Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo V – Analisi del concetto di reddito imponibile. Reddito guadagnato e reddito realizzato (consumato)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo V – Analisi del concetto di reddito imponibile. Reddito guadagnato e reddito realizzato (consumato)

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 265-307

 

 

 

240. Necessità di ulteriore analisi del concetto di reddito imponibile. – Nel capitolo precedente abbiamo dimostrato come il concetto di reddito imponibile si sia a poco a poco raffinato, passando dalla grossolanissima proporzionalità alla superficie alla proporzionalità più esatta al prodotto lordo; e poi il prodotto lordo si sia trasformato in prodotto netto. Che era dapprima prodotto netto soltanto della terra; e divenne poi prodotto netto di tutte le fonti di reddito. Da ultimo dalla concezione del reddito netto dalle varie fonti di reddito separatamente considerate si passò alla concezione del reddito netto complessivo degli uomini. Il reddito invece di riferirsi alle cose si connette colle persone. È il grande passo che si sta compiendo oggi nelle legislazioni moderne.

 

 

Ma questo non è ancora compiuto, che un altro perfezionamento si delinea.

 

 

Il concetto di reddito complessivo della persona, appena sottoposto ad un’analisi un po’ approfondita, si appalesa come un concetto complesso, che può essere assai diversamente interpretato. Due interpretazioni opposte si combattono il campo: il concetto del reddito guadagnato e del reddito realizzato o consumato; e dalla logica e necessaria vittoria del secondo sul primo concetto si attendono nuovi perfezionamenti nella legislazione finanziaria. A quest’analisi ci dedicheremo ora[1].

 

 

Sezione prima.

 

Reddito guadagnato e reddito realizzato (consumato)

 

I due concetti in rapporto alle cose ed alle persone.

 

241. Il concetto di reddito secondo il Fisher. – L’economista americano Fisher nella sua opera The nature of capital and income ha elaborato un concetto del reddito che è destinato a ricevere feconde applicazioni tributarie. Reddito per l’uomo è il flusso dei godimenti che egli ha durante un certo periodo di tempo. Noi possiamo distinguere cioè il fondo di ricchezze che esistono ad un dato momento a disposizione dell’uomo; e il flusso dei servizi che l’uomo riceve durante un certo periodo di tempo dal sovradetto fondo. In altri termini il capitale è una massa (quantità) di ricchezze esistente in un dato momento del tempo; il reddito è flusso dei servizi che l’uomo trae dal capitale durante un certo periodo di tempo. Dal capitale o fondo terra l’uomo ricava il reddito di 1000 lire l’anno di frutti in perpetuo; dal capitale casa ricava 1000 lire di reddito all’anno per 50 anni, se la vita della casa è di 50 anni; dal capitale cavallo 100 lire all’anno di redditi di cavalcature e trasporti durante 6 anni; dal capitale vestito un servizio di abbigliamento del valore di 40 lire per primo anno e 20 lire pel secondo anno; dal capitale pane il reddito di 10 centesimo di cibo durante un giorno.

 

 

242. Perché questo reddito dicesi realizzato rispetto alle cose. – Questo reddito dicesi «realizzato» in quanto l’uomo gode i servizi che si «distaccano» dal capitale durante un certo periodo di tempo, senza preoccuparsi che alla fine del periodo il capitale abbia il medesimo valore che aveva all’origine. Gode l’uso della casa per un anno, uso che vale 1000 lire, senza preoccuparsi che la casa abbia alla fine dell’anno lo stesso valore che al principio, anzi ben sapendo che non è così, essendosi la casa durante l’anno logorata ed essendo alla fine più vicina d’un anno alla sua distruzione (che avverrà dopo 50 anni dalla costruzione) di quanto non fosse al principio. Gode i servizi di cavalcatura e trasporto del capitale cavallo per un anno, ben sapendo che alla fine dell’anno al cavallo rimarranno non più 6 ma 5 anni di vita, e il suo pregio sarà quindi diminuito; gode per un giorno il servizio «nutrimento» del capitale pane, ben sapendo che alla fine del giorno il capitale pane più non esisterà.

 

 

243. Concetto del reddito guadagnato rispetto alle cose. – Il reddito «realizzato» si contrappone al reddito «guadagnato», in quanto questo è il reddito che un capitale può dare senza alterazione nel suo valore. Il reddito guadagnato è uguale al reddito realizzato meno il deprezzamento e più l’apprezzamento od aumento di valore intervenuto nel frattempo nel capitale. Così per la casa della durata di 50 anni, è reddito realizzato il fitto netto di 1000 lire che la casa dà ogni anno al suo proprietario; è reddito guadagnato invece il fitto netto di 1000 meno il deprezzamento di 85 lire verificatosi nell’anno. Supponendo che la casa valesse 18.300 lire al principio dell’anno (valore attuale[2] al 5% di una annualità di 1000 lire nette all’anno per 50 anni futuri), se il proprietario consuma nel primo anno tutte le 1000 lire di fitto, alla fine dell’anno si troverà ad avere un capitale del valore di sole 18.215 lire, che è il valore attuale a 5% di una annualità di 1000 lire nette all’anno per 49 anni futuri. Se egli quindi vuole conservare intatto il suo capitale di 18.300 lire deve prelevare dal reddito realizzato di 1000 lire la somma di L. 8 e metterla a frutto, all’interesse composto del 5%, accrescendola con successive quote di prelievo in ognuno degli anni futuri, i guisa che alla fine del cinquantesimo anno, quando la casa per vetustà varrà zero, egli abbia ricostrutto il capitale originario di 18.300 lire.

 

 

Se 1000 lire sono il reddito «realizzato», 1000 lire meno deprezzamento di 85 lire, ossia 915 sono il reddito «guadagnato». Si dice che solo 915 sono «guadagnate», perché, se il proprietario vuole conservare intatto il suo capitale di L. 18.300, egli non può consumare tutte le 1.000 lire di fitto o reddito «realizzato»; ma 8 lire le deve mettere da parte per compensare la diminuzione prodotta dal naturale logorio nel valore della casa, e solo 915 lire possono essere considerate come vero «guadagno» dell’anno tranquillamente consumate, senza timore di intaccare il capitale.

 

 

Ove però alla fine dell’anno si preveda che nell’anno seguente il fitto crescerà di un decimo passando a 1100 lire, allora essendo preveduta una successione futura di 49 annualità di reddito non più di 1000 ma di 1100 lire, il valore attuale alla fine del primo anno diventerà di 18.215 + 1821.50 ossia di 20.036.50 lire. Il reddito «realizzato» di questo primo anno sarà sempre di 1000 lire (salvo a diventare di 1100 nei successivi anni); ma il reddito «guadagnato» sarà di 1000 reddito realizzato – 85 deprezzamento intervenuto nell’anno + 1821.50 apprezzamento od aumento di valore capitale pure intervenuto nell’anno, ossia un totale di lire 2.736.50. Per chiarezza potremo chiamare le 915 lire di «frutti» netti, dedotto il deprezzamento, reddito «guadagnato in senso stretto». Questo, insieme con le 1821.50 lire di apprezzamento, ossia L. 2.736.50 sarà il reddito «guadagnato in senso proprio» o «guadagnato» senz’altro.

 

 

244. Il reddito realizzato è un dato primo, il reddito guadagnato è un dato derivato. Quando i due redditi coincidono. – Il reddito «realizzato» è un dato primo, perché non dipende da calcoli e da ipotesi di tassi d’interesse; bensì da avvenimenti quali realmente si verificano: il prezzo di mercato della messe di un campo, il fitto corrente di una casa, il prezzo d’un vestito, il prezzo di un pane, il nolo di un cavallo per un anno. Il reddito «guadagnato» è un dato derivato. Noi non lo conosciamo, se non abbiamo il dato primo del reddito «realizzato»; e se contemporaneamente non conosciamo, per deduzione da un tasso di interesse e da un periodo noto di durata, il valore del capitale originario, e se non possiamo calcolare, per via di raffronti e di calcoli, il deprezzamento o l’apprezzamento che il capitale subisce durante un certo periodo di tempo.

 

 

Le due quantità coincidono, quando il capitale ha durata perpetua, e il tasso d’interesse è supposto invariabile. Allora il campo che rende 1000 lire, supponendo un tasso di interesse del 5%, vale in capitale 20.000 lire; 1000 lire sono reddito «realizzato», frutti che ogni anno si staccano dalla terra madre; e 1000 lire sono reddito «guadagnato», perché non v’è deprezzamento da dedurre od apprezzamento da aggiungere, rimanendo sempre il valor capitale invariato in lire 20.000. Ma questi sono casi rarissimi.

 

 

245. Oltreché rispetto alle diverse cose si può parlare di reddito realizzato e guadagnato rispetto alle persone fisiche che posseggono quelle cose. – Fin qui si è parlato di reddito «realizzato» e «guadagnato» rispetto alle diverse cose feconde di reddito. Ma la stessa distinzione può farsi rispetto alle persone fisiche che posseggono quelle cose. Anzi è questa la distinzione più interessante, la sola interessante per noi, essendoché le imposte sono pagate non dalle cose ma dalle persone fisiche. Almeno questa è l’ipotesi fondamentale che, senz’altro ripeterla, si assumerà in tutte le cose discorse in seguito.

 

 

246. Reddito realizzato e guadagnato rispetto alla persona fisica. – Reddito «realizzato» si dirà allora la massa (flusso) dei servizi della ricchezza goduti dall’uomo durante un certo periodo di tempo; in altre parole le 1000 o 10.000 o 20.000 lire consumate dall’individuo durante, ad es., l’anno finanziario, sia che siano uguali al reddito «realizzato» dal capitale proprio dell’individuo, sia che siano minori, perché l’individuo ha creduto opportuno di risparmiare una parte dei redditi che nell’anno la sua ricchezza gli ha largito, sia che siano maggiori, perché l’individuo ha consumato, oltre ai redditi, parte altresì del capitale iniziale. Ed è corretta questa maniera di concepire il reddito «realizzato» rispetto alla persona, perché la quantità risparmiata non è realizzata per la persona la quale anzi rinuncia a trarne un godimento qualsiasi; e il capitale consumato diventa, col consumo, reddito, trasformandosi in un flusso di godimenti che l’individuo si procaccia. Reddito «guadagnato» invece, per l’individuo, sarà il reddito «realizzato», ossia la ricchezza consumata più l’aumento verificatosi durante il periodo considerato nel valore del patrimonio o capitale posseduto al momento iniziale (aumento che può essere risparmio nel senso comune della parola, compiuto con parte dei frutti della ricchezza, ovvero aumento di valore del patrimonio) e meno la diminuzione di valore del patrimonio rispetto al momento iniziale (diminuzione dovuta a logoro oggettivo od a consumo fattone dal proprietario).

 

 

247. Esempio di reddito realizzato e guadagnato rispetto alle cose. – Tizio a cagion d’esempio, ha all’inizio dell’anno 1912 un patrimonio del valore di L. 100.000. Questo valore è stato ottenuto, sapendo in primo luogo che Tizio ne ricava un frutto annuo netto di 6000 lire (raccolti agrari, fitti di casa, profitti di impresa industriale), che è il reddito «realizzato» del patrimonio, in quanto è il flusso dei servizi resi dal patrimonio (capitale) durante l’anno. Però Tizio, il quale si preoccupa di conservare «intatto» il valore del patrimonio iniziale, sa che, volendo raggiungere tale intento, non può consumare tutte le 6000 lire di frutti netti «realizzati», ma deve dedurne 1000 lire per provvedere alle riparazioni al fabbricato logorantesi via via od a rinnovare le piantagioni o le macchine, ecc. ecc. Il reddito «guadagnato» rispetto al patrimonio sarà solo di 5.000 lire; che appunto al 5% corrispondono ad un patrimonio o capitale costante di 100.000 lire.

 

 

248. Esempio rispetto alla persona. – Avendo calcolato il reddito «realizzato» e quello «guadagnato» rispetto al patrimonio di Tizio, passiamo a calcolarlo rispetto a Tizio in persona, cosa, ripetesi, unicamente interessante per noi. Rispetto al reddito guadagnato non v’è differenza dal calcolo precedente. Tizio, volendo mantenere intatto il suo patrimonio iniziale di 100.000 lire, non può considerare come «guadagnato» nulla più delle 5000 lire sovradette. Invece il reddito «realizzato» per Tizio sarà la ricchezza da lui effettivamente consumata; e questa potrà essere di 3.000 lire sole ed allora si dirà che ha risparmiato la differenza fra le 5.000 lire guadagnate e le 3.000 spese, ossia 2.000 lire; onde il capitale alla fine dell’anno sarà divenuto di 100.000 + 2.000 = 102.000 lire. Ovvero egli può consumare tutte le 5.000 lire guadagnate ed il suo capitale rimarrà invariato e coincideranno i due redditi; ovvero può consumare 10.000 lire e queste che compongono il reddito «realizzato» saranno costituite da 5.000 lire di reddito guadagnato più 500 lire di consumo del capitale originario, che si troverà perciò ridotto a 95.000 lire alla fine dell’anno. Insomma il reddito «realizzato» è un fatto: 3.000 o 5.000 o 10.000 a secondo che Tizio più o meno consuma. Il reddito «guadagnato» è un tipo; ed equivale a ciò che Tizio potrebbe consumare (5000 lire) se volesse mantenere il suo capitale intatto a 100.000 lire. Il primo rappresenta ciò che è, il secondo ciò che dovrebbe essere se tutti gli uomini fossero fatti in modo da volere sempre ed unicamente conservare i patrimoni iniziali. Il reddito realizzato differisce dal guadagnato perciò che:

 

 

  • a) 3000 L. di redd. realizzato + 2000 risparmio sono uguali a 5000 redd. guad.
  • b) 5000 L. di redd. realizzato + —- —– sono uguali a 5000 redd. guad.
  • c) 10.000 L. di redd. realizzato — 5000 consumo del capit. iniziale sono uguali a 5000 redd. guad.

 

 

Il reddito guadagnato è sempre uguale al reddito realizzato più il risparmio e meno il consumo del capitale originario.

