Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo V – Le imposte sui trasferimenti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo V – Le imposte sui trasferimenti

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 627-659

 

 

 

Sezione prima.

Fondamento teorico delle imposte sui trasferimenti in generale.

 

529. Richiamo all’imposta patrimoniale. – Fu dimostrato nel capitolo terzo di questa parte (cfr. par. 409 e segg.) come ad attuare il teorema della esenzione del risparmio in funzione della qualità del risparmio si possa usare lo strumento dell’imposta patrimoniale, la quale, da sola o sovrapponendosi all’imposta sul reddito guadagnato totale, costituisce una tassazione differenziale del reddito proveniente da lavoro puro o dalla parte «lavoro» nei redditi misti. Ma l’imposta sul patrimonio può essere esatta ogni anno ed allora ha nome propriamente di imposta patrimoniale; ovvero può essere esatta ad intervalli irregolari, in occasione dei trasferimenti di patrimonio da una persona ad altra ed in tal caso prende il nome di imposta sui trasferimenti. Ma la natura sua è la medesima, trattandosi di differenza determinata meramente da considerazioni di opportunità o tecnica fiscale; e sempre la spiegazione dell’imposta sta nel requisito dell’esenzione del risparmio capitalistico e personale.

 

 

530. La spiegazione politica illusoria delle imposte sui trasferimenti. – Quella che si disse ora ragione di opportunità o tecnica fiscale sta nell’esigenza a cui tutti i legislatori obbediscono di dover frequentemente mutar nome al medesimo balzello, per renderlo accettabile ai popoli.

 

 

Trattasi, è vero, ognora di imposta sul patrimonio e quindi sul reddito derivante dal patrimonio; ma il fatto di essere esatta a periodi indeterminati di tempo la fa sembrare più tollerabile. Chi vende ritiene di poterla accollare al compratore; e questi si stima accorto abbastanza da averla scontata sul prezzo di compra. Il defunto non erasi, in vita, curato di un tributo che doveva essere pagato dopo morto; e gli eredi o legatari sono abbastanza lieti dell’eredità ricevuta per inquietarsene oltremisura.

 

 

Così, mutando nomi a forme ai balzelli, i governanti persuadono i popoli di dover pagare per un nuovo motivo, mentre la ragion del pagare è sempre la tassa: la destinazione di una quota parte del reddito consumato a consumi privati e di un’altra a consumi pubblici.

 

 

531. La spiegazione regalistica. – A coonestare la varietà dei balzelli si usano ancora addurre altre ragioni svariate. Così fu detto che le imposte sui trasferimenti sono una specie di riconoscimento della proprietà eminente dello Stato su tutti i beni che compongono la ricchezza del paese.

 

 

La quale proprietà eminente del principe dorme finché il bene resta nel possesso della medesima persona; ma risorge quando il bene passa da una persona all’altra; onde l’imposta non sarebbe che il riconoscimento che i privati acquisitori od eredi fanno del diritto di eminente dominio dello Stato. Ma questa giustificazione, che si riattacca alla teoria regalistica, non ha più valore ai giorni nostri, in cui non esiste traccia del diritto feudale della proprietà; e questa è riconosciuta piena salvo le restrizioni imposte dalla ragion pubblica. Un tempo il principe si faceva in realtà pagare una somma nel caso di trasferimento di fondi, perché i singoli feudatari e vassalli traevano il loro diritto da un investimento del principe ed il permesso di trasmettere il possesso si considerava come una concessione graziosa da parte da parte del principe. Oggi manca la base ad un’argomentazione analoga, essendo venuta meno la organizzazione feudale della società.

 

 

532. La spiegazione del servigio resoRichiamo al sistema delle tasse. – Secondo altri, queste imposte trovano la loro ragione nel servizio reso dello Stato ai privati, quando, per esempio, registrando contratti di vendita, evita eventuali litigi e conferisce certezza al diritto di proprietà, possibilità di esercizio del credito, ecc. ecc. Ma tale teoria potrebbe spiegare una tassa e cioè un compenso che fosse commisurato al costo del servigio e che non fosse coattivo, ma facoltativo lasciando libero al privato di giovarsi o meno del servigio fornito dallo Stato.

 

 

E noi sappiamo, per lo studio che abbiamo fatto delle tasse, che in realtà i tributi sui trasferimenti sono in parte tassa, essendo indubbiamente un compenso a certi servigi resi dallo Stato (cfr. par. 120 a 122). Ma sappiamo anche che col criterio della tassa pura si spiegherebbe una parte assai piccola dei tributi obbligatori pagati in occasione dei trasferimenti a titolo oneroso o gratuito. Il resto, ossia il più, rimane avvolto nel mistero.

 

 

533. La spiegazione informata al principio della tassazione del reddito guadagnato. – Da cui non lo trae nemmeno il ricorso che si potrebbe fare al concetto ispiratore delle imposte sul reddito guadagnato. Invero si potrebbe dire che le imposte sui trasferimenti hanno per iscopo di colmare una lacuna che nei sistemi tributari moderni è lasciata dalle imposte sui redditi. Le quali sappiamo già (cfr. par. 386 e 387) che non colpiscono le occasioni eventuali e gratuite della ricchezza, purché non si ritiene che le somme ricevute in eredità o donazione facciano parte del reddito tassabile colle imposte cosidette sui redditi e, fra noi, coll’imposta sui redditi di ricchezza mobile. Vedemmo allora come i legislatori, trovatisi di fronte a questa ripugnanza irragionevole della pubblica coscienza a considerare le somme ricevute a titolo di donazione o successione come reddito, inventarono l’imposta di successione o sulle donazioni allo scopo di poter colpire anche questi che sono indubbiamente guadagni degli eredi, legatari o donatori (cfr. par. 121).

 

 

In verità, se le imposte sui trasferimenti si riducessero tutte a quelle sui trasferimenti a titolo gratuito noi potremmo agevolmente farle rientrare nel novero delle imposte che colpiscono il reddito guadagnato che, per il rispetto superstizioso verso i vocaboli, non si volle tassare colle comuni imposte sul reddito (cfr. part. 387, a). Ma, accanto a queste, vi sono le imposte sui trasferimenti a titolo oneroso; e noi già sappiamo come per esse non abbia fondamento la pretesa di colpire un guadagno, poiché nello scambio tra equivalenti, lucro non esiste (cfr. par. 122). Nel campo delle imposte sul reddito guadagnato, le imposte sui trasferimenti a titolo oneroso sono un curiosum inesplicabile.

 

 

Talché la spiegazione ora addotta non giova: poiché una teoria la quale lascia inesplicato un residuo così imponente deve reputarsi imperfetta.

 

 

Soccorre a questo punto la teoria fondamentale della tassazione del reddito consumato la quale permette di raggruppare sotto un’unica legge, quella medesima la quale ci permise di dare un’adeguata spiegazione dei due gruppi precedenti di imposta sui consumi e sui redditi, anche quest’ultimo gruppo di imposte sui trasferimenti.

 

 

534. La spiegazione tratta del postulato dell’uguaglianza e dell’esenzione del risparmio. – Il concetto dell’esenzione del risparmio giova invero, chi ben guardi, a spiegare la ragion d’essere delle imposte sui trasferimenti a titolo gratuito ed oneroso. Suppongasi invero un incremento di 100 milioni nel fabbisogno dello Stato; e si suppongano un reddito guadagnato di 10 miliardi di lire all’anno, di cui 2 destinati a risparmio capitalistico e personale, un capitale nazionale privato di 100 miliardi ed una ricchezza ogni anno trasmessa per causa di morte ed inter vivos di 5 miliardi di lire.

 

 

I cento milioni bisognevoli possono ugualmente ottenersi sia aumentando dell’1,25% l’aliquota dell’imposta sui 10 miliardi di reddito guadagnato meno i due risparmiatori, sia, ove già tutto il reddito guadagnato sia esuberantemente tassato ed il sistema complessivo dei tributi appaia squilibrato ai danni dei redditi di lavoro, decretando un’imposta completamente sul patrimonio dell’1 per mille, sia istituendo un tributo sui trasferimenti, gratuiti ed onerosi, del 2 per cento. Perché la prima imposta, dell’1,25% sul reddito guadagnato, possa essere reputata corretta, occorre, come è dimostrato sopra (cfr. par. 404 e segg.), classificare i redditi diffalcando dal reddito guadagnato una varia quota di risparmio presunto. La seconda imposta, dell’1 per mille sul patrimonio, esenta automaticamente il risparmio, come fu altresì dimostrato (cfr. par. 409 e segg.), purché si faccia una presunzione corretta di risparmio per i lavoratori puri e purché si accetti il tasso realmente corrente di interesse per gli impieghi capitalisti puri. La terza maniera d’imposte, del 2% sui trasferimenti, altro non è che una trasformazione della seconda. È evidente invero come sia indifferente tassare coll’1 per mille ogni anno tutti i 100 miliardi che compongono il patrimonio nazionale privato e con il 2 per cento (che è un aliquota 20 volte superiore a quella dell’1 per mille) la ventesima parte del patrimonio medesimo ossia i 5 miliardi che ogni anno a qualunque titolo si trasferiscono. La preferenza da darsi all’uno od all’altro metodo è puramente accidentale, ossia dipende da circostanze tecniche, come la facilità di esazione, la opportunità di distribuire la pressione tributaria su punti e in momenti diversi, la convenienza di mutar nome alle imposte per renderle più accette ai popoli.

 

 

La correttezza delle imposte sui trasferimenti ossia di quelle che in pratica hanno nome di imposte sulle successioni, sulle donazioni, di bollo, di registro, di negoziazione, di manomorta, ecc., dipende da due condizioni:

 

 

  • 1) dall’avere previamente calcolata in modo corretto l’imposta complementare sul patrimonio, ossia nel modo che fu a suo luogo dimostrato (cfr. par. 414). Ove l’imposta patrimoniale non esista, sarà d’uopo calcolare quale ne dovrebbe essere l’aliquota se con essa si dovesse coprire il fabbisogno richiesto. Questa aliquota chiameremo di conto, nella stessa maniera come si chiamavano «di conto» certe monete ideali inesistenti di fatto ed immaginate allo scopo di poter fare i necessari ragguagli tra le monete reali;
  • 2) dall’avere compiuto sufficiente osservazioni statistiche intorno alla frequenza dei trasferimenti delle varie specie di ricchezza e per le varie maniere di titoli per cui la ricchezza si trasferisce. Nell’esempio schematico fatto sopra si suppose che il patrimonio privato totale fosse di 100 miliardi e la ricchezza ogni anno trasferita a qualunque titolo di 5 miliardi; e perciò si dedusse che se l’aliquota dell’imposta annua sul patrimonio era dell’1 per mille, doveva essere del 2% l’imposta, che la surroga, sui trasferimenti. Ma questa è solo una media, la quale praticamente dovrà essere variata a seconda della varietà dei periodi devolutivi. Così, ferma sempre rimanendo l’aliquota «di conto» nell’1 per mille all’anno, e supponendo che una data maniera di ricchezza, per esempio i beni immobili rurali, si trasferisca dai genitori ai figli in linea retta ad ogni 30 anni per causa di morte ed inoltre ad ogni 50 anni per compravendita inter vivos, l’imposta di successione in linea retta dovrà essere dell’1,50% e cioè 15 volte l’aliquota di conto, e quella sui trasferimenti a titolo oneroso del 2,50% e cioè 25 volte maggiore dell’aliquota di conto, con ognuna delle quali due imposte si fa così pagare una somma uguale al 0,50 per mille ogni anno; e perciò dell’1 per mille in complesso, eguagliando per tal modo l’aliquota di conto. Se per i beni mobili in generale la frequenza dei trasferimenti a titolo oneroso si accerti statisticamente uguale al giro dei dieci anni, l’aliquota dell’imposta relativa basterà sia 10 volte l’aliquota di conto, ossia dell’1%, se non esista imposta sui trasferimenti a titolo gratuito, o del 0,50% se questa esista.

