Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo VI – Di alcuni problemi speciali dei prestiti pubblici

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo VI – Di alcuni problemi speciali dei prestiti pubblici

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 835-906

 

 

 

670. Ragione di questo capitolo. – Dopo aver discorso delle diverse maniere di debito pubblico proprio ed improprio, occorre ancora tener parola delle modalità secondarie, secondo cui ognuno di quei debiti può essere emesso.

 

 

Modalità, le quali non toccano la natura propria del debito, ma ne determinano le particolari clausole di emissione, importantissime praticamente.

 

 

Siccome non è possibile tenere rigidamente separate le varie parti del discorso, così di taluna di queste modalità si fece già cenno per incidente sopra, discorrendo, ad esempio, di prestiti emessi alla pari o sotto la pari. Ma ora di esse si dirà partitamente.

 

 

Sezione prima

Prestiti alla pari e sotto la pari

 

671. Nozione di queste due maniere di prestito. Il valore di parità. Valore nominale e valore di rimborso del titolo. – Dicesi prestito alla pari quello per cui lo Stato non si riconosce debitore di una somma maggiore di quella che ha effettivamente ricevuto. E poiché l’unità del debito sono le cento lire, queste si dicono la pari del debito, ed il debito dicesi emesso alla pari, quando lo Stato riceve dal capitalista effettivamente le 100 lire che gli deve rimborsare.

 

 

Dicesi invece prestito sotto la pari quello per cui lo Stato si riconosce debitore per una somma superiore a quella ricevuta; obbligandosi a rimborsare cento lire, ossia la pari, quando ha ricevuto soltanto 90, 80, 70 lire od altra somma inferiore alla pari.

 

 

Il prestito si contrae alla pari o sotto la pari a seconda che lo Stato si obbliga a pagare un interesse uguale od inferiore a quello corrente per impieghi della medesima sicurezza e dello stesso tipo. Se noi supponiamo che in un dato momento l’interesse corrente per i tipi di prestiti simili a quelli di Stato sia del 4%, è chiaro che lo Stato potrà contrarre un prestito alla pari solo quando prometta di pagare l’interesse del 4%, mentre dovrà contrarlo al disotto della pari, quando voglia pagare solo il frutto del 3 1/2 o 3 per cento, s’intende per ogni 100 lire che si obbliga a rimborsare, essendo il pari sempre dato dalla somma rimborsata, non da quella ricevuta. Se lo Stato invero si obbliga a pagare 4 lire all’anno di interesse, è ragionevole che il tesoro riceva in cambio di questa obbligazione 100 lire, non potendo sperare il capitalista di ricavare da 100 lire in un altro qualsiasi impiego un frutto maggiore di 4 lire. Se invece lo Stato si obbliga a pagare solo 3 lire di interesse, il capitalista, il quale sa che da 100 lire riceverebbe altrove 4 lire di frutto, non è affatto disposto a darle in cambio di un frutto di 3 lire appena. Ma ragionerà così: se da 100 lire ricavo 4 lire di interesse, quanto debbo proporzionalmente dare per un titolo che rende 3 lire all’anno?

 

 

Un’applicazione semplicissima della regola del tre gli insegna che se

 

 

100 : 4 = X : 3

X = 100 x 3/4 = 75

 

 

onde egli pagherà per il titolo che rende 3 lire per 100 nominali[1] soltanto 75 lire. Si suol dare a questo valore di 75 lire il nome di parità del prestito sotto la pari al prestito alla pari, ed è un valore che indica quanto si dovrebbe pagare, tenendo conto dalla sola proporzione aritmetica fra il frutto del titolo emesso sotto la pari ed il frutto del titolo emesso alla pari ed astraendo da ogni altra considerazione, per il titolo emesso al disotto della pari.

 

 

Vedremo subito che il valore di parità non è il prezzo a cui effettivamente si emette il prestito sotto la pari; poiché esso fu stabilito tenendo conto solo del rapporto aritmetico fra 3 e 4, che nel caso nostro sono i due frutti ipotizzati, ed astraendo da ogni altra considerazione; le quali altre considerazioni sono appunto quelle che ci interessa di fare e che spiegano come il prezzo effettivo di emissione del titolo al disotto della pari non possa essere il valore di parità, ma un valore superiore e come per non essere desso di fatto abbastanza superiore, come vorrebbe la teoria, il prestito al disotto della pari non sia conveniente per lo Stato.

 

 

672. Le due caratteristiche, vantaggiose per il capitalista e dannose per lo Stato, del titolo al disotto della pari, emesso al valore di parità; rimborso di una somma superiore alla ricevuta e proroga del momento della conversione. – A mettere in luce queste altre considerazioni ed i loro effetti, giova per un istante supporre che il valore di parità sia precisamente il valore di mercato e di emissione del titolo al disotto della pari. Supponiamo dunque che lo Stato si trovi di fronte al quesito: è meglio emettere[2] a 100 lire un prestito 4 per cento od a 75 lire – valore di parità – un prestito 3 per cento?

 

 

Posto sotto questa forma il quesito, è evidente che il prestito 3% a 75 al disotto della pari presenta due caratteristiche, dannose per lo Stato ed inversamente vantaggiose per il capitalista, sicché esso dovrebbe senz’altro essere scartato.

 

 

La prima si è che lo Stato, – il quale, pagando sul prestito al disotto della pari 3 lire di interesse per ogni 75 lire ricevute paga in sostanza 4 lire per ogni cento lire ricevute, ossia lo stessissimo interesse che sul prestito alla pari – oltre a pagare l’uguale interesse effettivo, deve restituire, al momento del rimborso, 25 lire più di quante ne abbia ricevuto. Invero il prestito è un tre per cento sul nominale di 100 lire; sui titoli sta scritto obbligazione o cartella da 100 lire. Non monta che il tesoro abbia in origine ricevute solo 75 lire; essendosi riconosciuto debitore di 100 lire, tutte queste 100 deve restituire. Quindi lo Stato oltre all’interesse di 3 su 100 nominali che sono 4 su 100 effettive deve rimborsare 25 lire di più oltre le riscosse; e queste 25 lire sono un’aggiunta all’interesse, od un interesse il cui pagamento è prorogato al momento del rimborso. Questa è la prima caratteristica del prestito alla pari dannosa per lo Stato, vantaggiosa per il capitalista: di imporre il rimborso di una somma superiore a quella ricevuta.