 

 

249. Esempio, supponendo un aumento di valore nelle cose. – L’esempio addotto potrebbe essere complicato, supponendo che siano diverse le fonti di reddito per Tizio; ma sarebbe complicazione puramente aritmetica, che non porta alcuna difficoltà; ovvero supponendo che il patrimonio di Tizio subisca un aumento di valore durante il 1912 (per semplicità ed evitare calcoli di interessi supporremo che ciò accada al 31 dicembre 1912) perché si prevede che durante il 1913 ed anni seguenti il reddito «realizzato» del patrimonio salirà da 6.000 a 7.000 lire ed il «guadagnato», ossia ciò che risulta deducendo la quota di logorio di 1.000 lire necessaria a mantenere intatto il valore iniziale al principio d’ogni anno, da 5.000 a 6.000 lire. Allora è evidente che il valore del patrimonio da 100.000 lire (capitale corrispondente ad un reddito perpetuo di 5.000 lire annue) sale a 120.000 lire (capitale corrispondente ad un reddito perpetuo di 6.000 lire annue). Tizio durante il 1912 ha dal patrimonio un «realizzo» sempre di 6.000 lire, che sono i frutti effettivamente distaccatisi dal fondo; ma ha un «guadagno» di 5.000 lire che sono il reddito guadagnato in senso stretto come sopra, più le 20.000 di aumento del valor capitale del patrimonio. Infatti, se egli volesse soltanto conservare intatto il valore iniziale del patrimonio, – ipotesi fondamentale per il calcolo del reddito guadagnato – egli potrebbe consumare le 5.000 lire del reddito guadagnato in senso stretto ed ancora le 20.000 lire di aumento di valore; ed avrebbe sempre alla fine dell’anno un patrimonio di 100.000 lire come aveva in sul principio[3]. Onde il reddito «guadagnato» riferito al patrimonio di Tizio, è uguale al reddito «realizzato» di 6.000 lire, meno il logorio fisico di 1.000 lire, più l’aumento di valore intervenuto nel frattempo, di 20.000; in tutto 25.000 lire.

 

 

Passando a considerare i due concetti rispetto alla persona di Tizio, troviamo che il reddito «guadagnato» è ancora di 25.000 lire, come s’è calcolato sopra. Se infatti Tizio vuole conservare il suo patrimonio intatto in 100.000 lire, né crescendolo né diminuendolo, egli potrà consumare appunto 25.000 lire. Il reddito «realizzato» risulta di nuovo dal fatto puro e semplice della quantità di ricchezza da lui consumata, 3.000 o 5.000 o 25.000 o 30.000 lire. Non importa affatto che egli consumi meno o più del reddito guadagnato in senso stretto o in senso proprio, o conservi appena il capitale originario o persino lo diminuisca. Il reddito realizzato è dato dal fatto dei suoi consumi e differisce dal guadagnato perciò che:

 

 

  • 3000 L. di redd. realizz. + 2000 risp. + 20.000 aum. valor capitale patrim. = 25.000 redd. guad.
  • b) 5000 L. di redd. realizz. + — — + 20.000 aum. valor capital patrim. = 25.000 redd. guad.
  • c) 25.000 L. di redd. realizz. + — — + — — — — — = 25.000 redd. guad.
  • d) 30.000 L. di redd. realizz. – 5000 consumo del patrimonio iniziale = 25.000 redd. guad.

 

 

Nel caso (a) Tizio non solo ha cresciuto nell’anno il valore del suo patrimonio delle 20.000 lire di aumento verificatosi, per così dire, spontaneamente nel valore stesso, ma di altre 2.000 lire risparmiate: nel caso (b) s’è contentato di veder crescere il suo patrimonio per l’incremento di valore; nel caso (c) non ha fatto risparmi ed oltre ai frutti ha consumato l’aumento di valore, rimanendo alla fine dell’anno col solo capitale originario di 100.000 lire; nel caso (d) finalmente ha consumato i frutti, l’aumento di valore e parte del capitale iniziale medesimo, rimanendo con un capitale terminale di sole 95.000 lire.

 

 

250. Il concetto del reddito guadagnato è il concetto dominante nella legislazione e nella scienza. – Altre complicazioni ancora potrebbero immaginarsi; ma il fin qui detto può reputarsi bastevole a dare un’idea chiara dei due concetti di reddito realizzato e di reddito guadagnato e delle principali differenze che fra essi intercedono. Il reddito «guadagnato» potrebbe anche essere detto reddito «secondo la definizione corrente» perché legislatori, studiosi e magistrati tendono a definire il reddito «imponibile» nella maniera che sopra s’è indicato per il reddito «guadagnato». Dopoché, insieme ai frutti netti (reddito «guadagnato» del patrimonio oggettivamente calcolato od in genere delle singole fonti di reddito), i legislatori ed i magistrati vennero colpendo d’imposta le eredità, le vincite al giuoco, gli incrementi di valore delle aree fabbricabili, i prezzi di avviamento delle aziende commerciali ed industriali, i sovraprezzi delle azioni di nuova emissione, si può affermare che reddito imponibile secondo la definizione corrente è «la massa netta di ricchezza acquistata da una persona fisica in un determinato periodo di tempo (anno finanziario) e consumabile (disponibile per consumi privati e pubblici della persona fisica) senza variare (diminuire o crescere) la massa di ricchezza posseduta all’inizio dello stesso periodo di tempo». A questo concetto del reddito «guadagnato» o «secondo la definizione corrente» si contrappone il concetto del reddito «realizzato», che è «la massa di ricchezza effettivamente consumata durante un certo periodo di tempo (anno finanziario) dalla persona fisica, sia che varii in più o in meno o rimanga immutata la massa di ricchezza posseduta all’inizio dello stesso periodo di tempo». La qual’ultima specie di reddito in seguito sarà promiscuamente chiamata reddito «realizzato» o «consumato». Si preferirà dirla «reddito consumato» quando si voglia parlare del reddito della «persona fisica»; e sarà il più frequentemente; mentre la si dirà di preferenza «reddito realizzato» ogni volta che occorra riferirsi al reddito della «cosa».

 

 

Sezione seconda.

 

Il postulato dell’uguaglianza ed il teorema milliano dell’esenzione del risparmio dall’imposta.

 

251. La tassazione del reddito guadagnato conduce ad una doppia tassazione. Il teorema di Stuart Mill. – Ora è teorema dimostrato dal Fisher, e prima di lui da altri, tra cui devesi sovratutto ricordare Giovanni Stuart Mill, che la tassazione del reddito «guadagnato» conduce ad una doppia tassazione sulla medesima quantità di ricchezza. Qui si riproduce testualmente, per non guastare una pagina bellissima, la dimostrazione che del teorema dà lo Stuart Mill (in Principles of Political Economy, V, III, 4). Notisi soltanto, a guisa di chiarimento, che lo Stuart Mill non s’impacciò di definire espressamente quel che egli intendesse per reddito (income); ma dal contesto del discorso si comprende come egli per reddito intendesse quello che sopra fu detto «guadagnato» senza tuttavia comprendervi gli incrementi dei valori capitali, dei quali poco si discorreva, quando egli scrisse.

 

 

Epperciò, quando egli afferma che devesi tassare il reddito meno il risparmio, logicamente si conclude che egli volesse tassare quello che oggi chiamiamo reddito «realizzato» o «consumato». Il che è anzi espressamente affermato quando dice che «la maniera più corretta di ripartire l’imposta sul reddito sarebbe di tassare soltanto quella parte di reddito che è destinata alla spesa». Ecco ora senz’altro il brano classico:

 

 

«Se si potesse fare affidamento sulla coscienza dei contribuenti, o si potesse garantire, con controlli e precauzioni, abbastanza la esattezza delle loro dichiarazioni, la maniera più corretta di ripartire l’imposta sul reddito sarebbe di tassare soltanto quella parte di reddito che è destinata alla spesa, esentando la parte risparmiata. Poiché quando è risparmiata ed investita (e tutti i risparmi sono generalmente parlando, investiti), dessa paga l’imposta sull’interesse o profitto che frutta, malgrado sia già stata tassata sul principale. A meno che, perciò i risparmi sieno esenti dall’imposta sul reddito, i contribuenti sono tassati due volte su ciò che risparmiano e una volta sola su ciò che consumano. Il contribuente, il quale spenda tutto il suo reddito, paga il 3% d’imposta e nulla più; mentre se egli risparmi parte del suo reddito annuo e compri titoli, allora, in aggiunta al 3% che egli ha pagato sul principale e che diminuisce l’interesse nella stessa ragione, egli paga il 3% annualmente sull’interesse medesimo, il che equivale ad un secondo 3% sul principale. Cosicché, mentre la spesa improduttiva paga solo il 3% i risparmi pagano il 6% o, più correttamente il 3% sul tutto ed un altro 3% sulle rimanenti 97 lire. La sperequazione, così creata a danno della previdenza e del risparmio, è non soltanto impolitica ma altresì ingiusta. Tassare la somma investita ed in seguito tassare altresì i frutti dell’investimento, vuol dire tassare due volte la medesima quota della ricchezza del contribuente. Il principale e l’interesse non possono amendue far parte nel tempo stesso della sua ricchezza disponibile: essi sono la medesima cosa ripetutamente conteggiata; se egli ha l’interesse, ciò accade perché si astiene dall’usare il principale; se spende il principale, non riceve l’interesse. Tuttavia, poiché egli può attenersi a suo piacimento all’uno o all’altro partito, egli è tassato come se potesse fare amendue le cose, come se potesse avere cioè il beneficio del risparmio e contemporaneamente il vantaggio dello spendere».

 

 

252. Come il teorema milliano supponga il postulato dell’uguaglianza e definizione di questo postulato. – È chiaro il significato di questo teorema. Supponendo – è premessa questa essenzialissima che si può assumere come il postulato della uguaglianza – che due ricchezze uguali debbano essere tassate ugualmente, che se si tassa 1 lire con 10 centesimi ogni altra lira, di qualunque reddito faccia parte ed a chiunque spetti, deve essere tassata del pari con 10 centesimi, si deduce che Tizio deve essere tassato ugualmente tanto sulle 5.000 di reddito «consumato» quanto sulle 5.000 di reddito «risparmiato», componenti, tra tutte e due insieme, il «reddito guadagnato» di 10.000 lire. È evidente che, se non si ammette il postulato ora detto, diventa lecitissmo tassare con 10 centesimi ogni lira consumata e con 20 e magari con 30 e più centesimi ogni lira risparmiata e deve ancora considerarsi lecita ogni altra regola più arbitraria. Il teorema milliano significa qualcosa solo se si ammette come ripugnante una disuguale tassazione delle diverse lire di ricchezza che si vogliono tassare. Naturalmente non si può dare a priori una dimostrazione logica di questa repugnanza; che si annuncia coi caratteri della evidenza, essendo quella che risponde al consiglio politico del minimo arbitrio ed alla massima: essere la legge uguale per tutti; e la cui verità risulterà a posteriori dalla dimostrazione delle conseguenze utili che si ottengono dalla sua osservanza e da quelle dannose della sua violazione.

 

 

Epperciò il principio che se si tassa una data lira con dieci centesimi di imposta ogni altra lira, di qualunque reddito uguale, maggiore o minore faccia parte ed a chiunque spetti, deve essere tassata con gli stessi dieci centesimi, è accolto come assiomatico e chiamasi qui postulato dell’uguaglianza. Questo è il postulato il quale viene violato se si tassano tutte le 10.000 lire. Poiché Tizio sulle 5.000 lire consumate avrà pagato se l’aliquota dell’imposta è del 10%, 500 lire e nulla più. Mentre sulle 5.000 lire risparmiate avrà pagato 500 lire una prima volta, riducendosi così il risparmio effettivamente fatto a 4.500 lire. In seguito quando egli avrà investito le 4.500 lire trasformandole in un reddito perpetuo, a 5% d’interesse, di 225 lire annue, egli sarà nuovamente tassato sulle 225 lire con un’imposta di 22,50 lire all’anno. E poiché un pagamento annuo in perpetuo di lire 22,50 equivale ad un pagamento presente fatto una volta tanto, di 450 lire, resta dimostrato che Tizio, per le 5.000 lire risparmiate, paga 500 + 450 lire d’imposta, ossia quasi doppio delle 500 lire che unicamente paga sulle 5.000 consumate.

 

 

253. Dal postulato dell’uguaglianza si deduce l’esenzione del risparmio dall’imposta. – Dalla quale verità si deduce quest’altra se si vuole osservare il postulato dell’uguaglianza, bisogna esentare dall’imposta o il risparmio o gli interessi del risparmio; e poiché questa seconda alternativa, per molti motivi che qui è inutile discorrere, si deve respingere, è necessario esentare il risparmio e tassando i soli interessi del risparmio. Infatti se si tassano le 5.000 lire consumate e si esentano le 5.000 risparmiate, accadrà che sulle prime sono pagate 500 lire d’imposta; e così pure sugli interessi delle seconde, che saranno, al 5% di 250 lire l’anno in perpetuo, si pagheranno 25 lire d’imposta all’anno in perpetuo; e poiché un pagamento annuo perpetuo di 25 lire equivale ad un pagamento immediato di 500 lire, resta dimostrato che soltanto la esenzione del risparmio consente di tassare egualmente, con 500 lire, tanto la quota consumata (reddito realizzato) quanto la quota risparmiata del reddito guadagnato.

 

 

254. Si deduce anche l’esenzione dell’incremento di valore non consumato. – La medesima dimostrazione vale per gli incrementi di valore capitale. Tizio durante l’anno ha 10.000 lire di reddito «guadagnato» in senso stretto, ossia frutti del patrimonio, ed in più vede aumentare il valore capitale del suo patrimonio da 200 a 210 mila lire; onde il totale suo reddito guadagnato, per le cose dette sopra, risulta di 20.000 lire. Se egli consuma tutte le 20.000 lire, l’imposta deve colpirle tutte; e nessun doppio d’imposta si sarà verificato, poiché egli pagherà 2.000 lire e in avvenire nessun altro tributo potrà di nuovo – con offesa al postulato dell’uguaglianza – gravare le stesse 20.000 o parte di esse, perché più non esisteranno, almeno rispetto alla sua persona. Se invece egli consumasse solo le 10.000 lire di frutti e risparmiasse (non consumare una ricchezza nuova equivale a risparmiare) l’incremento di valore di 10.000 lire, egli dovrà essere tassato solo sulle prime 10.000 ed esentato sulle seconde.