 

 

A regole somiglianti si attengono in generale i legislatori; s’intende con scarti or maggior or minori dalla norma corretta, imposti dalle urgenze fiscali, dalle insufficienti od erronee osservazioni statistiche. Gli eventuali errori non possono nascondere la ragion d’essere, che è semplicissima, delle imposte sui trasferimenti: le quali sono cioè un mezzo tecnico per sovrimporre i redditi provenienti da capitale o da capitale misto a lavoro, nello intento di esentare il risparmio. Perché l’intento venga esattamente raggiunto, occorre costruire una vera e propria tabella delle commutazioni, di cui gli elementi sono; il tasso corrente di interesse per gli impieghi capitalistici puri, la quantità probabile di risparmio dei lavoratori puri e la frequenza dei trasferimenti a titolo gratuito dai genitori ai figli in linea netta ed a titolo oneroso per le varie maniere di beni. I quali dati primi debbono essere forniti dall’osservazione statistica, alla quale soltanto la finanza andrà debitrice di una corretta applicazione delle imposte sui trasferimenti.

 

 

Sezione seconda.

 

Dell’imposta sui trasferimenti a titolo oneroso in particolare.

 

535. Assetto logico delle imposte sui trasferimenti a titolo oneroso. – Dovrebbero queste imposte essere calcolate secondo il concetto logico che sovra si disse. Supponendo che sul patrimonio complessivo privato del paese debba ogni debba ogni anno gravare l’aliquota dell’1 per mille e supponendo che cotal gravame sia ripartito per metà sui trasferimenti a titolo oneroso e per metà sui trasferimenti a titolo gratuito, si dovrà imporre sulla quota dei beni ogni anno in media trasferita una aliquota la quale equivalga al mezzo per mille su tutti i beni esistenti. Cosicché se ogni anno si vende in media la 50esima parte dei beni esistenti, l’aliquota dell’imposta sarà del 2,50 per cento, essendoché il 2,50% su 1/50 dei beni esistenti equivale al 0,05 per mille di tutti i beni esistenti. Se ogni anno si vendesse invece la 25esima parte dei beni esistenti, l’aliquota 1/25 dei beni esistenti equivale di nuovo al 0,05% ossia al 0,05 per mille di tutti i beni esistenti. Se poi anno si vendesse la decima parte dei beni esistenti, l’aliquota dell’imposta dovrà essere del 0,50%, poiché il 0,50% su 1/10 dei beni esistenti, equivale ancora al 0,05% ossia al 0,50 per mille di tutti i beni esistenti. Poiché i beni hanno, a seconda della loro diversa natura, ma varia frequenza di trasferimenti, così è corretto adoperare tutte tre le aliquote sovra dette del 2,50, dell’1,25 e del 0,50% contemporaneamente; la prima per i beni lenti a muoversi, la seconda per i beni a frequenza mediocre di trasferimenti e la terza per quelli che rapidamente si muovono da una persona all’altra.

 

 

Al qual precetto obbedisce in misura il legislatore; come è provato dal fatto che i trasferimenti di beni immobili, che sono i più lenti a muoversi, in Italia sono colpiti dall’imposta del 4,88%, mentre i trasferimenti di mobili, diritti mobiliari o quote di partecipazione nelle società commerciali sono colpiti col 2,44%; ed ancora le compravendite di merci tra commercianti col 0,61 per cento. Certo non sempre il legislatore, nella fissazione delle aliquote è stato guidato da concetti nazionali; ché anzi egli si è sbizzarrito, forse più che in ogni altra maniera di tributi, a mutare all’infinito le aliquote, frenato unicamente dalla paura di esasperare troppo i contribuenti e guidato soltanto dalla norma cara ad ogni monopolista, la quale insegna a gravar la mano sovratutto su coloro che paiono meno recalcitranti o più capaci a sopportare il peso dell’imposta. Sarebbe di ciò troppo lungo dare le prove. Basti aver accennato al criterio informatore del tributo e dimostrata quale sia la via, seguendo la quale è possibile dare ad esso un assetto logico.

 

 

536. Circostanze che hanno agevolato l’imposizione dei tributi sui trasferimenti. – Se il legislatore ha complicato, per aumentare oltremisura il gettito dell’imposta, l’assetto delle imposte sui trasferimenti, ciò è dovuto alla facilità di loro esazione. Per le circostanze che agevolano il compito del fisco, ve ne è una, la quale fu messa in luce dal Puviani e merita essere ricordata, ma quella che aggiunge nuovo rinforzo alla teoria, secondo la quale le imposte sui trasferimenti mirano a tassare i consumi e ad esentare i risparmi e unicamente sono tollerabili in quanto raggiungono questo intento, diventando intollerabili quando, come purtroppo di fatto spesso accade, ottengono, per la mala loro confermazione, l’effetto opposto.

 

 

Nota invero il Puviani che le imposte sui trasferimenti percuotono il contribuente nel momento in che, per la contentezza del conchiuso contratto, egli è più propenso a spendere. «Molti subordinano il procurarsi certi piaceri, il fare certi regali alla conchiusione di certi contratti. Per modo che il guadagno [del contratto] in senso stretto può essere più o meno intaccato dagli effetti della spinta dispendiativa, che s’accompagna alla gioia, derivante dal buon affare conchiuso e che si estrinseca spesso in banchetti, gozzoviglie tra contraenti e sensali. Anzi quel guadagno talora viene distrutto intieramente e bon basta neppure per le nuove spese, che esso provoca (Puviani, Teoria della illusione finanziaria, pagg. 145)». Ed altrove, amaramente; commentando l’incidenza delle imposte di trasferimento sui venditori invece che sui compratori: «Una moltitudine di vittime sul terreno economico, che non avrebbe mai potuto essere colpita d’imposta in ragione dei suoi lucri, dell’importanza del suo avere, fu taglieggiata nei momenti delle sue maggiori strettezze, dei suoi maggiori sacrifizi. Si colpì senza riguardo la ricchezza che si trasferiva, il poderetto, la casupola, la vendita dell’ultimo residuo della propria sostanza, fosse pure determinata dal bisogno di mantenere un infermo, i beni strappati dal creditore all’asta pubblica per un prezzo vile. Tutta una classe di deboli proprietari in dissoluzione si rassegna alle feroci esigenze fiscali, non tanto per la cosciente impossibilità di resistere ad esse, quanto perché, nello sfacelo delle sue sostanze, nell’impeto della sua rovina, considera la frazione di ricchezza strappatale dall’imposta come un amminicolo, un accessorio, i pochi stecchi aggiunti al pesante fardello (op. cit., pag. 194)».

 

 

Osservazioni soggettive, come tutte quelle di questo scrittore, a torto negletto; le quali provano che le imposte sui trasferimenti onerosi sono aiutate nella loro pratica applicazione da circostanze favorevoli allo spendere, qualunque siano i motivi, lieti o dolorosi, dello spendere.

 

 

537. Danni delle imposte sui trasferimenti a titolo oneroso. – Da ciò non si deduca leggermente che queste siano le ottime tra le imposte; essendo vero invece che esse sono, di questo gruppo dei balzelli sui trasferimenti, le pessime, appena comparabili alle imposte sui consumi risparmio, per i loro dannosi effetti sulla circolazione della ricchezza e specialmente per gli ostacoli frapposti al trapasso dei beni a prò delle persone meglio adatte a trarne vantaggio. Se invero dal punto di vista contabile è indifferente pagare il 0,50 per mille ogni anno su tutto il patrimonio privato esistente ovvero il 2,50% della ricchezza ogni anno trasferita a titolo oneroso, ove si supponga che per tal modo si trasferisca annualmente la cinquantesima parte della ricchezza esistente, non è indifferente dal punto di vista economico. Poiché l’imposta «annua» del 0,50% sul patrimonio dovendo essere ad ogni modo pagata, sia che si verifichino oppure no i trasferimenti della ricchezza colpita, non ostacola la circolazione dei beni; mentre l’imposta del 2,50%, percetta «se» e «quando» i trasferimenti di fatto avvengono, ha per effetto di allontanare il momento dei trasferimenti. Ora tutto ciò che rallenta la circolazione della ricchezza ed impedisce che questa passi dai meno capaci di utilizzarla è dannoso economicamente. Qui si vede la differenza grande tra le imposte di successione e quelle sui trasferimenti a titolo oneroso; le prime, tuttoché periodiche, non ostacolando la circolazione della ricchezza, perché la morte, nonostante la minaccia incombente dell’imposta, resta tuttavia indeprecabile; mentre le seconde, potendosi rinviare o non compiere la vendita, sono un freno alle vendite medesime.

 

 

538. Specie delle imposte sui trasferimenti. – Appartengono a questa categoria delle imposte sui trasferimenti:

 

 

  • a) le tasse di registro, le quali colpiscono gli atti in forma pubblica e privata, civili e commerciali e tanto giudiziali che stragiudiziali, le trasmissioni della proprietà, dell’uso e godimento dei beni e, nei casi specialmente stabiliti, i contratti verbali;
  • b) le tasse di bollo, le quali sono dovute su tutti gli atti civili e commerciali, stragiudiziali e giudiziali e sugli scritti, le stampe e i registri designati nella legge, come soggetti al bollo fin dalla loro origine, oppure in ragione dell’uso. Del bollo e registro, come metodi per l’applicazione dell’imposta, già si discusse (cfr. par. 118 e 112);
  • c) le tasse ipotecarie, le quali sono pagate solamente quando si richieda la formalità ipotecaria che assicuri e garantisca erga omnes il diritto individuale. Si potrebbero considerare come pure tasse, se non fosse che colui il quale non curi in tempo di far iscrivere, trascrivere, annotare o rinnovare l’ipoteca che assicura il suo diritto, lo perde o lo fa scadere di grado ove questo venga a trovarsi in concorso o conflitto con diritti di altri;
  • d) le tasse sui contratti di borsa, le quali colpiscono le compravendite tanto a contanti che a termine fermo, a premio o con riporto ed ogni altro contratto conchiuso nelle borse dei valori o merci.

 

 

Tutte queste imposte hanno per comune caratteristica di colpire il trasferimento ogni volta che esso si verifica.

 

 

Sezione terza.

 

Delle imposte sui trasferimenti a titolo gratuito in particolare.

 

539. Ordinamento dell’imposta successoria. – Essa si può distinguere in parecchie frazioni: di cui la prima costante colpisce nella medesima proporzione tutte le successioni di qualunque somma ed in qualsiasi grado; la seconda è variabile in funzione della somma, ossia cresce col crescere dell’asse creditario o dalla quota ereditaria, e la terza è variabile in funzione del grado di parentela. Della quota costante, la quale può essere considerata come uguale a quell’1,60%, ad esempio, che paga in Italia il figlio, che ha ereditato dal genitore una somma fino a 50.000 lire, già dicemmo la ragione. Essa è una maniera diversa di riscuotere un’imposta sul patrimonio.