 

 

La seconda si è che viene prorogato il momento di una possibile conversione del prestito ad un più basso tasso d’interesse.

 

 

Col prestito alla pari, al 4 per 100, lo Stato, il quale deve pagare 4 lire per ogni 100 nominali da restituire, può, appena l’interesse sul mercato sia ridotto al 3 1/2 per cento offrire ai portatori il rimborso delle 100 lire, ove essi non si acquietino alla riduzione del frutto al 3 1/2 per cento. La riduzione consensuale dell’interesse si avvera dunque entro il tempo occorrente perché il prezzo d’uso del risparmio in quel dato paese si riduca dal 4 al 3 1/2 per cento. Potrà il tempo essere breve o lunghissimo a seconda di moltissime circostanze che influiscono sul tasso dell’interesse; basti dire che è quello occorrente a vedere modificarsi dal 4 al 3 1/2 per cento il tasso dell’interesse sul mercato.

 

 

Ben diverso e più lungo è il tempo che deve passare prima che si possa convertire un prestito al disotto della pari. Il prestito 3 per cento, emesso ad effettive 75 lire, rende, è vero, al capitalista 4 lire per ogni 100 da lui versate. Ma ciò non conta, rispetto alla possibilità della conversione. Lo Stato è debitore non di 75, bensì di 100 lire. Se vuole ridurre il tasso di interesse, deve ridurre il tre per cento sulle cento nominali da lui dovute. Finché il tasso di interesse sul mercato non sia disceso al 2 1/2 per cento – supponiamo che praticamente si possa tener conto solo delle variazioni di mezzo per cento nel tasso dell’interesse – lo Stato non ha nessuna convenienza a minacciare il rimborso del capitale, ossia di 100 lire, a chi non volesse acconciarsi alla riduzione al 2 1/2 per cento. Tutti accetterebbero la stravagante offerta dello Stato ed investirebbero le 100 lire rimborsate ricavandone 3 1/2 o 3 lire di frutto.

 

 

Quindi solo quando il tasso di interesse sul mercato sia disceso al 2 1/2 per cento potrà lo Stato ridurre l’interesse sul debito 3% contratto originariamente sotto la pari.

 

 

Se noi ricordiamo ora che amendue le specie di prestiti 4 e 3 1/3 – alla pari e sotto la pari – furono contratte quando il tasso dell’interesse era al 4%, che, essendo il primo tipo stato emesso a 100 ed il secondo a 75, su amendue lo Stato paga il 4%, se vi aggiungiamo la circostanza ora ricordata, per cui il tipo 4%, può essere convertito in 3 1/2 per cento appena il tasso d’interesse si sia ridotto dal 4 al 3 1/2 pere cento mentre il tipo 3% potrà essere convertito in 2 1/2 per cento solo quando il tasso di interesse dal 4 si sia ridotto al 2 1/2 per cento chiara apparisce una verità: dovere trascorrere assai più lungo tempo affinché si possa far luogo alla conversione dei prestiti contratti sotto la pari che di quelli contratti alla pari; bastando a questi il tempo occorrente a lasciar ridurre sul mercato l’interesse dal 4 al 3 1/2 ed occorrendo ai primi il più lungo tempo bisognevole per la riduzione spontanea sul mercato dal 4 al 2 1/2 per cento.

 

 

Questo è il secondo danno per lo Stato o vantaggio per il capitalista dei prestiti sotto la pari. Danno tutt’altro che lieve, se si pensa che l’esperienza storica ha dimostrato che i prestiti emessi alla pari, al 4, al 5, al 6%, a seconda dei tempi diversi, poterono essere convertiti a più basso tasso di interesse ben presto, scorso talvolta pochi anni o, pochi decenni; mentre i prestiti contratti al disotto della pari al 3% nella prima metà del secolo XVIII poterono in Inghilterra essere convertiti al 2 1/2 solo un secolo e mezzo dopo, nel 1888. In Italia il tipo 5% lordo equivalente ad un 4 per cento netto da imposte poté essere convertito in 3 1/2 netto nel 1907; mentre il tipo 3 % lordo equivalente ad un 2.40 netto, sebbene rimonti ai primi decenni del secolo XIX, non fu ancora e probabilmente per assai lunghi anni non potrà essere convertito.

 

 

Lo Stato il quale emette prestiti al disotto della pari, quanto più sono inferiori alla pari, tanto più leggermente rinuncia a due facoltà che sono le più preziose in argomento di debiti:

 

 

  • la facoltà di rimborsare il prestito, essendo evidentemente più gravoso e spiacevole rimborsare a 100 un prestito che s’è contratto a 75 od a 60 od a 50 che un altro per cui si sono ricevute 100 lire;
  • la facoltà di minacciare il rimborso del prestito per ottenere una riduzione dell’interesse dovuto. Quando il tasso apparente stipulato è già bassissimo, ad es., 3%, è ardua impresa persuadere i creditori a contentarsi di un interesse ancor più basso. Occorre che, per un concorso meraviglioso di circostanze, il quale forse può verificarsi nella storia umana una volta ad ogni svolto di secolo o di più secoli, il tasso dell’interesse sia divenuto meno che bassissimo.

 

 

Sembra dunque che, a meno di circostanze specialissime, agli Stati convenga seguire le regole ordinarie dei privati debitori, i quali contraggono i loro prestiti al tasso corrente di interesse e si obbligano a restituire le stesse 100 lire che hanno ricevuto e non più; e non mai andar dietro al mal vezzo della gente, spensierata e dilapidatrice a cui gli strozzini, per dissimulare il patto usurario, fanno sottoscrivere cambiali da 100 lire quando invece hanno ricevuto solo 75 o 60 o 50 lire.

 

 

673. A quale condizione i due svantaggi per lo Stato potrebbero essere eliminati: vendita del titolo al disotto della pari ad un sovraprezzo oltre il valore di parità equivalente ai due sovra menzionati svantaggi. – Agli Stati converrebbe di seguire altra via solo quando i capitalisti, i quali conoscono i due importantissimi vantaggi, del premio al rimborso capitale e della scemata probabilità della conversione o riduzione del tasso dell’interesse, offerti dai titoli al disotto della pari, si decidessero a pagare quei due vantaggi mediante un aumento del prezzo del titolo al disopra del valor di parità.