 

 

Così operandosi, egli pagherà 1000 lire di tributo sulle prime 10.000 lire; e pagherà 50 lire all’anno sulle 500 lire di maggior reddito annuo corrispondenti all’incremento di valore capitale di 10.000 lire (non può concepirsi, tenuto conto dell’avvertenza in nota alla sezione seconda, incremento di valore capitale senza incremento di reddito e viceversa), ossia, poiché un pagamento di 50 lire all’anno in perpetuo equivale ad un pagamento immediato di 1.000lire, pagherà altresì 1.000 sull’incremento; il che è appunto quanto vuole il postulato dell’uguaglianza. Se invece fosse stato tassato subito con 1.000 lire sui frutti consumati e con 1.000 lire sull’incremento risparmiato, il postulato dell’uguaglianza sarebbe stato violato; perché l’incremento da 10.000 si sarebbe ridotto a 9.000 lire; e i frutti perpetui di queste in 450 lire essendo tassati con 45 lire annue, Tizio avrebbe nuovamente pagato una somma equivalente ad altre 900 lire immediate; onde sui frutti consumati avrebbe pagato solo 1.000 lire d’imposta ed invece sull’incremento risparmiato 1.000 + 900 = 1.900 lire.

 

 

255. Si deduce parimenti l’esigenza della tassazione della quota consumata del capitale. – Così pure si può dimostrare che il postulato dell’uguaglianza esige la tassazione non solo della quota consumata del reddito «guadagnato»; ma puranco della quota consumata del capitale.

 

 

Suppongasi Tizio privo inizialmente di qualsiasi capitale; e che nel primo anno guadagni 10.000 lire coll’esercizio della sua professione, di cui 5.000 consuma e 5.000 risparmia. Per le cose già dette, in questo primo anno, se non si vuole violare il postulato dell’uguaglianza, Tizio deve essere tassato sulle 5.000 consumate (e pagherà 5.000 lire); ed esentato sulle 5.000 risparmiate. Alla fine del secondo e del terzo anno egli ricava 250 lire di interesse dal suo risparmio (divenuto capitale)e paga 25 lire d’imposta. Se egli conservasse il suo capitale in perpetuo, pagherebbe pure l’imposta in perpetuo, il che sarebbe, come fu dimostrato, uguale al pagamento immediato (nel primo anno) di 500 lire, imposto dal postulato dell’uguaglianza. Invece egli conserva il capitale per due anni (secondo e terzo) e paga quindi di imposta due volte 25 lire. Alla fine del terzo anno egli consuma (per un motivo qualunque: giuoco, viaggio di piacere, mobilio di casa, ecc. ecc.) le 5.000 lire. Se su queste, all’atto del consumo, non fosse tassato pel pretesto che desse sono capitale, egli avrebbe pagato sulla quota risparmiata appena 50 lire (anzi meno di 50 lire, perché 25 pagate alla fine del secondo anno equivalgono, supponendo, come sempre, un tasso d’interesse di 5% a L. 23,81 alla fine del primo anno, e 25 pagate alla fine del terzo anno equivalgono a L. 22,67 alla fine del primo anno, quando furono pagate le 500 lire di tributo sulla parte consumata); mentre sulla quota consumata aveva pagato fin dalla fine del primo anno 500 lire; il che viola il postulato dell’uguaglianza, essendo le due quantità uguali e per giunta identicamente consumate, sebbene in momenti diversi. Se adunque si vuole osservare il postulato fondamentale (così si può chiamare il postulato dell’uguaglianza, inteso nel senso definito più sopra) è necessario colpire con 25 lire le 250 lire di interesse guadagnate e consumate nel secondo anno, con altre 25 lire le 250 lire del terzo anno e con 500 lire le 5.000 lire di risparmio capitalizzato e poi consumato alla fine del terzo anno. Perché queste tre quantità di 25 e 25 e 500 (non dicesi 25+25+500 perché non si possono sommare quantità eterogenee, pagate in tempi diversi) pagate successivamente equivalgono nello stesso momento della fine del primo anno a 23,81 + 22,67 + 453,52, ossia precisamente alle 500 lire pagate alla fine del primo anno sulla quota consumata subito.

 

 

256. Conclusione intorno alle esigenze del postulato dell’uguaglianza. – È dunque dimostrato che, se si vuole osservare il postulato dell’uguaglianza, importa tassare il solo reddito consumato, non preoccupandosi punto della sua origine, ossia non curandosi di saper se esso derivi dal reddito guadagnato o dall’incremento di capitali e dal capitale medesimo; e bisogna invece esentare il risparmio, sia che questo consista nei frutti o nell’incremento del capitale. S’intende che deve essere esentato il capitale costituito con risparmi precedente, fino al momento in cui esso non venga consumato; che allora dovrà essere tassato. Osservando queste regole, si osserva il postulato dell’uguaglianza. E poiché si è assunta come premessa indiscutibile questa osservanza, anche l’osservanza delle regole precedenti si impone.

 

 

257. Richiamo alla letteratura sull’argomento. – La dimostrazione data qui sopra e che discende logicamente dal teorema dello Stuart Mill fu arricchita specialmente dal Fisher di molteplici sviluppi ed elegantissimi esempi, di cui quello dei tre fratelli sarà da noi riprodotto in seguito.

 

 

Altri scrittori si occuparono della teoria del Mill; ma di essi pochi meritano di essere ricordati. In Italia, delle prime discussioni sorte dall’enunciazione del teorema milliano si hanno traccie ragguardevoli negli scrittori italiani di finanza intorno al 1850-1870 e specialmente in Matteo Pescatore, autore di quella Logica delle imposte che rimane pur sempre modello insuperato di pensiero profondo e di ragionamento serrato. In tempi recenti due scrittori meritano di essere ricordati. Anzitutto Achille Loria il quale in La sintesi economica. Studio sulle leggi del reddito (Torino, Bocca, 1909) a carte 192 esplicitamente afferma che non può essere oggetto dell’imposta sul reddito la parte del reddito stesso che viene accumulata, perché questa, pel fatto stesso dell’accumulazione, si trasforma in capitale tecnico o sussistenza, ossia cessa di far parte del reddito, individuale o sociale; ed applica il principio della esenzione del risparmio alle foreste, alle riserve delle società per azioni ed ai premi di assicurazione sulla vita. Ma poi tralascia il filone, veduto con l’abituale profondità e dottrina, per studiare le applicazioni tributarie della sua teoria del reddito e delle relative forme e specie, dottrina che qui sarebbe un fuor di luogo esaminare criticamente e che lo conduce ad ogni modo ad un sistema particolare, diverso da quello che si deduce puramente dal teorema della esenzione del risparmio.

 

 

Vide pure l’importanza notevolissima del concetto di reddito realizzato Attilio Cabiati, il quale pubblicò, nel marzo-aprile 1909, sulla rivista La Riforma sociale uno studio su La funzione economica del sovraprezzo e del premio e la sua tassazione, dove i concetti del Fisher (quelli dello Stuart Mill non sono ricordati) sono applicati alla vessata questione del sovraprezzo delle azioni, sebbene la questione sia risoluta in realtà, come si doveva, sulla base della teoria corrente della tassazione del reddito guadagnato. Il Cabiati ritornò sull’argomento in un acuto studio su La personalità economica delle Società commerciali pubblicato nella Rivista delle Società commerciali del 30 Giugno 1912. Giuseppe Prato dava pure nuovi sviluppi alla teoria del reddito imponibile in un importante studio intitolato Di alcune recenti teorie sulla nozione di capitale di reddito e delle loro conseguenze tributarie, pubblicato nella Riforma Sociale del novembre 1912, rivolto principalmente alla critica delle dottrine che fanno capo al concetto del reddito guadagnato: ed alla esposizione di talune importanti conseguenze della teoria del reddito consumato. Chi vi detta queste lezioni da parecchi anni nel suo corso ha cercato di sistemare la trattazione delle imposte imperniandola sul concetto della esenzione del risparmio ed ha raccolto in parte i risultati delle sue indagini nel già citato scritto Intorno al concetto di reddito imponibile ecc.

 

 

Sezione terza

 

La dimostrazione fisheriana dei tre fratelli della differenza tra reddito realizzato e reddito guadagnato

 

258. La uguale posizione iniziale dei tre fratelli e loro condotta successiva. – Per chiarire ulteriormente l’importante distinzione tra i due concetti di reddito imponibile, daremo alcuni esempi che varranno a provare gli effetti diversi cui dà luogo l’applicazione della teoria del reddito guadagnato e quella del reddito consumato o realizzato. Il primo esempio ha acquistato già nella scienza molta notorietà per merito del Fisher, il quale ampiamente ne tratta nel suo Capital and income. Supponiamo che vi siano tre fratelli di qualità psicologiche diverse: i quali hanno ereditato nello stesso tempo 100.000 lire ciascuno. Uno di essi ama conservare intatto il proprio fondo di capitale; il secondo ama la vita spendereccia e spreca subito i fondi ricevuti; il terzo infine pensa assai al futuro. Egli calcola di poter vivere per un po’ d’anni coi redditi del suo lavoro e di poter metter da parte i redditi del capitale ereditato; come questo capitale crescerà e dopo alcuni anni egli si potrà ritirare dalla professione e vivere tranquillamente e agiatamente con i maggiori redditi per tal via raggiunti. L’interessante è di vedere come si comporta l’imposta di fronte a quei tre fratelli, trattati egualmente dal padre.

 

 

259. L’imposta rispetto al fratello che conserva semplicemente la ricchezza avita. – Nel primo caso, che si riferisce al conservatore del patrimonio avito, abbiamo Tizio che conserva intatto il capitale di 100.000 lire che ha ereditato e si consuma tranquillamente ogni anno le 5.000 lire di reddito che quel capitale frutta. In questo caso l’imposta lo tratta egualmente sia che parta dal concetto del reddito guadagnato sia che parta da quello del reddito consumato; in entrambi i casi l’imposta che lo Stato gl’infliggerà sarà, se l’aliquota della imposta è del 10% del reddito, di 500 lire annue.

 

 

260. L’imposta di fronte al fratello risparmiatore. – Diverso è il secondo caso, del fratello Caio, che intende risparmiare ed aumentare il capitale ereditato, accumulando col capitale gli interessi e vivendo nel frattempo con altri suoi redditi che potrà procurarsi un lavoro. Se noi supponiamo che Caio accumuli gli interessi al frutto composto del 5%, passati 14 anni e qualche mese, il capitale sarà raddoppiato a 200.000 lire e anche il suo reddito sarà raddoppiato da 5.000 a 10.000 lire. Si tratta ora di vedere come i due sistemi di imposta trattino costui. Col sistema del reddito guadagnato Caio nel primo anno è tassato per 5.000 lire di reddito e paga 50 lire d’imposta; nel secondo anno il suo capitale è cresciuto a 105.000 lire perché egli ha risparmiato le 5.000 lire di reddito dell’anno precedente (trascuriamo per semplicità il fatto che egli può risparmiare solo 4.500 lire avendone dovute pagare 500 di imposta, il che non toglie nulla al ragionamento) e ne cava un reddito di 5250 lire, onde paga L. 525 di imposta; e così via finché all’anno XIV egli ha un capitale di L. 197.990 con un reddito di L. 9430 ed un’imposta di L. 943. Ancora un quinto di anno ed egli raggiunge le 200.000 lire, onde poi avrà un reddito costante di 10.000 lire all’anno. Costante perché egli non accumula più il reddito col capitale, ma tutto lo consuma, a partire da quel momento. La tabella che segue mette in luce la maniera in che Caio è tassato coi due metodi del reddito realizzato e del reddito guadagnato.

 

 

CAPITALE

Reddito guadagnato

Imposta10% sul reddito guadagnato

Reddito realizzato

Imposta10% sul reddito realizzato

al principio 1° anno

100.000

alla fine 1° anno

105.000

5000

500

alla fine 2° anno

110.250

5250

525

alla fine 3°

115.760

5510

551

alla fine 4°

121.550

5790

579

alla fine 5°

127.630

6080

608

alla fine 6°

134.010

6380

638

alla fine 7°

140.710

6700

670

alla fine 8°

147.750

7040

704

alla fine 9°

155.130

7380

738

alla fine 10°

162.890

7760

776

alla fine 11°

171.030

8160

816

alla fine 12°

179.590

8560

856

alla fine 13°

188.560

8970

897

alla fine 14°

197.990

9430

943

alla fine 14° 1/5

200.000

in seguito ogni anno

200.000

10.000

1.000

10.000

1.000

 

 

Col sistema del reddito realizzato Caio non pagherebbe niente fino al quindicesimo anno, non ponendo egli mano al reddito, ma accumulandolo per crescere il capitale anno per anno. Dal quindicesimo anno in poi ritirandosi costui dal lavoro, cessa di risparmiare ulteriormente: il suo reddito resta costante ed egli si accontenta di goderlo; da quest’anno in poi sia che gli applichino l’un sistema, sia che gli applichino l’altro, egli pagherà in proporzione al reddito guadagnato e consumato L. 1.000 di imposta.

 

 

Col sistema del reddito guadagnato, egli comincierà ad essere tassato subito e il reddito colpito cresce di anno in anno; e logicamente dal punto di vista di questa dottrina, perché il capitale frutta, rende una somma crescente di anno in anno, che costituisce il guadagno che potrebbe essere consumato senza intaccare la parte capitale. Col sistema del reddito realizzato invece, poiché Caio non realizza il suo reddito fino al quindicesimo anno, durante tutto il frattempo non paga imposta: sarà tassato per gli altri redditi professionali che egli avrà e da cui trae di che vivere, non per quelli che ricava dal capitale e risparmia da cui non ottiene alcun godimento attuale, poiché è logico che chi non ha consumi privati non abbia neppure consumi pubblici, che sono come l’ombra dei privati.

 

 

261. L’imposta di fronte al fratello dilapidatore – Passiamo ora al terzo fratello Sempronio; il quale vuole consumare interamente il capitale ereditato. Accadrà per lui l’opposto che per il secondo fratello: mentre quegli era favorito dal sistema del reddito realizzato, perché non realizzava il suo reddito, questo è favorito dal sistema del reddito guadagnato, perché dando fondo al suo capitale, il reddito guadagnato diminuisce d’anno in anno. Immaginiamo che Sempronio voglia consumare le sue 100.000 lire più gl’interessi spendendo presso a poco L. 20.000 all’anno.

