percepito «nominalmente» (in lire) sarebbe del 4 per cento, ma «realmente» (in merci) solo del 3 per cento. Se si vuole che l’interesse reale sia del 4 per cento è d’uopo che l’interesse «nominale», in moneta, salga al 5 per cento; sicché ricevendo 105 lire in restituzione alla fine dell’anno, il capitalista possa acquistare 1,04 tonn. di merci, ossia quel 4 per cento in più, che costituisce l’interesse reale corrente sul mercato.

 

 

Perciò nei periodi storici «ascendenti» – che sono una cosa diversa dai periodi di prezzi «stabilmente alti» – il tasso «nominale» dell’interesse, in moneta, tende ad essere alto.

 

 

Il contrario accade nei periodi di prezzi decrescenti, come quello che corse dal 1873 al 1900 circa. Supponiamo sempre che il tasso di interesse «reale» sia del 4 per cento; ossia che il capitalista, il quale può al principio dell’anno acquistare con 100 lire di moneta 1 tonn. di merce-tipo, possa alla fine dell’anno, dato il prezzo che sul mercato ha l’uso del capitale, pretendere in restituzione tanta moneta quanto a lui basti per comprare 1,04 tonn. di merce-tipo. Se noi supponiamo che i prezzi «durante l’anno» siano ribassati e che 1,04 tonn. di merce-tipo si possano acquistare con 103 lire è chiaro che al capitalista basterà ricevere alla fine dell’anno 103 lire in moneta, perché egli abbia l’aumento di 4 Mg. di merce-tipo a lui spettante. Se egli ricevesse infatti 104 lire in moneta, con questa potrebbe comprare 105 tonnellate circa di merce-tipo, sicché l’interesse in merce da lui percepito sarebbe del 5 per cento, ossia superiore a quello che il mercato comporta. Perciò, dato un ribasso dei prezzi dell’1 per cento, per ottenere un interesse «reale» (in merci) del 4 per cento, basterà avere un interesse «nominale» (in denaro) del 3 per cento; potendosi perciò asseverare che nei periodi storici di prezzi «calanti» – che sono diversi dai periodi di prezzi «stabilmente bassi» – il tasso «nominale» dell’interesse, in moneta, tende a ribassare.

 

 

In realtà i fenomeni di rialzo e di ribasso dell’interesse non seguono, come la teoria supporrebbe, rapidamente le variazioni all’insù od all’ingiù dei prezzi; poiché incontrano fortissimi attriti nel loro movimento. Ma un certo approssimato sincronismo nei due movimenti si nota; e, ad esempio, è certo che il periodo 1850 – 73 fu un periodo di prezzi «crescenti» e di interesse relativamente «alto», mentre il periodo 1873-900 fu caratterizzato da prezzi «calanti» ed interesse in «ribasso» e di nuovo il periodo 1900 – ? è un periodo di prezzi crescenti e di interesse «in rialzo».

 

 

Queste vicende del tasso dell’interesse hanno una ripercussione notevole sulle finanze degli Stati. E limitandoci ai debiti pubblici, si può notare che i governanti, i quali, nel periodo 1850-73 avevano contratto prestiti ad alti interessi, dal 4 al 6 per cento, poterono profittare della ondata al ribasso dei prezzi e dell’interesse, durante il successivo periodo 1873-900, per procedere a ripetute conversioni dal 5 al 4 e 1/2, al 4, al 3 e 1/2, al 3 e persino al 2 e 1/2 per cento. In quanto la causa della diminuzione del tasso dell’interesse era il ribasso dei prezzi, è chiaro che la conversione non era dovuta a merito dei governanti; ché i rialzi ed i ribassi dei prezzi avvengono al di fuori della loro volontà e della loro opera. Epperciò quando si odono i governanti vantar sé stessi ed i loro popoli, – e l’elogio dei popoli in bocca loro è un’altra maniera di vantar se stessi – per la sapienza e la pazienza con cui consentirono allo Stato di operare loro conversioni, bisogna scientificamente distinguere la parte del ribasso del tasso dell’interesse che è dovuta a cause indipendenti dall’opera dei governanti da quella che fu cagionata dalla loro saggia amministrazione e legislazione, e notare che, rispetto alla prima parte, ai governanti spetta unicamente il merito, del resto già grande, di aver colto il momento opportuno per la conversione. Oggi, come si disse, corrono tempi (dopo l’esordio del nuovo secolo) di rialzo dei prezzi e di rialzo dell’interesse nominale in denaro; né quindi si discorre più di conversioni. L’ultima grande conversione fu quella italiana del 1906; e dopo di essa altre non se ne poterono tentare. Se ne discorrerà di nuovo, quando, in avvenire, i prezzi torneranno a scendere ed il tasso dell’interesse a ribassare; ed allora si potranno convertire a più mite usura i prestiti che oggi gli Stati vanno a gara a contrarre a tassi che dieci o vent’anni fa sarebbero parsi stravagantemente alti.

 

 

744. …..b) cause in gran parte, ma non in tutto, indipendenti dell’opera dei governanti. E si cita la abbondante produzione di nuovo risparmio, ecc. ecc. – Un secondo ordine di cause di ribasso o rialzo del tasso dell’interesse si può ancora considerare per la massima parte indipendente dell’opera del governo, sebbene questa non sia senza ripercussioni su di esso. Così è chiaro che una grande abbondanza di nuovo risparmio per la prosperità diffusa nel paese produce un ribasso nel tasso dell’interesse, mentre i cattivi raccolti, i quali distruggono le riserve disponibili presso gli agricoltori, producono un rialzo. Del pari l’attività degli affari, la gran copia degli investimenti promettenti durante i periodi di ascensione economica – che di solito coincidono con i periodi di rialzo dei prezzi – sono cagione di aumento nel tasso dell’interesse; mentre i periodi di liquidazione delle crisi economiche sono caratterizzati da languore negli affari, da scarsa domanda di capitali, e quindi da ribasso nel tasso dell’interesse.

 

 

Non si può escludere che l’opera dei governanti saggia o prudente, ovvero stravagante e facile, abbia una notevole influenza sulla produzione delle circostanze economiche, le quali a loro volta producono una diminuzione od un rialzo nel tasso dell’interesse, e quindi influiscono, mediamente, a facilitare od ostacolare le conversioni del debito pubblico. Sia che vi abbiano o non cooperato i governanti, è chiaro che le conversioni sono facilitate da tutte quelle cagioni sovra delineate, le quali producono il ribasso ed ostacolate dalle altre, le quali provocano il rialzo nel tasso dell’interesse.

 

 

745. ….c) cause in gran parte dipendenti dall’opera dei governanti. E si citano le guerre, le conquiste coloniali, le grandi opere pubbliche, il malgoverno, ecc. ecc., che fanno rialzare il tasso dell’interesse. E veniamo alle cause di variazione del tasso dell’interesse, le quali hanno più specialmente tratto all’opera dei governanti. Fra le azioni dei governanti, le quali fanno «salire» il tasso dell’interesse, si noverano:

 

 

  • a) le guerre, le quali, qualunque sia la cagione, o di difesa dell’indipendenza nazionale o di aggressione dell’indipendenza altrui, che le provocarono, hanno sicuramente per effetto di costringere gli Stati ad indebitarsi e quindi a far domanda di nuovi capitali sul mercato ed a farne salire il prezzo;
  • b) le conquiste coloniali, le quali ben difficilmente si possono condurre, sia per quanto ha tratto alle spese iniziali della conquista militare, sia per ciò che tocca le successive spese di messa in valore della colonia, con i provvedimenti ordinari del bilancio; ma costringono a prestiti, i quali fanno aumentare il tasso dell’interesse;
  • c) le grandi opere pubbliche, come costruzioni di ferrovie, di porti, compimento di bonifiche, di rimboschimento, ecc. ecc., le quali forzano gli Stati a ricorrere al credito;
  • d) la mala amministrazione della cosa pubblica, la quale, colla condiscendenza verso i parassiti pubblici, i quali chieggono sempre nuove elemosine di stipendi e forniture, e colla conservazione di imposte scorrette, le quali ostacolano la produzione della ricchezza, conduce i bilanci degli Stati al disavanzo, ed alla necessità di prestiti;
  • e) la sfiducia diffusa nel ceto dei capitalisti intorno alla persistenza del governo imperante, sicché essi rimangono dubbiosi se il governo successivo vorrà far fronte agli impegni oggi assunti;
  • f) la sfiducia dei capitalisti intorno alla possibilità dei governi, pur rimanendo immutata la forma di essi, di provvedere al servizio del debito, dato il dissesto delle pubbliche finanze;
  • g) il timore dei capitalisti creditori dello Stato di vedere colpiti i loro redditi da imposte speciali create in loro odio da governanti appartenenti ad una classe sociale, la quale reputa di avere interesse ad espropriare od a diminuire i proventi dei reddituari.

 

 

Di queste cause del rialzo del tasso di interesse alcune devono essere considerate come assolutamente necessarie, sebbene non pecuniariamente remunerative, come una guerra di indipendenza, altre forse talvolta necessarie, come la conquista di una colonia, altre utili, come il compimento di opere pubbliche, sebbene la loro utilità economica non sia sempre immediata, bensì si verifiche talora a lunga scadenza; mentre le ultime (da d a g) sono certamente distruttrici di ricchezza. Le prime cagionano un aumento del tasso di interesse vero e proprio, dal 4 al 5 od al 6 per cento, per la richiesta di capitale che esse provocano; le seconde, non contente di ciò, vi aggiungono una quota di rischio, variabile a seconda delle circostanze, necessaria a compensare il pericolo in che cadono i capitalisti di non ottenere la restituzione del capitale od il pagamento degli interessi stipulati.

 

 

746. Mentre la pace, la prudente amministrazione, la diminuzione delle imposte oppressive, la immunità da imposte speciali sui titoli di debito pubblico tendono a scemare il tasso dell’interesse. -Producono un ribasso nel tasso dell’interesse le circostanze contrarie a quelle ora dette, e cioè:

 

  • a) un lungo periodo di pace e di tranquillità sociale, la quale consenta agli Stati di chiudere sul serio il libro del debito pubblico, e di astenersi dal far domanda di capitali, mentre l’offerta del nuovo risparmio, appunto per le condizioni di pace, favorevoli all’attività economica, seguita a crescere;
  • b) L’assestamento già avvenuto delle grandi opere pubbliche e coloniali sicché faccia d’uopo soltanto di completarle con modesti stanziamenti ordinari di bilanci, i quali si possono fare senza d’uopo di ricorrere al credito;
  • c) la prudente amministrazione dei governanti, i quali, dopo aver rimarginato i disavanzi del passato, hanno provveduto, cogli avanzi di esso, a rimborsare ed estinguere i biglietti eccedenti, sì da far ritornare la circolazione in condizioni normali, abolendo di fatto o di diritto il corso forzoso, a rimborsare i buoni del tesoro a breve scadenza, a togliere ogni sorta di debiti larvati od improprii, sicché le condizioni della pubblica finanza siano limpidissime e forti;
  • d) la sapienza dei governanti, i quali, col provvedere alle funzioni statali realmente necessarie ed utili, coll’abolire le imposte oppressive e distruttrici della ricchezza e coll’attenuare le altre, insino a renderle agevolmente sopportabili, hanno per modo raffermato l’ordine di cose esistente, che esso appare saldo agli occhi dei capitalisti più timorosi;
  • e) la saggezza di nuovo dei governanti, i quali hanno veduto la convenienza «per lo Stato» di assicurare i capitalisti contro ogni timore non solo di imposte speciali create in odio ad essi, ma benanco di imposte generali, sicché, da questa loro immunità da ogni balzello, i titoli di debito pubblico diventano appetibilissimi ai capitalisti, i quali ne fanno sì gran domanda, che il prezzo capitale ne rialza, onde scema il tasso di interesse corrente sul mercato per cotal genere di impieghi;
  • f) l’abilità dei governanti nell’emettere loro prestiti in quelle maniere che riescono più gradite alle varie categorie di capitalisti: rendite perpetue, obbligazioni ammortizzabili, prestiti a scadenza fissa, a premi, nominativi od al portatore, di taglio grosso, mezzano e piccolo, sì da soddisfare ogni bisogno ed ogni inclinazione dei capitalisti, vendendo ad essi la merce desiderata al più caro prezzo possibile;
  • g) la attitudine a sostituire alle vecchie classi sociali di compratori di titoli di debito pubblico nuove schiere di clienti, tratti da classi sociali sempre più vaste e profonde (cfr. par. 598); sì da evitare ogni danno allo Stato dalla compiuta educazione economica degli antichi possessori, i quali or si rivolgono verso titoli mobiliari più redditizi, creando in nuovi ceti sociali l’abitudine agli investimenti mobiliari, che è il grande merito del debito pubblico.

 

 

747. Le norme le quali impongono ad opere pie, pupilli, vedove, casse di risparmio l’impiego del loro patrimonio in titoli di debito pubblico non agevolano le conversioni, bensì i ripudi. – Condizioni affinché per queste persone od enti la conversione non si muti in ripudio.

 

 

Nel novero di questi meriti dei governanti non si pongono le norme di legge con cui si faccia «obbligo» a minorenni, vedove, enti morali ed ecclesiastici, opere pie, casse di risparmio, banche, istituti pubblici di risparmio, ecc. ecc. di impiegare parte della loro attività patrimoniali in titoli di debito pubblico. Già dimostrammo invero (cfr. par. 617 e segg. e par. 645) che siffatte norme non possono far ribassare il tasso corrente dell’interesse sul mercato «generale» ma giovano soltanto a creare un mercato chiuso di capitali che si debbono impiegare in mutui pubblici e su cui il tasso di interesse è costretto «artificiosamente» a tenersi basso, mentre è più alto il tasso corrente sul mercato libero.

 

 

Sebbene sia un fatto degno di nota che codeste pratiche, le quali si devono riprovare come dannose ai governati, possono produrre un effetto identico a quello che è prodotto dalle cause sovra delineate, che tutti considerano utili alla collettività: ossia la conversione del debito pubblico. Infatti suppongasi che lo Stato sia riuscito a far acquistare la totalità di un prestito da queste casse od enti, che sono «obbligati» per legge all’impiego in titoli di debito pubblico. Facilissima, anzi certa riuscirebbe ogni conversione.

 

 

Imperocché, che cosa potrebbero rispondere questi creditori «obbligati» dello Stato, quando questo ponesse loro il dilemma: o contentarsi del 3 o 2 e 1/2 o 2 o magari dell’1 per cento «ovvero» ottenere il rimborso del capitale? Potrebbero, «formalmente», chiedere il rimborso; ma dovrebbero per legge immantinente di nuovo impiegare il capitale ricevuto nei medesimi titoli convertiti; sicché sarebbe loro giuocoforza rassegnarsi alla riduzione dell’interesse.

 

 

La qual dura necessità insegna che in siffatto caso non si potrebbe parlare di conversione libera, sibbene di riduzione forzata. Non di «conversione» si dovrebbe discorrere, bensì propriamente di «ripudio» del debito pubblico; e ripudio odiosissimo, come quello che viene esercitato contro coloro che furono prima “costretti” ad aver fiducia nello Stato.

 

 

Perciò, affinché la conversione libera non assuma sostanza di ripudio in confronto alle persone ed agli enti, a cui la legge fa obbligo di impiegare tutto o parte del proprio patrimonio in titoli di Stato, uopo :

 

 

  • che essi non posseggano «tutto» l’ammontare del prestito, che si tratta di convertire; ma solo una parte. Il fatto che alla conversione dell’altra – e rilevante – parte accedono «volontariamente» i possessori, veramente liberi di scegliere, è un indice che il nuovo tasso più basso di interesse non è artificiosamente procurato da arti troppo sapienti di governo, ma è frutto naturale delle mutate condizioni del mercato del risparmio;
  • che essi possano investire liberamente in «tutte le specie» di titoli di debito pubblico e non nella sola specie di titoli che si vuol convertire; e, meglio, che ad essi si dia licenza di investire, oltreché in titoli di Stato, altresì in titoli che ad essi si possono assimilare, come titoli di debito provinciale, comunale, consorziale, in cartelle di credito fondiario, in obbligazioni di società ferroviarie od esercenti servizi pubblici ecc. ecc. Cosicché meno forzato appaia il loro consenso alla conversione, ma frutto di maturo convincimento intorno alla convenienza di conservare il titolo di debito pubblico.