 

 

Supponendo che il duplice vantaggio di ottenere un premio al rimborso e di essere garantiti per più lungo tempo da una conversione valga 15 lire, che questo cioè sia il prezzo che un perfetto uomo economico lungiveggente e previdente sarebbe disposto a pagare per avere quei due vantaggi, il prezzo di emissione del titolo 3% dovrebbe risultare di 75 lire valore di parità più 15 lire prezzo dei due menzionati vantaggi ed in tutto 90 lire. È chiaro che, essendo il prezzo di emissione di 90 lire, i due vantaggi non sono così importanti come sarebbero al valore di parità di 75 lire; ma si è appunto supposto che l’uomo economico perfetto abbia calcolato che il sovraprezzo di 15 lire sia uguale al vantaggio di un premio al rimborso uguale alla differenza fra 90 e 100 ossia di 10 lire ed alla minore probabilità di conversione che a quel prezzo esiste.

 

 

Se il capitalista è un perfetto uomo economico che apprezza a paga questi due vantaggi 15 lire, ossia quanto valgono secondo le risultanze del calcolo aritmetico e delle probabilità storiche sull’andamento futuro del tasso dell’interesse, il confronto tra i due titoli 4% alla pari e 3% al disotto della pari si pone così:

 

 

 

Prezzo nominale

Tasso dell’interesse nominale

Prezzo effettivo di emissione

Tasso effettivo dell’interesse sul prezzo di emissione

 

 

%

 

%

Titolo alla pari

100

4

100

4

Titolo al disotto della pari

100

3

90

3.33

 

 

Lo Stato contro ai due danni di dovere rimborsare 100 lire invece delle 90 incassate, e di dovere aspettare più a lungo il momento della conversione – poiché il tasso dell’interesse dovrà ridursi dal 4 al 2 1/2 invece che dal 4 al 3 1/2 per cento – può mettere nella bilancia il vantaggio di dovere subito pagare soltanto il 3.33% di interesse effettivo invece che il 4 per cento. Infatti col titolo alla pari 45, lo Stato paga davvero 4 lire per ogni 100 incassate; mentre col titolo al disotto della pari lo Stato paga solo 3 lire su 90, ossia il 3.33 per ogni 100 lire effettivamente avute a prestito.

 

 

Ecco dunque a che si riduce la sostanza delle emissioni al disotto della pari; il capitalista si sottopone ad un sacrificio presente ossia a ricevere solo l’interesse del 3.33%, invece del 4%, che potrebbe agevolmente avere, pur di acquistare i due vantaggi futuri del premio di 10 lire al rimborso e della più lunga immunità da conversioni. L’uno di fronte all’altro stanno un capitalista previdente ed uno Stato imprevidente: un capitalista, il quale rinuncia al 4% subito perché lo teme malsicuro e soggetto a prossime conversioni al 3 1/2 od al 3% e si contenta del 3.33% che sa duraturo per lunghi anni, facendo altresì assegnamento su un aumento di valore del titolo da 90 a 100 lire a mano a mano che il tasso dell’interesse ribasserà ed uno Stato, il quale pur di pagare subito soltanto il 3.33 per cento è pronto a rinunciare a cotali due vantaggi preziosissimi. Se il prezzo di emissione del titolo è fissato a 75 + 15 = 90 lire, e se 15 lire sono il prezzo esatto dei due vantaggi la «imprevidenza» dello Stato è solo un modo di esprimersi mentre in realtà nessuno dei due contraenti guadagna o perde. Se il prezzo di emissione è fissato a 75 + 16 = 91 lire o più guadagna lo Stato, il quale riceve 16 lire o più di sovraprezzo oltre il valore di parità ossia più di quanto valgono i vantaggi a cui rinuncia. Se il prezzo di emissione è fissato ad 89 o meno, lucra il capitalista il quale paga solo 14 lire o meno alcuni vantaggi che valgono 15.

 

 

674. Ragione per cui è improbabile che il sovraprezzo oltre il valore di parità compensi per lo Stato il danno delle emissioni al disotto della pari: il capitalista medio sopravaluta i sacrifici presenti e sottovaluta i vantaggi futuri. – Il problema si riduce dunque al seguente: di fatto quale delle tre soluzioni è la più probabile:

 

 

  • a) che il prezzo di emissione venga fissato al valor di parità (per ipotesi 75 lire) più l’esatto equivalente (nel caso nostro 15 lire) dei due vantaggi a cui lo Stato rinuncia?
  • b) che il prezzo venga fissato a più del prezzo corretto o
  • c) a meno di esso?

 

 

L’osservazione comune della natura degli uomini, corroborata dall’esperienza storica induce a conchiudere che la soluzione più probabile sarà la terza (c) per cui il prezzo di emissione viene fissato al valore di parità più un’aggiunta insufficiente a compensare i due vantaggi concessi ai capitalisti.

 

 

Avemmo infatti già più volte (cfr. par. 24,269 ecc. passim) occasione di accennare come gli uomini siano congegnati in siffatta maniera da preferire i vantaggi ed i beni presenti ai vantaggi e beni futuri. L’uomo medio che è una cosa diversa dall’uomo economico puro, il quale è del resto una astrazione necessaria ed utilissima degli economisti a scopo di ragionamento, apprezza pochissimo le foreste che daranno tagli dopo 50 o 70 anni, quando egli sarà morto, i titoli di una ferrovia posta attraverso ad un paese disabitato, i quali saranno fecondi di dividendi quando i suoi figli o nepoti popoleranno ed arricchiranno la colonia, e non si sente attratto dalle aree fabbricabili le quali fra 50 o 100 anni saranno situate in un quartiere centrale di una città progressiva. L’uomo medio ama i lucri immediati, gli investimenti che danno un reddito immediato vistoso. Poco si fida delle promesse di chi gli descrive un avvenire brillante, ma lontano, quando il presente o il futuro prossimo è sterile.

 

 

Ora, due vantaggi che il titolo al disotto della pari promette al capitalista sono due vantaggi futuri: un premio al rimborso, che si avrà quando piacerà allo Stato di rimborsare il titolo, se il titolo è una rendita perpetua, ovvero fra 10 o 50 o 60 o 90 anni, se il titolo è un’obbligazione ammortizzabile; ed una più lunga sicurezza contro il pericolo di una riduzione dell’interesse. Tutte cose vaghe, malsicure e future; mentre all’opposto il danno che egli risente è certo ed immediato; investendo 90 lire nella compra di un frutto di 3 lire annue, egli deve subito ridurre l’interesse percepito al 3.33% mentre potrebbe avere il 4 per cento. Per immunizzarsi, non si sa per quanto tempo di più, contro il rischio di una riduzione dal 4 al 3.50% si accetta subito un frutto del 3.33 per cento.