 

 

540. Spiegazione della progressività dell’imposta successoria della quota ereditaria. – Sappiamo già che il bisogno di risparmio è minimo e quindi la spinta dispendiativa è massima tra i più ricchi; onde si spiega come, volendo conservare costante la proporzione dell’imposta al reddito consumato presunto, occorre stabilire l’imposta in proporzione crescente rispetto al reddito guadagnato.

 

 

L’entrata a titolo di successione o donazione essendo parte del reddito guadagnato, l’imposta segue le medesime regole; e come questa (cfr. par. 415 a 419) è progressiva. Ciò per quanto si riferisce alla quota ereditaria, la quale è reddito guadagnato per l’erede o legatario. Quanto alla progressività in funzione dell’asse ereditario, essa trova la sua spiegazione nel fatto che gli assi ereditari maggiori vanno di preferenza a favore di parenti lontani. Le statistiche provano come, a mano a mano che cresce l’ammontare della successione, diminuisce la percentuale di essa devoluta ai figli, ai coniugi, ai fratelli e sorelle e cresce la quota spettante agli zii, prozii, pronipoti, cugini germani ed altri parenti (cfr. Corrado Gini, I fattori demografici dell’evoluzione delle nazioni, Torino, Bocca, 1912, pag. 19); cosicché tassare l’intiero asse ereditario in ragione progressiva col crescere dell’asse medesimo è un’altra maniera per tassare di più i parenti lontani che quelli vicini. In Italia non si usa questo avvedimento, che è preferito altrove, come in Inghilterra. E la spiegazione di questa specie di progressività è perciò la stessa della progressività in funzione del grado di parentela, di cui ora si dirà.

 

 

541. Spiegazione della progressività dell’imposta successoria in funzione del grado di parentela. – Suppongasi innanzitutto un risparmiatore scapolo, il quale abbia accumulato durante la sua vita un patrimonio di 100.000 lire, su cui non fu mai percosso d’imposta, perché le imposte sul reddito consumato automaticamente e quelle sul reddito guadagnato seppero con adatte presunzioni rendere immune il suo risparmio annuo. Costui, non avendo figli da sostentare ed educare, può, a parità di altre circostanze, più agevolmente accumulare ricchezze e per necessità deve abbandonarle a parenti più lontani di quanto non facciano i risparmiatori prolifici.

 

 

Questa è la prima spiegazione della maggior gravezza dell’imposta successoria sui patrimoni vistosi e sulle successioni tra parenti lontani e tra estranei. Gli scapoli invero, vivendo spesso a dozzina in osterie, si sottrassero in vita al debito d’imposta che avrebbero dovuto solvere sulla spesa che pur facevano di casa, di mobilio, di servidorame. Poiché le imposte suntuarie sulle abitazioni, sul mobilio, sulle vetture, sui domestici (capo settimo) lasciamo immuni costoro, che consumano in prevalenza frazioni non tassate dei servizi forniti dai grandi alberghi e dalle osterie; e neppure li colpiscono le imposte sul reddito globale guadagnato, le quali in pratica sono commisurate alla spesa che dai contribuenti viene ostentata. Talché gli uomini «soli» correttamente debbono pagare in punto di morte quel che in vita riuscirono a non pagare mercé l’astuzia di far loro consumi in maniere invisibili al fisco.

 

 

Ma non a questo solo intento giova l’imposta di successione.

 

 

Come di ogni altro balzello, l’ufficio suo principale è di guardare innanzi: non ai defunti che più non sentono, ma agli eredi che ricevono la ricchezza. Vedemmo come il postulo dell’uguaglianza e il teorema milliano richieggano l’esenzione della ricchezza mentre viene risparmiata e la sua tassazione quando sia consumata, tuttoché in questo istante del consumo abbia nome di capitale e non di reddito (cfr. par. 255). A ciò riescono le imposte sul reddito consumato, perché lo Stato percuote la ricchezza destinata all’acquisto di tabacco o di casa o di vetture o di servizi personali senza impacciarsi a cercare se l’acquisto sia fatto col reddito o col capitale. Nelle più imperfette imposte sul reddito guadagnato la immunità del capitale esistente all’inizio del periodo finanziario si impone invece allo scopo di evitare se non le doppie almeno le triple o quadruple tassazioni e soltanto la logica del teorema milliano può consigliare al legislatore di fare uno strappo alla logica del sistema della tassazione del reddito guadagnato quando si possa «presumere» che il cosidetto «capitale», il quale, come tale, è intangibile dalle imposte su reddito guadagnato, è destinato ad essere consumato o dilapidato. Qui è la ragion d’essere vera delle variazioni nell’aliquota dell’imposta successoria. L’esperienza insegna che ben difficilmente la sostanza formata coll’assiduo risparmio dal fondatore di una dinastia famiglia si conserva intatta attraverso le successive generazioni. Rarissime sono, nel novero delle famiglie ricche, quelle la cui ricchezza rimonta ad un secolo; e sono eccezioni stravaganti quelle famiglie che da più secoli conservano le ricchezze avite. Ciò che il padre ha accumulato, il figlio sa forse conservare ed i nipoti probabilmente dilapidano; questa è verità universale che i proverbi popolari in lor sapienza e che di indagini statistiche abbisogna non per essere provata, ma unicamente perché se non arricchisca la esemplificazione. Su questa verità d’esperienza poggi l’edificio variabile dell’imposta successoria; la quale dovrebbe stretto rigor di logica tassare mitemente i patrimoni che si sono trasferiti una volta sola dal formatore di essi ad una successiva generazione, e più fortemente quelli che una seconda volta sono trasferiti dalla prima generazione di eredi ad una seconda, via via crescendo l’aliquota a mano a mano che è più lungo il tragitto percorso dalla fortuna. Così proponeva il Rignano in un suo libro Di un socialismo in accordo colla dottrina economica liberale; ma la proposta non pare di facile attuazione, per la necessità di tener dietro alle vicende storiche dei patrimoni (cfr. par. 286), onde i governanti preferiscono adottare un altro metodo di progressività, quella che in taluni paesi esenta e dappertutto tassa mitemente le eredità in linea retta, perché il legislatore correttamente prevede che i figli di solito conserveranno la sostanza paterna, e via via più fortemente tassa gli eredi a mano a mano che si rallenta il vincolo della parentela, perché prevede che le sostanze, inopinatamente e gratuitamente ricevute, sempre più di frequente andranno disperse. Onde il fisco, il quale non sa accertare direttamente il fatto del consumo della ricchezza formata in periodi finanziarii trascorsi (cfr. par. 286), si affretta ad esigere la parte sua innanzi che la sostanza venga in possesso dei probabili dilapidatori. La presunzione fatta dal legislatore, che i più lontani eredi dilapidano maggiormente che gli eredi vicino non sarà forse sempre rispondente a verità; ed è certo mano rispondente al vero di quella dianzi esposta per cui si riteneva più facile la dilapidazione della eredità da parte del figlio che riceveva una eredità conservata dal padre ma formata dall’avolo.

 

 

Ma è una approssimazione tollerabilmente vicina al vero.

 

 

Non osa in verità il legislatore apertamente dichiarare cotal suo giudizio poco benigno verso gli eredi; e va discorrendo di giustizia tributaria la quale esige che, se il lavoratore viene tassato col 10% sul frutto del suo lavoro, anche l’erede neghittoso venga d’altrettanto percosso sul frutto gratuito della eredità. Noi però sappiamo che il postulato dell’uguaglianza esige che il lavoratore venga tassato solo sulla parte del frutto del suo lavoro che egli consuma; esentandone la parte destinata a risparmio capitalistico e personale, ed esige pure che l’erede – oltre a pagare una proporzione costante della quota ereditaria a titolo di imposta patrimoniale (cfr. par. 534) – venga tassato sulla quota dell’eredità ricevuta che per avventura egli consumi ed esentato su quella che egli conserva, poiché la tassazione di quest’ultima farebbe per lui doppio con la tassazione dei frutti che egli ne ricaverà negli anni avvenire. Dire, altrimenti, che anche la quota «conservata» dell’eredità deve essere tassata per evitare una esenzione scorretta a suo favore, equivale a sostenere l’assurda tesi che l’erede, ricevendo 100.000 lire in eredità e limitandosi a consumarne il frutto annuo di 5.000 lire, abbia ricevuto due cose: dapprima le 100.000 lire e in secondo luogo una serie infinita di annualità di 5.000 lire l’una, sicché, tassando queste ultime, non si tassino le prime 100.000 lire; il che ancora equivale a dire che ogni eredità di 100.000 lire in realtà è uguale a 200.000 lire ed ognuna di 1 milione può essere reputata uguale a 2 milioni: grottesca illusione, sebbene utilissima a persuadere i popoli a pagar balzelli.

 

 

Parlasi altresì di certa ripugnanza maggiore che avrebbero i figli a pagare il tributo, perché essi si consideravano già quasi padroni della sostanza paterna; mentre agli eredi lontani l’eredità giunge inaspettata ed affatto onde sopportano più agevolmente le pretese del fisco. La quale osservazione è praticamente importante ed il legislatore ne deve tener conto, essendo uffici suo, dopo aver soddisfatto al postulato dell’uguaglianza, di consegnare siffattamente le imposte da suscitare la minore repugnanza morale, sebbene sia utilissima la reazione attiva, tra i contribuenti. Ma non è la ragion delle variazioni dell’imposta. La quale vuolsi, come sovra si disse, cercare per l’appunto nel consueto bisogno, imposto dall’imperfezione dei tributi i quali non colpiscono direttamente i consumi, di sostituire all’accertamento dei fatti veri – consumo di ricchezze precedentemente risparmiate – la presunzione di fatti probabili ed essendo più probabile la dilapidazione della ricchezza ereditata da parte degli eredi lontani che dei prossimi viene senz’altro chiarita la mitezza dell’imposta successoria rispetto a quest’ultimi e la gravezza rispetto ai primi. La varia probabilità della dilapidazione giova altresì a spiegare l’ilarità maggiore dei parenti lontani e la loro più ostentata indifferenza ai colpi del fisco. Poiché il figlio o parente prossimo, il quale vuol conservare la ricchezza paterna, che già considerava quasi sua propria, è fatto iracondo dall’imposta, la quale lo colpisce in un momento in che egli è addolorato per la morte dell’autore dei suoi giorni ed è astratto a gravi spese di ultima malattia e di funerali; mentre il parente lontano, che già s’appresta a dar fondo all’improvvisa fortuna, guarda con più benigno occhio lo Stato e, reputandolo sazio nell’auspicata distruzione, quasi è grato di avere pure a lui lasciato qualcosa da distruggere.

 

 

Tutte quante codeste considerazioni, non è inutile ripeterlo, sebbene l’avvertenza sia oramai stata fatta le infinite volte, valgono per le classi di contribuenti e non per gli individui singoli, ben potendo darsi figli dilapidatori e cugini lontani conservatori della eredità ricevuta. Ma è proprio della imperfetta natura delle imposte sul reddito guadagnato di dover procedere per via di larghe e spesso erronee approssimazioni; ed a tale esigenza non può sottrarsi neppure l’imposta successoria.