 

 

L’ottimo tra i partiti sembra però quello di abolire, dove esistono, e di non introdurre, dove non si conoscono, codesti vincoli alla libertà di investimento di talune specie di capitalisti. Vincoli che già dimostrammo dannosi ed i quali potevano trovare una spiegazione, sebbene non una approvazione, nello scarso credito degli Stati nei primi tempi di loro formazione ed in una supposta opportunità di procacciarsi una clientela forzatamente fedele. La qual credenza sembra illusoria; essendoché il credito si acquista coll’ispirar fiducia, non mai colla forza della legge; e l’obbligar qualcuno ad aver fiducia nello Stato fa nascere in tutti coloro, e sono i più, i quali non possono essere costretti, dubbi fortissimi intorno alla convenienza di dar somme a mutuo allo Stato, che a simiglianti ripieghi ricorre.

 

 

748. Condizione necessaria e sufficiente della conversione; diminuzione del tasso dell’interesse al di sotto del tasso a cui fu emesso il prestito che si vuol convertire. Nella diminuzione del tasso dell’interesse si assommano tutte le conversioni che favoriscono la conversione. Or si sono segnate le condizioni, date le quali la conversione libera è possibile. Sia un prestito di un miliardo contratto nel tempo A, quando, per cause indipendenti dall’opera dei governanti (cause monetarie, connesse al rialzo dei prezzi) o influenzate parzialmente da essa (scarsa produzione di risparmio o grande richiesta di esso da parte delle industrie), ovvero totalmente dipendenti dai governanti (guerre, imprese coloniali, impianti ferroviari, stravaganze finanziarie o mal governo), ovvero ancora, per una combinazione varia di queste cause, il tasso di interesse era alto, ad es., del 6 o del 5 o del 4 per cento. Suppongasi che, dopo alcuni o molti anni, nel tempo B le condizioni del mercato finanziario in quel dato paese siano mutate, sia per cagioni indipendenti dall’opera governativa (ribasso nel tasso di interesse, dovuto a ribasso dei prezzi) o solo in parte connesse con essa (cresciuta produzione di risparmio o depressione economica, la quale ne ha scemato la richiesta), ovvero dipendenti da merito dei governanti (savia gestione della finanza pubblica, economica nelle spese, fiducia instillata nell’animo dei risparmiatori, abilità nel fornire titoli bene accetti al pubblico); sicché il tasso dell’interesse sia disceso dal 6 al 5 per cento, dal 5 al 4 per cento, dal 4 al 3 e 1/2 od al 3 per cento.

 

 

Qui si ha la condizione necessaria e sufficiente per operare la conversione. Imperocché, supponendo che nel tempo A il prestito sia stato contratto al 4 per cento, perché tale era allora il tasso vigente di interesse, e nel tempo B il tasso di interesse siasi ridotto al 3,5 per cento, lo Stato potrà con tutta sicurezza porre ai suoi creditori il dilemma: o voi consentite a ricevere il 3 e 1/2 per cento invece del 4 per cento, ovvero io vi restituisco il miliardo di lire che mi avete mutato; ed i creditori sicuramente sceglieranno tutti la prima alternativa, consentendo alla riduzione dell’interesse, perché, ove scegliessero il rimborso del capitale, non saprebbero impiegarlo altrimenti ad un tasso di interesse maggiore del 3 e 1/2 per cento. Questo è invero il nuovo frutto che nel tempo B danno i capitali e più del 3 e 1/2 per cento è impossibile pretendere; sicché è naturale che i capitalisti creditori preferiscono acconciarsi senz’altro alla riduzione dell’interesse, evitando il fastidio del rimborso del capitale e del suo impiego a frutto non maggiore di quello offerto dallo Stato.

 

 

Quando si dice che la riduzione del tasso dell’interesse corrente sul mercato per quella sorta di impieghi di capitale è la condizione necessaria e sufficiente per operare la conversione non si vuol dire che nessun altro fattore abbia cooperato all’uopo. Anzi, sopra già furono noverate le «molteplici» cagioni le quali hanno come risultante la riduzione del tasso dell’interesse. Si vuol soltanto mettere in luce che tutte quelle altre condizioni che solitamente si adducono come necessarie al successo delle conversioni – come la tranquillità dei mercati finanziari, la saldezza del bilancio dello Stato, la mancanza di grossi prestiti stranieri od interni contemporanei a più alto tasso di interesse – tutte agiscono attraverso al tasso dell’interesse ed in questo si riassumono. Invero se i mercati finanziari fossero agitati, se il bilancio dello Stato presentasse dei disavanzi, se si emettessero all’estero od all’interno dei grossi prestiti al 4 od al 4 e 1/2 per cento, evidentemente nel paese il tasso dell’interesse non potrebbe essere disceso dal 4 al 3 e 1/2 per cento. Il tasso dell’interesse è la risultante ed insieme l’indice di tutte le variazioni, le quali avvengono nella struttura e nell’assetto economico del paese; e perciò ripetute volte durante queste lezioni si ebbe cura di farne risaltare la grandissima importanza; epperciò qui si concluse che la sua riduzione era necessaria e bastevole a consentire le conversioni fortunate del debito pubblico.

 

 

749. La conversione si ha soltanto quando il tasso dell’interesse è diminuito sul mercato generale libero, mentre si ha il ripudio quando il tasso dell’interesse è solo diminuito sul mercato chiuso dei prestiti pubblici. – Accuse mosse contro la conversione italiana del 1906 e loro infondatezza.

 

 

La quale conclusione non esclude che si possano operare conversioni, mentre il tasso dell’interesse «generale» sul mercato «libero» non è scemato, anzi si conserva alto; ossia non esclude che uno Stato possa convertire un suo prestito dal 3 e 1/2 al 3 per cento, mentre il tasso dell’interesse sul mercato libero, per impieghi di uguale sicurezza, si conserva al 3 e 1/2 o forse è al 4 per cento. Siffatta possibilità si collega però esclusivamente con la formazione di un mercato chiuso del risparmio rivolto ad impieghi in titoli pubblici, separato ed indipendente dal mercato libero del risparmio genericamente rivolto ad ogni sorta di impieghi. Se lo Stato, con quei metodi che sovra furono largamente discussi (cfr. par. 606, 607, 617-43 e 747) è riuscito a creare a suo beneficio un mercato chiuso, una specie di riserva di caccia, in cui affluiscono risparmi, i quali debbono essere obbligatoriamente investiti in titoli di debito pubblico, ben può darsi che su cotal mercato il tasso dell’interesse, dati i rapporti speciali ivi vigenti fra la offerta e la richiesta del risparmio, sia ridotto al 3 per cento, mentre sul mercato libero, dove affluiscono i risparmi liberi e le richiesti degli imprenditori o mutuatari liberi, il tasso è ancora al 3 e 1/2 od al 4 per cento. E quindi ben può darsi che la conversione riesca, malgrado l’apparente inosservanza della teoria.

 

 

Chi volesse rendere formalmente applicabile la teoria anche a questo caso avrebbe solo da notare che, quando si dice «essere condizione necessaria e sufficiente alla conversione di un prestito pubblico dal 3 e 1/2 al 3 per cento la riduzione al 3 per cento del tasso di interesse corrente sul mercato degli impieghi di uguale sicurezza» si vuol dire: «del tasso di interesse corrente su quello speciale mercato dove si negoziano i titoli di debito pubblico». E la correzione sarebbe esattissima, in quanto ché il tasso di interesse che vale per un mercato (chiuso) non è lo stesso di quello che contemporaneamente vale per un mercato tutto diverso (libero); né i creditori pubblici hanno convenienza a chiedere il rimborso del capitale per non soggiacere alla riduzione dal 3 e 1/2 al 3 per cento, solo perché sul mercato libero potrebbero ancora ottenere il 3 e 1/2 o forse il 4 per cento; ben sapendo essi che su questo mercato libero non possono recarsi ed è loro giuocoforza reimpiegare i proprii capitali sul mercato chiuso pubblico, dove non possono ottenere più del 3 per cento.

 

 

Ma questa sarebbe una estensione puramente «formale» della teoria ad un caso che ha indole ben diversa. Invece di sollazzarsi in queste identificazioni esteriori, le quali gioverebbero soltanto ai governanti a – reattivi per dare apparenza di conversione ad un fatto molto diverso, è mestieri riconoscere che la conversione propriamente detta si ha soltanto quando si opera su un mercato perfettamente libero, quando i creditori, od almeno la grande maggioranza dei creditori, ha sul serio la possibilità di chiedere, se così voglia, il rimborso del capitale e di reimpiegarlo, senza alcuna limitazione, in qualunque altra maniera, pubblica o privata, esterna od interna, mobiliare od immobiliare. Solo in questa ipotesi la conversione può essere realmente ritenuta tale, ossia libera. Ma quando i creditori pubblici sono, invece, e in tutto od in notevole parte costretti a non muoversi dall’impiego in titoli pubblici, né è loro di fatto consentita la facoltà di scegliere altri impieghi, allora la riduzione dell’interesse usurpa il nome di conversione, di cui riveste solamente le apparenze esteriori, mentre in realtà è una specie del genere diffusissimo dei «ripudii».

 

 

Fu mosso cotal rimprovero alla recente conversione italiana del 1906 da parecchi scrittori, tra cui vuolsi ricordare in special modo il SINCERO, in «La legge 29 giugno 1906 e gli Enti ecclesiastici» (Torino, Unione Tip.- Editrice 1906), in quanto fu osservato che gli enti ecclesiastici ed altri enti morali e persone fisiche (ad es., doti militari) non avevano libertà di scelta fra il rimborso del capitale e la riduzione dell’interesse e dovevano forzatamente acconciarsi alla riduzione dell’interesse, perché ad essi era fatto «per legge o per decreto di tribunali» obbligo di investire il proprio patrimonio in titoli di rendita 4 per cento, senza neppure la facoltà di scegliere altri titoli di debito dello Stato medesimo. Ma già fu risposto in quel tempo (dall’autore del presente corso, in «Corriere della Sera» del 21 luglio 1906) che ciò non bastava a mutar indole alla conversione, trasformandola in ripudio; perché la privazione della libertà di scelta da cui effettivamente codesti enti erano afflitti sarebbe riuscita loro dannosa, solo quando, se quella libertà avessero goduto, essi avrebbero avuto modo di profittarne per scegliere altro impiego più profittevole di quello del 3 e 3/4 o 3 e 1/2 per cento nuovamente offerto dallo Stato. Ma la acquiescenza di tutti gli altri creditori «liberi» – di cui i portatori di almeno 4 miliardi di titoli «al portatore» liberissimi, e la maggior parte dei possessori degli altri 4 miliardi di titoli «nominativi» pur essi liberi – alla conversione dimostrava invece che la possibilità di trovare altro impiego più fecondo di fatto in quel momento non v’era. Quindi nessun danno effettivo subirono i creditori «obbligatori» dal non aver potuto chiedere il rimborso del capitale; e quindi ancora per essi nel 1906 si ebbe «conversione» e non «ripudio».

 

 

Gioverebbe però, ad evitare qualunque lagnanza di tal fatta, di cui non si può disconoscere il fondamento ideale, sebbene nulle siano state le conseguenze di fatto, che si abolissero le restrizioni legali, le quali impongono certi impieghi a taluni enti od individui. È sempre dannoso che vi sia chi abbia ragione di muovere lagnanza, anche puramente ideale, contro ad un’operazione che meritava realmente di essere, come fu, da tutti lodatissima ed era realmente testimonianza delle migliorate condizioni della economia e della finanza d’Italia.

 

 

750. Dell’errore per cui la conversione dei prestiti pubblici è causa del tasso del ribasso dell’interesse. – La conversione non sposta i capitali dagli impieghi in titoli pubblici agli impieghi agricoli, industriali e commerciali – La conclusione alla quale siamo giunti: «essere la riduzione del tasso dell’interesse sul mercato la condizione necessaria e sufficiente per la conversione dei prestiti pubblici» consente di confutare agevolmente una opinione assai diffusa in quel volgo della borsa, il quale erra per non aver avuto tempo a meditare sull’argomento, od in quell’altro volgo della politica, che dei problemi economici e finanziari si giova solo per accusar gli altri o lodar sé stesso. Dice l’opinione volgare: la conversione dei prestiti pubblici, dal 4 al 3 e 1/2 per cento ad esempio, cagiona una diminuzione nel tasso dell’interesse sul mercato, e giova alla agricoltura ed alle industrie, perché i capitalisti, i quali erano attratti verso gli impieghi in titoli pubblici dalla buona remunerazione che vi ottenevano (4 per cento), dopo, respinti dal più basso frutto (3 e 1/2 per cento), preferivano gli investimenti fecondi della terra e delle industrie, contribuendo così al progresso dell’economia nazionale.

 

 

L’errore, che in questa preposizione si contiene, è uno di quei molti e sempre mutevoli aspetti dell’errore più ampio, che fu l’ultima volta confutato nel discorso nazionale (cfr. par. 734), secondo cui l’investimento in titoli di debito pubblico sarebbe, la prima volta ed ogni volta susseguente, un danno per il paese; ed a questo errore primitivo si aggiunge l’altro, che è di assumere l’effetto per la causa.

 

 

Invero, come potrebbe la riduzione dell’interesse dal 4 al 3 e 1/2 per cento su 8 miliardi di titoli di debito pubblico – assumiamo l’esempio dell’ultima conversione italiana – avere per effetto di ridurre il tasso di frutto dei capitali dal 4 al 3 e 1/2 per cento? Affermare ciò è manifestamente scambiare la causa con l’effetto; è dire che un ribasso avvenuto «precedentemente» nel tasso dell’interesse, e che fu causa si potesse operare la conversione della rendita dal 4 al 3 e 1/2 per cento, possa «nuovamente» verificarsi «dopo» avvenuta questa medesima conversione e per causa di essa; il che è manifestamente incomprensibile. Per sé medesimo la conversione vuol dire che lo Stato pagherà certi tagliandi annui 3,50 invece di 4 lire; sicché i capitalisti creditori degli 8 miliardi invece di ricevere 320 milioni di interesse (al 4 per cento) all’anno, riceveranno solo (al 3 e 1/2 per cento) 280 milioni di lire; ed i contribuenti risparmieranno altrettanto, ovvero i servigi pubblici saranno meglio dotati.

 

 

Insomma, trattasi di un mero passaggio di 40 milioni di lire all’anno dai capitalisti creditori ai contribuenti, ovvero impiegati o funzionari dello Stato; ed in qual maniera misteriosa siffatto passaggio possa far diminuire «ulteriormente» il tasso dell’interesse al disotto del 3 e 1/2 per cento non si capisce; a meno di supporre che i contribuenti e gli impiegati o fornitori pubblici siano maggiormente in media risparmiatori dei capitalisti-creditori. Il che è ignoto se sia ipotesi vera ed erronea.

 

 

Dunque poniamo come punto fermo questo: che il ribasso dell’interesse dal 4 al 3 e 1/2 per cento è già avvenuto «prima» che la conversione si operasse ed è così la «premessa» logica di questa; e che la conversione non ha virtù propria di produrre nessun «ulteriore» ribasso. Subito si deduce che i benefici effetti che l’agricoltura e l’industria sentono dal ribasso del tasso dell’interesse e che sono certissimi derivano dal ribasso medesimo e non dalla conversione della rendita; derivano cioè dalla più abbondante produzione di risparmio, dalla pace, dalla saggia gestione finanziaria, le quali, come consentono allo Stato di procacciarsi denaro al prestito al 3 e 1/2 invece che al 4 per cento, così lo consentono medesimamente agli agricoltori, agli industriali ed ai commercianti privati, i quali ne ritraggono pur essi grande beneficio.