 

 

Quale meraviglia che un simile scambio appaia alla mente del capitalista medio come poco conveniente e che perciò egli preferisca sempre i titoli alla pari?

 

 

L’esperienza storica dimostra che i titoli alla pari sono sempre stati largamente sottoscritti, purché essi siano alla pari sul serio, ossia purché si offra un interesse che sia davvero uguale all’interesse corrente per impieghi di uguale sicurezza ed attrattiva: il 4, il 5% occorrendo il 6, il 7, l’8 e magari il 10%, se questo era in date circostanze il tasso di interesse corrente. Durante tutto il secolo XVIII in Francia, in Inghilterra, in Piemonte (cfr. Einaudi, La Finanza sabauda all’aprirsi del secolo XVIII) i prestiti alla pari erano la regola. Si pagava quanto bastava in interesse, pur di non cedere il titolo ad un prezzo effettivo minore del nominale. Così operarono anche gli Stati Uniti, i quali, durante la guerra di secessione, pagarono interessi in apparenza enormi, del 7 od 8%, pur di non caricarsi di un debito superiore al riscosso; e furono compensati dell’immediato apparente sacrifico, perché ben presto, fatta la pace e ridotto il tasso dell’interesse sul mercato, poterono con successive conversioni ridurre l’interesse al 5, al 4 ed al 3%; e poterono anche rapidamente rimborsare un capitale, il cui valore nominale o di rimborso non era stato gonfiato oltremisura da emissioni al disotto della pari.

 

 

L’esperienza storica dimostra che le emissioni al disotto della pari per riuscire hanno d’uopo che il prezzo d’emissione sia fissato ad un punto inferiore a quello che teoricamente, nell’ipotesi di uomini economici perfetti od almeno discretamente previdenti, sarebbe il prezzo corretto: nel caso nostro, il prestito 3%, emesso quando l’interesse corrente è del 4%, riesce quando il prezzo è di poco superiore al valore di parità, quando cioè è di 75 + 5 ovvero 75 + 6 o 7. Riesce quando è dannoso per lo Stato, e quando perciò deve essere recisamente scartato nell’interesse pubblico.

 

 

675. Ragioni, per le quali, nonostante la loro poca convenienza, si fanno tutt’ora prestiti sotto la pari: illusione di non eccedere il tasso legale dell’interesse, ripugnanza a ritornare a tassi di interesse più alti, indulgenza agli interessi degli intermediari. – Quali sono le ragioni per cui il tipo dei prestiti al disotto della pari è ancora non infrequentemente adottato, malgrado che sia facile vedere come esso sia emesso ad un prezzo troppo basso e non conveniente per lo Stato? Sono ragioni sovratutto illusioniste. La storia delle emissioni al disotto della pari potrebbe fornire un interessante capitolo per una nuova ampliata edizione della Teoria delle illusioni finanziarie del compianto Puviani.

 

 

Nei paesi dove il legislatore commina divieti contro l’usura od anche semplicemente fissa l’interesse legale, es., al 5%[3], sembra talvolta al legislatore disdicevole contraddirsi, facendo contrarre allo Stato medesimo dei prestiti al 6, al 7 od all’8 per cento. Quasi ha vergogna di sottoporsi ad interessi che la comune degli uomini dichiara usurari; e perciò contrae il prestito al 5%, ma al corso di 70, così da pagare ai capitalisti effettivamente il 7%, che è l’interesse corrente. In certi paesi si emisero dei prestiti 5% a 60, cosicché in realtà si finiva per pagare più dell’8%; ma era salva la apparenza o la finzione del 5%, che allora era l’interesse legale.

 

 

Il che dimostra quanto grande sia la potenza dei pregiudizi. Il fatto che lo Stato non trovava prestiti a meno dell’8% avrebbe dovuto persuadere il legislatore dell’errore dei suoi grotteschi divieti di pagare più del 5% o della necessità di mutare metodo nella fissazione dell’interesse legale.

 

 

Invece lo spinsero a contrarre debiti in una maniera disastrosa, mettendo a 60 un 5% e caricandosi così di un debito di 100 lire, mentre se ne erano incassate 60 e vietando a se stesso la potestà per lunghi anni di fare delle conversioni.

 

 

Talvolta, il motivo delle emissioni al disotto della pari è ancora più biasimevole di un ossequio malinteso al pregiudizio dell’interesse legale.

 

 

Accade invero talvolta che, per la buona amministrazione della cosa pubblica, che ha scemato il rischio dei prestiti allo Stato, per il crescere del nuovo risparmio, e per una combinazione di circostanze economiche diverse, il tasso dell’interesse per i prestiti pubblici sia diminuito dal 5 al 3%, onde lo Stato poté ridurre il tasso dell’interesse sui vecchi prestiti dal 5 al 3% e contrarne dei nuovi al più mite saggio corrente. Se, in seguito, il tasso dell’interesse ritorna ad aumentare, dal 3 al 4%, ad esempio, – ed aumentò perché lo Stato fece spese ingerenti e richiese forti masse di risparmio sul mercato, ovvero perché il risparmio non aumentava nella stessa ragione del progredire delle industrie consumatrici di capitale, ecc., – può darsi che i governanti non vogliano confessare apertamente di dover pagare un interesse maggiore di quello a cui s’erano abituati prima e cerchino di palliare la sostanza del cresciuto onere con l’apparenza di un interesse basso. Emettono perciò il 3% a 75 od 85; e pagano in realtà, per le cose dette sopra, compresi i danni futuri legalmente spiegati, ben più del 4 per cento. Ad essi però non cale dei danni dei contribuenti; purché sia salva l’apparenza credono le moltitudini ignare di elettori.

 

 

Si aggiunga che il prestito al disotto della pari è più gradito ai banchieri, agli intermediari che fanno negozio di titoli di debito pubblico, assumono prestiti, ecc. un prestito emesso alla pari offre poco margine di lucro. Non può aumentare molto oltre il 100, perché subito lo Stato ne profitterebbe per convertirlo a più basso saggio di interesse e farlo per conseguenza ribassare di prezzo; né può diminuire assai, perché il capitalista non cede a 95 od a 90 il titolo che rende l’interesse corrente.