 

 

CAPITALE

Reddito guadagnato

Imposta10%

Reddito realizzato

Imposta10%

Principio 1° anno

100.000

alla fine 1° anno

85.000

5000

500

20.000

2.000

alla fine 2° anno

65.300

4250

425

20.000

2.000

alla fine 3°

52.700

3.400

340

20.000

2.000

alla fine 4°

35.300

2.600

260

20.000

2.000

alla fine 5°

17.100

1.800

180

20.000

2.000

alla fine 6°

900

90

18.000

1.800

 

 

Durante il primo anno Sempronio ha un reddito di L. 5.000 e pagherebbe un’imposta sul reddito guadagnato di L. 500. Per consumare nello stesso anno L. 20.000 aggiungerà al reddito L. 15.000 togliendole dal capitale. Se si applica il metodo del reddito realizzato, egli pagherà in proporzione al consumo di L. 20.000 un’imposta di L. 2.000, mentre col metodo del reddito guadagnato avrebbe pagato una tassa di sole L. 500. Alla fine del primo anno gli resteranno più sole L. 85.000; onde nel secondo anno il reddito del capitale discenderà a L. 4.250, cui dovrà aggiungere L. 15.750 per ottenere la somma, destinata al consumo, di L. 20.000; nel terzo anno il capitale si ridurrà ancora a lire 69.300, il reddito a L. 3.400, cui dovrà aggiungere L. 16.600 traendole dal capitale; nel quarto anno gli restano lire 52.700, con un reddito di L. 2.600, cui dovrà aggiungere L. 17.400 per far le 20.000 lire di consumo; nel quinto anno gli restano L. 35.300 di capitale con 1.800 lire di reddito: dal capitale dovrà sottrarre L. 18.200, onde nel sesto anno il suo capitale sarà ridotto a L. 17.100 che unite alle 900 lire di reddito che ne ricava, non gli potrà più fornire che una somma di lire 18.000 da scialacquare: dopo di che nel settimo anno egli non avrà più nulla, e quindi cesserà ogni tassazione. Ora, mentre col sistema del reddito guadagnato egli avrebbe pagato ogni anno di meno (L. 500 il primo anno; L. 425 il secondo, L. 340 il terzo, L. 260 il quarto, L. 180 il quinto e L. 90 il sesto), col sistema del reddito realizzato, egli che ha consumato ogni anno L. 20.000 avrebbe pagato costantemente L. 2.000. Di questi due sistemi gli conviene assai più quello del reddito guadagnato; proprio all’opposto del risparmiatore che con tal sistema avrebbe pagato sempre di più.

 

 

262. Paragone riassuntivo delle imposte pagate dai tre fratelli. – Vediamo quindi, riassumendo, che il primo fratello che si limita a conservare il patrimonio, paga sul reddito di L. 5.000, L. 500 sia nell’un caso che nell’altro; che per il risparmiatore il sistema del reddito guadagnato è molto più gravoso, mentre è immune fino al quattordicesimo anno se si applica il sistema del reddito realizzato, dopo il quale anno l’uno e l’altro sistema lo colpiscono nella stessa maniera; che il terzo fratello infine, il quale consuma il suo capitale, è trattato assai bene dalla imposta sul reddito guadagnato, e male invece da quella sul reddito realizzato, con cui egli non è tassato sul reddito suo decrescente di anno in anno, ma sul consumo che egli fa sempre nella stessa misura di L. 20.000 annue, finché il capitale stesso non è esaurito e cessano per necessità le imposte. Il che si vede meglio dal seguente confronto delle imposte pagate dai tre fratelli.

 

 

TIZIO

CAIO

SEMPRONIO

Sistema tassazione su reddito

sistema tassazione su reddito

sistema tassazione su reddito

guadagnato

realizzato

guadagnato

realizzato

guadagnato

realizzato

500

500

500

500

2000

500

500

525

425

2000

500

500

551

340

2000

500

500

579

260

2000

500

500

608

180

2000

500

500

638

90

1800

500

500

670

500

500

704

500

500

738

10°

500

500

776

11°

500

500

816

12°

500

500

856

13°

500

500

897

14°

500

500

943

in seguito ogni anno

500

500

1000

1000

 

 

A prima vista si vede che per Tizio i due sistemi sono indifferenti; che per Caio conviene di più la tassazione sul reddito realizzato e viceversa per Sempronio. Ma trattandosi di somme pagate in tempi diversi non è agevole un confronto preciso.

 

 

263. Si ripete il confronto riassuntivo riferito al medesimo momento iniziale. – Per poter fare un confronto esatto bisogna paragonare somme sborsate nel medesimo momento.

 

 

Ora per fare questo confronto, basta calcolare quanto dovrebbero pagare i tre fratelli subito al principio del primo anno, se volessero liberarsi dall’obbligo di pagare l’imposta in avvenire. È la operazione, insegnata dalla computisteria, dello sconto al momento attuale di somme dovute in tempi successivi futuri. Basta supporre di scontare quelle somme ad un dato tasso d’interesse, per esempio il 5%.

 

 

Se facciamo questa operazione allora vediamo che Tizio si libererebbe, qualunque sia il sistema adottato, dal pagamento della imposta, pagando subito una somma di L. 10.000: difatti pagare un’imposta di L. 500 annue in perpetuo è come rinunciare a un capitale che renda L. 500 annue, cioè a L. 10.000; quindi tanto vale pagar L. 500 annue in perpetuo come una somma di L. 10.000 subito.

 

 

Caio, applicando il sistema del reddito guadagnato, deve pagare una somma superiore, perché l’imposta da lui pagata va crescendo da L. 500 a L. 1.000, alla qual cifra resterà poi sempre fissa. La somma che egli dovrebbe solvere per liberarsi da questo obbligo di pagare una imposta variante da L. 500 a L. 1.000 starà quindi tra le 10.000 e le 20.000 lire, perché se pagasse costantemente L. 500 sarebbe di L. 10.000; e se pagasse costantemente L. 1.000 sarebbe di L. 20.000. Fatti i calcoli questa somma risulta di L. 17.140.

 

 

Se invece si applica il sistema dell’imposta sul reddito realizzato, Caio deve pagare solo 1.000 lire in perpetuo all’anno a partire dal quindicesimo anno in poi. Quindi è come se dovesse pagare nel quindicesimo anno una somma una volta tanto di 20.000 lire. A sua volta poi dover pagare 20.000 una volta tanto nel quindicesimo anno equivale a dover pagare subito lire 10.000. Quindi se si adotta il sistema della tassazione del reddito realizzato, Caio potrebbe liberarsi pagando subito una volta tanto lire 10.000.

 

 

Sempronio infine pagherà assai poco, applicando il sistema della tassazione del reddito guadagnato, perché il suo reddito guadagnato decresce d’anno in anno e in corrispondenza decresce pure la sua imposta, fino a scomparire.

 

 

Ora pagare 500 + 425 + 340 + 260 + 180 + 90 in sei anni consecutivi equivale a pagare in tutto 1.795 lire ripartite in 6 anni. Volendo calcolare a quanto corrispondono L. 1.795 pagate in 6 anni un po’ alla volta, si trova che sono uguali, sempre supposto un tasso di sconto del 5%, ad una somma di 1.580 lire pagate subito al principio del primo anno.

 

 

Applicando invece il sistema dell’imposta sul reddito realizzato Sempronio paga successivamente nei 6 anni 2.000 + 2.000 + 2.000 + 2.000 + 2.000 + 1.800. Fatti i conti si trova che ciò equivale a pagare subito 10.000 lire.

 

 

Riassumendo questi calcoli si trova che, se i tre fratelli volessero sbarazzarsi con un solo pagamento fatto subito per una volta tanto dell’obbligo di pagare le imposte, dovrebbero pagare:

 

 

Secondo il sistema della tassazione sul reddito
guadagnato realizzato
Tizio

10.000

10.000

Caio

17.140

10.000

Sempronio

1.580

10.000

 

 

Il quadro fa risaltare in maniera spiccatissima come i due sistema di imposta trattano i tre fratelli.

 

 

264. Conseguenze diverse dei due metodi: la tassazione del reddito realizzato è imparziale, quella del reddito guadagnato infligge una multa al risparmiatore, e dà un premio allo sprecone. – Il sistema del reddito realizzato fa pagare un’identica somma a tutti e tre i contribuenti; quello del reddito guadagnato invece fa siche essi paghino somme diverse: Tizio, che si mantiene allo statu quo, paga il normale (10.000 lire); chi risparmia paga 17.140 ossia assai più del normale, e chi consuma solo 1.580 lire ossia assai meno. Se badiamo a quello che è lo scopo delle imposte, è chiaro quale dei due sistemi si possa considerare, a priori, migliore.

 

 

Vedemmo che i consumi pubblici sono quasi una condizione dei consumi privati; la compra di beni pubblici avviene in proporzione della massa dei beni privati consumati. Se due persone perciò in una società hanno una ugual massa di godimenti, devono pagare ugual somma di imposte. Ora questi tre fratelli hanno avuto forse masse di godimenti diverse?

 

 

Sembra che abbiano ottenuto l’identica massa di godimenti privati, solo spostando il godimento nel tempo: Tizio ha preferito godere quantità costanti di beni, L. 5.000 annue; quindi è come se avesse goduto fin dal principio L. 100.000; Caio ha preferito rimandare il godimento a epoca posteriore per avere una massa di godimento doppia del primo, come di L. 10.000 annue, a partire dal quindicesimo anno, il che è equivalente ad avere al momento attuale una massa di godimento anch’egli di L. 100.000; Sempronio infine, concentra, per averlo subito, tutto il suo godimento, ma anch’egli gode in complesso per L. 100.000 di beni. Essi hanno distribuito diversamente nel tempo il godimento proprio, ma hanno ottenute masse di godimenti precisamente uguali; è quindi corretto far pagar loro uguali imposte. Questi tre fratelli, che hanno uguali godimenti privati, dovran pagare uguali tasse per i godimenti pubblici.

 

 

Con l’altro sistema della imposta sul reddito guadagnato invece accade che, pur avendo uguali beni privati e quindi anche pubblici, essi pagano somme diverse; e precisamente è favorito da questo sistema colui che meno ha qualità personali eminenti di risparmio: al contrario di quegli che col risparmio proprio, rinunciando al suo godimento attuale ed esponendosi anche al rischio di non più averlo affatto, giova maggiormente alle generazioni future accumulando utili e capitali.

 

 

Con la tassazione del reddito guadagnato, il legislatore tratta solo in apparenza tutti alla medesima tregua; ma la uguaglianza del trattamento è data solo dal secondo sistema per cui tutti, avendo un ugual somma di godimento, han pure alla fine pagate imposte uguali.

 

 

265. Col sistema del reddito realizzato lo Stato si mantiene imparziale; con il sistema del reddito guadagnato punisce e premia, vende a prezzi di favore, ecc. – Inoltre questo sistema fa si che lo Stato non interviene come promotore e consigliere dell’uno o dell’altro impiego del denaro; lo Stato si mantiene indifferente; lascia che il capitale agisca come vuole. Sia che il capitalista risparmi, sia che mantenga inalterato il capitale, sia che lo sprechi, esso lo tratta sempre ad un modo, mentre invece con l’altro sistema quasi consiglia a sprecare perché così la tassazione diminuisce. Con il sistema del reddito guadagnato il legislatore cessa di essere un puro e semplice tassatore, ma assume altre funzioni, che per sé stesse non sono di sua competenza e che per giunta, producono inoltre effetti cattivi. Esso che di solito predica morale e risparmio, agisce nel distribuire le imposte in modo assolutamente diverso, si erige a nemico delle opere che sono lontane nella realizzazione dei guadagni ed esigono spirito di sacrificio, mentre preferisce opere che si estinguono in breve periodo d’anni.

 

 

La conseguenza adunque a cui conduce l’applicazione dei due tipi di tassazione è l’assunzione di un criterio diverso da quello seguito nell’economia privata. Lo Stato fa pagare ai consumatori dei beni pubblici in misura non di ciò che essi sarebbero disposti a spendere; ma in misura di ciò che costituisce il reddito del capitale che essi di anno in anno posseggono. Sarebbe come se il cappellaio non facesse pagare lo stesso cappello 10 lire a tutti tre; ma lo facesse pagare 10 lire a Tizio, 17.14 a Caio e 1,58 a Sempronio. Nessun cappellaio agisce così. Tutt’al più, profittando delle sue abitudini trascurate di spreco, il cappellaio, ove lo conosca, farà pagare qualcosa di più a Sempronio. È solo lo Stato che adotta il sistema stravagante fin qui combattuto. Ora, far ciò vuol dire, alla lunga, impoverire il paese.

 

 

Sezione quarta

 

L’esenzione delle foreste nel periodo del rimboschimento

 

266. Indole risparmiatrice degli investimenti forestali – Un secondo esempio che si può addurre della verità del principio dell’esenzione del risparmio è quello delle foreste. Molte legislazioni estere e negli ultimi anni anche la legislazione italiana concedono l’esenzione dall’imposta alle foreste nei primi 10 o 20 o 30 anni di loro vita. Mossero queste immunità dal contemplare i dannosi effetti del diboscamento e dal proposito di incoraggiare il rimboschimento mercé l’immunità dall’imposta.