 

 

Conversione della rendita e provvista di capitali a buon mercato all’agricoltura ed all’industria sono due effetti contemporanei della medesima causa, che è il ribasso del tasso dell’interesse.

 

 

Rimane da vedere se la conversione abbia per virtù di spostare la direzione in cui si impiegano i capitali dagli impieghi in titoli di debito pubblico in impieghi industriali ed agricoli; ché questo potrebbe essere il vero significato dell’opinione volgare secondo cui la conversione riuscirebbe favorevole ai progressi dell’agricoltura e dell’industria. Il capitalista cioè, malcontento dei titoli di debito pubblico al 3 e 1/2 per cento, li venderebbe per impiegarne il ricavo in azioni ed obbligazioni industriali, in compere di case o di terreni.

 

 

Cominciamo a distinguere il caso in cui i titoli di debito pubblico siano e rimangano posseduti all’interno dall’altro caso in cui fossero prima o possano essere poi posseduti all’estero.

 

 

Nell’ipotesi in che tutti gli 8 miliardi della nuova rendita 3 e 1/2 siano e rimangano posseduti all’interno, la conversione non può manifestamente avere per effetto di deviare l’indirizzo dei risparmi dall’uno all’altro impiego. Ricordisi invero la verità tante volte detta e sempre dal volgo dimenticata: che cioè gli 8 miliardi di lire di titoli di debito pubblico non sono 8 miliardi di capitale disponibile, bensi8 miliardi di lire di carta stampata in una certa forma, con certe diciture, ecc. ecc. Gli 8 miliardi di capitali disponibili c’erano un tempo, due secoli od un secolo, o cinquanta o venti fa e furono imprestati ai vecchi Stati italiani od al nuovo Stato nazionale e questi li spesero in guerre od in opere pubbliche; sicché più non esistono o sono stabilmente impiegati. Quindi, se anche i capitalisti detentori degli 8 miliardi di lire di quella tal carta stampata tutta la vendessero, che cosa accadrebbe? Non mai che 8 miliardi di capitale, che prima erano impiegati in titoli di debito pubblico, siano impiegati in imprese agricole ed industriali, ma che una schiera di persone la quale prima possedeva un credito di 8 miliardi di lire verso lo Stato, cederà i titoli facenti fede di cotal credito ad altre persone in cambio di 8 miliardi di lire in contanti. Se anche cioè si immagina per un momento che esistano nel paese 8 miliardi di lire di risparmio disponibile presso certi capitalisti, la vendita dei titoli di rendita da parte dei detentori disgustati di ricevere solo il 3 e 1/2 per cento di frutto, non potrà produrre altro effetto fuorché passare gli 8 miliardi di titoli dai venditori ai compratori e gli 8 miliardi di risparmio disponibile dai compratori ai venditori. La qual cosa è indisputabile, perché se v’ha chi vende i titoli deve esistere chi li compra; talché essi titoli continueranno ad essere da «diverse persone» posseduti in paese, ed il capitale disponibile non crescerà di un centesimo e sempre rimarrà composto di 8 miliardi di lire, che dovranno, dopo «come prima», dai nuovi possessori invece che dai vecchi, essere impiegati in imprese commerciali, industriali, agrarie, in mutui, in acquisti di terreni e di case. La conversione della rendita non ha di solito neppure questo effetto di far passare i titoli da una categoria all’altra di persone: ma, se anche inducesse una piccola parte dei detentori a sbarazzarsi dei loro titoli di debito pubblico, giudicati troppo scarsamente fecondi, tutto l’effetto si limiterebbe ad un mutamento nelle persone dei detentori, senza alcuna ripercussione sulla quantità del capitale disponibile per altri impieghi.

 

 

L’effetto sulla quantità e sul prezzo del capitale disponibile vi era già stato; ma era stato cagionato dal ribasso anteriore nel tasso dell’interesse.

 

 

Supponiamo ora che sulla massa di 8 miliardi di titoli, 1 fosse, prima della conversione, collocato all’estero. La conversione può produrre qualche effetto sulla quantità di capitale che «in paese» si rivolge alle industrie? Non pare, in circostanze normali. Poiché, in circostanze normali, noi dobbiamo supporre comunicanti i due mercati, estero ed interno; e cioè dobbiamo postulare che se all’interno il tasso dell’interesse nel tempo A era del 4 per cento, fosse del 4 per cento nello stesso tempo anche all’estero, non potendo darsi due tassi di interessi diversi sullo stesso mercato. Se nel tempo B il tasso d’interesse scende in uno dei due mercati al 3 e 1/2, scenderà parimenti anche nell’altro; epperciò i portatori esteri che prima avevano convenienza a tenere i titoli che fruttavano il 4 per cento, avranno la medesima convenienza a tenere i titoli 3 e 1/2 per cento, posto ché nel loro paese non troverebbero un impiego più fecondo.

 

 

Quindi non v’è ragione che, «a causa della conversione», i titoli collocati all’estero abbiano a rimpatriare, sebbene non possa escludersi che per altre cause tal fenomeno non si avveri.

 

 

Ma può darsi che le circostanze non siano normali. E cioè può darsi che, mentre prima i due mercati erano comunicanti, dopo il mercato interno diventi chiuso, ed in esso il tasso d’interesse ribassi dal 4 al 3,5 per cento, mentre all’estero continua ad essere del 4 per cento. In tal caso il governo compie la conversione e questa, per i 7 miliardi collocati all’interno riesce, perché i capitalisti interni debbono ora contentarsi del frutto del 3,5 per cento. Non riesce per il miliardo collocato all’estero, ché i capitalisti di fuori preferiranno il rimborso del capitale, che essi sanno impiegare al 4 per cento. Di ciò però non si sgomenta il governo, il quale ha costituito un consorzio bancario di garanzia, il quale effettua il rimborso del miliardo ai capitalisti esteri, ritira i titoli ed a poco a poco li vende ai capitalisti interni, i quali, contentandosi del 3 e 1/2 per cento, volontieri impiegano i loro «nuovi» risparmi nell’acquisto dei titoli prima collocati all’estero, facendoli così rimpatriare. Spesso non v’è neppure bisogno dell’intervento del consorzio bancario, ché i capitalisti esteri venderanno in borsa i nuovi titoli 3 e 1/2 per cento ed i nazionali li acquisteranno.

 

 

Quale effetto in tal caso dicesi aver prodotto la conversione? Il rimpatrio dei titoli e la emigrazione del nuovo risparmio dedicato all’acquisto dei titoli. Contrariamente perciò all’opinione volgare, la conversione avrebbe prodotto l’effetto di indirizzare certi nuovi risparmi che prima si sarebbero indirizzati ad altra meta, all’acquisto dei titoli nazionali collocati all’estero. Sebbene sia da dubitarsi se tale effetto sia specificamente dovuto alla conversione e non invece al divario manifestatosi tra il tasso d’interesse estero – 4 per cento – ed il tasso interno – 3,5 per cento -; divario il quale è la causa prima di ciò che i titoli di debito pubblico 4 per cento o 3 e 1/2 per cento siano più apprezzati dai capitalisti nazionali che dagli esteri, sicché i primi sono disposti a pagarli ad un prezzo più alto dei secondi e questi perciò vedono convenienza nel venderli.

 

 

L’inverso effetto si produrrebbe quando il tasso di interesse rialzasse in paese e ribassasse all’estero; ché allora i titoli avrebbero tendenza ad emigrare all’estero, crescendo la massa di capitale disponibile in paese per impieghi industriali e commerciali; senza che di cotal tendenza si possa dar merito alla conversione, la quale non può essere, ripetiamolo ancora, essa medesima causa di quell’effetto da cui proviene; ma è unicamente indice o conseguenza di un mutato stato di cose, che tutto si assomma nel variato tasso di interesse.

 

 

751. Del pregiudizio volgare, per cui il successo della conversione non è definitivo se il prezzo del titolo convertito non si conserva alla pari per un periodo di tempo relativamente lungo dopo la conversione.- La conversione è, del resto, per sé stessa un fatto così benefico alle finanze dello Stato, per la minore spesa di interessi per cui questo è gravato, ché non occorre davvero andar cercando altri suoi meriti immaginari. Come pure, una volta avvenuta, il suo successo è senz’altro così pieno e definitivo, che non fa d’uopo immaginare la necessità di altri e più clamorosi e duraturi successi.

 

 

Qui si vuole accennare ad un pregiudizio, anch’esso diffusissimo nel volgo, secondo cui al successo della conversione importa assai che il prezzo del titolo convertito non ribassi al di sotto della pari per un periodo di tempo lungo successivo alla conversione. Così se un titolo 4 per cento fu convertito in un titolo nuovo 3 e 1/2 per cento, si ritiene desiderabile che il prezzo di borsa del nuovo 3 e 1/2 non discenda sotto il corso di 100 lire, per un periodo di tempo che gli uni si contenterebbero di fissare in qualche mese od in un anno ed altri vorrebbero estendere ad un periodo più lungo di parecchi anni. Massimamente quando, come in celebri conversioni inglesi od italiane di cui si dirà poi (cfr. 761 e segg.), si adottò il metodo di compiere la conversione in due tempi, offrendo cioè, ad es., invece del titolo 4 per cento un titolo nuovo, il quale frutterà il 3 e 3/4 per cento per cinque anni ed il 3,50 per cento di poi, si crede indispensabile al buon successo della conversione che il nuovo titolo si conservi il corso di 100 lire almeno per cinque anni, ossia fino a che si compia la seconda riduzione dell’interesse dal 3 e 3/4 al 3 e 1/2 per cento.

 

 

E se ciò non accade, taluni assi si rammaricano. Dire qual fondamento abbia questa credenza volgare è difficile. Pare che il fondo di vero che in essa si rintraccia, stia in ciò che si desidera non perturbare i capitalisti con una diminuzione del valor capitale del loro titolo nel momento istesso in che se ne scema il frutto ed averli così più propensi ad accettare la conversione. La previsione della permanenze dei corsi del titolo intorno alla pari sarebbe dunque una condizione della buona riuscita della conversione; e si desidera che questa conversione si attui, affinché l’affidamento tacito dato dai governanti non trovi una smentita nei fatti. Siccome, nelle conversioni fatte in due tempi, si immagini che tale affidamento sia stato dato sino al compiersi del secondo atto di essa, così si reputa che i corsi non ribassino al disotto della pari almeno sino a questo momento.

 

 

Osserviamo subito che la conversione non contiene in sé stessa nulla che abbia indole di affidamento tacito di stabilità dei corsi di borsa dei titoli convertiti. La conversione, è noto, è un semplice porre al creditore un dilemma: o il rimborso del capitale o il consenso alla riduzione dell’interesse. Di capitale non si fa parola, ché il capitale nominale rimane invariato e nessuno Stato mai diede e ragionevolmente può dare alcuna garanzia intorno ai corsi di borsa dei suoi titoli. Lo Stato che desse una siffatta garanzia correrebbe un brutto rischio, poiché, se i corsi ribassassero, sarebbe obbligato a ricomprare alla pari tutti i titoli che gli fossero offerti; e in tal caso tutti gli sarebbero offerti. Né si possono decentemente dare affidamenti taciti di ciò che si sa non potere sul serio garantire.

 

 

Poiché questa è l’essenza della conversione, spetta al creditore decidere, a ragion veduta, se gli convenga di più chiedere il rimborso delle 100 lire, o la conservazione del titolo a reddito minore. Se egli accetta la seconda alternativa, siamo certi che non solo il creditore non è in grado di trovare altro impiego fecondo di un reddito maggiore del 3 e 1/2 per cento, ma altresì che egli ha paragonato il rischio di ribasso del prezzo del titolo convertito al rischio di ribasso di prezzo della cosa in cui le 100 lire sarebbero state da lui altrimenti investite, ed ha visto che il primo era minore del secondo rischio. Sicché egli, nell’atto in cui accetta la conversione, per definizione si è assunto tutti i rischi inerenti al possesso del titolo convertito, fra i quali vi è anche quello del ribasso dei corsi; né dopo può lamentarsi se il ribasso sopravviene.

 

 

Potrebbe lamentarsene solamente nel caso in cui il ribasso di prezzo fosse dovuto alla conversione e la possibilità di esso gli fosse stata tenuta nascosta. Ma ciò è assurdo ove la conversione siasi compiuta normalmente.

 

 

Poiché invero la conversione poté compiersi per la diminuzione del tasso di interesse dal 4 al 3 e 1/2 per cento, è chiarissimo che il nuovo titolo 3 e 1/2 per cento non può aver un prezzo di borsa minore di 100 lire. Se valesse soltanto 95, allora il tasso dell’interesse corrente sul mercato sarebbe di lire 3.50 su 95, ossia del 3.68 per cento; e perciò sarebbe impossibile una conversione dal 4 al 3.50 per cento. Se la conversione si fa e riesce, ciò indica che il tasso di interesse è davvero il 3,50 per cento e che il titolo convertito non può avere valore di borsa minore di 100 lire.

 

 

A meno che, ripetasi, la conversione non sia stata normale; e siasi compiuta perché il mercato dei titoli pubblici era un mercato chiuso, dove vigeva un tasso di interesse artificiale del 3.50 per cento, mentre nel paese stesso sul mercato libero il tasso di interesse era del 4 per cento. In questo caso la conversione, o, meglio, riduzione forzata degli interessi riuscì solo perché s’era chiusa la via ai creditori dello Stato ad impiegare altrove i proprii capitali; e perciò si capisce che i governanti vivano nell’ansia che i margini intorno al mercato chiuso si rompano ed i capitalisti profittino della facoltà di impiegare altrimenti i capitali loro per vendere i titoli convertiti. Il ribasso dei titoli in tal caso sarebbe indice della artificiosità della conversione e della mala azione che i governanti commisero contro i creditori pubblici, ingannandoli od a forza costringendoli a consentire ad una riduzione di interessi, a cui non avrebbero annuito se fossero stati onninamenti liberi.

 

 

Ove si accetti questo caso, il quale sembra rarissimo, la conversione trova nel fatto di essere avvenuta la prova sicura del suo successo definitivo.

 

 

Altro non le occorre per essere perfetta, né altre esigenze si debbono avere verso i governanti che ebbero il merito di averla operata. Pretendere da essi che attendano mesi od anni a ricevere la meritata lode, e questa si dia soltanto se il titolo convertito conservi la pari, è pretendere l’assurdo. Qual governante può assicurare che nell’avvenire, un anno, un mese e forse un giorno solo dopo compiuta la conversione non mutino le condizioni del mercato monetario? Chi può assicurare che il tasso dell’interesse, il quale era disceso dal 4 al 3 e 1/2, non torni a salire verso il 4 per cento e chi può impedire che il titolo convertito, il quale rende solo 3.50 lire, non discenda dalla pari al corso di 87.50, al qual corso soltanto un titolo fruttante 3.50 lire rende il 4 per cento che è il nuovo tasso di interesse?

 

 

Se ciò accade, qual colpa ne hanno i governanti, che hanno compiuta la conversione? Nessuna.