 

 

Prima di interromperne il discorso, vuolsi aggiungere che la spiegazione ora profferita chiarisce ancora altri punti; e cioè: 1) la maggiore tassazione, in taluni paesi consentita, degli eredi giovani in confronto ai vecchi, essendo a costoro, per la debolezza dell’età e la brevità del tempo, negato di potere consumare il patrimonio ereditario così come lo possono gli eredi più giovani. Non al godimento dei frutti pose mentre il legislatore, ché questo è già colpito ogni anno, finché dura la vita, con le varie maniere di imposte sul reddito; ma allo scialacquo del patrimonio medesimo, a cui i vecchi, fatti dalla grave età austeri, sono imponenti, mentre ché ne sono capacissimi i giovani; 2) la minorazione d’imposta talvolta concessa quando lo stesso patrimonio successivamente passa, in breve lasso di tempo per parecchie mani. La brevità del tempo decorso consente al fisco di persuadersi, senza possibilità di artefatte prove, che egli aveva torto nel presumere nel primo crede una capacità di dilapidazione, che, seppure esisteva, non ebbe tempo a manifestarsi; talché, avendo già esatto sul primo erede pochi mesi prima l’imposta sul consumo presunto, più non ha il fisco coraggio a pretenderla una seconda volta; e, quasi supponendo che la precedente trasmissione non abbia avuto luogo, dà credito al secondo erede pel balzello dianzi pagato: 3) l’aumento d’imposta onde alcuni legislatori moderni gravano i figli unici in confronto della prole numerosa; essendo manifesto, nota il Gini a carte 44 del già mentovato studio, che «una numerosa famiglia educa potentemente e genitori e figli ad un elevato spirito di solidarietà, di laboriosità e di disciplina» ed essendo noto «che i padri di numerosa prole sono, nella generalità dei casi, gli operai più attivi e tranquilli e che i figli unici molto spesso scialacquano nell’ozio e nel vizio i patrimoni ereditari».

 

 

Finalmente la teoria ora esposta pone i limiti al di là dei quali non potrà andare l’imposta successoria, ove si voglia osservare il postulato dell’uguaglianza. Suppongasi invero che la dilapidazione sia massima da parte dei parenti oltre il sesto grado e degli estranei quando abbiano ricevuto un’eredità superiore al milione di lire, giungendo, per ipotesi abbondante, fino al totale della somma ereditata. Quale dovrà essere in questo caso l’aliquota della parte variabile dell’imposta successoria?

 

 

Evidentemente dovrà essere uguale all’aliquota che grava la parte che si presume consumata di ogni altro reddito guadagnato. Se le imposte sulla parte imponibile, supposta consumata, dei redditi fondiari, edilizi, mobiliari sono del 20%, similmente dovrà essere del 20% l’aliquota della parte variabile dell’imposta successoria su questi eredi lontani e massimi; e dovrà calare al 10 o salire al 30% se ugualmente s’abbassano o rialzano le imposte sul reddito. Operare altrimenti vorrebbe dire tassare nell’un caso con 20 centesimi e nell’altro con 30 centesimi la lira consumata; alla quale disuguaglianza nessun fondamento plausibile è consentito dare. Al disotto di questo massimo, che l’esperienza insegna a variare in ogni paese, l’aliquota della parte variabile della imposta successoria deve scendere o, rimanendo immutata l’aliquota, deve ridursi la quota imponibile del patrimonio ereditario, a mano a mano che diminuisce, collo stringersi dei legami di parentela e col diminuire della somma ereditaria, la probabilità di dilapidazione, fino a ridursi a zero o quasi per le successioni minime in linea retta tra genitori a figli, per cui la dilapidazione si può supporre nulla o quasi nulla. Per queste minime successioni in linea retta sussisterà soltanto la parte costante dell’imposta successoria; mentre per le successioni più vistose, pure in linea retta, e per quelle tra collaterali od estranei alla parte fissa si aggiungerà la parte variabile dell’imposta.

 

 

542. Precedenti legislativi. – Non in tutto gli ordinamenti tributari applicano i principii dottrinali ora esposti. Qui brevemente si dirà dell’imposta italiana e dei suoi precedenti. L’imposta di successione era già nota ai Romani col nome di vicesima hereditatum: nel medio evo esistette pure, benché con caratteri diversi da quelli antichi e da quelli moderni, in conseguenza dei vincoli feudali della proprietà in quei tempi.

 

 

Come imposta permanente essa sorse in Italia nel secolo XII: la istituì la repubblica Veneta (benché solo per la Dominante, non per la Terraferma), nell’aliquota del 5 per cento. In Piemonte fu applicata per la prima volta nel 1797, a sostegno delle finanze dello Stato, durante la rivoluzione; abolita in seguito, fu ripristinata nel 1821 ed aumentata nel 1851, raggiungendo allora l’aliquota dell’1% in linea retta, con esenzione per le successioni interiori a 1.000 lire; l’aliquota del 5% fra collaterali e per le eredità fra estranei. Negli altri Stati d’Italia, come la Toscana e lo Stato pontificio, l’imposta di successione era mitissima, in misura sensibile solo in linea collaterale e fra estranei. Nel Regno delle due Sicilie fu abolita nel 1819.

 

 

All’epoca dell’unificazione, sembrò dapprima che si volesse mantenere l’imposta entro limiti bassi, con la legge 21 aprile 1862 che stabiliva l’aliquota del 0,50% in linea retta, aliquota che fu ridotta ancora al 0,20% con la legge successiva del 14 luglio 1866. Alla quota legittima fra ascendenti e discendenti o viceversa era concessa l’esenzione.

 

 

Presto però si cambiò indirizzo: a cominciare dalla legge 19 luglio 1868, si verificò nell’imposta di successione, come nelle altre, un sensibile inasprimento: abolizione alla esenzione per la quota legittima; elevazione dell’aliquota in linea retta, dal 0,20% all’1,20 per cento. Nel 1870 questa fu portata all’1,44%, nel 1899 una nuova legge l’arrotondò portandola all’1,60 per cento.

 

 

543. L’ordinamento vigente. – Si giunge così all’ultima riforma del 23 gennaio 1902, che ha profondamente innovato il nostro sistema tributaria in materia d’imposta di successione. Fino a quel tempo, infatti, l’imposta era rimasta proporzionale, variando l’aliquota solamente col grado di parentela; la legge del 1902 ha introdotto il principio della progressività dell’aliquota in relazione all’ammontare dell’asse ereditario.

 

 

Si applica il metodo della progressività a scaglioni, cioè si divide la somma ereditaria in tante parti quante sono le divisioni prestabilite dalla legge e ad ognuna si applica la rispettiva aliquota.

 

 

Son esenti le eredità fino a 100 lire; fino a 300 vi è una tassa di 1 lira; da 301 a 1.000 l’imposta è di 0,80 per ogni 100 lire fra ascendenti e discendenti e di 3 lire fra coniugi.

 

 

Al disopra di L. 1.000 la tariffa in linea retta e dell’1,60% per le porzioni delle quote ereditarie comprese tra L. 1.001 e 50.000 del 2%, tra 50.001 e 100.000, del 2,40% tra 100.001 e 250.000 lire, del 2,80% tra 250.000 e 500.000, del 3,20% tra 50.001 ed 1 milione, del 3,60% oltre 1 milione. Le aliquote crescono col rallentarsi dei vincoli di parentela finché per i parenti il sesto grado ed estranei vanno del 15 al 22 per cento.

 

 

Un figlio, dunque, che ereditasse 1.200 lire dal padre, dovrebbe fare quattro parti di questa somma: sulla prima, di 100 lire, non pagherebbe imposta; sulla seconda, di 200 lire, pagherebbe 1 lira; sulla terza, di 700 lire, pagherebbe il 0,80% cioè L. 5,60; e infine sulle ultime 200 lire pagherebbe L. 1,60% cioè L. 3,20; in tutto L. 9,80. La ragione per cui si applicano ad ogni quota ereditaria tante aliquote diverse quante sono le frazioni della quota è la stessa che fu già spiegata per le tariffe a base variabile per i trasporti ferroviari (cfr. par. 87). Se, per esempio, l’aliquota del 2% si applicasse a tutta la quota ereditaria in linea retta di 100 mila lire, e quella del 2,40% a tutta la quota ereditaria di 100.001 lire, quale ne sarebbe l’effetto? Tizio avendo ricevuto in eredità 100.000 lire, pagherebbe il 2%,ossia L. 3.000,3. L’aumento di 1 lira nella somma ricevuta basterebbe a far aumentare l’imposta di L. 1.000,03. Il che è scorretto. Invece l’imposta su Tizio viene liquidata nel seguente modo:

 

 

Prime L. 300 imposta fissa    

L. 1,-

Da L. 301 a 1.000 aliquota 0,80% su 700 lire

L. 5,60

Da L. 1.001 a 50.000 aliquota 1,60 su 49.000 lire

L. 784,-

Da L. 50.001 a 100.000 aliquota 2,- su 50.000 lire

L. 1.000,-

    su  

L. 1.790,00

 

 

Caio che ha ricevuto L. 100.001, ossia L. 1 in più, paga come Tizio, L. 1.790,60 sulle prime 100.000 lire ed inoltre il 3% sulla lira in più, ossia L. 0,03 ed in tutto L. 1.790,63. Il che sembra un aumento corretto. Nel caso che gli eredi siano diversi e in diverso grado di parentela defunto, si applicano le rispettive aliquote distintamente sulle varie quote di eredità e non già un’aliquota sola sulla somma totale lasciata dal defunto. È giusto infatti che ogni erede paghi più o meno a seconda il vincolo di parentela meno o più stretto che lo legava al defunto e secondo la somma maggiore o minore da lui singolarmente ereditaria. Le stesse aliquote e gli stessi criteri si applicano quando si tratti di donazione.

 

 

Sezione quarta.

 

Delle imposte in surrogazione alle imposte sui trasferimenti a titolo oneroso e gratuito.

 

544. Fondamento delle imposte in surrogazione. – Dicemmo sopra (cfr. par. 534) che le imposte sui trasferimenti si spiegano in quanto sono una maniera commutata di imposta sul patrimonio. Ma accade talvolta che le imposte sui trasferimenti non si possono affatto o non si possono comodamente esigere su talune specie di patrimonio. Ed allora, per non lasciare esenti queste specie di patrimoni dall’imposta saltuaria patrimoniale, che sotto nome di imposta sui trasferimenti, colpisce tutti i patrimoni, si ritorna all’imposta annua. Questa imposta dicesi «di surrogazione» perché surroga e sostituisce l’imposta sui trasferimenti che certi patrimoni non sono chiamati a pagare.

 

 

Del che sono esempio tipico l’imposta di manomorta e l’imposta sulla negoziazione dei titoli.

 

 

A) Dell’imposta di manomorta:

 

545. Concetto e fondamento. – La ragion d’essere dell’imposta di manomorta sta in ciò che vi sono patrimoni i quali, essendo di spettanza di enti morali, difficilmente, una volta che sono venuti in possesso di questi enti, ne escono. Cotali enti hanno la mano morta; la quale, a guisa della irrigida mano di un cadavere, si lascia a stento strappare ciò che ha afferrato.