 

 

In realtà questa logicamente procede dal canone che vuole la tassazione del reddito consumato invece di quello guadagnato. Infatti la creazione di una foresta può considerarsi come un riporre annualmente una somma a frutto in una cassa di risparmio, dalla quale i depositi con gli interessi composti non si possono richiedere se non dopo un certo periodo di tempo variabile dai 15 anni per i boschi cedui o i pioppeti canadesi, sino ai 65-70 anni per le abetaie ed ai 100 anni per i querceti. Il frutto o guadagno annuo che danno le selve consiste nell’incremento legnoso, che è diverso da essenza ad essenza. Fu calcolato, ad esempio, per le quercie che se il loro volume in metri cubi è di 0.05 tra gli anni 1-25, diventa di 0.25 tra gli anni 25-50, di 0.62 tra gli anni 50-75, di 1.47 tra gli anni 75-100, di 2.73 negli anni 100-125, di 4.60 negli anni 125-150, di 5.43 negli anni 150-175, di 5.96 negli anni 175-200. Veggasi come i valori assoluti aumentino col crescere degli anni; ma gli incrementi proporzionali diminuiscano di anno in anno; talché nelle varie tabelle che si conoscono al riguardo si hanno per le querce valori d’incremento relativo del 10% circa per i buoni boschi ordinari a 20 anni, del 6-7% a 30 anni, del 5 a 40 anni, del 4 a 50 anni, del 3 a 60 anni e via decrescendo[4]. Vuol dire, che gli alberi si sviluppano rapidamente dapprima e poi, dato lo sviluppo precedente già avvenuto, al quale si paragonano gli incrementi susseguenti, via via più lentamente, finché ad un certo punto l’incremento diventa irrilevante e poi cessa convertendosi in un deterioramente fisico, per cui l’albero alla fine, ove l’uomo non se ne occupasse, finirebbe per rovinare affatto e dissolversi. Questa vicenda determina, insieme al dato fisso del tasso d’interesse corrente per gli impieghi capitalistici forestali, l’epoca del taglio a rendita massima. Gli scrittori di scienza forestale hanno dato di ciò assai eleganti dimostrazioni. Qui basti accennare come quell’epoca tanto più si allontana, quanto più il coltivatore di foreste può contentarsi di un interesse minore. Infatti si supponga un incremento legnoso (intendendo per incremento legnoso il rapporto del prodotto che si ricaverebbe tagliando l’albero in un anno col prodotto che si ricaverebbe eseguendo il taglio nell’anno precedente) che nei successivi anni sia:

 

 

al 10° anno 20° 30° 40° 50° 60° 70° 80°
del 12% 10% 6-7% 5% 4% 3% 2% 1%

 

 

 

Se il tasso d’interesse è del 10% il taglio deve essere eseguito al ventesimo anno, perché altrimenti, vivendo l’albero, il coltivatore guadagnerebbe in seguito un incremento legnoso (interesse) minore del 10% o volgendo via via verso il 6-7%; mentre se l’albero è tagliato ed il ricavo è investito in altra maniera dà il frutto del 10%. Se l’interesse è del 6-7% la vita dell’albero può durare convenientemente sino a 30 anni; e così via via, a mano a mano che l’interesse diminuisce, cresce la vita economica dell’albero, finché, essendo sul mercato ribassato l’interesse all’1% è conveniente lasciar vivere sino all’ottantesimo anno di età quello stesso albero che, dato un tasso d’interesse del 10%, bisognava tagliare al ventesimo anno. Nuova dimostrazione dell’influenza del tasso d’interesse, sulla lunghezza d’investimento dei capitali, la bassezza del tasso favorendo le opere grandi a lunga scadenza, fra cui sono principalissimi nella vita di una nazione i rimboschimenti, e l’altezza del tasso esagitando gli uomini colla brama dei subiti e lauti guadagni.

 

 

267. I due metodi della tassazione dell’incremento legnoso e della tassazione dei tagli. – Su questo fondamento di fatti si innestano due principali maniere di esigere l’imposta. L’una che si potrebbe chiamare della tassazione del reddito guadagnato considera l’incremento legnoso come il guadagno che ogni anno il coltivatore della foresta ricava dalla medesima. Poiché reddito è la massa nuova di ricchezza che s’acquista durante il periodo di tempo considerato e che si può consumare senza intaccare quella che s’aveva al principio del periodo, nel decimo anno si reputa reddito della foresta l’incremento del 12% in quell’anno verificatosi, nel ventesimo l’incremento legnoso del 10%, ecc. ecc., ed il valore degli incrementi stessi si tassa ogni anno coll’imposta. Giunti al momento del taglio, che supponiamo avvenga al cinquantesimo anno di età, il contribuente nell’anno stesso paga l’imposta sull’incremento legnoso del 4% avuto in quell’anno e nulla più. Egli incasserà il valore del taglio intiero senza più pagare su di esso alcuna imposta, avendola già pagata negli anni precedenti quando l’albero a mano a mano cresceva. Una variazione di questo metodo è quello per cui invece di tassare negli anni successivi una serie variabile decrescente di incrementi legnosi, del 12, 10, 6, 5, 4%, il che importerebbe molta complicazione di calcoli per l’amministrazione fiscale, si trasforma la serie variabile decrescente in una serie costante di incrementi, poniamo del 6% e si suppone che la foresta dia dal primo fino al cinquantesimo anno di età un reddito costante, quello tassando per semplicità. Volendo operare con tutta esattezza, occorrerebbe modificare ancora le fatte ipotesi tenendo conto di altri fattori, sui quali trascorro, essendo materia estranea al presente discorso, al quale importa soltanto di mettere in luce l’essenziale diversità dal primo al secondo metodo. Il quale ultimo consiste nel non tassare affatto la foresta, mentre essa matura e si avvicina al momento in cui il taglio darà la rendita massima; e nel tassarla precisamente in questo momento del taglio, in cui il reddito, accumulato nel frattempo, quasi come pel gioco degli interessi composti una somma iniziale s’ingrossa su un libretto di cassa di risparmio, viene realizzato e reso effettivamente consumabile dal coltivatore.

 

 

268. Equivalenza fiscale dei due metodi in un lungo periodo di tempo. – Volendo considerare i diversi effetti delle due maniere d’imposta, l’una delle quali tassa gli incrementi legnosi anno per anno e l’altro il taglio quando s’effettuerà al quarantesimo, cinquantesimo o sessantesimo anno di età, variabilmente a norma del dominante tasso d’interesse, si deve notare anzitutto che la scelta tra i due metodi è in un lungo periodo di tempo indifferente per l’erario: inquantoché è chiaramente uguale tassare anno per anno gli incrementi ovvero tassare alla fine del periodo l’albero in cui tutti quegli incrementi si sono insieme fusi. Nulla può perdere l’erario col secondo metodo rispetto al primo, perché ogni incremento legnoso va ad arricchire il valore dell’albero che dovrà poi essere tassato; e può desso star sicuro che l’albero non vivrà più a lungo di quanto economicamente sia utile, essendo stato dimostrato sopra come l’interesse del coltivatore forestale spinga il coltivatore ad effettuare il taglio appena l’incremento legnoso sia divenuto inferiore al tasso di interesse corrente. L’erario scegliendo il secondo metodo, si costituisce un fondo occulto, risparmiato di materia imponibile, che ad una certa data necessariamente giungerà a scadenza e dovrà essere realizzato.

 

 

269. La tassazione dell’incremento legnoso scoraggia, del taglio incoraggia i rimboschimenti. – Così facendo promuove, senza, e ciò è essenzialissimo, concedere veruna immunità tributaria, il crescere della materia imponibile, che col primo metodo invece neppure prende nascimento.

 

 

Perché è vero che il contribuente piantatore di foreste «guadagna» ogni anno l’incremento legnoso che è del 12, 10, 6, 5, 4 nei successivi anni; ma è anche vero che egli quel guadagno non realizza, non gode se non al momento del taglio. Quindi è vero che il contribuente si turberà gravemente quando gli sia richiesto il pagamento di un tributo nel momento in che egli non solo nulla incassa, nulla gode, anzi tuttavia spende per le cure dell’impianto della foresta, rinunciando a godimenti presenti in cambio di un provento futuro. Qui si vede tutta la differenza esistente fra i due metodi di tassazione del reddito guadagnato e del reddito consumato. Negli impieghi ordinari il reddito guadagnato è una quantità quasi costante di anno in anno, la quale quindi può assumere per le persone d’indole conservatrice l’aspetto di quantità consumabile durante l’anno; onde la tassazione sua non scandalizza l’opinione comune. Nel caso delle foreste il fattore «tempo» acquistando un’importanza straordinaria mette in luce chiarissima il distacco profondo che esiste fra l’un concetto e l’altro e la predilezione spontanea degli uomini per il secondo metodo di tassazione.

 

 

Predilezione che si accresce pel fatto che gli uomini sono poco usi a ficcar lo sguardo in fondo al tempo e ad apprezzare le cose lontane. Amano i redditi grossi ed immediati, preferiscono il titolo di debito pubblico 4%, sebbene facilmente convertibile, sebbene emesso alla pari e perciò senza alcun premio al rimborso, al titolo 3%, sebbene difficilmente convertibile, sebbene emesso al disotto della pari, ad un prezzo variabile tra la parità di 75 ed il nominale di 100 e quindi con premio fino a 25 lire al rimborso, perché essi sono di corte vedute, perché amano il 4% invece del 3% perché è 4, ossia una quantità maggiore immediata, senz’altro impacciarsi di calcoli, perché ognuno teme di morire presto innanzi di godere i frutti dell’impianto e ben pochi rinunciano ai godimenti presenti a prò delle generazioni venture. Già è grande la difficoltà di trovare tra gli agricoltori chi voglia piantar foreste; tutti preferendo il grano, che dopo otto o nove mesi giunge a maturazione, la vigna che frutta dopo tre anni. Si diffondono soltanto i pioppi del Canadà, ognuno sperando di vivere i 15 anni necessari a fare il lucroso taglio. Ma tutti riluttano a rimboschire pendici denudati di alti colli e di montagne, dove occorrono lavori costosi di sistemazione idraulica e terriera e dove i tagli si fanno aspettare oltre il termine della vita del piantatore. Se alla riluttanza innata nell’uomo per gli impieghi a lunga scadenza aggiungiamo l’imposta sul guadagno annuo dato dagli incrementi legnosi, vieppiù si irritano gli agricoltori contro le foreste, già odiate per l’ombra funesta e per il terreno tolto a culture più redditizie nei tempi prossimi. Non incassar nulla è già un malanno grosso; pagare in aggiunta tributo cresce il danno. Il tributo sul reddito realizzato, ossia sul taglio effettivamente compiuto appare l’unica soluzione, poiché rinvia l’epoca del pagamento del tributo al momento in che il contribuente realizza il reddito ed ha agevolezza di assolvere il debito tributario, così come insegna la terza aurea regola di Adamo Smith.

 

 

270. Transitorietà e inesistenza del danno del rinvio del pagamento dell’imposta. – L’inconveniente di rendere deserti di tributi gli anni tutti di vita dell’albero, accumulandoli alla fine, contrariamente all’interesse fiscale di avere redditi ogni anno costanti è tutt’affatto apparente e transitorio. Apparente, perché, se così non si opera, il tributo non s’incassa né prima, né poi, per la ripugnanza degli uomini a rimboschire e per il dilavarsi delle pendici, le quali diventano roccie improduttive e insofferenti di imposta. Transitorio, perché dura solo fino a quando la foresta sia giunta nel periodo detto dai foresticultori «di regime». Gli impianti invero si fanno in guisa che, passato il periodo iniziale, la foresta sia assestata, così che ogni ano in perpetuo si possa operare un taglio regolare per una zona che, di nuovo piantata, darà taglio nuovamente dopo 40 o 50 anni. Cosicché, supposta una superficie da rimboschire di 1 milione di ettari, e supponendo che ogni anno gradualmente si rimboschiscano 20 mila ettari, secondo un piano ragionato di assestamento, occorreranno 50 anni prima di giungere al rimboschimento completo di tutto il milione d’ettari. Supposto poi che il momento del taglio secondo la rendita massima sia di 50 anni, ogni anno, a partire dal cinquantunesimo anno, si farà il taglio su una zona di 20 mila ettari; e ciò durerà all’infinito, perché al centunesimo anno, dopo aver tagliate tutte le 50 zone primamente rimboschite, si tornerà a tagliare la prima zona, già tagliata nel cinquantunesimo anno e subito rimboschita, che nel centunesimo anno sarà divenuta per la seconda volta matura pel taglio; e così via di seguito per la seconda, terza, quarta, ecc., zona.

 

 

Volendo rappresentare in quadro il comportarsi dell’imposta a seconda che si adotti l’uno o l’altro sistema di tassazione, diamo il risultato del numero delle zone tassate sulle 50 che compongono il territorio considerato (V. tabella pag. 292).

 

 

Se il rimboschimento non si effettua, perché gli agricoltori sono atterriti dalla necessità di dover pagare subito l’imposta sul guadagno dato dagli incrementi legnosi, il fisco nel primo anno si avvantaggia, perché tassa tutte le 50 zone sul reddito che se ne può ricavare destinandole alla cerealicultura, alla pastorizia, alla vigna, ecc. Ma proseguendo gli elementi la loro opera distruggitrice sul lieve strato di terra feconda, al secondo anno una zona sarà divenuta improduttiva ed il fisco dovrà a malincuore esentarla per l’abbandono dei proprietari, riducendosi a tassare solo 49 zone; e così via, sinché al cinquantesimo anno avanza un’unica zona tassabile; e poi per la troppa ingordigia iniziale, ogni materia imponibile è scomparsa per sempre. Se invece, grazie all’aver rimandato l’imposta al momento del taglio, il rimboschimento si inizia, durante i primi 50 anni il fisco avrà un danno, perché vedrà a poco a poco diminuire le zone coltivate e tassabili; e crescere le zone in corso di rimboschimento ed esenti. Il danno non sarà tuttavia sensibilmente maggiore di quanto si avrebbe senza l’esenzione, come dalla tabella è chiarito; con questo vantaggio che il rimboschimento delle zone più pericolose rinsalda le rimanenti e le rende atte ad una maggiore produzione. A partire dal cinquantesimo anno tutto il milione di ettari, diviso in 50 zone di 20 mila ettari l’una, è entrato in regime; ed ogni anno si procede al taglio di una zona ed alla tassazione del taglio stesso, procedendo dalla prima alla cinquantesima e poi ricominciando dalla prima e così via in perpetuo.

 

 

Perciò a partire dal cinquantunesimo anno, mentre col metodo della tassazione sul reddito

 

 

ANNO

Tassazione secondo il reddito guadagnato nel qual caso non avviene il rimboschimento

Zone tassate

Tassazione secondo il reddito realizzato, nel qual caso avviene il rimboschimento
Zone da rimboschire tassate sul reddito delle altre culture Zone in rimboschimento esenti Zone assestate a foresta in regime normale
Numero totale Zona tassata nell’anno

50

49

1

49

48

2

48

47

3

47

46

4

46

45

5

46°

5

4

46

47°

4

3

47

48°

3

2

48

49°

2

1

49

50°

1

50

51°

50

52°

50

53°

                              –

50

54°

50

55°

50

96°

50

46°

97°

50

47°

98°

50

48°

99°

50

49°

100°

50

50°

101°

50

102°

50

103°

50

104°

50

105° ecc.