 

 

Ma, forse, la preoccupazione che il titolo convertito 3.50 per cento non discenda sotto la pari ha un significato diverso da quello apparente. Forse vuol significare consiglio ai governanti di amministrare bene la cosa pubblica, di far tutto ciò che stia in loro potere per ispirar fiducia ai capitalisti affinché per colpa loro il tasso dell’interesse non abbia ad aumentare ed i corsi del titolo convertito a ribassare. Se questo è il significato della preoccupazione, vedesi subito che essa è lodevolissima, sebbene non abbia alcuna connessione logica colla conversione già avvenuta. Questa già è perfetta; né del suo successo si può dubitare. Si vuole soltanto che la memoria del successo ottenuto sia di sprone ai governanti ad ottenere altri successi in avvenire, a conservare intatto il prestigio ottenuto e fedeli le schiere dei capitalisti. Di che è indice il corso di borsa del titolo convertito, il quale non si vuole che scada, non perché dal suo scadimento si tema vedere sminuito il successo della conversione passata, che sarebbe un nonsenso, ma perché si teme che scemi il credito presente dello Stato e sia allontanata la probabilità di nuove conversioni.

 

 

A raggiungere il quale intento, per fermo desiderabilissimo, gioverà assai che i governanti non si preoccupino affatto dei corsi di borsa dei titoli di Stato, ma esclusivamente di governar bene la cosa pubblica.

 

 

752. Del pregiudizio secondo cui il ribasso dei corsi dei titoli di debito pubblico al disotto della pari è nocivo al credito pubblico – Mentre sono nocive le cause, se imputabili ai governanti, le quali abbiano provocato il ribasso – A cause attuali e non a conversioni passate si devono attribuire i ribassi nei corsi di taluni consolidati europei. L’alto corso dei titoli di Stato intorno alla pari è utile in quanto sia l’indice di una buona amministrazione della pubblica finanza, ma per sé medesimo non ha alcuna importanza. Molti si preoccupano quando un titolo, convertito da poco a lungo tempo o non mai convertito, discende al di sotto della pari; ed. a cagion d’esempio, si fece in Inghilterra un gran discorrere quando si vide il consolidato 2 e 1/2 per cento ribassare da 113 a grado a grado sino alla pari di 100 e poi di anno in anno più giù sino a toccare nel 1913 il corso di 71 lire sterline. Alcuni, insensatamente, accusarono il cancelliere dello scacchiere Goschen, il quale nel 1888 aveva compiuta la celebre conversione del 3 per cento in un 2 e 3/4 duraturo per 15 anni e convertibile poi automaticamente in un 2 e 1/2 per cento; e dissero che se il titolo avesse continuato a fruttare il 2 e 3/4 od il 3 per cento non sarebbe ribassato al punto infimo che ebbe a toccare. Accusa insensata, si disse; ed, invero, per qual ragione mai il Goschen doveva astenersi dal recare ai contribuenti inglesi il beneficio di 1/4 e poi di 1/2 per cento di interesse annuo su una massa di titoli di 13 miliardi? Qual danno risentono i contribuenti pel fatto che il consolidato 2 e 1/2 per cento vale 71 lire? Nessuno. Il corso di 71 indica soltanto che il tasso di interesse corrente sul mercato è di L. 2.50 su 71, ossia dal 3.52 «per cento». L’Inghilterra può sempre, ove desideri, contrarre «nuovi prestiti alla pari», ossia a cento, purché consenta a pagare il «nuovo» tasso d’interesse del 3.50 circa per cento corrente sul mercato. L’essere il vecchio titolo 2.50 per cento sotto la pari non impedisce affatto che si emettano nuovi titoli 3.50 per cento alla pari. Il tasso dell’interesse è oggi ed è in ogni movimento dato dalle condizioni «attuali» del mercato, non dalle condizioni passate; e su di queste la conversione già avvenuta e perfetta in ogni sua parte non può avere alcuna influenza.

 

 

Dicasi che sarebbe desiderabile che i governanti inglesi operassero nella gestione della finanza del loro paese in modo da crescere il credito dello Stato, sì da poter trovare denaro a mutuo ad un tasso minore del 3.50 per cento e, se la cosa sia possibile, si manifesterà un desiderio ragionevole; dicasi essere desiderabile che l’ammortamento del debito pubblico proceda più rapidamente di quanto non avvenga, in guisa da rarefare i titoli sul mercato e farne crescere il prezzo e quindi scemare il tasso di interesse che i capitalisti possono pretendere da questo genere di titoli, e si dirà cosa la quale è comprensibile. Ma affermare che certe conversioni avvenute in passato hanno, esse, fatto ribassare il corso dei titoli convertiti e rialzare il tasso di frutto dei titoli pubblici è enunciare proposizioni senza senso. Il tasso di interesse corrente per i prestiti pubblici è un fatto «attuale», il quale dipende da circostanze (produzione del risparmio, domanda di esso per spese di guerra, spese coloniali, opere pubbliche, altezza delle imposte, fiducia inspirata dai capitalisti ecc. ecc.) le quali «oggi» esistono. Chi voglia far discendere il tasso di interesse pagato dallo Stato sui «nuovi» suoi prestiti, deve agire sulle circostanze che «oggi» determinano il tasso medesimo, non far querimonie su fatti storici accaduti nel passato e che oggi appartengono al regno delle cose inesistenti.

 

 

Sezione seconda

Di alcuni problemi economici, giuridici e politici della conversione

 

753. Dei casi in cui la conversione non è giuridicamente possibile, perché lo Stato, esplicitamente od implicitamente, vi ha rinunziato. La conversione dei prestiti pubblici può essere considerata, oltreché sotto l’aspetto economico, altresì sotto l’aspetto giuridico e politico.

 

 

Giuridicamente essa è un diritto dello Stato, salvo nei casi in cui sia evidente che esplicitamente od implicitamente lo Stato vi abbia rinunciato. La rinuncia si ha:

 

 

  • a) quando per qualunque specie di prestiti, perpetui od ammortizzabili, lo Stato abbia espressamente dichiarato di rinunciare al diritto di rimborsare la somma mutata innanzi ad una certa data. Così lo Stato italiano, in occasione della conversione della rendita nel 1906 dal 4 al 3 e 3/4 – 3 e 1/2 per cento, garantì ai portatori che nessuna nuova conversione si sarebbe fatta prima del 1920.
  • b) quando il debito consiste in una rendita perpetua vera e propria, tale cioè che non solo il creditore non ha diritto di prendere il rimborso del capitale, ma neppure lo Stato ha diritto di rimborsarlo; ed anzi non esiste neppure la ragione del capitale, sibbene unicamente della rendita annua perpetua (par. 665). È questo un caso possibile in quei paesi dove la legislazione riconosce l’esistenza di queste rendite; non nel nostro dove tutte le antiche rendite o censi o livelli perpetui furono dichiarati riscattabili. In Italia come in Francia, il nome di rendite consolidate perpetue dato a questa specie di pubblici prestiti non ha il significato che si dava alle antiche rendite perpetue non denunciabili né da una parte né dall’altra, ma semplicemente di prestito non denunciabile dal creditore, mentre lo Stato debitore può in ogni momento, salvo patto espresso contrario pro-tempore, rimborsare il capitale dovuto. Ciò risulta dalla formazione storica del debito perpetuo, dalle dichiarazioni parlamentari e dai principi generale della legislazione civile, a cui non si fece nessuna esplicita né implicita eccezione.
  • c) quando trattasi di prestito ammortizzabile in un dato periodo di tempo, secondo un piano prestabilito d’ammortamento. In tal caso il piano è parte integrante del contratto, e vincola ambo le parti sia negli oneri come nei vantaggi; né è lecito allo Stato rimborsare il capitale in modo diverso da quello che è indicato sul piano. E fu già detto sopra (cfr. par. 661) come nei prestiti ammortizzabili faccia d’uopo inserire la clausola per cui lo Stato si riserba la facoltà di rimborsare anticipatamente il mutuo o di accelerare in confronto a quanto sarebbe ordinato dal piano d’ammortamento. Senza questa clausola, lo Stato non può chiaramente arrogarsi il diritto di rimborso e quindi di conversione, senza commettere una evidente violazione di diritto.
  • d) quando trattasi di prestiti per annualità (cfr. par. 656), per cui si possono ripetere le medesime considerazioni fatte sopra, con questa in più che spesse volte, sebbene se ne sia dovuto tener conto delle trattative preliminari, non risulta esplicitamente dalla legge o dalla conversione il tasso d’interesse convenuto per la determinazione dell’annualità; sicché non risulta quale sia il capitale corrispondente alla annualità, che lo Stato dovrebbe offrire in caso di convenzione. Prima di far questa sarebbe d’uopo determinare il capitale da rimborsare; né ciò è possibile se non si conosce il tasso di interesse. Infatti una annualità di 1 milione di lire pagabili per 50 anni, vale “oggi” 25.729.764 lire se si calcola l’interesse del 3 per cento, 21.482.185 lire se si calcola l’interesse del 4 per cento, e soltanto 18.255.925 se si prende a base l’interesse del 5 per cento. Sommamente importante è dunque conoscere l’interesse che fu posto a base dell’annualità, e se esso non risulta dalla legge o dalla convenzione, fa d’uopo che le due parti si mettano volontariamente tra loro d’accordo. Ma in tal caso non può parlarsi di conversione, in cui lo Stato impone un dilemma, ma di riscatto liberamente consentito dal creditore dell’annualità allo Stato debitore.
  • e) neppure è lecita la conversione quando si tratti di prestiti a scadenza fissa. Così lo Stato italiano non potrebbe convertire, durante la mora dei cinque anni, i buoni del tesoro quinquennali recentemente emessi (nel 1912 e 1913); perché il pagamento dell’interesse del 4 per cento «durante cinque anni» è parte integrante della convenzione intervenuta fra lo Stato ed i sottoscrittori dei buoni.

 

 

Nonostante queste limitazioni, di cui la prima e l’ultima hanno durata limitata e sono consentite a vantaggio dello Stato, la seconda non ha importanza pratica, mentre alla terza ed alla quarta si può ovviare con clausole speciali, il diritto di conversione abbraccia in quasi tutti i Stati la maggior parte del debito pubblico, il quale consiste massimamente di rendite perpetue o di prestiti pubblici denunciabili. Di qui la possibilità di farne largo uso.

 

 

753. Dei ritardi frapposti alle conversioni per ragioni politiche ed elettorali. La quale possibilità giuridica diventa, politicamente, un dovere per i governanti. Talvolta questi hanno esitato, per ragioni politiche ed elettorali, a compiere una operazione legittima e conveniente e possibile. Forse non è opportuno di ricordare gli argomenti che nel 1737 furono addetti in Inghilterra a sconsigliare una conversione possibile dei consolidati 4 per cento in 3 per cento. Secondo il Sinclair (History of the British Empire, 1803, tomo primo, pagg. 500 – 501, citato da Leroy – Beaulieu, secondo, 517) «si dipinse con i colori più scuri il destino delle vedove e degli orfani, di cui il reddito stava per essere diminuito; si insistette particolarmente sui disastrosi effetti del provvedimento per la Metropoli, dalle vicinanze della quale si sarebbero allontanati i reddituari, costretti a ritirarsi a vivere a più buon mercato nelle contrade più remote del paese». Gli stessi argomenti furono addotti in Francia sotto il regno di Luigi Filippo per impietosire gli animi del legislatore sulla sorte dei portatori di titoli, che allora, sotto il regime censitario, costituivano una frazione rilevante del corpo elettorale francese. Di nuovo in Francia, dal 1875 al 1833, si perdettero parecchie ottime occasioni di convertire i prestiti pubblici, contratti dopo il 1870, a più mite saggio di interesse per non irritare la borghesia ed i contadini, tra cui si ritiravano molti portatori di titoli pubblici.

 

 

Queste ragioni politiche spiegano il fatto di ritardi perniciosi nel compiere conversioni possibili, ritardi che possono impedire per lunghi anni la riduzione degli interessi, se nel frattempo il tasso di interesse, che era ribassato, torna ad aumentare. È manifesto che gli uomini politici, i quali obbediscono così a preoccupazioni prettamente elettorali, tradiscono il loro dovere primissimo verso i proprii committenti. Questi sono i consociati tutti, i quali hanno ragione di pretendere dai proprii eletti che essi procaccino loro i servigi pubblici colla spesa minima. Come si direbbe insensato quel privato il quale potendo trovar denaro a mutuo al 4 per cento si ostinasse a pagare il 5 per cento al suo creditore o, tutt’al più, si direbbe che egli vuole esercitare la virtù della carità verso di questo, così si deve biasimare severamente l’uomo politico, il quale continua a pagare il 5 per cento mentre potrebbe pagare il 4 per cento. Egli non ha diritto di far la carità ai capitalisti coi denari dei contribuenti; e se la fa, essa prende scientificamente il nome di corruzione politica od elettorale.

 

 

754. Convenienza di enunciare sul titolo medesimo il diritto di rimborso che ha lo Stato – Regola per cui la conversione si deve reputare tanto più vicina quanto più il titolo è vicino alla pari e tanto più lontana quanto più il titolo supera la pari – I corsi al disopra della pari dei titoli convertibili sono corsi patologici; e son dannosi ai capitalisti ed inutili allo Stato – Convenienza di sospendere le compre di titoli di debito pubblico da parte delle casse pubbliche quando i corsi superino la pari.

 

 

Se ai capitalisti non si deve fare alcuna elemosina, si deve però evitare di recare offesa ingiusta, operando conversioni anche quando vi ostano la legge o le convenzioni intervenute fra le parti (cfr. par. 752), ed anche di aver l’apparenza di violare un loro diritto od aspettativa. Sembra però opportuno che sui titoli di debito pubblico sia fatta menzione esplicita del diritto che ha lo Stato di offrire il rimborso del capitale in qualunque momento o dopo una certa data o di accelerare il piano di ammortamento ecc. ecc.. Di ciò è bene siano avvertiti i capitalisti sia perché essi spesso potrebbero ingannarsi in buona fede e comprare un titolo in cui sia scritto «consolidato perpetuo» nella illusione che la rendita promessa sia davvero perpetua ed irrinunciabile, sia perché la maggior parte di essi non conosce le leggi ed i regolamenti ed è opportuno che le clausole contrattuali essenziali riguardanti il rapporto di mutuo siano messe sotto i loro occhi sul titolo stesso, che è documento del loro credito verso lo Stato.

 

 

Ad evitare facili illusioni, è opportuno che lo Stato si astenga da atti i quali potrebbero persuadere i capitalisti che i governanti non pensano di compiere alcuna conversione. Così, quando un titolo 4 per cento sul mercato è valutato «oltre la pari», per es. 105 o 110 lire, v’ha un indice che il tasso di interesse è disceso al disotto del 4 per cento; poiché se il frutto corrente dei capitali fosse ancora del 4 per cento una rendita annua di 4 lire non potrebbe valere più di 100 lire. Perciò si suol dire che l’aumento del prezzo del titolo in borsa al di sopra della pari è una condizione necessaria affinché la conversione si compia con successo, mentre l’aumento stesso non è fatto diverso dalla diminuzione del tasso corrente, che è la sola condizione necessaria e sufficiente al successo della conversione; anzi è di essa un imperfetto riflesso. Imperfetto poiché, secondo i rapporti aritmetici puri, se il tasso d’interesse corrente è del 3 e 1/2 per cento, un titolo 4 per cento dovrebbe avere il «valore di parità» di lire 114.28, essendo questo il capitale che, al tasso del 3.50 per cento, frutta 4 lire. Ma non v’è nessuno il quale compri il titolo 4 per cento al «valor di parità» di L. 114.28, perché tutti prevedono che, essendo il tasso dell’interesse ridotto al 3 e 1/2, lo Stato convertirà il vecchio 4 per cento in un nuovo 3.50 per cento. Laonde il titolo 4 per cento, il quale è sotto la minaccia di una conversione, varrà soltanto quanto vale o varrebbe un titolo 3.50 per cento, in cui esso è convertibile, ossia 100 lire più il valore attuale di tante volte il «maggior» interesse di L. 0.50, quante sono le volte per cui è prevedibile esso sarà ancora pagato.