 

 

Invece il titolo al disotto della pari è più oscillante. Un 3%, emesso quando il tasso corrente era il 4%, col tempo può oscillare moltissimo, anche se l’interesse corrente non salga oltre il 4%, fra 75 e 100. Se il tasso rimane al 4% e non si vede più alcuna probabilità prossima di sua discesa, il titolo che rende solo 3 lire tende a discendere verso il corso di 75 lire; se invece il tasso dell’interesse corrente diminuisce verso il 3%, il titolo che frutta 3 lire tende a salire a 100. Rialza o ribassa altresì a seconda che è più o meno prossima l’epoca del rimborso a 100, ove si tratti di titolo ammortizzabile. Quindi è evidente che l’intermediario, il quale ha per professione di prevedere l’avvenire, ha maggior campo a comprare e vendere quando egli preveda, ciò che non sanno fare i capitalisti ordinari, un rialzo od un ribasso di valore dei titoli.

 

 

Ma lo Stato ha l’interesse contrario: di avere cioè titoli di valore relativamente costante, poco oscillante; poiché questi sono i titoli maggiormente preferiti dal capitalista medio, il quale non ha che un ideale: rendite perpetue e capitale di valore fisso. Ideale irraggiungibile, anzi in se stesso contraddittorio, come fu spiegato dianzi (cfr. par. 668); ma che importa non contrastare in guisa troppo aperta, coll’offrire titoli per se stessi oscillanti. Il titolo emesso alla pari al 4%, quando il tasso dell’interesse è del 4%, tende ad andare verso 115,28 quando il tasso dell’interesse ribassa al 3 1/2; ma allora lo Stato, convertendolo al 3 1/2, lo riconduce a 100. Tende di nuovo, se l’interesse ribassa al 3%, ad andare a 116.66; ma di nuovo lo Stato riduce l’interesse al 3% ed il titolo torna alla pari. Siccome ognuno prevede ciò che lo Stato farà, il corso del titolo non può mai raggiungere i massimi di 115,28 e di 116,66, poiché nessuno comprerebbe a quei prezzi un titolo il cui reddito sarà prossimamente ridotto; ma può solo superare di poche lire il pari. Mentre il titolo emesso al disotto della pari ha un ampio margine entro cui dibattersi tra il valore di parità (ad es. 75) od anche tra il prezzo di emissione (ad es. 80, 85 e 90) e il pari di 100; alle quali oscillazioni hanno interesse gli intermediari, non invece lo Stato.

 

 

676. Le conclusioni contrarie ai prestiti al disotto della pari si debbono talora modificare nel caso di prestiti ammortizzabili, per cui lo Stato non si sia riservata la facoltà dell’anticipo del rimborso. Dimostrazione della convenienza in questo caso di prestiti sotto la pari quando il corso di emissione sia superiore al valore di parità. Cotale sovraprezzo è il compenso di un servizio reso dallo Stato. – Le conclusioni sovra raggiunte e contrarie ai prestiti sotto la pari hanno valore generale per i prestiti perpetui. Per i prestiti ammortizzabili accorre aggiungere qualcosa, dovendosi distinguere fra i prestiti per cui lo Stato si è riservata la facoltà del rimborso accelerato od anticipato e quelli per cui questa riserva non fu fatta. Sappiamo già (cfr. par. 661) essere conveniente per lo Stato di riservarsi la facoltà ora detta; nel qual caso è manifesto che le emissioni al disotto della pari hanno per i prestiti ammortizzabili tutti gli inconvenienti già descritti per le rendite perpetue: ostacolano il rimborso, perché questo dovrebbe essere fatto a 100, mentre si sono ricevute solo 90 od 80 o 60 lire ed allontanano il momento della conversione.

 

 

Diversamente invece si deve concludere se lo Stato non si è riservata la facoltà del rimborso anticipato. Può darsi che lo Stato abbia creduto opportuno fare questa rinuncia, se, prevedendo la improbabilità grande di una riduzione notevole nel tasso dell’interesse durante il periodo di vita del prestito, ha voluto assicurare ai capitalisti la fissità dell’interesse per tutto quel periodo, ottenendo in cambio il prestito ad un interesse fin d’ora più basso. In tal modo, rinunciando alla facoltà di ridurre l’interesse dal 4 al 3% durante i 50 anni di durata del prestito, lo Stato ha forse ottenuto di potere pagare subito solo il 3 1/2 per cento. Fatta questa premessa della inconvertibilità del prestito ammortizzabile – ed entro i limiti in cui la premessa e conveniente allo Stato – può essere altresì conveniente emettere un prestito al disotto della pari. Riprendiamo un caso già sovra accennato (cfr. par. 663). Sia il tasso dell’interesse corrente, in un dato momento ed in un dato paese, del 4% per gli imprestiti pubblici; e voglia lo Stato conchiudere un prestito di 1 miliardo ammortizzabile in 50 anni; senza facoltà di rimborso anticipato.

 

 

Se lo Stato emette il prestito alla pari e cioè al 4%, in 10 milioni di obbligazioni da 100 lire nominali, per cui si pagarono 100 lire effettive, il costo annuo del servizio del prestito per lo Stato, interesse e rate d’ammortamento comprese, sarà di L. 46.550.000 all’anno. Ciò secondo il metodo, che fu detto tipico, delle annualità costanti (cfr. par. 658) per tutta la durata del prestito. Il costo del servizio del prestito è dunque, per 50 anni, di L. 4,655 annue per ogni 100 lire effettivamente incassate dallo Stato.

 

 

Sarebbe indifferente per lo Stato emettere invece il prestito al 3%, ma al corso di L. 83,49 effettive per ogni 100 nominali. Perché in tal caso il prestito di 1 miliardo di lire nominali al 3% costerebbe, L. 38.865.000. Ma poiché lo Stato ha incassato solo l’83.49% del miliardo nominale, ossia L. 834.900.000, il costo effettivo del prestito è di L. 38.865.000 su un capitale di L. 834.900.000 ossia, fatte le proporzioni, è del 4,655 per cento, precisamente come era il costo del tipo 4% alla pari. Allo Stato è dunque indifferente emettere – purché amendue siano inconvertibili – un prestito 4% a 100 per ogni 100 nominali, ovvero un prestito 3% ad 83.49 per ogni 100 nominali. Ed è anche indifferente al capitalista, poiché è vero che costui, col secondo tipo, ha un frutto di sole 3 lire sulle 83.49 lire spese in capitale, ossia del 3.59% invece del 4% che avrebbe col prestito alla pari, ma ha in aggiunta il vantaggio di ricevere, al momento del rimborso, L. 100 invece delle 83.49 da lui pagate, mentre col metodo alla pari riceve 100 contro 100 pagate. La rinuncia a L. 4 – 3,59 = L. 0,41% all’anno di interesse è perfettamente equivalente al guadagno di L. 100 – 83.49 = L. 16.51 di premio al rimborso. Essendo le due quantità equivalenti, è indifferente allo Stato scegliere l’un tipo o l’altro di prestito.