50

 

 

guadagnato e colla conseguente distruzione della foresta[5] ogni materia imponibile è del tutto scomparsa, col metodo della imposta sul reddito realizzato (taglio) ogni anno si può tassare all’infinito una zona, produttiva sempre di un taglio approssimativamente uguale. Né si gridi che il metodo è dannoso al fisco, perché ogni anno tassa soltanto 20.000 ettari invece del milione che sarebbe tassato coll’altro sistema; perché, come già spiegammo, è perfettamente equivalente tassare l’intiero taglio di 20 mila ettari, ovvero l’incremento legnoso dell’anno su un milione di ettari.

 

 

271. Come l’esenzione limitata sia empirica; e come l’esenzione del risparmio sia ottenuta solo per approssimazione. Il solo rimprovero perciò che si possa fare alle moderne norme volute dal legislatore italiano è questo: che l’esenzione limitata ai primi 10 o 20 o 30 anni è troppa esigua cosa; essendo necessario estenderla a quel periodo, lungo o breve a seconda delle varie essenze forestali, per cui dura il periodo iniziale del rimboschimento; ed essendo mestiere tassare nel periodo d’assestamento il valore medio del taglio dell’anno, dedotte le spese.

 

 

Si noti finalmente che questo metodo, che è il solo razionale, non traduce ancora perfettamente in atto il teorema dell’esenzione del risparmio, essendo questo un atto virtuoso del foresticultore e non della foresta. Il teorema richiederebbe che nel cinquantunesimo anno e nei susseguenti si tassasse il prodotto del taglio se il foresticultore lo consuma di fatto, e lo si esentasse se viene risparmiato. Ma sapendosi oramai troppo bene quali sono le difficoltà di attuazione del teorema, il legislatore s’è contentato di farne una applicazione approssimata esentando il risparmio – ossia l’aggiungersi di sempre nuovi incrementi legnosi, non mai realizzati, ai precedenti fino al momento della rendita massima – finché va accumulandosi nell’albero, e facendo intervenire l’imposta quando il taglio si realizza, disperando di poter perseguire l’applicazione del teorema fino alle sue ultime conseguenze, come pur si dovrebbe in una società di contribuenti puri, non mai esistiti in passato e non prevedibili nello avvenire.

 

 

Sezione quinta.

 

La tassazione dei redditi del lavoro e delle pensioni vitalizie.

 

272. Critica della legislazione vigente per i redditi vitalizi o temporanei. – Le considerazioni fatte sulla tassazione delle foreste ci aiutano a risolvere uno degli argomenti più vessati nella dottrina dei tributi: il trattamento fiscale dei redditi vitalizi o temporanei. Dei quali due sono le maniere principali: i redditi del lavoro che durano quanto la vita produttiva dell’uomo, e le pensioni (o censi) vitalizie che durano quanto la vecchiaia dell’uomo stesso. Le incertezze che in molti scrittori si osservano su questo punto derivano dall’avere considerate le due maniere di reddito temporaneo l’una disgiuntamente dall’altra, e dal non essere rimontati, con dirittura di logica, al postulato fondamentale dell’uguaglianza. Il legislatore italiano professa anch’egli un’opinione con sé stessa contrastante quando tassa i redditi del lavoro in categoria C dell’imposta di ricchezza mobile, esentandone i 22-40 reputati necessari pel risparmio e di nuovo le pensioni vitalizie nella medesima categoria C, esentando da tributo i medesimi 22-40 perché considerati come rimborso del capitale che il vitaliziato ha sborsato in passato ad una impresa di assicurazione per averne il vitalizio. I due motivi di esenzione sono contradditori, perché nel primo caso si esenta il risparmio compiuto in previsione di eventi futuri, nel secondo la quota di risparmio fatto nel passato e che vi è ogni presunzione sia consumata nel presente. La si vuole esentare il capitale che sta formandosi; qui il capitale già formata che va consumandosi. Ancora è illogica la maniera tenuta nell’esentare la quota di capitale contenuta nella rendita vitalizia.

 

 

Si comprende che, in mancanza di qualsiasi dato positivo sulla quantità di risparmio compiuta di fatto dai lavoratori per provvedere ad avvenimenti futuri, il legislatore abbia, in via di approssimazione empirica, adottato la regola dell’esenzione dei 22-40; non altrettanto si comprende perché la stessa determinazione empirica siasi preferita quando si poteva ricorrere a perfette tavole di interessi composti e di mortalità, le quali ci dicono quanto, su 100 lire di rendita vitalizia, debba essere considerato, data l’età del vitaliziato e dato un certo tasso d’interesse, rimborso di capitale e quanto interesse, esentando, se così volevasi, il primo e tassando il secondo.

 

 

273. Divisione delle età dell’uomo; vita produttiva e post-produttiva. – Passando ora dalla critica della legge vigente alla esposizione dei principii che dovrebbero regolare la materia, dobbiamo subito notare che la vita dell’uomo si divide in tre parti: la pre-produttiva, quella produttiva, che va dalla maggiore età economica all’età in cui l’uomo, stanco, si ritira dal lavoro, e la post-produttiva. Della prima fase della vita dell’uomo, la finanza non ha bisogno di occuparsi, perché l’uomo non lucra, ma è passivo recipiente di risparmi personali del genitore ed anche perché, incastrandosi la vita d’una generazione nella vita d’ogni altra precedente e susseguente, bisogna, per non cagionare dei doppi d’imposta, considerare una sola delle due vite durante il periodo in cui esse si sovrappongono; e sembra opportuno considerare la vita del padre, il quale procaccia la ricchezza a sé ed ai figli, quando essi sono da lui dipendenti.

 

 

274. Il problema della tassazione, nei due periodi, del lavoratore scapolo. – Durante l’età produttiva, che va dai 15-25 ai 55-65 anni, il lavoratore, guadagnando dall’esercizio del mestiere, o professione od arte 1.000 lire all’anno, ne consuma una parte, suppongasi 800, e l’altra parte 200 investe.

 

 

Suppongasi che, essendo durata la sua vita produttiva 41 anni circa, costui abbia accumulato all’interesse composto del 4% al sessantesimo anno di età sua un capitale di 20.000 lire. Essendo rimasto scapolo, ipotesi necessaria nel caso di susseguente vitalizio, e non avendo perciò famiglia a cui provvedere, egli dà le 20.000 lire ad un’impresa di assicurazione la quale, tenuto conto della sua età e delle sue condizioni di salute, gli promette un annuo vitalizio di 2000 lire. Ecco posto il problema della tassazione.

 

 

Come deve essere tassato costui nei due periodi produttivo e post-produttivo della sua vita? Il problema viene risoluto diversamente dai due principii: quello «falso» della tassazione sul reddito guadagnato, e il «vero» della tassazione sul reddito consumato. Il primo principio tratta il guadagno del lavoratore come l’incremento legnoso dell’albero. Non solo tassa le 800 lire consumate, ma eziandio le 200 lire risparmiate, perché sono un guadagno che il lavoratore ha ottenuto durante l’anno e che potrebbe consumare se volesse senza intaccare menomamente la sua fortuna originaria che era nulla. Egli preferisce aggiungere anno per anno le 200 lire le une alle altre sui conti del libretto della cassa di risparmio, ingrossando il suo credito, così come il foresticultore lascia che gli strati di incremento legnoso s’aggiungano l’uno all’altro ingrossando il tronco ma poiché d’altrettanto cresce il patrimonio alla fine dell’anno in confronto al principio dell’anno, così l’imposta percuote tutte le 800+2000 lire. Nel periodo post-produttivo l’imposta sul reddito guadagnato si fa apparentemente benigna: poiché il lavoratore aveva alla fine del sessantesimo anno di età suo accumulato un patrimonio di 20.000 lire e l’ha permutato con una pensione vitalizia di 2000 lire, durabile secondo i calcoli dell’impresa assicurativa, per 13 anni di sua vita probabile, l’imposta distingue in questa ciò che è interesse da ciò che è rimborso del capitale, quello tassando e questo esentando. Infatti all’inizio del sessantunesimo anno, dopo l’acquisto del vitalizio, il pensionando ha ancora il patrimonio di L. 20.000, sotto forma di credito scalare rimborsabile a rate durante i 13 anni residui della sua vita ed in quell’anno sessantunesimo, se egli non vuole diminuire il capitale originario, deve delle 20.000 lire di pensione vitalizia consumare solo le 800 lire che al tasso del 4% sono il frutto del capitale; e le altre 1.200 lire deve accantonare; perché alla fine dello stesso anno egli avrà soltanto più un credito di 13 – 1 = 12 annualità, del valore di L. 18.800, essendogli 1.200 già state rimborsate. Poiché reddito guadagnato è ciò che il contribuente può consumare senza intaccare il capitale originario, egli può consumare solo 800 e deve mettere da parte 1.200 lire. Nell’anno susseguente, sessantaduesimo dell’età sua, egli nuovamente riceverà un’annualità di 2.000 lire; delle quali soltanto L. 752 sono interesse del capitale di L. 18.800 al 4% e 1.248 sono rimborso del capitale. L’imposta tassa le L. 752 di interesse, che sono una ricchezza nuova, che il contribuente potrebbe consumare senza intaccare il capitale originario di L. 18.800 (delle 1.200 lire già rimborsate più non ci occupiamo, ché quelle seguiranno la sorte dei capitali messi a frutto, se lo saranno veramente, e saranno tassate sui frutti; ovvero spariranno dalla scena tributaria, se come è probabilissimo, anzi ammesso per ipotesi, saranno consumate); mentre le L. 1.248 non potranno essere evidentemente tassate, in quanto siano rimborso di capitale e non guadagno dell’anno.

 

 

Così l’imposta andrà via via tassando una parte decrescente dell’annualità vitalizia e precisamente quella che corrisponde all’interesse guadagnato sul capitale ancora da rimborsare. Se invece si parte dal principio «vero» della tassazione del reddito consumato, l’imposta nel primo periodo produttivo percuote soltanto le 800 lire consumate esentando le 200 risparmiate, insieme con i relativi interessi composti scalari, che pure si suppongono risparmiati; mentre nel secondo periodo post-produttivo percuote tutte le 2.000 lire, perché tutte sono consumate, avendo voluto il lavoratore procacciarsi nella ultima parte della vita alquanto maggiore agiatezza di quella che era possibile col godere soltanto i frutti dei suoi risparmi.

 

 

Ben diversamente si comportano i due principii nei due periodi della vita del lavoratore: il principio “falso” tassandolo su tutte le 1000 lire di reddito guadagnato nel periodo produttivo e su 80, 752, 702, ecc., lire soltanto di interesse guadagnato sulle 2.000 di pensione nel periodo post- produttivo; mentre il principio «vero» lo tassa sulle 800 consumate nel periodo produttivo, esentando le 200 lire risparmiate; e su tutte le 2.000 lire di pensione consumate nel periodo post-produttivo. Il primo metodo è colpevole di doppia tassazione, poiché fatta ragione al tempo diverso ed agli interessi decorsi nel frattempo, sarebbe chiaramente equivalente tassare 1.000 lire durante 41 anni e poi più nulla nei 13 anni residui, ovvero 800 lire durante 41 anni e poi 2.000 lire costanti negli ultimi 13 anni. Il fisco accogliendo il secondo metodo, posponendo cioè il momento dell’esazione dell’imposta perduta nel periodo produttivo al periodo post-produttivo, così come il contribuente pospone il godimento della sua ricchezza, opera saggissimamente in quanto, senza concedere nessun favore, senza danneggiare sé stesso, anzi preparandosi un’opima mese di tributi col trascorrere del tempo, non pone un ostacolo alla formazione del risparmio. Mentre invece col primo metodo tassa le 800 consumate e le 200 risparmiate nel primo periodo e poi di nuovo, illogicamente, una parte di queste ultime e cioè gli interessi scalarmente decrescenti in L. 800, 752, 702, ecc., nel secondo periodo.

 

 

Apparentemente il fisco lucra con questa prima maniera di tassazione; in realtà perde alla lunga, perché scoraggia dalla formazione del risparmio con la iniquità della doppia tassazione.

 

 

275. Analogo comportamento dei principii opposti per il contribuente con prole. – Se il contribuente lavoratore non sia scapolo, ma abbia prole e nel periodo produttivo della sua vita abbia prelevato dalle 1000 lire di puro reddito 200 lire all’anno per l’allevamento, istruzione ed educazione dei suoi figli, il problema, sebbene in apparenza alquanto più complesso, viene alle stesse soluzioni. Anzi il principio «falso» della tassazione del reddito guadagnato può riuscire a peggior meta, poiché considerando come reddito imponibile tutta la ricchezza consumabile senza intaccare il capitale originario, tassa il padre, Tizio, sulle 1.000 lire di suo guadagno, e di nuovo i figli per tutto il guadagno che essi otterranno nella loro vita produttiva, sia che essi lo rivolgano a soddisfacimento di bisogni proprii od al sostentamento del loro vecchio genitore. Né il genitore, né i figli posseggono alcun capitale, che essi debbano conservare e per la cui ricostituzione debbano prelevare una quota del reddito guadagnato. Che se anche si opinasse doversi conservare il capitale personale di qualità acquisite, il prelievo dovrebbe cominciare solo alla seconda generazione; poiché il padre Tizio che ha cominciato a destinare 200 lire all’anno allo scopo di innalzare i figli suoi nella scala sociale e di metterli in grado di guadagnare un salario maggiore delle sue 1.000 lire annue, non era stato, per così dire, capitalizzato dai suoi genitori o lo era stato in misura ben minore. Quindi, non essendo egli un capitale, non può pretendere di dedurre dalle 1.000 lire alcuna quota di reintegrazione di un capitale personale inesistente. Ben potranno pretendere tal deduzione i suoi figli che sono divenuti operai abili e qualificati, mentre il padre era un semplice manovale; ed essi dai loro salari di 1.500 o 1.600 lire dedurranno le 200 o 300 lire necessarie a ricostituire il capitale investito dal genitore sulla loro testa, e che essi non possono considerare come «guadagno» dovendolo destinare a rimborso di capitale.

 

 

Il principio «vero» dell’imposta sul reddito consumato opera diversamente poiché esenta il padre Tizio sulle 200 lire di risparmi personale investito a prò della seconda generazione, tassando solo le 800 lire da lui consumate; ed i figli tratterà con asprezza, tassandoli su tutte le 1.500 o 1.600 lire da essi poi guadagnate se tutte le consumeranno a propria gratificazione rimanendo scapoli o trascurando la figliuolanza e lasciandola di nuovo decadere alla condizione di manovalanza da cui erano stati tratti; ovvero esentandoli sulle 300 o 400 o magari 600 che avessero voluto destinare allo scopo di far vieppiù ascendere i loro figli nell’ordine delle dignità sociali.