 

 

Così se si prevedesse che il titolo 4 per cento sarà convertito nel semestre, sicché per una semestralità sola sarà ancora pagato il coupone o tagliando in L. 2, riducendosi poi il semestre successivo a L. 1.75, il vecchio titolo 4 per cento potrà tutt’al più valere 25 centesimi oltre la pari (differenza fra L. 2 e L. 1.75 per una volta); anzi nemmeno tanto, ma solo 24 centesimi circa, perché il maggior frutto di 25 centesimi è esigibile solo «fra sei mesi» e quindi ha il valore attuale di 24 centesimi circa.

 

 

Dalle quali considerazioni si può ricavare la regola: che se esistono in corso contemporaneamente due titoli 3.50 e 4 per cento, ed il 3.50 si tiene in borsa alla pari, sarà tanto più probabile che la conversione sia prossima e fortunata quantomeno il 4 per cento eccederà la pari. Perché ciò vorrà dire che i capitalisti medesimi sono già persuasi che il titolo 4 per cento è suscettibile di essere presto convertito, sicché nessuno lo vuol comprare ad un prezzo sensibilmente superiore al prezzo del 3.50 per cento. Viceversa, vale la regola contraria: se, tenendosi alla pari il titolo 3.50 per cento, il titolo 4 per cento supera notevolmente la pari, avvicinandosi alla parità di 114.28, è segno essere i capitalisti d’opinione che i governanti non intendono convertire il 4 per cento in 3 e 1/2 per cento, sicché essi vivono tranquilli di poter continuare a godere per un tempo più o meno lungo l’interesse del 4 per cento.

 

 

L’opinione dei capitalisti potrebbe essere frutto di ignoranza; essi possono cioè comprare il titolo 4 per cento a prezzi superiori alla pari perché ignorano il diritto e la possibilità che lo Stato ha di convertirlo al 3 e 1/2 per cento. La quale ignoranza è dannosa; perché il giorno in cui lo Stato eserciterà il suo diritto e il titolo, ridotto al frutto del 3.50 per cento, diminuirà di prezzo in borsa a 100, quei capitalisti si riterranno defraudati e si irriteranno verso lo Stato. È vieppiù si irriteranno, se avranno acquistato il titolo a mezzo degli uffici postali o di altri istituti semi-pubblici, che essi reputano emanazione dello Stato.

 

 

Al quale codesta irritazione non giova, poiché la clientela dei capitalisti modesti e minimi, poco perita nella conoscenza delle leggi, delle differenze tra valore nominale e valore di borsa, fra conversioni libere e riduzioni forzose, ecc. ecc. è la miglior clientela degli Stati moderni. Sembra opportuno perciò che lo Stato, quando si reputa possibile una conversione, si astenga rigorosamente da ogni atto o provvedimento, il quale possa far nascere la illusione che il pagamento degli interessi al tasso antico potrà durare ancora a lungo tempo. Quindi sembra consigliabile di dare ordine alle casse postali di risparmio di non fare, per conto dei loro depositanti, acquisti di titoli di debito pubblico al disopra della pari, affine di evitare ogni rimprovero, fallace in sostanza, ma fondato su qualche apparenza di verità, di aver venduto ai depositanti al disopra della pari titoli che si sapeva, per la conversione possibile, destinati a ricadere alla pari. Quindi ancora sarebbe consigliabile che le autorità tutorie per le opere pie, i tribunali per le vedove ed i pupilli, i consigli di amministrazione per i consigli pubblici o semi-pubblici di risparmio seguissero la regola di non consentire o deliberare l’acquisto di titoli al disopra della pari. I corsi «al disopra della pari» di titoli ad interesse fisso si potrebbero invero acconciamente chiamare patologici. Essi indicano di solito una situazione di equilibrio instabile; la quale non può durare a lungo. Infatti un titolo, il quale frutta un interesse fisso[2], ad esempio del 4 per cento, non può aumentare di prezzo oltre 100 se non si verifica talune delle seguenti circostanze:

 

 

  • a) il tasso dell’interesse corrente è disceso al 3.50 per cento ed il titolo 4 per cento è inconvertibile in perpetuo o per un dato tempo, poiché si comprende che i capitalisti paghino qualcosa più di 100 lire un titolo che, per molti o pochi anni, rende 0.50 lire più del frutto sperabile normalmente;
  • b) il tasso dell’interesse è disceso al 3.50 per cento; ma il titolo 4 per cento non si può convertire se lo Stato non paga, oltre il rimborso alla pari un premio per ogni titolo rimborsato, per es. 5 lire, ovvero un premio grosso di 1 milione, di 100.000 lire od altro premio estratto a sorte su un dato gruppo di titoli rimborsati. In tal caso è ragionevole che il titolo valga più della pari;
  • c) il tasso dell’interesse è disceso al 3.50 per cento; ed il titolo 4 per cento si può subito convertire; ma i capitalisti ignorano tale possibilità o si illudono che essa non si verifichi, e quindi pagano il titolo 105, 106 e più lire. Tale situazione non può durare, perché appena la conversione al 3.50 per cento si compia, il titolo dovrà ribassare alla pari;
  • d) il tasso dell’interesse sul mercato libero non è disceso al di sotto del 4 per cento; ma è disceso sul mercato chiuso artificiosamente creato per i titoli di Stato, sicché su questo mercato si apparecchia una conversione;
  • e) la quotazione al di sopra della pari è puramente cervellotica e dovuta a situazioni tecniche di borse od a manipolazioni speculative; nel qual caso la quotazione alta non può durare.

 

 

Nei casi (a e b) non v’è alcun rischio nel comprare titoli al disopra della pari; ma questi sono evidentissimi nei casi (c, d ed e); epperciò pure si disse essere consigliabile a coloro i quali hanno maneggio o tutela di capitali altrui di non acquistare mai, salvo i casi specialissimi (a o b) o casi somiglianti, titoli di debito pubblico al di sopra della pari.

 

 

Né lo Stato ricava alcun vantaggio dall’essere i suoi titoli di debito pubblico quotati al di sopra della pari; poiché, «oggettivamente», alla cosa pubblica è indifferente che i 10 miliardi di titoli esistenti sul mercato siano quotati 10 o 10,5 miliardi. Trattasi di nomi appiccicati a dei pezzi di carta, i quali nulla mutano alla sostanza del fatto, che è il debito contrario «in passato dallo Stato» per quella somma, e la esistenza dei certificati di credito presso i privati creditori. La ricchezza del paese non cresce se il prezzo o nome dei certificati cresce; mutando solo la ricchezza che i creditori immaginano di avere.

 

 

«Soggettivamente», ossia per quanto ha tratto alla reputazione maggiore o minore dello Stato, questa non cresce se i corsi di borsa dei titoli di debito pubblico salgono oltre la pari. Gli uomini periti sanno che l’aumento al disopra della pari non aggiunge nulla anzi forse toglie qualcosa[3] al credito, che già esso si acquistò quando i titoli erano giunti alla pari. E della opinione degli altri uomini, i quali, per non essere periti, sono per definizione ignoranti, l’uomo di Stato, il quale sappia guardare all’avvenire ed al vero vantaggio pubblico, non ha alcuna ragione di preoccuparsi.

 

 

755. Può un prestito essere convertito solo in parte? Discussione avvenuta in Italia prima del 1906 sulla possibilità e convenienza di convertire prima i titoli nominativi e poi quelli al portatore. – Giustamente si operò la conversione in una volta sola. Si riconosce tuttavia la opportunità di diminuire la massa dei titoli da convertire in una volta sola. – Una questione che ha natura mista politico-economico-giuridico è quella relativa alla possibilità di convertire solo in parte un prestito a più basso tasso di interesse. Il problema fu discusso in Italia prima della conversione del 1906. Pareva enorme allora la massa dei titoli 4 per cento da convertire, che si aggirava intorno ai 8 miliardi di lire; e si temeva che il tesoro si sarebbe trovato a grave sbaraglio quando anche solo di una decima parte del capitale mutato si fosse chiesto il rimborso; sicché taluni proponevano si facessero due parti della massa totale dei titoli, profittando del fatto che circa metà erano nominativi e l’altra metà al portatore; cominciando ad offrire il rimborso dei titoli nominativi, ed, ottenuto favorevole accoglimento alla conversione da questi portatori, che si supponevano, non a torto, grandemente affezionati o legati a titoli di Stato, forti di questo successo, offrire anche il rimborso dei titoli al portatore. In tal modo, l’operazione divisa in due parti, incuteva meno timore e pareva meno rischiosa per l’erario.

 

 

A ragione i governanti italiani, con felice ardimento, scartarono siffatta proposta e vollero compiere la conversione per tutta la massa dei titoli 4 per cento esistenti, nominativi ed al portatore. Infatti:

 

 

  • a) la distinzione sarebbe parsa e forse era giuridicamente scorretta. Per qual ragione scegliere, nella massa dei titoli, precisamente i titoli al portatore ed offrire innanzi tutto ai loro possessori il rimborso del capitale, salvo acquiescenza al minore interesse? Forse perché essi avevano dimostrato di avere maggior fiducia nello Stato, acconciandosi a tenere i titoli in una forma meno facilmente negoziabile dei titoli al portatore? Se una distinzione volevasi fare, sarebbe parso meno odioso dare la preferenza ai titoli nominativi, posponendoli nell’ordine della conversione ai titoli al portatore, e facendo loro godere per un maggior tempo dell’antico interesse;
  • b) né potevasi apertamente addurre la ragione vera della distinzione proposta. La quale stava in ciò che i possessori dei 4 miliardi circa dei titoli nominativi erano in notevole parte nella impossibilità di scegliere altro impiego, sia perché la legge ne faceva a loro divieto, sia perché all’uopo sarebbe stato necessario modificare Statuti di opere pie e di società di mutuo soccorso, attendere dal governo l’approvazione dei nuovi Statuti, ovvero, nel caso di patrimoni di vedove, di pupilli o di doti, un decreto del tribunale ecc. ecc. Anche coloro che erano liberi di mutare impiego, non vi si sarebbero decisi, perché il fatto stesso d’aver voluto rendere nominativi i loro titoli indicava desiderio di tranquillità e di sicurezza e noia dei fastidi inerenti alla cerca di nuovi impieghi.

 

 

Non potevasi addurre apertamente questa ragione di preferire i titoli nominativi per un primo saggio di conversione; perché ciò avrebbe messo in chiaro che i governanti non si sentivano sicuri della possibilità e del sicuro successo della conversione, sicché dapprima cercavano il consenso di chi doveva darlo per forza o, per inerzia mentale, l’avrebbe dato anche a malincuore. Ed avrebbe nociuto al buon successo dell’operazione, poiché in queste faccende finanziarie, come in quelle militari, non giovano la timidezza, le mezze misure, i compromessi; ma il successo arride a chi, dimostrandosi sicuro della vittoria, dopo aver studiato bene l’opportunità dell’impresa, arditamente la vuole e d’un tratto la compie. Così fecero in Italia nel 1906; e il successo ottenuto dimostrò che mal si apponevano coloro che consigliavano di dar battaglia a due riprese e si impaurivano oltre misura di difficoltà inesistenti.

 

 

La lode ora data ai governanti italiani del 1906, i quali arditamente offersero il rimborso di tutti gli 8 miliardi ed ottennero il consenso alla riduzione dell’interesse del 4 al 3 e 3/4 – 3 e 172 per cento, non ci vieta però di riconoscere che è più facile osare la conversione di un prestito di 1 miliardo che di uno di 2, di 2 che di 4, di 4 che di 8. A mano a mano che cresce la massa del prestito da convertire, cresce il rischio che vi siano creditori in gran numero che chieggono il rimborso del capitale. Anche supponendo che il rimborso sia chiesto ugualmente per la decima parte del capitale, lo Stato dovrà rimborsare solo 100 milioni se il mutuo è di 1 miliardo, 200 se è di 2 miliardi ed infine 800 se è di 8 miliardi; e, mentre l’erario può senza difficoltà trovare i 100 milioni, non sembra altrettanto agevole trovare gli 800. Perciò, ove ciò sia possibile, e nei limiti già esposti (cfr. par. 683) in cui è consentita la convenienza di emettere parecchi tipi di prestito, può essere opportuno conservare una propria individualità alle varie parti del debito pubblico. Se fosse possibile a ragion d’esempio, scindere in due parti la massa degli 8 miliardi del consolidato perpetuo italiano 3 e 1/2 per cento (1906), promettendo, per ipotesi, a tutti coloro che convertissero i loro titoli al nominativo la immunità da eventuali conversioni future ad un interesse minore per un anno di più almeno che per i possessori di titoli al portatore si otterrebbero due vantaggi:

 

 

  • in primo luogo, si stimolerebbero i possessori di rendita a metterla al nominativo, con vantaggio della finanza, la quale più sicuramente potrebbe accertare l’attivo mobiliare nelle successioni per l’applicazione della relativa imposta;
  • ed in secondo luogo, si darebbe una ragion giuridica, anzi si farebbe obbligo allo Stato in avvenire di offrire innanzitutto ai possessori di titoli al portatore ed in seguito, passato l’anno, ai possessori di titoli nominativi. La qual distinzione, essendo voluta dalla legge, non parrebbe più odiosa, né sarebbe indice di timidezza da parte dei governanti, anzi prova della loro osservanza alle promesse fatte; e, per la ragione detta sopra, farebbe parere meno rischiosa la conversione. Onde il danno del ritardo di un anno nel convertire i titoli nominativi, in realtà sarebbe nullo, perché i governanti prenderebbero forse, appunto per ciò, coraggio ad osare la conversione dei titoli al portatore uno o più anni prima del momento in cui altrimenti l’avrebbero tentata.

 

 

756. Della liceità e possibilità della conversione dei prestiti a premio. La conversione del prestito a premio della città di Bruxelles nel 1886. Anche si disputò se la conversione fosse lecita nei prestiti con premi o lotti, dei quali sopra si discusse (cfr. par. 678-80) – Ed in verità, poiché il diritto del capitalista consiste nel ricevere un dato interesse 3 per cento ed insieme la speranza di vincere una serie di premi, distribuiti secondo un piano prestabilito lungo un certo numero di anni, pare difficile di poter offrire il rimborso del capitale a chi non s’acconci alla riduzione dell’interesse. Colui che invero accettasse il rimborso del capitale, subirebbe il danno di essersi contentato, per tutti gli anni già trascorsi – supponiamo siano 20 sui 50 di durata del prestito – di un interesse del 3 per cento, che pel passato era inferiore a quello corrente del 4 per cento o più (cfr. par. 678) ed oggi, senza mai aver lucrato alcun premio, dovrebbe rinunciare alla speranza di vincere premi per i 30 anni a decorrere. Poiché la rinuncia ad una parte dell’interesse corrente e la speranza di vincere certi premi lungo tutto un periodo prefisso di tempo sono gli elementi essenziali del contratto di mutuo a premio, è chiaro non essere lecito privare senza indennizzo il capitalista del diritto al premio.

 

 

La città di Bruxelles si tolse assai saviamente nel 1886 da questa difficoltà. Volendo convertire dal 3 al 2 e 1/2 per cento un prestito a premi, operò un estrazione immediata di «tutti» i premi che dovevano essere distribuiti ai portatori di obbligazioni per «tutta» la durata avvenire del prestito; ed ai possessori delle obbligazioni estratte si consegnarono dei certificati, i quali davano diritto a riscuotere il premio convenuto «nell’anno in cui l’estrazione avrebbe dovuto aver luogo». Per esempio, malgrado l’estrazione fosse stata fatta nel 1886, se il premio era relativo al 1895 il certificato vincitore dava diritto ad esigere il premio «nel 1895». Per evitare che i vincitori vendessero a vil prezzo i certificati di vincite da riscuotersi «nel futuro», si diede loro altresì facoltà di «scontare» il certificato stesso alla tesoreria municipale, facendosi pagare il valsente «attuale» del premio esigibile in avvenire.