 

 

Accade che un fondo od ente patrimoniale, pagata che abbia l’imposta successoria una volta paga, essendoché l’ente, per la sua natura indefettibile, non è soggetto più a morte come le persone fisiche. Così pure di rado, sebbene talvolta accada, cotali enti si decidono ad alienare parte del loro patrimonio; avendo essi consuetudini conservatori ed essendo ardua impresa persuadere un consiglio amministrativo a mutare impiego al patrimonio dell’ente. Quindi di rado accade che i beni spettanti agli enti paghino imposte sui trasferimenti a titolo oneroso.

 

 

Manca quindi il fondamento per cui si era dall’imposta annua sul patrimonio passati all’imposta saltuaria sui trasferimenti. Il passaggio o commutazione, è corretto quando si avveri la premessa che tutti i patrimoni che sarebbero stati soggetti all’imposta annua sui patrimoni, sono egualmente soggetto all’imposta saltuaria sui trasferimenti dei patrimoni.

 

 

Quando la premessa non si avvera è d’uopo ritornare dall’imposta sui trasferimenti all’imposta propria patrimoniale. Così accade per i beni di manomorta. Supponendo che le imposte di successione e sui trasferimenti a cui essi sfuggono equivalgano ad un 5% del patrimonio ogni cent’anni in media, si trae che essi devono essere soggetti ad un’imposta di surrogazione annua del 0,25% sul patrimonio.

 

 

Il nostro legislatore, procedendo avanti nelle commutazioni, ha preferito calcolare l’imposta sul reddito del patrimonio e l’ha fatta uguale al 4% del reddito, che, coll’imposta di due decimi e dei due centesimi del terremoto calabro siculo, diventa il 4,88% del reddito. È ignoto se la commutazione sia stata eseguita correttamente e sul fondamento di quali dati; poiché si sarebbe dovuta studiare quale sia la composizione media dei patrimoni degli enti di manomorta, quale sia la loro frequenza media di trasferimenti a titolo oneroso e gratuito in confronto alla medesima frequenza pei privati, quale sia in conseguenza il loro minor carico d’imposta, calcolato ad annuo e per ogni 100 lire di valor capitale del patrimonio, quale il reddito medio netto del patrimonio e quale il corrispondente carico tributario a cui quel reddito deve andar sottoposto per compensare il minor carico tributario degli enti in discorso. Supponiamo che il calcolo sia stato fatto esattamente e che il minor carico tributario dei beni di manomorta possa dimostrarsi uguale all’aliquota prescelta, che è del 4,88% del reddito.

 

 

546. Soggetto dell’imposta di manomorta. – Sono in genere gli enti di manomorta, colla quale denominazione, ai fini dell’imposta, si intendono le provincie, i comuni, gli istituiti di carità e beneficenza, le fabbricerie e le altre amministrazioni delle chiese, benefici ecclesiastici e cappellanie, anche laicali, case religiose, seminari, confraternite, associazioni di arti e mestieri, istituti religiosi di ogni culto ed altri stabilimenti, corpi ed enti morali.

 

 

Sono esclusi dal novero degli stabilimenti di manomorta le società commerciali ed industriali, di credito o di assicurazione di qualunque specie, sia perché il legislatore non le ha menzionate, sia perché su di esse gravano altre imposte patrimoniali che sono le consuete sui trasferimenti o l’imposta di negoziazione sui titoli. Ed invero le parti o carature delle società in nome collettivo od in accomandita semplice possono agevolmente essere colpite in occasione dei trasferimenti; e per le azioni ed obbligazioni delle società anonime o in accomandita per azioni e per le carature ad esse assimilate si può più comodamente dell’imposta di manomorta esigere, come vedremo, l’imposta di negoziazione sui titoli.

 

 

Pretesero le casse di risparmio e gli istituti di credito fondiario eretti in enti morali di essere esenti dalla tassa di manomorta per la natura commerciale delle operazioni da essi compiuti, la quale li rende più simili a banche che ad enti morali. Ma non è la maniera di impiego dei capitali il criterio per cui si rende applicabile l’imposta di manomorta; bensì il fatto che un dato patrimonio è di proprietà di un ente indefettibile e perpetuo, sicché non andrebbe soggetto alle normali imposte sui trasferimenti che sono legate alla morte della persona fisica od allo scadere della durata prefissa alla vita delle società commerciali.

 

 

Sono esenti dall’imposta di manomorta: gli asili infantili, gli istituti per i fanciulli poveri rachitici, le società di mutuo soccorso, per quella parte di patrimonio che non è costituita da lasciti o donazioni; i consorzi idraulici pei contributi pagati dai consorziati, le fondazioni di biblioteche, pinacoteche, gallerie o simili, quando non siano oggetto si speculazione. Le quali esenzioni si spiegano in relazione al fine dell’imposta; che è di colpire maggiormente i redditi patrimoniali in confronto ai redditi di lavoro. Mentre nei casi in discorso, trattasi bensì di redditi patrimoniali, ma questi già sono quasi sempre indirizzati a fini pubblici, sicché non fa d’uopo prelevare da essi imposta che sarebbe rivolta ai medesimi fini pubblici. Nel caso dei consorzi idraulici l’esenzione si spiega, poiché i contributi pagati dai consorziati non hanno natura di redditi patrimoniali del consorzio; bensì di conferimenti dei consorziati per il raggiungimento del fine comune. Trattasi per le società di mutuo soccorso di patrimoni fruttanti redditi minimi che per la loro piccolezza sono destinati a consumi risparmio da parte dei soci.

 

 

Si lagna la finanza di non poter colpire con la imposta di manomorta le associazioni di fatto che a scopo religioso si sono sostituite alle soppresse corporazioni. Ma a torto si lagna, perché l’imposta di manomorta, essendo giustificata solo dall’impossibilità di colpire i patrimoni spettanti agli enti morali con le imposte normali sui trasferimenti, non ha ragion d’essere laddove la proprietà del patrimonio dell’associazione di fatto è intestata al nome dei singoli soci e deve pagare imposta ogni qualvolta il socio intestatario muoia o trasferisca, per atto a titolo oneroso, il suo patrimonio ad altri. L’imposta di manomorta, ove si escogitasse qualche mezzo per applicarla in siffatta casi, costituirebbe evidentissimamente una duplicazione delle imposte di successione e di registro sui trasferimenti a titolo oneroso e sarebbe perciò scorretta.

 

 

547. Oggetto dell’imposta di manomorta. – Teoricamente dovrebbe essere tutto il patrimonio, fruttifero od infruttifero, dell’ente. Ma poiché l’imposta, per ragioni pratiche, fu stabilita sul reddito netto, si preferì statuire che essa colpisse il reddito dei beni immobili e mobili che gli enti morali soggetti all’imposta possiedono allo scopo di ricavarne un reddito pecuniario. Quindi sono esclusi gli immobili destinati all’uso proprio dell’ente: come le case o porzioni di case destinate all’uso di ospedale, di ospizio, di asilo, di scuola da parte dell’ente pio che ha scopi ospitalieri o scolastici; quelle destinate all’abitazione dei parroci, vice parroci o coadiutori, ovvero dei ministri di qualunque culto; come pure quelle che servono per l’amministrazione comunale e provinciale per i suoi uffici o destinate dai comuni e provincie a fini pubblici di istruzione, di beneficienza od altri.

 

 

Non ogni reddito dell’ente può essere soggetto a tassa, ma solo quei redditi che hanno natura patrimoniale. Così non è soggetta a tassa la rendita od assegno a sussidio assegnato ad un ente morale, quando sia di natura precaria e revocabile a volontà dell’assegnante. Se trattasi invece di rendite certe, non revocabili assegnate ad un ente morale per il conseguimento dei suoi fini, sono considerate come redditi patrimoniali e tassate.

 

 

Quid del profitto che i comuni traggono dalle industrie che tuttodì vanno esercitando? Si considerò doversi destinguere nel profitto due parti: la prima interesse del capitale impiegato nell’impresa, la seconda compenso dell’opera di direzione dei preposti dal comune a capo dell’impresa e del rischio corso dall’imprenditore comunale. E si disse che la seconda parte non doveva essere colpita dall’imposta di manomorta, come quella che dipende da fattori personali; e solo la prima parte può esservi soggetta, derivando da fattori patrimoniali.

 

 

548. Esenzioni dall’imposta di manomorta. – Esenti sono gli enti i cui redditi imponibili non superano le L. 300 all’anno; salvo i benefizi parrocchiali, per cui il limite di esenzione fu aumentato a L. 1.000 dalla legge 4 luglio 1899. Con questa legge si esentarono pure le congrua: favori questi che si spiegano col fatto essere inutili falcidiare con l’imposta di manomorta i redditi dei più modesti benefici parrocchiali quando il reddito stesso dovrà poi essere reintegrato di nuovo fino alle 1.000 lire con dei supplementi di congrua a carico del fondo per il culto, i cui disavanzi vanno a carico dell’erario.

 

 

549. Moderazioni dell’imposta per gli istituti di carità e beneficienza. – Dicemmo già che l’aliquota dell’imposta è del 4% (più di manomorta in genere. L’aliquota è ridotta al 0,50% ossia, tenuto conto del 2/10 e 2/100, al 0,61% per gli istituti di carità e beneficienza.

 

 

Sono reputati tali gli enti: a) i quali siano sottoposti alla vigilanza governativa; b) abbiamo per iscopo realmente la carità e la beneficienza; c) le cui rendite vengano erogate in vantaggio delle classi e persone indigenti. La riduzione tributaria è limitata a quella parte delle rendite che effettivamente viene erogata in iscopi di carità o beneficienza; non a quella che sia destinata ad altri scopi, come di culto, od a vantaggio delle classi non disagiate.

 

 

Le casse di risparmio, le quali avevano già preteso (cfr. par. 546) di essere esenti dall’imposta di manomorta, in qualità di istituti di credito, affacciarono in seguito la domanda di essere reputate istituti di beneficienza, come quelle che intendevano a diffondere la virtù ed a ripartire i benefici del risparmio tra le classi sociali meno fortunate. La quale richiesta appare ragionevole in massima; essendoché è difficile definire il concetto da «beneficienza» in senso assoluto ed apparendo certo maggior beneficio alle classi disagiate il favorirne e custodirne i risparmi che non l’elargizione di elemosine. Aggiungasi che le casse di risparmio debbono spesso per statuto devolvere la parte disponibile delle proprie rendite patrimoniali a sussidio di istituzioni caritatevoli, ospedali, stabilimenti d’istruzione, ecc. ecc.: In qualche raro caso (es., cassa di risparmio di Torino) la tesi delle casse di risparmio fu accolta; ma, nella maggior parte dei casi, si reputò il fine del credito di gran lunga prevalente su quello di beneficenza; e si assoggettarono le casse al tributo normale del 4 per cento. Il qual punto di vista sembra erroneo; poiché per le casse l’esercizio del credito (operazioni attive, ossia di impiego della somma accumulata) non è il fine, bensì il mezzo o strumento idoneo a raggiungere il fine che è quello di raccogliere i risparmi delle classi più numerose (operazioni passive o di deposito). Il qual fine è indubbiamente di carità e beneficienza, ove queste parole non si vogliano intendere in un significato eccessivamente ristretto.

 

 

B) Dell’imposta di negoziazione.