 

 

L’equivalenza e quindi l’indifferenza non esisterebbero più, quando il prezzo d’emissione del prestito sotto la pari fosse superiore a L. 83.49. Il corso di L. 83.49 più genericamente dicesi il valore di parità ed è quel corso di un prestito sotto la pari, ammortizzabile in un dato numero di anni, e non convertibile anticipatamente, dato il quale il costo del servizio del prestito stesso risulta eguale al costo del servizio di un prestito alla pari, emesso nello stesso momento, ammortizzabile nello stesso numero di anni e non convertibile o rimborsabile anticipatamente[4]. Con un prontuario di conti fatti e seguendo le regole esposte praticamente sovra è facile calcolare il valore di parità.

 

 

Seguitando nell’esempio nostro, se il prezzo d’emissione del prestito sotto la pari fosse inferiore al valore di parità, e cioè fosse di 80 lire, lo Stato perderebbe perché, rimanendo identico il costo annuo complessivo del prestito del miliardo al 3% in L. 38.865.000 all’anno ed avendo lo Stato incassato solo 800.000.000 lire, il costo annuo per ogni 100 lire effettivamente incassate risulterebbe del 4,8581 per cento, ossia superiore al 4,655 per cento del prestito 4% alla pari. Viceversa, se il prezzo d’emissione fosse di 90, ossia superiore al valore di parità, il costo, sempre uguale, di L. 38.865.000 all’anno ripartendosi su 900.000.000 lire effettivamente incassate, riuscirebbe solo del 4,3183 per cento, ossia inferiore al 4,655 per cento del prestito 4% alla pari. È dimostrato perciò che allo Stato conviene emettere al disotto della pari prestiti ammortizzabili e non rimborsabili anticipatamente solo quando il prezzo di emissione sia superiore al valore di parità, inteso per valore di parità nei prestiti ammortizzabili quello che corrisponde alla definizione sopra data.

 

 

È possibile che lo stato riesca ad ottenere un prezzo di emissione superiore al valore di parità? riesca cioè a vendere per 84 od 85 od 86 lire un titolo che vale solo lire 83.49? Sì, quando i capitalisti ritengano che lo Stato rende loro un servigio, incaricandosi di fare un risparmio per conto loro. In sostanza, noi abbiamo veduto che i capitalisti si contentano di ricevere un interesse del 3.59 per ogni 100 lire effettivamente ricevute invece dell’interesse del 4%, che loro spetterebbe secondo il mercato, rinunciando così a L. 0,41% all’anno per ottenere L. 16.51 di premio al rimborso. Ciò vuol dire che i capitalisti, i quali vorrebbero risparmiare L. 0,41 all’anno, ma temono di non poter resistere alla tentazione di consumarle, o di non essere capaci ad investirle sicuramente al 4%, trattandosi di piccole somme, affidando tale ufficio allo Stato, il quale, tenendo per sé le L. 0.41 le restituisce accumulate, cogli interessi composti al 4% al momento del rimborso in L. 16.51[5]. Poiché con ciò lo Stato rende un vero servigio a talune classi di capitalisti, è ragionevole che questi gli paghino un compenso sotto forma di un sovraprezzo di acquisto del titolo oltre il valore di parità.

 

 

677. L’elemento aleatorio del tempo della riscossione del premio al rimborso induce talvolta i capitalisti a pagare un sovraprezzo oltre il valore di parità. – Talvolta accade che i capitalisti paghino per questo servigio un compenso eccessivo, acquistando ad esempio, per 90 lire il titolo che ha il valore di parità di sole L. 83.49 perché immaginano che il servigio reso dallo Stato abbia una importanza maggiore del vero. Ciò accade perché il premio di L. 16.51 o il minore premio convenuto viene pagato al momento del rimborso. Ora noi sappiamo che il momento del rimborso nei prestiti ammortizzabili è incerto, dipendendo dall’estrazione a sorte dell’obbligazione, secondo il piano d’ammortamento convenuto (cfr. per un esempio di piano il paragrafo 658). Se il portatore ha la fortuna che la sua obbligazione da 100 lire sia estratta alla fine del primo anno, egli in un anno solo avrà, pagando L. 83.49, ottenuto due redditi: l’interesse di 3 lire ed il premio al rimborso di L. 16.51, in tutto L. 19.51, che per un impiego di capitale di L. 83.49 è uguale ad un frutto del 23.36 per cento.

 

 

È vero che se il capitalista ha la disgrazia di vedere estratta a sorte la sua obbligazione solo alla fine dei 50 anni, egli avrà rinunciato a L. 0,41 di maggior interesse annuo per 50 anni, ossia ad una somma che impiegata al 4% insieme coi proprii interessi composti, gli avrebbe costituito alla fine del cinquantennio ben L. 62.60, mentre egli riscuote solo un premio di L. 16.51. Ma i capitalisti sperano tutti di essere tra i primi fortunati e di vedere estratte subito le proprie obbligazioni, godendo del lucro di L. 16.51. La speranza di avere la fortuna propizia li riduce a sbagliare i loro conti ed a pagare 84 od 85 od 86 e financo 90 il titolo che ha invece solo il valore di parità di L. 83.49. Quando ciò accade, è chiara la convenienza dello Stato di emettere titoli sotto la pari.

 

 

Sezione seconda

I prestiti a premio.

 

678. La speranza di vincere il premio al rimborso induce talvolta i capitalisti a contentarsi di un interesse inferiore al corrente. – L’accenno ora fatto alla «fortuna» ha una grande importanza. Vogliamo accennare ai prestiti a premio, ed a lotti.