 

 

757. Della conversione annunciata all’atto della emissione del prestito. A togliere ogni disputa intorno alla legittimità della conversione, si usa a volte annunciarla fin dal momento dell’emissione del prestito. Così uno Stato, nell’atto in cui emette un prestito 4 per cento, avverte che l’interesse del 4 per cento sarà pagato soltanto per 10 anni e perciò si ridurrà, senz’altro, al 3 e 1/2 per cento. I capitalisti, essendo di ciò avvertiti prima, non sono però chiamati a dare il loro consenso alla riduzione, dopo trascorsi i 10 anni. Lo diedero già, quando sottoscrissero i titoli emessi con tal clausola.

 

 

Questa maniera singolare di conversione può essere conveniente in tempi di interesse calante. In questi tempi i capitalisti sono già assuefatti all’idea che il tasso dell’interesse debba scemare coll’andar degli anni; e quindi di buon grado s’acconciano alla riduzione dell’interesse al 3 e 1/2 dopo 10 anni; e quasi sono riconoscenti allo Stato che loro garantisce per un decennio il 4 per cento. In realtà, il prestito è emesso al tipo 3 e 1/2 per cento, con un premio del 0.50 per cento per 10 anni, il quale ha per intento di invitare i capitalisti ad accogliere con favore la proposta di mutuo che viene ad essi fatta.

 

 

Sezione terza

I metodi della conversione

 

758. Dei diversi tipi di conversione e loro classificazione. Fin qui si è parlato di conversione in genere, supponendo che di essa vi fosse una sola specie, consistente nel dilemma noto posto dallo Stato ai suoi creditori: o consentire alla riduzione dell’interesse ovvero acconciarsi alla restituzione del capitale mutato. E questa invero è la maniera tipica di conversione, che si direbbe anche classica, di cui le altre sono semplici variazioni. Le quali sono numerosissime; o volendole discorrere tutte, si andrebbe troppo per le lunghe. Giova perciò limitarsi alle principali, classificandole, per chiarezza, nella maniera seguente:

 

 

  • A) Conversione libera con opzione o scelta obbligatoria:
    • a) a forma tipica o classica, coll’offerta pura e semplice del dilemma già esposto;
    • b) variazioni della forma classica, intese ad agevolare il consenso dei creditori alla riduzione dell’interesse:
      • con premio,
      • con due cuponi o tagliando,
      • in due tempi,
      • con garanzia di immunità da ulteriori conversioni per un dato periodo di tempo;
      • c) combinazioni della conversione con una variazione del capitale del mutuo:
        • col pagamento di un saldo,
        • sotto la pari.

 

 

  • B) Conversione libera senza obbligo di scelta.

 

 

Il carattere comune dei due tipi di conversione in (A) e in (B) è la libertà lasciata ai capitalisti di accettare o respingere la riduzione dell’interesse. Se costoro non fossero liberi, non si avrebbe infatti conversione, bensì ripudio del debito. Carattere differenziale è questo: che in (A) lo Stato lascia bensì liberi i creditori di accettare o respingere la riduzione dell’interesse, ma, in caso di rifiuto, restituisce loro il capitale mutuato; sicché essi, per il timore di non sapere come reimpiegarlo sono «persuasi» – e la persuasione è fatto volontario, derivante da un confronto di danni e vantaggi, non una determinazione imposta dalla forza della legge – ad accettare la riduzione degli interessi, od almeno il governo spera che così si persuadano; mentre in (B) lo Stato non solo lascia liberi i creditori di accettare o respingere la riduzione; ma in caso di rifiuto non rimborsa il capitale mutuato, seguitando invece a pagare l’interesse antico, sicché i creditori debbono essere persuasi all’accettazione da qualche speranza o vantaggio che loro si prometta.

 

 

Il tipo (A), che è quello più comunemente seguito, può dar luogo a parecchie deviazioni dalla forma tipica o classica, di cui qui saranno studiate due sole specie: l’una delle quali (in b) ha per iscopo di offrire qualche vantaggio a coloro che accettano la riduzione degli interessi, sì da agevolare grandemente questa accettazione, mentre l’altra (in c) intende a variare, insieme col tasso dell’interesse, la massa del debito capitale dello Stato.

 

 

759. La conversione a forma tipica o classica è ottima per la sua semplicità e più facilmente si impone ai capitalisti. – Della forma tipica o classica (A a) di conversione, dopo quanto si è lungamente detto, non v’è altro di nuovo da dire, se non che essa è la più franca e per conseguenza l’ottima fra tutte. Lo Stato non tergiversa, non cerca di oscurare il fatto centrale, che è la riduzione dell’interesse, con deviazioni, con aggeggi, con promesse di favori ai creditori. Ma dice apertamente: chi non accetta la riduzione dell’interesse dal 4 al 3 e 1/2 per cento si compiaccia di venire a ritirare il capitale che esso ha mutuato. Questo linguaggio chiaro e franco piace e, se non piace, convince. Il creditore può non essere lieto della riduzione dell’interesse; ma sa che non gli rimane altro scampo fuorché di andare a ritirare il capitale. Preso di fronte, egli quasi sempre, per non dire sempre, accetta la riduzione dell’interesse; purché, s’intende, esista di fatto la condizione unica necessaria e sufficiente al successo dell’operazione, ossia purché il tasso dell’interesse corrente sul mercato per impieghi dello stesso genere sia disceso al 3 e 1/2 per cento.

 

 

760. Dei vantaggi che, pur nella forma classica, si promettono ai creditori i quali accettano la conversione: del premio e del doppio cupone. – Non sono però da biasimare quei governanti i quali, per rendere più sicuro il successo della conversione, cercano di addolcire l’amaro della diminuzione degli interessi con il dolce di qualche vantaggio largito ai creditori acquiescenti. L’educazione economica non è tanto progredita in tutti i ceti dei capitalisti da essere questi capaci di fare freddamente il calcolo della convenienza di accettare o respingere l’offerta dello Stato. Ricordiamo quanto fu sovra detto ripetute volte (cfr. ad es. par. 598) intorno alla discesa dei titoli di debito pubblico in strati sempre più profondi della popolazione, ed alla educazione economica che viene fatta per i primi da quei titoli, veri pionieri degli investimenti mobiliari. Si comprende perciò come possa essere conveniente di aggiungere alla proposta pura e semplice del dilemma qualche offerta di vantaggio a favore dei capitalisti annuenti alla riduzione dell’interesse, la quale valga a far traboccare la bilancia del giudizio, prima incerta, a favore della accettazione della riduzione degli interessi.

 

 

Alcuni di questi vantaggi, promessi a chi si acconcia alla riduzione degli interessi, sono semplicissimi:

 

 

  • si promette, ad esempio, un premio di 1 lira a favore dell’accettante. Cosicché chi ha un titolo antico da 100 lire al 4 per cento riceve in cambio un titolo nuovo da 100 lire al 3 e 1/2 per cento, più una frazione di un centesimo di un titolo da 100 lire pure al 3 e 1/2 per cento. Siccome i possessori di un solo titolo da 100 lire non sono molto numerosi, il premio non è causa di difficoltà pratiche. Chi ha un titolo vecchio da 10.000 lire al 4 per cento, riceverà due titoli, uno da 10.000 e l’altro da 100 lire, in totale 10.100 lire al 3 e 1/2 per cento, con un guadagno di capitale di 100 lire. Le frazioni di 100 lire possono essere pagate in contanti per semplicità. Il venditore in tal modo ha due vantaggi: 1) un aumento del valor capitale nominale o di rimborso del titolo; 2) il diritto di riscuotere il nuovo interesse del 3,50 per cento su 10.000 lire di capitale, cosicché il reddito suo non diminuisce da 400 a 350 lire, ma da 400 a 353,50. Può darsi che cotal vantaggio faccia traboccar la bilancia ed induca anche i più restii ad accettare la riduzione. Il premio spesso, invece di essere pagato in titoli, è pagato in denaro ed in tal caso il capitalista il quale nel 1914 aveva ricevuto il 4 per cento, nel 1915 riceverà, ad esempio, il 3,50 per cento di interesse più, per una volta tanto, l’1 per cento di premio, ed in tutto il 4,50 per cento. Per lo Stato ciò, in fondo, equivale a rinviare il beneficio della conversione al 1917, poiché il minor interesse dello 0,50 per cento pagato nei due anni 1915 e 1916 è compensato dall’onere del premio dell’1 per cento; e se desso è necessario alla buona riuscita della conversione, questa non può dirsi comperata a troppo caro prezzo.
  • il premio medesimo prende talvolta il nome di attribuzione ai creditori annuenti di un doppio cupone o tagliando. Sia un titolo 4 per cento, del quale nel dicembre del 1913 si offre la conversione, con preavviso di 6 mesi, al 3,50 per cento. Il preavviso di 6 mesi vuol dire che l’interesse al 3,50 per cento comincerà a decorrere dall’1 luglio 1914, ed il cupone semestrale[4] al 3 e 1/2 sarà quello del semestre luglio-dicembre 1914, pagabile l’1 gennaio 1915. Lo Stato, a facilitare la conversione promette al creditore accettante che il 1 gennaio 1915 gli sarà pagato un doppio semestre, quello antico di 2 lire (al 4 per cento annuo) e quello nuovo di L. 1,75 (al 3,50 per cento annuo). Più spesso si promette solo un «mezzo» semestre in più, ossia 1 lira di premio. La forma varia; ma la sostanza è sempre quella di un premio promesso per persuadere il creditore a seguire la via preferita dallo Stato.

 

 

761. Del metodo della conversione in due tempi – La conversione inglese Goschen del 1888 e quella italiana del 1906 – Fondamento psicologico di questa maniera di conversione. – Anche ha la stessa indole il metodo che si dice della conversione in due tempi, che fu seguito nelle celebri conversioni inglese ed italiana. Nel 1888 il Goschen, cancelliere inglese dello scacchiere, e ben noto fra gli economisti per la sua classica «Teoria dei cambi esteri», deliberò di convertire il consolidato inglese 3 per cento, di cui era in circolazione una massa di quasi 560 milioni di lire sterline, quasi 14 miliardi di lire nostre, in un nuovo tipo 2 e 1/2 per cento. Ma poiché il trapasso dal 3 al 2,50 per cento sarebbe parso troppo brusco, il Goschen deliberò di compiere la riduzione in due tempi, cominciando a ridurre dopo un anno l’interesse dal 3 al 2 e tre quarti, salvo a dichiarare subito che l’interesse si sarebbe ridotto automaticamente, dopo altri 14 anni, e cioè nel 1903 al 2 e 1/2 per cento. Ad avvalorare la propensione dei creditori ad accettare tale proposta, fu loro promesso altresì che per 35 anni dall’1 marzo 1888 e cioè sino al 1923 non si sarebbe operata alcuna ulteriore riduzione. La conversione riuscì assai bene, poiché il rimborso fu chiesto soltanto da 41,25 milioni di lire sterline, ossia da circa un quattordicesimo parte del totale capitale del debito convertito.

 

 

L’Italia, con legge del 29 giugno 1906, seguì lo stesso sistema. Il capitale da convertire era di 8.100 milioni al 4 per cento. Si offrì di rimborsare il capitale a quelli che non accettavano la conversione in 3 e tre quarti per cento a partire dall’1 gennaio 1907 e cioè a partire dal cupone dell’1 luglio 1907 e contemporaneamente la successiva riduzione, dopo cinque anni, ossia a partire dal cupone 1 luglio 1912, al 3,50 per cento; ed ancora si promise immunità da ulteriori conversioni sino al 1920. Ad assicurare l’esito della conversione, il governo istituì due consorzi bancari, uno estero, il quale aveva un fondo di garanzia di 400 milioni, ed uno interno, con un fondo di 700 milioni, per essere in grado di soddisfare ad ogni domanda di rimborso che fosse presentata. Non vi fu bisogno di servirsi di cotal fondo, perché le domande di rimborso salirono appena ad un capitale di L. 4.689.700, di cui 3.087.800 all’estero e L. 1.661.900 all’interno. Né si capisce perché vi siano stati dei portatori, i quali abbiano chiesto il rimborso a 100 lire, quando i corsi di borsa dal 2 al 7 luglio, giorni nei quali si poteva dare la disdetta, non scesero a Parigi mai al disotto di 102, ed i due consorzi comparavano, a quei prezzi, quanti titoli fossero venuti sul mercato. Le compre fatte dai consorzi giunsero del resto appena a L. 48.818.600, di cui 16.549.600 all’estero e L. 32.276.500 in Italia. In tutto, tra rimborsi ed acquisti dei consorzi, si giunse ad un rimborso di poco più di 53 milioni di lire, circa 1/153 parte della massa totale del debito da convertire. Il successo della conversione italiana si può dire sia stato ancor più brillante di quello della conversione inglese.

 

 

Tecnicamente, il metodo della conversione in due tempi, può dirsi della conversione con premio scalare differito. Lo Stato italiano poteva invero offrire ai suoi creditori l’immediata riduzione dell’interesse dal 4 al 3.50 per cento, a partir dal cupone 1 luglio 1907, con un premio agli accettanti di L. 1,25 per una volta tanto. Preferì frazionare tale premio «unico» di L. 1,25 in 5 annualità da L. 0,25 o, meglio, in 10 semestralità da L. 0,125 aumentando d’altrettanto il cupone, e chiamando «per cinque anni» il titolo col nome di consolidato 3,75 per cento.

 

 

In realtà ai creditori sarebbe stato preferibile ricevere «subito» il premio di L. 1,25 in una volta sola, consentendo alla immediata riduzione dell’interesse al 3,50 per cento, anziché riceverlo diluito in dieci semestralità successive di L. 0,125, la somma «aritmetica» delle quali è bensì di L. 1,25, ma il cui valore «attuale» è minore di L. 1,25 per tutto l’ammontare degli interessi che si perdono ritardando a ricevere le successive frazioni di L. 0,125. Ma gli ideatori della conversione in due tempi fecero un sottile calcolo psicologico, quando videro che i capitalisti in media avrebbero preferito ricevere il meno, ossia dieci semestralità da L. 0,125, invece «del più», ossia di L. 1,25 una volta tanto. Imperocché ricevere, per ogni 100 lire, «un aumento di capitale» di L. 1,25 sembra ai più scarso beneficio, quando lo si metta in rapporto con la immediata riduzione del reddito dal 4 al 3,50 per cento. Nessuno aveva chiesto «l’aumento del capitale» e tutti invece potevano spaventarsi «della diminuzione del reddito». A far sembrare questa diminuzione minore, fu abile accorgimento trasformare il premio unico in capitale in un premio ripetuto avente «sembianza» di reddito; sicché il capitalista si illudesse di veder diminuito il proprio reddito di poco, appena di una sedicesima parte, dal 4 al 3,75 per cento, mentre una diminuzione immediata di un’ottava parte, dal 4 al 3,50 per cento sarebbe sembrata troppo dolorosa. È vero che, «dopo cinque anni», doveva verificarsi un’ulteriore diminuzione di un sedicesimo, dal 3,75 al 3,50 per cento; ma chi pensa a ciò che accadrà fra 5 anni? Intanto si poteva continuare a godere il reddito del 3,75 per cento.

 

 

Il quale accorto calcolo psicologico prova quanto gli uomini, in media, vedano poco lontano e come siano incerti i contorni delle nozioni di «capitale» e di «reddito» se è così facile trasformarle l’una nell’altra nella mente dei capitalisti.

 

 

Notisi che non pochi di costoro immaginarono di aver diritto, dopo 5 anni, a non dare il proprio consenso alla riduzione dell’interesse dal 3,75 al 3,50 per cento, chiedendo, allora, il rimborso delle 100 lire di capitale, se ciò fosse loro convenuto. Il che era un manifesto errore; poiché la conversione «si attua» bensì in due tempi, ma è «accettata» compiutamente subito, la prima volta; e perciò si dice che la seconda riduzione, in Italia dal 3,75 al 3,50 per cento si attua automaticamente, senza che più faccia d’uopo chiedere il consenso ai creditori.