 

550. Concetto e fondamento. – È l’altra grande imposta che ho detto di surrogazione[1] alle imposte normali sui trasferimenti. Fondamento di essa è di fatto che vi sono ricchezze, come i titoli di debito pubblico, le cartelle fondiarie, le azioni o le obbligazioni, le quali hanno per caratteristica la grandissima mobilità e facilità di negoziazione. Se, ogni volta che avviene un trasferimento, dovessero i titoli stessi essere assoggettati alle formalità di registrazione e bollo, si arrecherebbe grave momento alla loro negoziazione. Talvolta la riscossione dell’imposta riuscirebbe impossibile, come per i titoli al portatore di cui le parti contraenti si asterrebbero volontieri dal denunciare l’avvenuta trasmissione. Vi fu è vero taluno il quale propose la abolizione dei titoli al portatore allo scopo di togliere lo sconcio della frode tributaria; ma è proposito condannabile, come quello che distruggerebbe il titolo al portatore, che è vanto dell’economia moderna e strumento potentissimo di raccolta dei capitali a favore degli Stati, delle grandi imprese di trasporto, di navigazione ed ora anche delle industrie e dell’agricoltura. E tanto più condannabile appare il proposito di abolire il titolo al portatore (su di cui leggansi uno studio di chi vi parla su Titoli nominativi o titoli al portatore? L’esperienza inglese in «Rivista società commerciali» del 31 ottobre 1912 ed un altro di Attilio Cabiati su La nominatività dei titoli al portatore e la imposta di successione in «Riforma sociale» del novembre 1912), in quanto il legislatore italiano, d’accordo in ciò con parecchi altri, ha veduto come sia facile assoggettare tutti i titoli, compresi al portatore, ad un ‘impresa sicuramente esigibile.

 

 

Ricordiamo come le imposte sui trasferimenti siano un espediente immaginato allo scopo di tassare maggiormente i redditi patrimoniali in confronto ai redditi di lavoro puro. Non volendo colpirli, per ragioni di opportunità, con un’imposta annua si ricorse all’imposta saltuaria riscossa in occasione di trasferimenti. Ma è chiaro che l’espediente, immaginato per ragioni di comodità fiscale, non deve diventare un principio assoluto da osservarvi letteralmente; essendo chiaro che dove le imposte saltuarie sono malcomode si può tornare all’imposta annua. Specialmente le imposte saltuarie sui trasferimenti a titolo oneroso dannoso perché costituiscono un ostacolo alla facile trasmissione della ricchezza (cfr. par. 537); ma si tollerano perché di comoda esazione. Per i valori mobiliari, dove l’esenzione dell’imposta saltuaria sui trasferimenti sarebbe incomodissima e talvolta, per i titoli al portatore, si ritorna all’imposta annua, la quale è invece di facile esenzione. Bastando imporre agli enti, che emisero i titoli mobiliari, di pagare ogni annuo una imposta la quale corrisponda a quella che i titoli stessi in media avrebbero pagato ogni anno, tenuto conto della frequenza media dei loro trasferimenti a titolo oneroso. Dicesi «a titolo oneroso» perché l’imposta di negoziazione surroga ossia abolisce, sostituendosi, soltanto le imposte sui trasferimenti a titolo oneroso, non quella di successione o donazione, la quale deve ugualmente essere pagata; a differenza dell’imposta di manomorta che surroga amendue le specie di tributi. La ragione teorica della quale differenza sta in ciò che le imposte sui trasferimenti a titolo oneroso sono costanti ovverosia ugualmente proporzionali qualunque sia l’ammontare della ricchezza trasferita e non tengono conto del grado di parentela tra i contraenti; onde è facile commutare la costante imposta saltuaria in una costante od unica imposta annua; mentre le imposte sui trasferimenti a titolo gratuito variano, come vedemmo, in funzione del grado di parentela e della quota ereditaria; laonde sembrò difficile poter commutare tanta varietà di aliquote in una costante imposta annua. E costante deve essere questa, perché essa non si percepisce sull’ammontare sei singoli trasferimenti, e sui proprietari dei titoli bensì su tutto l’ammontare dei titoli che sia trasferiscano oppure no, e viene riscossa dall’ente emittente, astrazione fatta dalla persona del possessore dei titoli. Perciò la imposta di successione non fu surrogata da quella di negoziazione ed i titoli mobiliari debbono pagare l’imposta di successione come qualunque altra attività cadente nella successione.

 

 

Ciò poté essere reputato astrattamente logico allo scopo di conservare il principio di graduare l’imposta in funzione del grado di parentela e dell’ammontare della quota creditaria; ma è praticamente dannoso in quantoché i titoli al portatore sfuggono all’imposta di successione in molti sebbene non tutti i casi, astenendosi accuratamente gli eredi o legatari dal farne, il quale incolpa i contribuenti di una frode che esso incita a compiere col metodo tecnicamente inidoneo prescelto per colpire i trasferimenti a titolo gratuito (imposta di successione); ed invece di trasformare o commutare altresì tale imposta inidonea in una imposta idonea (imposta annua di negoziazione), scelse una via ibrida, che fu di aggiungere alla imposta normale di negoziazione un supplemento per i titoli al portatore, il quale non ebbe però la natura di surrogato all’imposta di successione, bensì quella di multa contro i titoli al portatore e di incitamento ai portatori a trasformarli in titoli nominativi, che non possono sfuggire all’imposta di successione. Ma poiché il timore dell’imposta di successione e la speranza di non pagarla furono più efficaci della comminata multa, il fisco non riuscì nel suo intento e di or si duole nuovamente del titolo al portatore e vuole abolirlo, con inenarrabile danno dell’economia del paese. Mentre sarebbe stato assai più agevole di riconoscere apertamente l’impossibilità di poter colpire con l’imposta di successione i titoli al portatore e surrogarla con un ben calcolato supplemento dell’imposta di negoziazione.

 

 

551. Oggetto dell’imposta di negoziazione. – L’imposta colpisce, come fu chiarito sopra, non la effettiva negoziazione dei titoli, ché allora avrebbe dovuto essere applicata volta per volta, bensì la negoziabilità o potenzialità di negoziazione di cui sono suscettibili le cartelle, i certificati, le obbligazioni, le azioni e gli altri titoli di qualunque specie o denominazione, da chiunque emessi, tanto provvisori che definitivi, sia nominativi che al portatore e comunque la negoziazione di questi titoli non possa operarsi con la semplice tradizione, ovvero i titoli siano emessi a nome di società commerciali non peranco costituite.

 

 

Teoricamente la imposta avrebbe dovuto essere più o meno elevate a secondo che di fatto risultasse più o meno elevata la frequenza media dei trasferimenti per le diversi specie di titoli. Onde, supponendo che le imposte sui trasferimenti onerosi abolite o surrogate siano del 2%, l’imposta di negoziazione surrogante avrebbe dovuto essere del 0,20% se il titolo in media si trasferisce una volta ogni 10 anni, del 0,40% se l’intervallo tra un trasferimento e l’altro fosse di 5 anni; e così via. Ma tali ricerche parvero troppo complesse; e fu adottata una aliquota media uniforme per tutti i titoli.

 

 

Così pure, per semplicità, non si tien conto del fatto che certi titoli non si possono trasferire, o perché sono cauzioni di amministratori o gerenti di società, o perché appartengono a minori d’età, o doti.

 

 

Non è necessario che la quota del capitale sociale sia rappresentata da un titolo; la imposta colpendo la cedibilità della quota e non il titolo nella sua materialità.

 

 

Assai controversa è la questione recentemente dibattuta se le quote delle società in accomandita semplice siano soggette all’imposta di negoziazione od a quelle normali di registro; preferendo il fisco la prima, come quella che, per errori, forse non involontari, in quello che chiamammo calcolo di commutazione (cfr. par. 534), è in questi casi più gravosa della seconda.

 

 

Trattasi invero di quote che assai raramente si trasferiscono e quindi pacherebbero imposte di registro, di solito del 2,44%, ad intervalli assai lunghi; mentre l’imposta di negoziazione, preferita dal fisco, è del 0,183% ogni anno. Fu deciso conformemente, al solito, alla domanda della finanza, che si dovesse distinguere tra:

 

 

  • a) le società di persone, in cui il socio non può uscire se non attraverso l’istituto del recesso, ed il nuovo socio può essere ammesso solo con le regole prescritte dal codice di commercio e facendo il relativo apporto. In questo caso parendo esclusa la cedibilità delle quote, si applicano le normali tasse di registro;
  • b) le società in cui l’elemento personale affermasi non prevalente, perché le quote di partecipazione o carature possono essere cedute a terzi, anche se per la cessione è necessaria la approvazione degli organi sociali, ed anche se la cessione non faccia acquistare al cessionario tutti i diritti dei soci, ma soltanto gli dia la proprietà della caratura, con diritto ai relativi utili. In tal caso applicarsi l’imposta di negoziazione.

 

 

È evidente che la soluzione è sostanzialmente scorretta, non essendo possibile paragonare la frequenza effettiva dei trasferimenti di una azione al portatore od anche nominativa di una società per azione alla frequenza media di una caratura di società in accomandita semplice. E poiché la ragione dell’imposta è di surrogare le imposte sui trasferimenti onerosi che effettivamente sarebbero state volute, è evidente la necessità di graduare l’imposta, almeno grandi categorie, in rapporto a questa frequenza media.

 

 

552. Soggetto dell’imposta. – Sono gli enti, provincie, comuni, società costituite o costituende, enti morali che emettono i titoli. Essi però sono solo i contribuenti di diritto, o come ripetutamente li chiamammo, i pseudo contribuenti o contribuenti esattori incaricati di pagare, per comodità del fisco e dei contribuenti veri, l’imposta. I veri contribuenti sono i possessori dei titoli o quote o carature negoziabili, contro di cui gli enti contribuenti hanno diritto di rivalsa.

 

 

553. La misura normale dell’imposta. Titoli nominativi e titoli al portatore. – La imposta ha un’aliquota che diremo normale ed altre che si possono chiamare speciali. L’aliquota normale è dell’1,50 per mille (ossia L. 1,50 per ogni mille (ossia L. 1,50 per ogni lire di valore del titolo), che coi 2 decimi e 2 centesimi diventa dell’1,83 per mille per i titoli nominativi di azioni ed obbligazioni di società civili e commerciali e per le cartelle, i certificati, le obbligazioni ed altri titoli di qualunque specie e denominazioni da chiunque emessi, comuni ed altri enti. Oltre a questa imposta dell’1,50 per mille i titoli al portatore di azioni ed obbligazioni di società sono sottoposti ad un’aggiunta di 0,50 per mille (effettivi 0,61 per mille) e così in tutti pagano il 2 per mille che coi 2/100 diventa il 2,44 per mille. Questo sovrappiù è quello che sopra dicemmo multa escogitata colla legge del 23 gennaio 1902 per indurre i possessori di azioni ed obbligazioni a preferire la forma nominativa alla forma al portatore. Cosicché, mentre i titoli nominativi pagano solo l’1,83 per mille a titolo di imposta in surrogazione di quelle sui trasferimenti a titolo oneroso, ed inoltre pagano l’imposta, non surrogata, di successione; i titoli al portatore pagano invece l’1,83 per mille come sopra in surrogazione dell’imposta sui trasferimenti a titolo oneroso; ed inoltre il 0,61 per mille a titolo di multa per la presunzione che essi frodino l’imposta di successione, che però sono astretti a pagare ugualmente se se ne accerti l’esistenza nell’attivo di una successione.