 

 

276. Effetti dannosi della tassazione del reddito guadagnato. – Sempre dunque i due principii si comportano con grande diversità di effetti economici: perché il principio della tassazione del reddito guadagnato tassa duramente la prima generazione che si affatica, e si sacrifica a prò delle generazioni successive; e con mitezza queste ultime, che godono i frutti dell’opera altrui; mentre il principio della tassazione del reddito consumato risparmia il genitore fecondo e altruista, e tassa i figli egoisti e consumatori, esentandoli solo ove anch’essi imitino o superino le virtù del padre. A parità di risultati finanziari, il principio «falso» inferocisce contro i contribuenti quando piantano foreste, si sacrificano per provvedere alla vecchiaia od ai figli, ed è pieno di dolcezza per quelli che godono i tagli della foresta, consumano passivamente nell’ultima parte della vita le ricchezze accumulate nella prima o traggono vantaggio dall’opera altruista del genitore; il principio «vero» riconosce la convenienza di essere mite quando gli uomini compiono l’opera di rinuncia o di edificazione, ben sicuro di ripigliare il perduto quando gli uomini godranno i frutti dell’opera passata. Solo «contabilmente» i due principii, talvolta, come nel caso della foresta, si equivalgono. L’equivalenza è scritta sulla carta e risulta dal prontuario dei conti fatti. Nel mondo delle realità, l’uomo si annoia di essere vessato quando intende con sacrificio alle opere dell’avvenire; risente con ira l’imposta che, si aggiunge ai suoi sacrifici attuali di lavoro e di capitale per crescerne il costo che non si sa se potrà essere compensato in futuro. Di mala voglia paga i balzelli quando pianta gli arbusti che non sa se diventeranno alberi robusti, o spende per educare figli che non sa se risponderanno alle sue cure ed alle sue brame, o per formare un risparmio che non sa se la morte gli impedirà di godere. L’imposta agisce dunque in questo primo periodo come freno al risparmio, come impedimento alla piantagione delle foreste, come remora alla creazione di nuove giovani genti più colte, più educate.

 

 

La ricchezza non si forma; e nei periodi della raccolta, quando la materia imponibile dovrebbe essersi fatta ricca e copiosa, la messe è rada e brutta, onde da sé si punisce l’ingordigia del fisco.

 

 

Sezione sesta.

 

L’imposta sul reddito dei fabbricati e quella sulle aree fabbricabili.

 

277. Indole dell’industria edilizia. Dinamica dei valori delle aree fabbricabili. – Le stesse riflessioni fatte sopra inducono a lodare la sapienza dei nostri padri che erano rimasti contenti a colpire di imposta i fabbricati, dopo che questi erano stati costrutti ed erano divenuti fecondi di fitti ai proprietari[6], ed a biasimare la cortezza di vedute dei moderni legislatori i quali, impazienti di attendere la maturazione degli eventi, si affrettano a tassare le aree fabbricabili quando, tuttora immature, aspettano il momento della loro più economicamente conveniente utilizzazione. La fabbricazione è un’industria la quale procede, scegliendo nel gran novero di aree le quali sono fisicamente fabbricabili quelle economicamente mature alla fabbricazione. Ai limiti estremi dove giungono gli ultimi tentacoli della città moderna, le aree hanno un valore puramente determinato dagli usi agricoli possibili in quella regione, supponiamo 1 lira al metro quadrato. A mano a mano che andiamo verso il centro o verso i diversi centri cittadini, operai, industriali, commerciali, bancari, signorili, burocratici, ecc. ecc., il valore dell’area fabbricabile aumenta a 5, 10, 50, 100 persino 1000 o 10.000lire al metro quadrato, a seconda della possibilità di moltiplicare gli scopi per cui il terreno può essere utilizzato. Un’area che, per la sua situazione lontana dal centro e scomoda per le vie ordinarie di accesso, per la mancanza di fognatura e marciapiedi e la insufficienza di illuminazione, sebbene vicina ad una linea ferroviaria a cui si possa raccordare, può essere utilizzata soltanto per usi agricoli o per stabilimento industriale, potrà valere 5 lire. Se le strade esistono ed esiste anche la illuminazione notturna, potrà sorgere un nucleo di case operaie ed il terreno potrà innalzarsi sino al prezzo di 10 lire; e così via via il prezzo aumenta mentre si moltiplicano i possibili usi concorrenti. Spostandosi questi, si spostano i prezzi continuamente; poiché i prezzi sono l’indice delle variazioni attuali e previste negli usi dell’area.

 

 

278. Funzione della speculazione edilizia. – Lo speculatore prevede che fra 14 anni e 1/5 circa una data area situata su un corso già tracciato sul piano regolatore e non ancora costruito potrà essere destinata ad uso di palazzina signorile e varrà allora 100 lire al metro quadrato ed egli calcola perciò che all’interesse del 5%, compresi gli oneri inerenti all’industria della speculazione edilizia, gli convenga comprare l’area al prezzo attuale di 50 lire e tenerla inutilizzata per 14 1/5 anni. Facendo così egli lucra il 5% corrente, per ipotesi, per quella sorta d’impieghi.

 

 

Se la costruisce prima egli perderebbe, perché l’area, prima dei 14 1/5 anni, non è ancora diventata matura per la fabbricazione a palazzina, bensì soltanto per un uso inferiore, il quale non consente il pagamento di un prezzo di L. 100. Supponiamo che dopo 10 anni l’area sufficientemente provvista di comodità per abitazioni del ceto medio borghese possa essere venduta a 60 lire per costruirvi una casa di quattro piani. Lo speculatore che ha comprato a 50 lire, e comprare a minor prezzo gli era impossibile, data la concorrenza di altri speculatori, i quali intuivano la convenienza di aspettare 14 1/5 anni, – perderebbe, perché dopo 10 anni l’area gli costa, cogli interessi composti, 81 lire circa. Neppure gli convien protrarre la costruzione oltre i 14 1/5 anni, perché dopo 25 anni l’area potrà valere 125 lire ed essere destinata ad uso misto di abitazioni signorili e botteghe, ma a lui sarà costata invece 168,30 lire cogli interessi composti. Quindi la convenienza di ottenere il lucro massimo consiglia lo speculatore a non anticipare né ritardare oltre i 14 1/5 anni la fabbricazione dell’area; perché soltanto in quel caso egli ottiene adeguato guiderdone, il massimo possibile, dalla sua speculazione. Col suo coincide l’interesse della società; essendo chiaramente interesse della società che la fabbricazione delle aree avvenga nel momento in cui è massimo il lucro dello speculatore. Che cosa vuol dire infatti che in quel momento, valendo l’area 100 lire, la speculazione guadagna il massimo? Vuol dire che lo speculatore è riuscito ad indovinare l’uso più adatto per quell’area ed il momento più conveniente della fabbricazione. Le città seguono una logica nella loro espansione; e la città più bella, più attraente, fonte di maggiori godimenti estetici e di maggiori comodità personali è quella in cui si è operata la più sapiente distribuzione dei quartieri destinati ai diversi usi e dove sulla stessa via, nello stesso rione non si toccano villini con giardino, palazzi maestosi, case operaie, stabilimenti fumiganti; e dove invece la varietà architettonica innalza il pregio delle costruzioni simili sapientemente avvicinate. Questa sapienza è in notevole parte opera dei dirigenti la politica municipale dei piani regolatori; ed è altresì opera del meccanismo dei prezzi. È il meccanismo dei prezzi che innalzando il valore di talune aree, deprimendo quello di altre, destina le prime a costruzioni eleganti e signorili e le altre a nere costruzioni industriali; e allontanandoli le une dalle altre innalza il pregio delle prime e crea comodità di raccordi ferroviari, di stazioni, di transiti rumorosi per i quartieri industriali. Ogni sbaglio nel calcolare le vicende future dei prezzi produce conseguenze perniciose. Ad ognuno di noi è toccato vedere con disgusto su corsi stupendi di costruzioni d’alto valore elevarsi una casetta modesta che dal trascorrere del tempo fatta è vieppiù turpe, od i camini di un opificio. Lo sconcio è dovuto alla fretta di chi, non essendo nato speculatore, costrusse troppo presto su un’area che, se era matura per quegli usi inferiori, stava ancora maturando per usi più perfezionati. Lo sconcio dura talvolta per decenni, finché il rialzo del prezzo dell’area non consenta di demolire la vecchia costruzione; e talvolta dura per secoli quando l’incremento di valore non è bastevole a compensare le spese della demolizione e ricostruzione. Se si fosse tardato qualche anno, l’area sarebbe stata utilizzata nella maniera più conveniente e definitiva; definitiva, s’intende, per quel lungo periodo di tempo che la mente umana può concepire.

 

 

Già aveva osservato il Fisher (Capital and income, pag. 221) che «talvolta i due usi a cui un terreno può essere destinato differiscono non soltanto nel loro ammontare, ma anche nel tempo del loro cominciare o finire. In una città, per esempio, un’area può essere destinata sia per uso presente d’abitazione o per uso futuro commerciale ed è spesso dubitabile quale dei due usi sia il più pregevole. Nel caso che la città cresca rapidamente può accadere che in certi rioni, quantunque l’uso presente per abitazione sia il più importante in pochi anni la località cessi di essere desiderabile come residenza e l’area diventi appetibile per affari. In tal caso può “rendere” a tenere l’area del tutto libera da usi presenti, conservandola in disparte finché la città sia cresciuta sino a rendere conveniente la costruzione di un caseggiato commerciale. Se l’area fosse ora coperta da una casa di abitazione, forse la possibilità del suo uso commerciale sarebbe tolta, o fors’anco il profitto derivante dalla sua conversione a questi usi verrebbe diminuito dalla demolizione e perdita del valore della casa d’abitazione. In siffatte circostanze accade che lo speculatore compra e tiene vuota l’area. Il guadagno è previsto da essi sotto l’aspetto di un aumento futuro di valore derivante dall’ampliarsi della città; epperciò comprano aree per rivenderle più tardi ad un prezzo superiore. Comunemente si reputa che questo speculatore mantenga le aree fuori uso. Egli, tuttavia, pospone solamente il momento dell’uso; e, se egli ha capacità di previsione, non deve essere condannato più del saggio speculatore alla borsa del grano, la cui opera, come è ben noto, tende a conservare la provvista di grano. Lo speculatore tende a fare utilizzare le aree nel miglior modo possibile, scegliendo tra le varie correnti alternative di reddito, che l’area può dare, precisamente quella che possiede il massimo valore presente».

 

 

279. L’imposta sul reddito dell’area costrutta lascia lo speculatore indifferente. – Vediamo ora quale sia l’efficacia dell’imposta. Se essa, come è uso nella maggior parte dei sistemi tributari, colpisce il reddito dell’area quando essa sia stata costrutta, e cioè quando al 14 1/5 anno frutterà 5 lire nette all’anno (il metro quadrato all’anno quattordicesimo 1/5 varrà appunto 100 lire perché si stimerà fecondo di un reddito annuo di lire 5), essa ridurrà nella stessa sua proporzione il valore dell’area in quel momento futuro e per ripercussione nel momento attuale. L’area fabbricata rendendo, per ogni metro quadrato, l. 5 – 0,50 = L. 4,50 in perpetuo a partire dal quattordicesimo 1/5 anno in poi varrà in quel momento 90 lire, e quindi varrà adesso 45 lire. Lo speculatore comprando l’area a 45 lire ha sempre convenienza di attendere il momento della maturazione, utilizzando l’area nel miglior modo possibile. Egli non ha interesse per causa dell’imposta ad anticipare la fabbricazione, perché anticipa contemporaneamente l’imposta: né ha interesse a posticipare la fabbricazione per ritardare l’inizio della percussione dell’imposta, perché ritarderebbe, in modo non conveniente per lui, altresì l’inizio della percezione dell’interesse. L’avvento dell’imposta sul reddito realizzato in seguito alla costruzione dell’area lascia lo speculatore perfettamente indifferente, libero di seguire quella via che avrebbe altrimenti scelto ove l’imposta fosse stata assente. Oggi l’area vale, al lordo da imposta, 50 lire perché avrà un valore di 100 lire fra 14 1/5 anni. Se egli costruisce ora ne ricaverà al massimo[7] un reddito di L. 2,50 annue in perpetuo, su cui l’imposta cadrà pel valsente annuo (all’aliquota del 10%) di 25 centesimi equivalenti alla perdita attuale di l. 5; se egli attende a costruire al quattordicesimo 1/5 anno, egli avrà un reddito di lire 5 all’anno, e pagherà d’imposta 50 centesimi annui in perpetuo, equivalenti a 10 lire di valore attuale al quattordicesimo 1/5 anno. Ma poiché 10 lire fra 14 1/5 anni equivalgono al tasso del 5% a 5 lire ora, rimane dimostrato che lo speculatore, sia che costruisca ora o tardi a costruire al quattordicesimo 1/5 anno, paga sempre la medesima imposta e da questa non è indotto a preferire più l’una che l’altra soluzione.

 

 

280. L’imposta sull’incremento di valore accelera la fabbricazione. – Supponiamo ora che l’imposta sia sul reddito guadagnato e colpisca col 10% l’incremento di valore che l’area ottiene di anno in anno pel progredire della città. Supponiamo, come nel caso precedente, che si preveda possa l’area valere fra 14 1/5 anni 100 lire al metro quadrato e valga per conseguenza 50 lire al momento iniziale. Supponiamo che sia indifferente costruire oggi ovvero fra 14 1/5 anni; perché oggi il reddito del metro quadrato di area costrutta[8] è di L. 2,50 e fra 14 1/5 anni si prevede di L. 5. Sono le ipotesi fatte prima e sono tutte necessarie per evitare che la decisione di costruire o di ritardare l’edificazione si attribuisca all’imposta mentre è dovuta ad altri elementi. Supponiamo ancora, per semplicità di calcolo, che il valore dell’area cresca regolarmente come cresce la perdita dell’interesse composto al 5% cosicché in ogni successivo momento sia indifferente, astrazione fatta dall’imposta, costruire o non costruire.