 

 

Supponiamo che una città contragga un prestito di 100 milioni in obbligazioni da 100 lire ammortizzabili in 50 anni e sia il tasso corrente dell’interesse del 5 per cento. Il prestito costerebbe, già lo sappiamo, ogni anno al tesoro della città, fra interesse e rata di ammortamento, L. 5.477.700 all’anno. Sarebbe chiaramente utile alla città di poter trovare chi imprestasse i 100 milioni al 3%, ché allora il servizio del prestito costerebbe solo L. 3.886.500 all’anno con un risparmio di 1.591.200 lire annue. Ma come persuadere il capitalista a contentarsi del 3%, quando l’interesse corrente è del 5%?

 

 

Talvolta il mezzo di persuadere il capitalista a rinunciare ad una parte dell’interesse, che potrebbe agevolmente assicurarsi, consiste nel promettere uno o parecchi premi ai possessori della prima o delle prime obbligazioni fra quelle estratte a sorte per il rimborso.

 

 

La città, riuscendo a fare un risparmio di L. 1.591.200 all’anno, mercé la riduzione dell’interesse dal 5 al 3%, potrebbe prelevare su questo risparmio un fondo di 500 mila lire annue e promettere un primo premio di L. 100.000 alla prima obbligazione estratta, due secondi premi di L. 50.000 l’anno alla seconda e terza estratta, cinque terzi premi da L. 20.000, dieci quarti premi da L. 10.000 e cento premi di consolazione da L. 1.000 l’uno, in tutto appunto 500.000 lire. La città in tal modo risparmia ancora, in confronto al tipo 5%, L. 1.591.200 – 500.000 = L. 1.091.200 all’anno; ed i capitalisti si acconciano a ricevere il 3 invece del 5% di interessi, mossi dalla speranza di essere tra i fortunati vincitori dei premi.

 

 

È vero che la speranza di vincere i premi non vale il 2% di interesse a cui rinunciano; ma vi sono moltissimi uomini, i quali preferiscono la speranza di un miglioramento notevole delle proprie condizioni di fortuna alla certezza di un piccolo aumento frutto del proprio risparmio.

 

 

679. Insussistenza delle accuse di immoralità rivolte ai prestiti a premio e come questi abbiano un ufficio di educazione del risparmio, a prò degli investimenti mobiliari. – Nota sul trattato di Paolo Leroy Beaulieu e sui moderni traduttori di vecchie ricette in linguaggio di puristi ed equilibristi. – Furono mosse a questo tipo di prestiti parecchie obiezioni, le quali però hanno scarso valore. Si ricorda contro questi prestiti a premi la celebre frase rivolta da Beniamino Franklin agli operai: «Chiunque vi dirà che si può conquistare la fortuna altrimenti che col lavoro e coll’economia è un avvelenatore[6].

 

 

Massima ammiranda, la quale però a torto si vorrebbe applicare ai prestiti a premio. Poiché questi invece consigliano la minuta gente al risparmio e producono effetti utilissimi di parsimonia e di rinuncia a godimenti presenti. Un operaio, un commesso, un piccolo impiegato, il quale non troverebbe mai in se stesso la forza di risparmiare 100 o 1000 lire solo allo scopo di riscuotere ogni anno l’interesse di 5 o di 50 lire, farà ogni sforzo, si priverà di un divertimento, rinuncerà a qualche bevanda alcoolica pur di mettere insieme il gruzzolo, che gli consentirà di concorrere ai premi annui di 100, 50, 20 mila lire ecc.

 

 

Nella maggior parte dei casi la sua speranza non si compirà; ma nel frattempo la sua fantasia si sarà cullata nel sogno di una miglior condizione di vita, né il dolore del disinganno eguaglierà il piacere del sogno, tanto più che avendo il prestito una lunga vita di 25, 30, 50 anni il risparmiatore può sempre sperare che la sua obbligazione possa essere estratta in seguito, sicché il sogno può durare, forse con piacere meno intenso ma non mai nullo, per tutta la vita dell’uomo.

 

 

Frattanto, ancora e sovratutto, egli avrà accumulato le 100, le 500, le 1000 lire e se non l’interesse del 5% riscuoterà regolarmente quello del 3%; egli avrà acquistato il gusto e l’abitudine del risparmio, la conoscenza dei valori mobiliari, la certezza che vi sono modi di investimento comodi, accessibili a tutte le borse, più convenienti ed altrettanto sicuri come il libretto della cassa di risparmio. Vedemmo già come il titolo di debito pubblico in genere sia stato il pioniere degli investimenti mobiliari (cfr. paragrafo 598), educando la borghesia risparmiatrice ad investire i proprii fondi in qualcosa di diverso dai soliti terreni, case e prestiti ipotecari. Il prestito a premi ha compiuto il medesimo fecondo ufficio tra la borghesia minuta, gli artigiani, gli operai, i contadini francesi; perciò la Francia è il paese d’elezione dei prestiti a premi. Quest’opera di educazione economica che il prestito a premio ha compiuto è argomento bastevole da solo a ribattere tutti i rimproveri privi di senso comune che i moralisti lanciano contro i prestiti a premio. Nessuno perde la posta, ché la obbligazione è rimborsabile alla pari e frutta un modesto interesse durante la sua vita, spesso superiore a quello conteggiato dalle casse di risparmio. Il piccolo risparmiatore, il quale si fida solo di impieghi sicurissimi, i quali fruttano tenui interessi, nulla perde dunque a scegliere questo investimento; spesso guadagna tutto l’ammontare del risparmio e dei relativi frutti poiché egli senza l’incitamento del premio nulla avrebbe risparmiato.

 

 

Nulla di male, se ogni anno, grazie al meccanismo del prestito a premio, un certo numero di piccole fortune e di modeste agiatezze può diffondersi nel popolo.

 

 

Servono di onesto richiamo al risparmio e provano come la fortuna possa talvolta allietare il focolare della gente economa. Questo dei prestiti a premio è uno dei casi nei quali si può consentire alla convenienza, dianzi oppugnata (cfr. paragrafo 607, 624 e segg.), di procurare allo Stato un prestito ad un interesse inferiore al corrente. Il risparmio, che lo Stato fa pagando il 3%, più il premio, in confronto al 5%, può essere invero considerato come un lucro di intraprenditore. Come fornitore di speranze di vincite e come suscitatore di energie latenti di risparmio lo Stato ottiene questo lucro, sotto forma di un minore interesse su un suo debito. Ed è un lucro ben guadagnato.