 

 

Ora il Cabiati nello studio citato ha dimostrato che il pagamento di L. 0,60 per mille all’anno equivale, calcolando l’interesse del 3,50% all’anno, al 5,04% dopo 40 anni ed al 4,20% dopo 36 anni, e quindi se si suppone che le suddette azioni ed obbligazioni si trasferiscono ogni 40 o 36 anni a titoli di successione o donazione, esse pagano, a guisa di multa per la loro evasione presunta all’imposta di successione, il 4,20 per cento ogni 36 anni nell’ipotesi più favorevole di successione frequenti.

 

 

Quando rende l’imposta vera e propria di successione fatta la media tra aliquote alte o basse? Precisamente il 4,10 per cento. Onde egli conchiude che l’aggiunta del 0,61 per mille all’anno, che il legislatore considera come una semplice multa, equivale da sola alla media di imposta successoria che quei titoli dovrebbero pagare ogni 36 anni. Dunque non solo sono irragionevoli le accuse di evasione all’imposta successoria mosse contro i titoli al portatore, i quali ne pagano l’equivalente a causa della maggior imposta di negoziazione; ma la pretesa del legislatore di volerli colpire con l’imposta di successione nei casi in cui la loro esistenza venga accertata in una successione è scorretta, come quella che conduce ad una doppia tassazione.

 

 

Forse può sorgere dubbio intorno alla maniera di fare la «commutazione» del 0,60 per mille annuo in un 4,20 per mille ogni 36 anni. L’A. citato eguaglia le due quantità calcolando a quanta equivalga dopo 36 anni una annualità di 6 centesimi all’anno all’interesse posticipato del 3,50 per cento. E correttamente, in tal caso, conclude che essa equivale a lire 4,20. Ma possiamo davvero tener calcolo dell’interesse al 3,50 per cento? Qui vi è ragion di dubitare. Poiché il fisco, scegliendo i 6 centesimi annui, non attende che siano trascorsi 36 anni per esigere l’imposta, ma subito esige 6 centesimi annui, non attende che siano trascorsi 36 anni per esigere l’imposta, ma subito esige 6 centesimi di lira ogni anno su tutti i titoli al portatore in corso, invece che esigere pure subito ed ogni anno lire 4,20 su 1/36 dei titoli al portatore esistenti. Quindi trattasi di due quantità attuali, le quali si possono paragonare senz’altro, senza uopo di trasportarne una nel tempo al 36esimo anno mercé l’applicazione di un tasso dell’interesse.

 

 

Il che non scrolla però la tesi dell’A. citato; ma vuol dire soltanto che pagare L. 0,61 per mille lire ogni anno su tutti i titoli al portatore esistenti, come imposta di negoziazione, equivale a pagare L. 0,61 X 36 = L. 2,196 per mille su quella parte (1/36) del totale dei titoli stessi che ogni anno cade sotto l’imposta di successione. E si può concludere con tutta sicurezza che la cosidetta multa dal 0,61 per mille che i titoli al portatore pagano in più dei titoli nominativi, equivale ad almeno la metà dell’imposta successoria che essi dovrebbero pagare. Basterebbe elevare questa cosidetta multa del 0,61 per mille al doppio, ossia far pagare ai titoli al portatore 1,22 per mille di più dell’1,83 per mille che già pagano i titoli nominativi per controbilanciare largamente l’esenzione di fatto di cui essi godono dall’imposta successoria. Naturalmente l’esenzione di fatto dovrebbe convertirsi in un esenzione di diritto, per non esacerbare il vizio della doppia tassazione in che oggi si cade per i valori al portatore accertati all’apertura di una successione.

 

 

554. Le aliquote speciali dell’imposta. – Sono principalmente le seguenti: a) L. 1 per mille, che coi 2/10 e 2/100 diventa l’1,22 per mille per le obbligazioni ferroviarie 3% emesse dalle società mediterranea, adriatica e sicula per conto dello Stato; per le emesse da società che ebbero costruzioni di strade ferrate sino al 12 luglio 1888 e per le ultime emesse in seguito 12 luglio 1908 per la costruzione di ferrovie concesse ai privati; b) il 6,1 per mille (decimi e centesimi compresi) per le azioni delle società cooperative legalmente costituite. L’imposta però è dovuta solo sul valore nominale delle azioni che dai registri sociali risultino effettivamente trapassate, e non su tutte quelle in circolazione. Si comprende perciò la maggior elevatezza apparente dell’aliquota. I trapassi si possono assolutamente constatare essendo tutte queste azioni nominative.

 

 

555. Esenzioni e riduzioni. – L’imposta di negoziazione non doveva estendersi però a quei titoli sono soggetti ad altre imposte o che non sono veramente titoli di proprietà suscettibili di negoziazione. Quindi sono esenti i libretti e le ricevute di conto corrente e di risparmio, gli assegni bancari, i buoni fruttiferi a scadenza emessi da istituti legalmente costituiti, in quanto questi sono strumenti di deposito e non di trapasso del capitale; le cambiali ed i recapiti di commercio, soggetti ad una speciale tassa di bollo, i biglietti di banca, soggetti ad una particolare tassa di circolazione; le azioni e le obbligazioni di società straniere soggette ad imposte particolare, di cui si dirà sotto. Sono esenti i titoli del debito pubblico ed i buoni del tesoro; ciò allo scopo di conferire loro pregio maggiore e perché si è riflettuto che l’imposta su di essi si sarebbe convertita in una semplice partita in giro. Fra i titoli di debito pubblico esenti non si comprendono i titoli emessi da altri enti o società e garantiti dallo Stato.

 

 

Godono di esenzione le esenzione le azioni nominative delle banche popolari e delle altre società cooperative, il cui valore nominale non superi le lire 100 per azione, e il cui capitale sociale azionario versato non superi le lire 500.000. La tassa è ridotta ed 1/4 e cioè L. 0,45 per i titoli nominativi e 0,61 per mille per i titoli al portatore, per i titoli emessi dalle società per la costruzione di case popolari, dalle società fra agrumicultori e dalle casse agrarie per la Basilicata, Mezzogiorno, Sicilia e Sardegna.

 

 

Le cartelle di credito fondiario sono esenti dall’imposta di negoziazione, perché pagano una tassa annua di L. 0,10 per cento per i mutui non superiori a L. 10.000 e di L. 0,15 per cento per i mutui superiori a L. 10.000 a titolo di abbonamento a tutti i diritti erariali, la qual tassa è comprensiva anche della imposta di negoziazione. Le cartelle di credito agrario pagano una tassa di bollo e negoziazione di cent. 10 per ogni cartella da L. 100 e di cent. 20 per ogni cartella da L. 200 che mettono in circolazione.

 

 

556. Imposta sul capitale delle società straniere che fanno operazioni in Italia. – Rispetto a queste società sarebbe stato scorretto sia il colpire con l’imposta ordinaria di negoziazione tutto l’ammontare dei titoli da esse emessi, o delle quote o carature in cui il loro patrimonio si divide, perché buona parte dei titoli o carature può non essere mai negoziata o trasferita in Italia; sia del pari l’esentarli da ogni imposta, perché vi sarebbe convenienza ad attribuire la proprietà di beni od industrie o padroni esistenti in Italia a società estere allo scopo di frodar l’erario.

 

 

Si è scelto un partito di colpire con la tassa speciale annua del 2 per mille (con gli addizionali 2,44 per mille) il capitale complessivo destinato ad operazioni in Italia dalle società straniere anonime od in accomandita per azioni e dalle società straniere di qualsiasi specie che facciano in Italia operazioni di assicurazioni e di contratti vitalizi. Non basta che una società compie operazioni isolate in Italia per essere soggetta al tributo; occorrendo invece che tali operazioni abbiano un certo carattere di abitualità e di periodicità; il qual carattere si estrinseca col porre nel regno la sede principale o una secondaria, o una rappresentanza o coll’avevi l’oggetto principale della impresa. L’accertamento della quota del capitale complessivo della società non è certo scevro da difficoltà; le quali solo collo studio delle particolari circostanze d’ogni caso possono essere risolute.

 

 

Sezione quinta.

 

Valutazione dell’imponibile nelle imposte sui trasferimenti.

 

557. In generale. – Noi non tratteremo a fondo l’amplissima materie delle valutazioni dell’imponibile nelle imposte sui trasferimenti; bastando porre taluni concetti essenziali. Due sono i sistemi che si contrastano il campo: l’uno del valore o prezzo corrente in comune commercio, da determinarsi con le dichiarazioni delle parti, con i corrispettivi risultanti dagli atti, con le perizie ecc. ecc., e l’altro dei dati fissi di riferimento. Il primo metodo è più corretto; ma implica sicuramente contestazioni tra il fisco e contribuenti ed incertezze talvolta grandi. Perciò ripetutamente e si propose che invece di valutare il prezzo in comune commercio dei beni trasferiti, tale prezzo si presumesse con riferimento a certi dati fissi contenuti in catasti o pubblici registri o tabelle appositamente compilate. Si vorrebbe, per esempio, moltiplicare per 20 o 25 il reddito imponibile del fondo o della casa e senz’altro ricavare così il prezzo della casa; ovvero formare delle tabelle, dove si leggesse quanto in ogni provincia debbono valutarsi i terreni destinati ad ogni singola cultura. In qual sistema, che era stato accolto nella legge italiana del 23 gennaio 1902, fu infine abbandonato essendosi visto che non si può costringere entro valutazioni prefisse l’infinita varietà dei casi che nella realtà della vita si presentano. Onde il criterio dominante è quello della tassazione secondo il valore o prezzo corrente sul mercato.

 

 

558. Valutazione dell’imponibile nei trasferimenti a titolo oneroso. – La base della valutazione è il prezzo o corrispettivo risultante dagli atti, od, ove questi manchino, dalla dichiarazione che ne fa il contribuente, o, in caso di suo rifiuto, l’ufficiale tassatore.

 

 

Quanto agli immobili, la esattezza dei prezzi corrispettivi e dichiarati è controllata col confronto loro con i prezzi risultanti dalla alienazioni, divisioni o stime giudiziarie, degli immobili medesimi, anteriori di non oltre un quinquennio, dalle locazioni degli immobili stessi, da cui si possa risalire al valore corrente in comune commercio, riferendosi al rapporto esistente nella località fra valori locativi e valori capitali; e dalle alienazioni di altri immobili, posti nelle stesse località e in condizioni analoghe.

 

 

Ove le dichiarazioni dei contribuenti e le tassazioni d’ufficio non paiono adeguate, ambe le parti possono promuovere il giudizio di stima, quando il valore dichiarato od il prezzo corrispettivo convenuto sia reputato inferiore di un sesto al valore che l’immobile aveva in comune commercio al giorno del trasferimento.

 

 

Il sesto si calcola non sul valor dichiarato, ma sul valore che l’immobile possa veramente avere. Così se un immobile fu dichiarato per 5.000 lire, il sesto di tolleranza non sarà L. 5.000 : 6 = 833,33; ma invece sarà di una sesta della somma intiera di cui 5.000 lire sono i 5/6, ossia L. 1.000.