 

 

Nel caso che la fabbricazione sia immediata, supponiamo che il valore dell’area più non aumenti; come è ragionevole supporre, poiché per un lunghissimo spazio di tempo, quale la mente umana può concepire, il fitto netto del metro quadrato rimane fisso in lire 2,50; e quindi non si può immaginare un incremento di valore dell’area. In questo caso il «guadagno» sarà eguale al «realizzo» e sarà dato unicamente dall’ammontare dei fitti netti. Possono darsi casi di costruzioni temporanee: tettorie, stabilimenti industriali, ecc.; ed in tal caso la soluzione sarà la risultante della sovrapposizione delle due soluzioni di fabbricazione immediata e proposta.

 

 

Veggasi ora (nella tabella di fronte) come si comporta l’imposta sul reddito guadagnato; e per converso riguardisi gli effetti già narrati dell’imposta sul reddito realizzato.

 

 

Mentre l’imposta sul reddito realizzato non perturba il giudizio dello speculatore; perché sia che egli si decida alla fabbricazione immediata, sia che preferisca posporla, sempre paga un tributo equivalente

 

 

ANNO

Dopo in perpetuo ogni anno

Valore attuale annualità future d’imposta
Imposta sul reddito guadagnato 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 14 1/5
1) Fabbricazione posposta.
Valore lordo area a fine anno 50 52.50 55.10 57.80 60.80 63.80 67 70.40 73.80 77.60 81.60 85.60 89.70 94.30 99 100 100
Incremento valore 2.50 2.60 2.70 3 3 3.20 3.40 3.40 3.80 4 4 4.10 4.60 4.70 1
Fitti netti 5
Imposta 10% su incremento 0.25 0.26 0.27 0.30 0.30 0.32 0.34 0.34 0.38 0.40 0.40 0.41 0.46 0.47 0.10 3.60  8.60
Imposta 10% su fitti netti 0.50 5
2) Fabbricazione immediata.
Valore lordo area 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50 50
Reddito in fitti netti 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50
Imposta 10% sui fitti netti 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 5
Imposta sul reddito realizzato di fitti netti 1) Fabbricazione posposta.
Fitti netti 5
Imposta 10% 0.50 5
2) Fabbricazione immediata.
Fitti netti 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50 2.50
Imposta 10% 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25 0.25

 

 

 

 

ad un valore attuale di 5 lire; ben diversamente accade se l’imposta percuote il reddito guadagnato. In questo caso, se egli si decide alla fabbricazione immediata, il valore dell’area rimane costante per tutto il periodo, il guadagno è limitato perciò ai fitti netti di 2,50 lire all’anno e l’imposta è eguale ad una serie annua in perpetua di L. 0,25, equivalente ad un valore attuale di 5 lire. Se egli si decide alla fabbricazione fra 14 1/5 anni dovrà pagare: 1) L. 0,50 all’anno in perpetuo sul fitto netto di 5 lire che pure in perpetuo percepirà a partire dal quattordicesimo 1/5 anno in poi; le quali L. 0,50 avranno il valore di 10 lire al quattordicesimo 1/5 anno e per conseguenza il valore attuale di 5 lire; 2) L. 0,25 nel primo anno d’imposta sull’incremento di valore di L. 2,30 verificatosi nello stesso anno, L. 0,26 nel secondo anno, L. 0,27 nel terzo anno e così via, fino a pagare L. 0,10 nel primo quinto nel quindicesimo anno sull’ultima lira di aumento verificatosi in quei pochi mesi innanzi alla maturazione definitiva dell’area, come si legge nella tabella. Questa serie crescente di imposte equivale, al tasso di sconto del 5%, ad una somma attuale di L. 3,60, che aggiunte alle altre 5 lire, compongono il peso totale dell’imposta in caso di fabbricazione posposta, di L. 8,60. Vedesi dunque che il sistema dell’imposta sul reddito realizzato lascia lo speculatore, a parità di altre circostanze, indifferente rispetto al fabbricare presto o tardi, perché con ambedue i metodi paga 5 lire di tributo. Mentre il sistema dell’imposta sul reddito guadagnato gli fa pagare 5 lire soltanto se egli costruisce immediatamente e L. 8,60 se egli ritarda la costruzione, ed agisce perciò come un premio alle fabbricazioni più vicine, ed è causa di tutti i danni che sopra furono descritti e sono visibili ad ogni osservatore. Il mercato immediatamente tien conto di questa opzione lasciata allo speculatore; in questo senso, che costui veda che la stessa area, la quale al momento attuale iniziale ha il medesimo valore lordo (lordo cioè dalla perdita capitalizzata delle imposte future) di 50 lire, ha due possibili valori netti di 50 – 5 = 45 lire in caso di fabbricazione immediata, e di 50 – 8,60 = 41,40 lire in caso di fabbricazione posposta. E cioè il mercato con la variazione spontanea dei prezzi, addita allo speculatore la convenienza di preferire l’uso per il quale l’area viene maggiormente valorizzata, ossia la fabbricazione immediata.

 

 

Peggio accade se, come usa l’imposta italiana sulle aree fabbricabili, il balzello colpisce, con l’aliquota dell’1, 2 ovvero 3% il valore invariabile dichiarato al principio del periodo. Nel caso nostro supponendo l’imposta dell’1% ed il valore iniziale, dichiarato conformemente al vero, di 50 lire, nel caso di fabbricazione immediata nulla si paga a questo titolo e si paga solo l’imposta sul reddito di fitti netti del fabbricato, il cui equivalente attuale vedemmo essere di 5 lire[9]; mentre nel caso di fabbricazione posposta, oltre alle sovradette 5 lire, si pagherebbero, supposta l’aliquota anche solo dell’1 %, 50 centesimi all’anno per 14 1/5 anni, equivalenti ad un valore attuale di 5 lire. E cioè 10 lire in tutto, che diventerebbero 15 o 20, ove l’aliquota dell’imposta sulle aree fabbricabili fosse del 2 o del 3% e cioè il doppio, il triplo, od il quadruplo di ciò che si pagherebbe nel caso di fabbricazione immediata. Onde l’imposta italiana sulle aree fabbricabili, che è un campione peggiorato del tipo d’imposta sul reddito guadagnato, produce l’inconveniente di accelerare la fabbricazione.

 

 

281. Dannosi effetti dell’accelerata costruzione. – Intendasi ancora meglio che cosa s’intende per questo effetto di accelerazione. In parte si accelera il processo complessivo delle costruzioni edilizie di una città, perturbando i rapporti di investimento dei capitali a vantaggio dell’industria edilizia ed a danno delle altre industrie. Il quale effetto, sebbene non ci sia possibile discorrerlo oltre, devesi reputare per sé stesso già dannosissimo. Inoltre si accelera il processo di costruzione delle aree più care in confronto a quelle meno care. Mentre, nell’assenza dell’imposta o con un’imposta sul reddito realizzato, lo speculatore avrebbe avuto interesse ad offrire ogni anno per la fabbricazione della quantità di case necessaria al consumo, le aree economicamente più mature alla fabbricazione, e così le aree centrali per usi di negozio o di uffici, le aree più ridenti per palazzine o case signorili, le aree meno suscettibili di valorizzazione per case operaie, e le aree più scadenti per uso industriale; esistendo invece un’imposta sul reddito guadagnato – ossia sugli incrementi effettivi o presunti di valore delle aree – nasce la convenienza ad offrire, per la fabbricazione dell’identica quantità di case, quelle aree che lasciate vuote, aumenterebbero di anno in anno di valore di una maggiore quantità assoluta, provocando la perdita differenziale di una maggiore somma di imposte. Tra due aree, l’una del valore di 50 lire al metro quadrato, che aumento di valore di L. 2,50 nel primo anno e l’altra di 5 lire che aumenta di valore di L. 0,25, conviene di più, data l’imposta del 10% sul reddito guadagnato, costruire la prima che la seconda. Invero l’imposta del 10% su lire 2,50, riduce il reddito netto a L. 2,25 ossia al 4,50% appena del capitale di 50 lire, che è un reddito minore del tasso corrente d’interesse, onde si perde a non costruire subito.

 

 

Mentre la stessa imposta su L. 0,25 riduce il reddito netto a L. 0,255, che è ugualmente il 4,50% del capitale di L. 5; cagionando del pari una perdita a non costruire. Siccome però la perdita è nel primo caso di 25 e nell’altro solo di 2.5 centesimi per metro quadrato, siccome nell’un caso la perdita è su un capitale di 50 lire e nell’altro di 5 lire, lo speculatore è indotto a preferire la perdita minore ed a costruire le aree più care. L’effetto dell’imposta non è dunque soltanto di accelerare le costruzioni nel loro complesso; bensì anche di spostarle da luogo a luogo mutando la maniera con cui le città si formano. Alle città disseminate su vasta zona di terreno, con ampi spazi vuoti intermedi, con divisioni di rioni a seconda degli usi diversi, l’imposta sul reddito guadagnato tende a sostituire le città concentrate su breve spazio, ipertrofiche, senza spazi verdi, senza prati di libero percorso per le genti festanti, porgenti spettacolo orrendo di mistura di case adibite ad usi diversissimi. Il primo tipo di città è la città moderna, la città giardino, la città bella, estetica ed apparentemente di costosa amministrazione. La seconda è la città a cui non più le mura medievali, ma l’imposta modernissima tolgono aria e luce e sole, la città rumorosa, folta di uomini doloranti, e in sostanza costosissima per opere di risanamento, di abbellimento, di sventramento alle venture generazioni. La prima è la città dei veggenti risparmiatori, la seconda è la dimora degli avari sordidi e ciechi.

 

 

 


[1] Il compilatore dietro autorizzazione del prof. Einaudi, ha conglobato nel presente corso alcuni intieri capitoli, che si riferiscono alla materia che ora si comincia a discutere, tratti da una sua memoria pubblicata nel volume 1911-12 delle Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino ed intitolato: Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposte su reddito consumato. Saggio di una teoria dell’imposta dedotta esclusivamente da postulato dell’uguaglianza, memoria nella quale, a differenza degli altri scrittori la trattazione della teoria dell’imposta viene appunto sistemata intorno al concetto del reddito consumato.

[2] Per coloro che non sono pratici di contabilità diremo che «valore attuale» di una cosa feconda di reddito è l’equivalente che si deve pagare oggi in cambio della serie futura di quei redditi. Così se una cosa è feconda di un reddito di 5 all’anno in perpetuo e se il tasso d’interesse è del 5% quella cosa avrà un valore attuale di 100 lire. Se il reddito di 5 lire lo si ha per una volta tanto e fra un anno la cosa che darà quel reddito fra un anno ha oggi il valore di 5 lire meno lo sconto del 5%, ossia vale lire 4.75. Questa operazione per cui il valore futuro di un reddito unico o di una serie di redditi viene ridotto a valore attuale si chiama operazione di sconto e si compie mercé l’impiego di un tasso di sconto, che può essere del 4,5 % od altri saggi inferiori, superiori od intermedi. A seconda dell’applicazione di uno o di altro tasso dello sconto, risulta diverso il valore attuale. Così 5 lire di reddito annuo in perpetuo valgono 100 lire oggi, se il tasso di sconto è del 5 o 125 lire se il tasso di sconto è del 4% (infatti 125 lire impiegate al 4% rendono in perpetuo ogni anno 5 lire), 166.66 se il tasso di sconto è del 3% e solo 83,33 se il tasso è del 6 per cento.

[3] Qui e in tutte le successive argomentazioni si fa astrazione dalle variazioni di valore della moneta e dalle variazioni del saggio dell’interesse. Di queste variazioni si dovrebbe tener conto a parte.

[4] Cfr. fra gli altri il libro di uno dei classici dell’economia delle stime Giuseppe Borio. Primi elementi di economia e stima dei fondi agrari e forestali. Quarta edizione per cura del prof. C. Tommasina, Torino, Unione tip. ed. torinese, 1910, pag. 118 e segg.

[5] S’intende agevolmente che, quando si dice essere la distruzione della foresta una conseguenza del sistema d’imposta, non si vuole asseverare essere questa l’unica causa del fatto dannoso: bensì una delle cause concomitanti, forse quella che dà l’ultimo tratto alla bilancia. Ed anche s’intende che non in ogni luogo il sistema della tassazione sul reddito guadagnato dà luogo alla distruzione della terra, bensì soltanto in quei territori dove la cultura forestale è il mezzo esclusivo per conservare la terra. E vuolsi ancora avvertire, benché sarebbe superfluo, che la religione della foresta non deve diventare una monomania e spingere a piantare alberi laddove può durare il pascolo o dove può ottenersi un conveniente equilibrio tra le varie culture.

[6] L’imposta sul reddito netto dei fabbricati costrutti chiamasi qui imposta sul reddito realizzato non già perché sia veramente tale – dovrebbe invero percuotere solo quella parte dei fitti netti che è effettivamente consumata dai proprietari – ma perché essa colpisce il reddito quando oggettivamente si distacca dalla fonte ed è «pronto al consumo». Il reddito guadagnato, giunto a questo punto, è assai più vicino al consumo di quanto non fosse quando consisteva in un semplice incremento di valore della fonte. A spiegare il concetto valgono del resto le ragioni esposte nel capo primo intorno alla differenza dei due concetti di reddito guadagnato e di reddito realizzato rispetto alle cose feconde di reddito e rispetto alla persona o contribuente.

[7] Si dice al massimo perché se rendesse di più, l’area non varrebbe 50 lire, ma 55 o 60; e non sarebbe più conveniente, astrazion fatta dall’imposta, ritardare il momento della fabbricazione per avere fra 15 1/5 anni un valore di sole 100 lire: mentre mettendo a frutto le 60 lire, dopo 14 1/5 anni se ne sarebbero avute 120. Quindi non l’imposta, ma la perdita degli interessi lo avrebbe indotto ad anticipare la costruzione: come nel caso inverso a posticiparla. Per vedere l’effetto dell’imposta bisogna supporre che al momento dato, iniziale, sia indifferente costruite e non costruite, per vedere se l’avvento dell’imposta faccia pencolare la bilancia in favore dell’una o dell’altra alternativa.

[8] Naturalmente qui non si tiene calcolo, per non complicare il discorso, del reddito della costruzione sorta su quel metro quadrato, ma soltanto del reddito derivante dall’uso dell’area edilizia, e cioè della rendita edilizia propriamente detta.

[9] In realtà l’imposta in Italia è assai più elevata; ma ciò non monta ai fini della dimostrazione, perché sarebbe anche più elevata nel caso di fabbricazione posposta.

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