 

 

762. Alla conversione in due tempi si obbietta che il suo vantaggio, essendo ripartito in due volte, facilmente può essere sperperato. A questa maniera di conversione si mossero alcune obbiezioni, di cui la prima consiste nel fatto che il frutto di essa per l’erario, essendo ripartito in due volte, pare meno cospicuo e più facilmente può essere sperperato. Così in Inghilterra, il lucro della conversione Goschen, che, se fosse stato del 0,50 per cento, sarebbe stato di 70 milioni di lire l’anno circa (0,50 per cento su 14 miliardi di lire) risparmiate per minori interessi, fu invece di 35 milioni nel 1889 e di altri 35 nel 1903. In Italia, del pari, il tesoro invece di risparmiare 40 milioni all’anno, ne risparmiò 20 a partire dall’1 luglio 1907 ed altri 20 all’anno dopo il 1 luglio 1912. Il risparmio di 70 milioni l’anno in Inghilterra e di 10 in Italia si ebbe ugualmente, ma si ebbe in due dosi successive. E, dicono gli obbiettatori, con 40 milioni di risparmio disponibile l’anno si sarebbe potuto fare qualche bella riforma tributaria; mentre i 20 milioni di risparmio parvero, ogni volta che s’ottennero, piccola cosa ed andarono dispersi in piccoli ed inutili aumenti di organici e di stipendi ai pubblici parassiti.

 

 

L’obbiezione non è conforme ai fatti poiché, almeno nel 1907, il risparmio di 20 milioni giovò a ridurre da 48 a 16 lire a quintale il dazio sul petrolio. Ma fosse anche esatta, non è una critica al metodo usato nella conversione, bensì al malo uso che si può fare dei frutti di essa; e questi possono essere buoni o cattivi, qualunque sia il metodo tenuto nella conversione, a seconda che sul governo premano maggiormente gli interessi pubblici generali o gli interessi parassitari o particolari. Ove quelli prevalgono, i governanti sanno utilizzare a vantaggio comune persino le briciole dei bilanci; ove dominano i parassiti, non basterebbero le centinaia di milioni a saziarne la ingordigia.

 

 

763. Si obbietta ancora che il secondo momento della conversione può cadere in un periodo poco favorevole alla finanza e può esacerbare la tendenza dei titoli pubblici al ribasso – Confutazione di questa critica Un’altra obbiezione, mossa dal metodo della conversione in due tempi, è che il secondo momento della conversione può cadere in un periodo poco favorevole della pubblica finanza; ed allora la riduzione automativa dell’interesse esacerba ed accelera la tendenza, che avevano già i titoli pubblici al ribasso. E si cita l’esempio dell’Inghilterra, dove la riduzione dal 2 e 3/4 al 2 e 1/2 per cento coincise con la liquidazione della guerra anglo- boera e con la necessità di emettere nuovi prestiti, necessità che già tendeva a far ribassare il prezzo dei vecchi consolidati, i quali ancor più ribassarono, per la automatica riduzione del loro frutto. E si ricorda l’esempio dell’Italia, dove, si disse, fu miracolo se la seconda riduzione dal 3 e 3/4 al 3 e 1/2 per cento, avvenuta il 1 luglio 1912 in coincidenza con la guerra libica e con l’emissione di buoni del tesoro 4 per cento, non fece ribassare notevolmente il prezzo della rendita in borsa.

 

 

Nella obbiezione ora fatta si mescolano i soliti errori, già ripetutamente rilevati. Innanzitutto il fatto che, mentre si dovevano emettere «nuovi» prestiti, accidentalmente si riduceva il frutto di «vecchi» prestiti non poteva avere alcuna influenza sul prezzo di emissione e sul tasso di interesse dei nuovi prestiti. Quando Stati e capitalisti nel 1903 in Inghilterra, o nel 1912 in Italia, contrattarono le condizioni dei nuovi prestiti, non si preoccuparono affatto di circostanze d’ordine «storico», relative al «passato», sibbene di circostanze «presenti». Si badò al tasso vigente nel 1903 o nel 1912 nei diversi paesi; e sulla base di esso si emisero nuovi prestiti. I vecchi prestiti avrebbero potuto essere in Inghilterra all’1 per cento e quotati 30 lire, né Stato e capitalisti se ne sarebbero preoccupati per trarne argomento a nuove missioni di titoli 1 per cento, che era manifestamente un tasso assurdo in quell’epoca.

 

 

Ma il corso di borsa dei titoli di Stato è un indice, si replica, del credito dello Stato; epperciò a questo conviene che i corsi siano alti.

 

 

Alto o basso, rispondiamo noi, sono parole prive di senso, se non si rapportano ad un tasso di interesse. È più alto un titolo 2,50 per cento a 91 che un titolo 2,75 per cento a 100; poiché la regola delle proporzioni dimostra che se il titolo 2,75 vale 100 lire, il titolo 2,50 per cento dovrebbe valere, per dare lo stesso reddito, soltanto 90.90. Quindi un corso di 91 o 92 o meglio 95 per un titolo 2.50 per cento è, malgrado l’apparenza contraria, testimonianza di un credito più elevato dello Stato che non un corso di 100 per un titolo 2,75 per cento. Il feticismo del pari è irragionevole, trattandosi di prestiti antichi, già «emessi»; e solo è logico per i prestiti nuovi, i quali non conviene emettere al di sotto della pari (cfr. par. 674).

 

 

Un altro errore che si nasconde nella obbiezione sovra ricordata consiste nel credere che la riduzione automatica dal 2 e 3/4 al 2 e 1/2 per cento in Inghilterra nel 1903 o dal 3 e 3/4 al 3 e 1/2 per cento in Italia nel 1912 debba produrre nel 1903 o nel 1912 per effetto un ribasso corrispondente dei prezzi capitali del titolo di borsa. Sembrerebbe che i capitalisti inglesi dovessero fino al 1903 valutare il loro consolidato sulla base di un reddito del 2 e 1/2 per cento; e sembrerebbe quindi che, se essi valutavano 100 il 2 e 3/4 per cento, dovessero valutare 90,90 il 2 e 1/2 per cento. Mentre in realtà il 1903 od il 1912 furono anni di mutamento nella valutazione dei titoli convertiti solo per i detentori smemorati ed ignoranti. Soltanto costoro poterono seguitare fino al 1903 od al 1912 a valutare il consolidato inglese od italiano come se rendessero 2 e 3/4 o 3 e 3/4 per cento; e soltanto essi poterono quindi in quell’anno improvvisamente scoprire che possedevano invece un titolo 2 e 1/2 o 3 e 1/2 per cento, dandogli una valutazione in capitale minore di prima. Coloro però che, smemorati od ignoranti non erano, sapevano ben prima, e cioè fin dal 1888 o dal 1906 rispettivamente, che essi possedevano in realtà solo un titolo 2 e 1/2 o 3 e 1/2 per cento, con annesso un premio scalare di 28 o 10 semestralità di L. 0,125 l’una. Quindi fin da prima essi valutavano il titolo sulla base di un reddito del 2 e 1/2 o 3 e 1/2 per cento con aggiunta equivalente al valore attuale dei premi di L. 0,125 ancora da percepire, aggiunta che scemava a mano a mano che si esigevano i premi, sino a ridursi a zero sei mesi prima della riduzione automatica del cupone. È dimostrato perciò che la riduzione automatica dell’interesse dal 2 e 3/4 e 3 e 3/4 al 2 e 1/2 e 3 e 1/2 non poteva nel 1903 e 1912 produrre per sé medesima né in Inghilterra né in Italia alcuna diminuzione nel valor di borsa del titolo, poiché quel valore s’era già prima a poco a poco ridotto sino a corrispondere al tasso puro del 2 e 1/2 o 3 e 1/2 per cento. Se in Inghilterra il corso di borsa del 2 e 1/2 per cento nel 1903 ribassò, ed in Italia il corso del 3 e 1/2 per cento nel 1912 rimase fermo, ciò avvenne per cause tutt’affatto diverse dalla riduzione automatica dell’interesse, la quale non poteva avere alcun rapporto logico con le variazioni successive dei corsi di borsa. A meno, di supporre – ma l’ipotesi per fermo sembra esagerata – smemorati od ignoranti i detentori dei titoli convertiti.

 

 

Naturalmente, essendo dimostrato che la seconda riduzione non poteva avere alcun logico effetto sui corsi di borsa sui titoli convertiti, riesce rincalzata la dimostrazione che a fortiori quell’effetto non poteva avere sui titoli ancora da emettere.

 

 

764. Ai creditori accettanti si promette spesso l’immunità temporanea da ulteriori conversioni. – Incidentalmente, si disse sovra che in Inghilterra nel 1888 ed in Italia nel 1906, si credette opportuno di promettere fino al 1923 e 1920 rispettivamente ai portatori dei titoli convertiti l’immunità da ogni ulteriore conversione. È questo uno dei vantaggi che si sogliono più frequentemente promettere in premio a coloro che accettano la riduzione dell’interesse. Nell’atto di chiedere il consenso alla riduzione del reddito dal 3 al 2 e 1/2 o dal 4 al 3 e 1/2 per cento si promette di non inquietarli più per alquanto tempo, astenendosi temporaneamente da ulteriori riduzioni al disotto del 2 e 1/2 o del 3 e 1/2 per cento. È una promessa che rallegra alquanto l’animo mesto dei possessori dei titoli, poiché, nell’attimo in cui il loro reddito viene falcidiato, ricevono una guarentigia contro ulteriori falcidie per alquanti anni. Ed è promessa, la quale costa poco agli Stati, essendo difficile che si presentino presto le occasioni di ridurre l’interesse al disotto del livello appena ora ribassato. La tendenza al ribasso nel tasso dell’interesse non si attua sempre con tale costanza e continuità, da far prevedere conversioni ad ogni piè sospinto. Di fatto, ai periodi di ribasso succedono periodi di rialzo nel tasso dell’interesse; ed in uno di questi periodi di rialzo oggi viviamo, sicché Inghilterra ed Italia non risentono nessun danno dalla fatta promessa di non far nuove conversioni al disotto del 2 e 1/2 o 3 e 1/2 prima del 1923 o 1920, nessuna speranza razionale essendovi di potere prima di quell’epoca osare conversioni.

 

 

765. Le conversioni connesse con la trasformazione del capitale del prestito – Della proroga delle conversioni mercé il pagamento di un saldo o multa – Loro scarsa convenienza. Talvolta le conversioni danno modo ai governi di rimaneggiare il capitale nominale del prestito; poiché la conversione non si compie nella forma classica, tutt’al più con l’aggiunta di qualche vantaggio ai creditori annuenti; ma è nello stesso tempo conversione e trasformazione del prestito. Si daranno due soli esempi di tali conversioni, di cui le specie sono innumere.

 

 

Il primo esempio è quello della conversione «col pagamento di un saldo» da parte dei capitalisti. Sia un titolo 4 per cento che si potrebbe convertire al 3 e 1/2 per cento, perché quest’ultimo è il tasso di interesse corrente sul mercato. Anzi il governo pone il consueto dilemma ai portatori: o rimborso del capitale od accettazione dell’interesse ridotto. Ma il dilemma aggiunge una terza proposta. Chi voglia accettare la conversione, ma nel tempo stesso conservare per un dato numero di anni, per es., 10 anni, l’antico reddito del 4 per cento, paghi una somma a saldo, quasi si potrebbe dire una multa. Contabilmente l’operazione si riduce a ciò: che il vecchio titolo 4 per cento viene trasformato in un nuovo 3 e 1/2 nella solita maniera; ma ai portatori si dà un «buono di godimento», senza indicazione di somma capitale e che dà soltanto diritto ad esigere L. 0,50 per cento all’anno per 10 anni. Per ottenere questo buono, i portatori devono pagare un prezzo, il quale è facilissimo da calcolare, essendo il valore attuale di una annualità di 0,50 all’anno per 10 anni, scontata all’interesse del 3,50 per cento. Questo valore, come insegnano i prontuari, è di L. 4,16.

 

 

Se il prestito fosse di 1 miliardo, lo Stato in caso della sua rinuncia ad attuare la conversione dal 4 al 3,50 per cento per dieci anni – a questo poi si riduce la conversione in 3,50 per cento colla consegna di un buono di godimento decennale del 0,50 per cento – potrebbe ottenere un «saldo o multa o prezzo» di L. 4,16 per ogni 100 lire di valore nominale del debito, ossia in tutto L. 41.600.000.

 

 

Se lo Stato ha bisogno di questa somma, può anche scegliere questo metodo per indebitarsi; dal punto di vista del tesoro essendo invero questo un debito ammortizzabile in 10 anni al tasso del 3 e 1/2 per cento. Lo Stato cioè, per procurarsi 41.600.000 lire a prestito, si obbliga a pagare ogni anno sul vecchio debito di 1 miliardo 40 invece dei 35 milioni che, dopo la conversione, avrebbe diritto di pagare, ossia 5 milioni di lire all’anno in più per 10 anni, che è esattamente l’annualità necessaria ad estinguere al 3 e 1/2 il debito di L. 41.600.000.

 

 

Tutto ciò però è complesso; ed è probabile che molti tra i creditori non ne comprendano il congegno. Per farlo entrar loro nella testa, lo Stato probabilmente dovrebbe contentarsi di un prezzo o multa minore di L. 4,16, per es., 4 lire o 3,50 o 3 lire. Quanto minore è la multa pagata dal capitalista, tanto maggiore diventa il danno per lo Stato. Ed anche quando questo riducesse assaissimo le sue pretese, ben difficilmente riuscirebbe a togliere di capo ai creditori che essi sono state vittime di un sopruso.

 

 

Perché, diranno i più tra loro, farci pagare una multa di 3 o 4 lire, quando già pagammo il prezzo del nostro titolo? Né gioverebbe far riflettere loro che la multa sarebbe pagata per continuare a godere per 10 anni le 4 lire invece delle 3,50. La conversione a lunga scadenza non persuade o meglio persuade che il governo non ha coraggio abbastanza a compierla. Sicché essa è sconsigliabile.

 

 

766. Delle conversioni sotto la pari e come non siano convenienti. – Né più consigliabile è un’altra maniera di conversione, che dicesi sotto la pari. Sia un titolo 4 per cento negoziato alla pari. Un titolo 3 per cento, che avrebbe il valore di parità (cfr. par. 671) di L. 75, è invece negoziato ad 85 lire in borsa. Il governo offre ai portatori del titolo 4 per cento, di cui fu emesso 1 miliardo, i quali non desiderino il rimborso del capitale, un titolo 3 per cento da 100 lire nominali calcolato ad 85 lire, più una frazione del medesimo titolo 3 per cento del valore nominale di 17,65 ed effettivo di L. 15. L’operazione produce i seguenti risultati per lo Stato:

 

 

Prima della conversione: titolo 4 per cento

Capitale nominale del debito Valore effettivo di borsa Interesse annuo pagato dallo Stato
L. 1.000.000.000 L. 1.000.000.000 L. 40.000.000

Dopo la conversione: titolo 3 per cento

L. 1.000.000.000 L. 850.000.000 L. 30.000.000
L. 176.500.000 L. 150.000.000 “ L. 5.295.000
L. 1.176.500.000 L. 1.000.000.000 L. 35.295.000

 

 

Il creditore può accettare la conversione, poiché il valore effettivo di borsa del titolo 3 per cento che gli viene consegnato è uguale a quello del vecchio 4 per cento; ed è vero che vede diminuire l’interesse dal 4 al 3.5295 per cento, ma aumenta il valore nominale del titolo da 100 a 117,65 lire ed ha la speranza che, col tempo e con lo scemare progressivo del tasso dell’interesse, anche il valore effettivo del suo titolo tenderà a salire sino a toccare il prezzo di L. 117,65.