 

 

La stima è fatta da un sol perito, nominato dal presidente del tribunale, se il valore dichiarato non eccede le L. 10 mila; da tre parti, di cui due nominati dalle parti ed uno dal medesimo presidente se il valore supera le 10 mila lire. I risultati della perizia sono definitivi ed insindacabili, salvo errori di calcolo o di fatto, per cui si può ricorrere al tribunale. Le spese del giudizio sono a carico della parte soccombente a seconda che il valore risultante dalla perizia supera o non il limite di tolleranza del sesto. Per determinare la soccombenza, si tien conto non solo del valore dichiarato originariamente, ma anche degli aumenti offerti entro 10 giorni dalla notificazione dalla domanda di stima. Se la differenza tra i due valori dichiarato e peritale sia superiore ad un quarto del valore di perizia, sulla differenza è dovuta, oltre la tassa, una sovratassa uguale ai 6/5 della tassa.

 

 

Se si tratta di mobili, si ha riguardo per fissare il valore in comune commercio, agli inventari con stima od alle contrattazioni dei mobili stessi, anteriori di non più di sei mesi.

 

 

Per le derrate o merci o generi di commercio la tassa si applica al valore risultante dalle mercuriali, dalle scritture o libri delle camere di commercio o da quelle dei mediatori o sensali, mercuriali o contrattazioni più prossime al giorno del trasferimento che si deve tassare.

 

 

559. Valore della piena proprietà, e degli usufrutti, rendite ed enfiteusi.

Il legislatore si è trovato di fronte al fatto che il valore della piena proprietà può facilmente essere stabilito, prendendo a base un determinato tasso di capitalizzazione del reddito annuo. Così, siccome l’interesse legale era secondo il codice civile il 5%, per avere il valore della piena proprietà di un fondo del reddito netto annuo di 5.000 lire, bastava moltiplicare tal reddito per 20, ottenendo il valore in comune commercio di L. 100.000.

 

 

Quid se il reddito non è perpetuo? In mancanza di dichiarazioni delle parti, fu stabilito:

 

 

  • a) per l’usufrutto, che il valore dell’usufrutto a tempo indeterminato o non minore di 10 anni, sia uguale alla metà dell’intiero valore della cosa, se l’usufruttuario non abbia compiuto i 50 anni, al quarto se li ha compiuti. Se l’usufrutto è limitato a tempo minore di 10 anni, il suo valore è uguale a tanti ventesimi dell’intiero valore della proprietà, quanti sono gli anni della durata, perché non si oltrepassino i cinque ventesimi nel caso, pur dovendo l’usufrutto durare più di 5 anni, l’usufruttario abbia compiuto i 50 anni;
  • b) per le rendite o pensioni, ove la rendita sia corrisposta indipendentemente dalla vita di una persona, la tassa si applica su un capitale uguale a tante volte la rendita quanti sono gli anni per cui deve essere corrisposta, col massimo del ventuplo; e ciò perché, al tasso di interesse del 5%, il ventuplo corrisponde al valore capitale della rendita perpetua, che è il valore massimo a cui possa giungere una rendita. Se la rendita cessa alla morte della persona durante la cui vita deve essere corrisposta, il cumulo delle annualità non può superare le 5 o le 10 annualità a seconda che tal persona abbia o non abbia compiuta l’età di 50 anni. Tutto ciò è assai grossolano. A parte il fatto, che oggi l’interesse legale civile è del 4% e non più del 5% e quindi per ottenere il valor capitale corrispondente, le rendite dovrebbero moltiplicarsi per 25 e non più per 20, il legislatore ha dimenticato un fatto semplicissimo: che cioè l’imposta dovrebbe colpire il valore attuale della rendita, pensione od usufrutto, perché è il valore venale attualmente corrente in comune commercio della rendita ecc. che è trasferito e dovrebbe essere oggetto di imposta. Ora il valore attuale di una rendita annua certa di 1.000 lire per 20 anni, non è di 20.000 lire, come stranamente suppose il legislatore, bensì, all’interesse del 5%, di L. 125.500. Infatti, se Tizio possiede un capitale di L. 20.000 e se l’interesse è del 5%, può acquistare una rendita perpetua di L. 1.000; che se si contenta di avere una rendita annua di L. 1.000 per 20 anni, basterà paghi L. 12.500, come qualsiasi manuale di computisteria elementare insegna (cfr. par. 243 in nota). Se la rendita annua di L. 1.000 è durata per soli 10 anni, il suo valore attuale non è di L. 1.000 X 10 anni = L. 10.000 come ingenuamente suppone il legislatore. Ognuno che sappia far di conti è pronto, ove il tasso dell’interesse sia, come il legislatore suppone, del 5%, pagar L. 1.000 all’anno per 10 anni, quando riceva in corrispettivo la somma di L. 8.230. La qual verità è notissima anche agli scolari delle scuole tecniche;
  • c) per l’enfiteusi con durata perpetua o superiore a 20 anni, l’imposta si applica su 10 volte il canone annuo; se ha durata minore di vent’anni, su un capitale formato da tante volte le metà della prestazione quanti sono gli anni di durata della concessione. Nel momento della affrancazione si paga l’imposta sulla parte del valore della piena proprietà, che non fu nel primo tempo tassata.

 

 

Anche questo criterio sembra stravagantissimo, poiché il fondo, il quale è stato concesso in enfiteusi perpetua dietro corresponsione di un canone annuo di L. 500, vale evidentemente, nel momento del contratto, non più di 10.000 lire in capitale. Infatti se il dominio diretto ne avesse ricavato o sperato un reddito maggiore di L. 500, certamente non l’avrebbe concesso a quel canone, ben sapendo che l’utilista potrà sempre riscattare il fondo pagando la somma di lire 10.000. Perciò, in quel momento, il dominio diretto vale L. 10.000 e tal valore rimane di proprietà del dominio diretto; mentre il dominio utile vale zero. Invece il legislatore suppone che il valore del fondo che è di L. 10.000 si sia frazionato in due parti: una di L. 5.000 che è passata all’utilista e che vien tassata, l’altra di L. 5.000 che rimane del direttario e che verrà tassato all’atto dell’affrancazione.

 

 

Tutto ciò è privo di qualsiasi fondamento; anzi è affatto incomprensibile.

 

 

560. Valutazione dell’imponibile nei trasferimenti a titolo gratuito. – Si seguono le regole già dette per i trasferimenti a titolo oneroso, salvo che il limite di tolleranza è ridotto da 1/6 ad 1/6; perché, se nelle compravendite le parti possono per considerazioni speciali (bisogno di vendere, scarsa capacità ad amministrare, ignoranza delle parti ecc.) allontanarsi realmente dal prezzo venale in commercio, nelle successioni non v’è normalmente fissazione di prezzo o questo non risulta da una contrattazione. Quindi la convenienza di impedire le deviazioni artificiose dal prezzo venale.

 

 

561. Valutazione dell’imponibile di manomorta. – Valutarsi qui la rendita (non, come si è detto, il prezzo capitale) annua imponibile tenendo conto del prezzo annuo di affitto, reale o presunto, detraendone i pesi che sono inerenti al reddito e a carico del possessore, perché la rendita netta così stabilita non risulti per gli immobili inferiori ad 8 volte l’imposta fondiaria principale a cui gli immobili sono assoggettati. Sono deducibili in genere tutti i pesi e le passività proprie dell’ente, come canoni e censi passivi, interessi di mutui passivi, imposta di ricchezza mobile ecc.

 

 

Non ci deducono però le spese che l’ente di manomorta deve sostenere per il raggiungimento del fine suo, come sarebbero le spese di mantenimento dei malati per un ospedale. Queste sono spese di erogazione e non di produzione del reddito.

 

 

562. Valutazione dell’imponibile per l’imposta di negoziazione. – Fermo dovendo rimanere il principio che oggetto dell’imposta è il valore venale corrente della cosa tassata, il legislatore statuì che l’imposta di negoziazione fosse commisurata al corso medio di borsa dei titoli nell’anno precedente o in quel minor tempo da cui dati l’ammissione. Se si tratta di titoli non quotati in borsa o non quotati l’anno precedente, l’imposta si liquida in base a certificato peritale da rilasciarsi dal sindacato dei pubblici mediatori, ed in mancanza in base al valore nominale.

 

 



[1] In realtà nel linguaggio amministrativo l’imposta di manomorta non viene annoverata fra le imposte o, come dicono i testi, fra le tasse in surrogazione del bollo e del registro. Ma poiché in realtà essa è tale, noi l’abbiamo collocata in questa categoria. Notiamo ancora che il gruppo delle tasse in surrogazione comprende, oltre la tassa di negoziazione, anche: a) la tassa sul capitale delle società straniere che fanno operazioni in Italia; b) la tassa sulle anticipazioni o sovvenzioni contro deposito o pegno; c) la tassa sulle assicurazioni e sui contratti vitalizi. Della prima faremo breve cenno, discorrendo della tassa sulla negoziazione dei titoli, di cui è un surrogato. Delle altre due, sulle anticipazioni e sulle assicurazioni, data la strettezza del tempo, non si discorrerà di proposito. Basti ricordare che la tassa sulle anticipazioni colpisce le operazioni di anticipazioni o sovvenzioni su merci o titoli. La tassa è di L. 1,50 per mille per semestre, il che corrisponde, compresi gli addizionali, al 3,66 per mille all’anno per le operazioni compiute dalle tasse private di pegno. Per le operazioni compiute dalle casse di risparmio, istituti o società di qualunque specie, la tassa è mezzo centesimo al giorno, senza decimi, ma coll’addizionale dei 2,100 del terremoto, per ogni mille lire dell’effettiva durata all’anticipazione. La tassa è ridotta ad un quarto di centesimo per le anticipazioni su titoli dello Stato o garantiti in capitale ed interessi dello Stato. La spiegazione teorica di questa tassa imposta è difficile da addurre; formalmente essa è giustificata come un surrogato delle tasse di bollo che colpirebbero tutte le molteplici operazioni di sovvenzione, rinnovazione, estinzione parziale o totale del pegno, ecc. ecc. Ma a sua volta è difficile trovar la ragione per cui queste operazioni abbiano ad essere colpite da imposta; essendoché il reddito, a cui queste operazioni, che sono in sostanza di mutuo, dà luogo, già è colpito dall’imposta di ricchezza mobile. Del pari inesplicabili teoricamente sono le tasse sulle assicurazioni e sui contratti vitalizi. Non si capisce davvero il motivo per cui abbiamo ad essere colpiti con tassa dell’1,02% i premi o quote versate per un’assicurazione sulla vita e del 0,61% il capitale versato per stipulare un contratto di vitalizio. Dovrebbero anzi questi pagamenti essere esentati altresì dall’imposta sui redditi, come quelli che costituiscono risparmio; e non colpiti con un balzello speciale. Così pure non si capisce perché si debba pagare una imposta variabile da cent. 40 per lire di premio, quando questo non superi i cent. 25 per ogni 1.000 lire di capitale assicurato contro gli incendi, a cent. 5 per lira di premio, quando questo ecceda le L. 10 per ogni 1.000 lire di capitale assicurato. Il premio pagato per l’assicurazione contro gli incendi è una spesa non di erogazione del reddito, nel qual caso si potrebbe concepire anche una imposta consegnata nel grottesco modo che ora si è visto, ma è una spesa di produzione nel reddito, il quale genere di spese tutti i legislatori, insieme con nostro, cercano di escludere dall’imposta. Siffatte imposte costituiscono gli elementi extravaganti di un sistema tributario; e ad essi converrebbe dedicare un capitolo apposito, per metterne in rilievo le assurdità e le stravaganze.

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