 

 

Ma per gli stessi motivi la operazione non pare conveniente allo Stato; il quale paga bensì L. 35.295.000 all’anno di interessi in cambio di 40 milioni di lire, ma si carica di un debito capitale di L. 176.500.000 di più, in caso di rimborso, dovranno essere pure pagate; e rinvia la probabilità di una nuova conversione sino all’epoca, forse lontanissima, in cui il tasso dell’interesse ribasserà al disotto del 3 per cento.

 

 

Sono insomma i ben noti inconvenienti delle emissioni al disotto della pari (cfr. par. 672 e seg.); né diventano minori perché in essi si incorre in occasione di conversioni. Miglior partito sembra rinunciare all’ubbia di convertir d’un tratto il prestito 4 per cento in un 3 per cento e contentarsi di una conversione in un 3 e 1/2 per cento, ma fatta alla pari od al più con un piccolo premio atto a lenire il dolore del capitalista per la minorazione dei suoi redditi. Riescono le conversioni che sono semplici e chiare. Quelle che sono troppo complicate od in cui si vuole innestare un nuovo prestito sulla conversione di un prestito vecchio suscitano diffidenza ed hanno successo soltanto a prezzo di troppo grave sacrificio per l’erario.

 

 

767. Delle conversioni nelle quali non si impone ai creditori la scelta fra il rimborso del capitale e la riduzione degli interessi – Sono indice di scarso coraggio dei governi e sono votate all’insuccesso – La conversione Villéle in Francia nel 1825 – La tentata conversione in Italia delle obbligazioni ferroviarie nel 1902 – Insegnamenti di questi insuccessi.

 

 

Così pure sono votate all’insuccesso le conversioni, le quali mancano di coraggio; e son quelle in cui al capitalista non viene imposto l’obbligo della scelta fra il rimborso del capitale e la accettazione del minor interesse (tipo B della classificazione). Lo Stato cioè dice al capitalista possessore di un titolo 4 per cento: «tu faresti cosa a me gradita, contentandoti di ricevere il 3 e 1/2 per cento e rinunciando volontariamente al 1/2 per cento di interesse che ti spetta; e se tu consentirai alla mia proposta ti darò un premio, ad es., ti assicurerò che per 10 o 20 anni io non penserò a convertire il tuo titolo, cosicché potrai goderti tranquillamente il reddito del 3 e 1/2 per cento, mentre l’odierno reddito del 4% è sempre soggetto al pericolo di essere convertito in un 3 per cento o 3 e 1/4 o forse anco 3 per cento». Questo linguaggio è privo di efficacia.

 

 

Il capitalista sente il bel discorso con cui si vuole dimostrare che un reddito del 3 e 1/2 per cento è preferibile ad un reddito del 4 per cento, ma non resta convinto, poiché per quante dimostrazioni elaborate e dotte gli si diano, nel suo cervello grosso e semplice s’è ficcata un’idea: che sia una quantità maggiore di 3 e 1/2; epperciò egli conserva il vecchio 4 per cento e non accetta il nuovo titolo che gli viene offerto. A poco valgono le minacce larvate di punirlo della sua ostinazione nel tenere il 4 per cento con una conversione futura al 3 per cento; poiché egli ragiona: se lo Stato avrà la forza di offrirmi in avvenire il rimborso del capitale, se non mi contenterò dell’interesse del 3 per cento, perché non osa adesso offrirmi il rimborso delle 100 lire ove io mi ostini a non accettare il 3 e 1/2 per cento? Se ciò non osa, la ragione deve essere che lo Stato teme di vedersi presentate troppe domande di rimborso, a cui non potrà far fronte; e, se siffatto timore esiste, una conversione dal 4 al 3 e 1/2 per cento non risponde alla realtà dei fatti, non soddisfa cioè alla condizione dell’essere il tasso dell’interesse ribassato al 3 e 1/2 per cento. Se fosse ribassato, lo Stato non avrebbe invero alcun timore di offrirci il rimborso del capitale ben sapendo che noi non sapremmo reimpiegarlo a più del 3 e 1/2 per cento. Il timore di offrirci il rimborso nasce dalla consapevolezza che noi saremmo in grado di reimpiegare il capitale al 3 e 3/4 o forse anche al 4 per cento, cosicché nessuno vorrebbe accettare la riduzione al 3 e 1/2 e tutti chiederebbero la restituzione del capitale. Vana minaccia è dunque quella di ridurre in avvenire al 3 per cento l’interesse di chi oggi si rifiuti ad accettare il 3 e 1/2, perché fatta da chi oggi non osa minacciare il rimborso del capitale.

 

 

Le osservazioni ora fatte trovano conferma nella storia degli insuccessi di queste conversioni proposte ai creditori senza obbligo di scelta tra il rimborso del capitale e la riduzione degli interessi e col diritto riconosciuto ai creditori di serbare il vecchio titolo che si pretende di convertire.

 

 

Forse il più celebre esempio di conversione senza obbligo di scelta fu quello che prende il nome dal signor de Villéle, ministro delle finanze in Francia durante la restaurazione. Con legge votata il 1 maggio 1825 egli propose ai portatori del debito 5 per cento, di cui la massa giungeva a 2.800.000.000 franchi in capitale ed a 140 milioni in interessi la scelta fra:

 

  • tenersi il vecchio titolo 5 per cento, e rimanere sotto la «minaccia» di una «prossima» conversione vera e propria, a tipo classico, con l’obbligo di scelta fra il capitale e la riduzione degli interessi;
  • accettare il nuovo titolo 4 e 1/2 per cento, garantito contro il rimborso del capitale e quindi contro ogni conversione fino al 22 settembre 1835;
  • accettare un nuovo titolo 3 per cento, al corso di 75 franchi, ossia ricevere, per ogni 100 franchi del vecchio 5 per cento, 133 e 1/3 franchi in capitale nominale del nuovo 3 per cento, che al corso di 75 per cento equivalevano precisamente ai 100 franchi del vecchio titolo. Siccome l’interesse del 3 per cento su 133 e 1/3 franchi equivale a 4 franchi, così i portatori, accettando questo partito, avrebbero subito una riduzione degli interessi da 5 a 4 franchi, ma avrebbero avuto il vantaggio di un aumento nel capitale «nominale» da 100 a 133 e 1/3 franchi, con tutti i vantaggi dei titoli al disotto della pari, che già conosciamo (cfr. par. 671 e segg. e 766).

 

 

Fra questi tre partiti, i portatori preferirono in gran maggioranza il primo: su 140 milioni di rendite 5 per cento (in interesse) ben 108.276.044 franchi furono conservati al tipo 5 per cento, ché i loro possessori non si diedero soverchio pensiero della minaccia di prossima conversione. Gli uomini sono per lo più ingordi dei benefici immediati e poco si preoccupano dei rischi e dei benefici futuri (cfr. par. 674).

 

 

Il secondo partito, della conversione in un titolo 4 e 1/2 per cento, fu accettato solo per 1.149.840 franchi di vecchie rendite 5 per cento, che furono così convertite in nuove rendite 4 e 1/2 per cento per l’ammontare di 1.034.764 franchi. È chiaro che l’offerta dell’assicurazione contro future conversioni sino al 22 settembre 1835 parve un vantaggio troppo piccolo alla quasi totalità dei capitalisti.

 

 

Il terzo partito fu invece accettato per 30.574.116 franchi di vecchie rendite 5 per cento, le quali furono così convertite in 24.459.035 franchi di nuove rendite 3 per cento. Ed è probabile che i capitalisti i quali accettarono questo terzo partito siano stati i più previggenti di tutti, ed avessero saputo fare i ragionamenti svolti dianzi (cfr. par. 672 e segg.) coi quali si dimostra che «per i capitalisti» i prestiti sotto alla pari sono più vantaggiosi dei prestiti alla pari. Certo è che costoro godono oggi (1913) per intiero la rendita 3 per cento che fu loro assegnata nel 1825 e probabilmente la godranno ancora per lunghi anni; mentre coloro che si tennero il 5 per cento od accettarono il 4 e 1/2 per cento dovettero subire falcidie tali, con successive conversioni, che oggi il loro reddito è appena del 3 per cento. Con questa differenza fra coloro che accettarono il 3 per cento e coloro che tennero il 5 o chiesero il 4 e 1/2 per cento; che questi ultimi ricevono il 3 per cento su un capitale nominale di 100 franchi, mentre i primi ricevono il 3 per cento su un capitale nominale di 133 e 1/3 per cento.

 

 

Cosicché si può concludere che la conversione Villele riuscì solo in parte, ma dove riuscì, procacciò danno allo Stato; mentre fu per la maggior parte dei titoli da convertire un insuccesso.

 

 

In Italia parecchie di queste conversioni, che si potrebbero anche chiamare «facoltative»[5], furono decretate dal parlamento per taluni piccoli prestiti, specialmente redimibili, per cui non si reputava aver diritto ad offrire anticipatamente il rimborso del capitale; con successo vario, a seconda dei vantaggi offerti ai creditori.

 

 

Il più noto esempio fu quello che prende il nome del ministro del tesoro Di Broglio, che nel 1902 ne fece approvare la proposta dal Parlamento.

 

 

Volevansi convertire le obbligazioni ferroviarie 3 per cento da 500 lire nominali, emesse, per conto dello Stato, dalle tre società esercenti, la Mediterranea, la Adriatica e la Sicula, le quali importavano allo Stato un onere annuo di L. 15 lorde, che, deducendo la imposta di ricchezza mobile del 20 per cento in 3 lire e l’imposta di circolazione in L. 0,50-0,55 circa, si riducevano a L. 11.47 nette. Il ministro propose ai portatori di accettare in cambio dell’obbligazione ammortizzabile 3 per cento lordo da L. 500 nominali, tanta rendita perpetua 3.50 per cento netto la quale desse un reddito netto di L. 12 più un premio variabile, a seconda di particolari convenzioni a discutersi, da 35 a 70 centesimi, in tutto ed in media, supponiamo di L. 12.47. Poiché L. 12.47 di rendita 3,50 per cento corrispondono a L. 356 in capitale, si proponeva di permutare l’obbligazione del valor nominale di L. 550 in una rendita perpetua del valor nominale di L. 356 circa. Per il capitalista, il confronto tra la obbligazione da lui posseduta e la rendita 3.50 offertagli si poneva così:

 

 

  • quanto al reddito annuo, permutare L. 11.47 con L. 12.47 circa, con un guadagno annuo di L. 1;
  • quanto al prezzo corrente di borsa, permutare un’obbligazione da 500 lire nominale che era quotata da 330 a 340 lire ed a questo prezzo soltanto poteva essere venduta, con un titolo di rendita da 356 lire nominali, il cui prezzo si aggirava intorno alle 350 lire, con un guadagno di qualche decina di lire;
  • quanto al valore nominale o di rimborso permutare un titolo, rimborsabile certamente in L. 500 secondo un piano d’ammortamento in 90 anni, in un titolo perpetuo, rimborsabile, se a quando piaccia allo Stato, in L. 356.

 

 

Qui era il nodo della questione. Il Di Broglio aveva veduto giustamente che il titolo ferroviario 3 per cento rimborsabile a 500 lire ed emesso e corrente «sotto la pari» non era conveniente allo Stato, come, per dimostrazioni già date e che è inutile ripetere, non sono convenienti di fatto mai tutti i titoli emessi al disotto della pari. E voleva convertirlo in un titolo 3,50 per cento «alla pari»; all’uopo disponendosi a sacrificare una lire di interesse all’anno di più pur di sostituire al titolo rimborsabile in L. 500 una rendita perpetua del valor nominale di L. 356.

 

 

L’operazione sarebbe stata conveniente per lo Stato, poiché col sacrificio di una lira all’anno di maggior interesse riduceva il capitale del debito da 500 a 356 lire. Ma non parve abbastanza conveniente ai capitalisti, i quali in grandissima maggioranza non accettarono la proposta del ministro, sicché la conversione si può dire non abbia avuto successo.

 

 

Il qual lacrimevole risultato dimostra ancora una volta come non convenga agli Stati emettere prestiti al disotto della pari, essendo bene difficile poterli convertire in altre maniere di prestiti, meno dannose all’erario; ed, ove lo si confronti con il brillantissimo successo della conversione compiuta nelle forme classiche dal 4 nel 3 e 1/2 per cento, mette in luce che la chiarezza e la semplicità dei propositi hanno in sé medesime virtù le quali conducono alla vittoria, virtù che sono ignote ai piani elaborati e sapienti, ai quali però manchi il consenso dei fatti e della ragione.

 

 

Novella prova, da aggiungere alle tante le quali si possono trarre dal discorso finanziario sin qui condotto, della inanità della finanza illusoria. L’emissione di titoli al disotto della pari, come ogni altro provvedimento che diminuisca il carico immediato del bilancio, procaccia subito il plauso del volgo; ma lascia una triste eredità ai governanti che vengono di poi, i quali invano tentano di scemare il carico del tesoro, architettando sistemi atti a persuadere i creditori di rinunciare ai vantaggi che in passato erano stati loro largiti. Invano, che i capitalisti non sono contribuenti, i quali si possano persuadere a forza.

 

 



[1] Si dice «circa» perché la quantità esatta che si potrebbe acquistare sarebbe di tonn. 1.0300952…, come si ricava risolvendo il problema: se ricevendo 105 lire si possono comperare 1,04 tonn., quante tonnellate si possono comperare ricevendo solo 104 lire? Nel testo si trascurano i decimali oltre i due zeri, per non complicare inutilmente il discorso.

[2] Se il reddito è variabile, ossia trattasi di un azione, il «pari» non indica più la somma che il debitore deve rimborsare per liberarsi del debito, ma soltanto la quota di conferimento dell’azionista nella società. Il che non ha nulla da fare col valore effettivo di borsa dell’azione, il quale non può essere molto o poco superiore od inferiore al pari a seconda che il reddito o dividendo dell’azione differisce di molto o di poco dal tasso corrente dell’interesse. Se questo è del 5 per cento, un azione, del valor nominale o pari o versato di 100 lire, varrà 1.000 lire se il dividendo è di 50 lire all’anno, 100 se è di 5 lire, 50 se è di 2.50 e «zero» se il dividendo è nullo. Parlasi, si capisce, di tasso di interesse corrente per quella specie di impieghi, e di dividendi futuri probabilmente costanti intorno alle cifre ora dette.

[3] Il che fu dimostrato sopra, in questo stesso paragrafo, quando si mise in luce come l’aumento al disopra della pari poteva nascere solo da impotenza dello Stato a compiere la conversione o da ignoranza della sua possibilità da parte dei capitalisti: fenomeni ambedue disadatti a crescere il credito dello Stato.

[4] Gli interessi di solito si pagano a semestri «maturati», essendo per i creditori assai più comodo ricevere gli interessi frazionati a semestri, che tutti in una volta alla fine dell’anno, perché la divisione a semestre risponde meglio alle esigenze delle spese famigliari, le quali corrono ininterrottamente tutto l’anno. In taluni Stati ed anche in Italia per taluni titoli, gli interessi si pagano anzi a trimestri, allo scopo di ancor meglio soddisfare alle esigenze dei bilanci privati dei creditori.

[5] Non perché esse sole siano «facoltative o libere»; ché tutte le conversioni, di cui si parla nel presente capitolo, sono libere; ma per indicare che ad esse non è connesso «l’obbligo» della scelta fra il rimborso del capitale e la accettazione della riduzione dell’interesse. Nelle conversioni classiche la libertà di respingere la riduzione dell’interesse v’è, ma bisogna in tal caso rassegnarsi al rimborso del capitale; in queste facoltative, se si rifiuta la riduzione, non si incorre in nessun danno attuale e si conserva il vecchio titolo.

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