 

 

680. Differenze fra prestiti a premio e lotterie. I prestiti a premio sono adatti ai piccoli investimenti di una o poche obbligazioni, non ai grossi investimenti patrimoniali e quindi convengono più alle città ed agli enti minori che allo Stato. – Il vantaggio dello Stato o della città non è superato dai danni che furono sopra ascritti ai prestiti senza interesse, anche perché l’ammontare di questi prestiti non può mai diventare molto importante e quindi scarsa e quasi trascurabile è la loro importanza riguardo alla direzione impressa ai risparmi del paese. Notisi invero:

 

 

  • che parlando di prestiti a premio si è voluto parlare di quelli che sono veri prestiti e non delle lotterie. Il prestito a premio è quello in cui l’elemento principale è dato dal versamento di una somma capitale, su cui lo Stato deve pagare un interesse, inferiore bensì al normale, ma all’incirca uguale a quello che si paga sui depositi delle casse postali di risparmio, e che deve essere rimborsato secondo un piano d’ammortamento; mentre l’elemento secondario consiste nel premio. La lotteria invece si ha quando l’interesse è ridotto a pochissima cosa od addirittura non esiste, talvolta non si rimborsa nemmeno il prezzo capitale pagato per l’obbligazione e l’elemento principale è dato dal premio, il quale sale a cifre altissime, un milione e più, allo scopo di attrarre i compratori. Il taglio delle obbligazioni a premio è di solito abbastanza elevato, non mai inferiore a 100 lire, affinché sia messa in risalto l’opera di risparmio compiuta dall’acquisitore; il taglio invece delle cartelle delle lotterie è di solito basso, di 25, 10, talvolta 5 od 1 lira sola, così da renderle accessibili ai puri giocatori. Il tipo delle obbligazioni a premio è dato dalle cartelle da 500 lire al 3 o 2 1/2 per cento della città di Parigi e del Crediti Foncier di Francia; mentre il tipo delle cartelle di lotteria è dato dai prestiti infruttiferi delle città di Milano, di Barletta, Bevilacqua La Masa ecc. o delle cartelle dei prestiti di S. Marino e delle esposizioni recenti di Torino, Milano, Roma. Sebbene si tratti di due tipi appartenenti alla medesima famiglia, le differenze appaiono tuttavia abbastanza spiccate perché si possa distinguere fra il prestito a premio, che può essere un utile mezzo di procacciare mutui agli enti pubblici e le lotterie che sono un mezzo, di cui non accade di discorrere qui, di procacciare un lucro a talune città o corporazioni o comitati.
  • Notisi ancora che i prestiti a premio male si confanno ai grandi prestiti di Stato di parecchie centinaia di milioni di lire o di miliardi. Suppongasi che in uno Stato, in cui il risparmio nuovo annuo sale ad 1 miliardo di lire e l’interesse corrente è del 4%, lo Stato abbia d’uopo di fare un prestito di 500 milioni di lire. Per ottenere una somma siffatta, non basta ricorrere ai risparmi della borghesia minuta, dei piccoli impiegati, commessi di negozio, artigiani, operai e contadini; occorre fare appello alla media ed alla grande borghesia, alla aristocrazia del denaro. Il capitalista, il quale ha disponibili 100.000 lire e sa che ne può ricavare altrimenti un reddito di 4.000 lire all’anno, male si adatterà ad imprestarle tutte allo Stato contentandosi di un reddito di 2.500 o 3.000 lire, più la speranza di un possibile premio al rimborso. Egli sa far di calcoli e subito riconosce che l’operazione non gli sarebbe conveniente; onde comprerà uno o due, forse 10 obbligazioni da 100 lire l’una, ma vorrà investire il grosso del suo risparmio al tasso corrente del 4 per cento.

 

 

I prestiti a premio sono dunque adatti per i piccoli investimenti unitari; ogni risparmiatore comprerà una o parecchie obbligazioni, non mai molte.

 

 

Giovano a fomentare il sorgere del risparmio, non ad assorbire i risparmi che già si fanno. Con essi si possono ottenere le decine di milioni, forse si può arrivare in un paese ricco e dove il minuto risparmio è abbondante ad un centinaio di milioni. Sarebbe pericoloso presumere di potere con essi ottenere in una volta sola 500 milioni od un miliardo.

 

 

Perciò questo tipo di prestiti si adatta più alle città che agli Stati, agli istituti di credito fondiario, alle grandi compagnie ferroviarie che ai governi. In Francia appunto, come si accennò, ricorre frequentemente ai prestiti a premio il municipio di Parigi, perché può contenere i suoi prestiti entro limiti moderati; vi ricorre con successo il Credit Foncier, che è un grande istituto bancario semi pubblico, il quale fa prestiti ai comuni, perché anch’esso può emettere i suoi prestiti a poco a poco, in serie di qualche decina o cinquantina di milioni di lire per volta, facilmente assorbiti dal particolare pubblico di piccoli risparmiatori, che ama associare al risparmio sicuro e poco remunerativo la speranza della conquista di una piccola fortuna.

 

 

Difficilmente però la Francia avrebbe potuto procurarsi con prestiti a premio al 3% i 5 miliardi d’indennità di guerra da pagare alla Prussia.

 

 

Per trarre i cinque miliardi dai forzieri dei ricchi e dai bas de laine dei capitalisti fu giuocoforza pagare il 5 od il 6 per cento di interesse nelle maniere ordinarie di prestiti perpetui.

 

 

Sezione terza

Garanzie speciali o garanzia generale per i prestiti pubblici?

 

681. Come le garanzie speciali fossero consuete sotto i governi di antico regime. Cadono in disuso col diffondersi dell’onestà tra i governanti. Il consolidamento ed i gran libri del debito pubblico. – È opportuno che i prestiti godano di una garanzia speciale su certe entrate o su una parte del patrimonio dello Stato? ovvero è preferibile che essi siano garantiti unicamente dall’impegno generale del bilancio e dalla fede pubblica? La differenza tra i due metodi può trovare una analogia con la differenza esistente nel credito privato fra il credito reale garantito con ipoteca su una cosa immobile e con pegno su cosa mobile ed il credito personale garantito dalla parola del debitore, dalla sua onestà e solvibilità patrimoniale complessiva.

 

 

Per parecchi secoli innanzi al 1700, ed ancora nel 1700, il metodo delle garanzie speciali era il più seguito. A Genova i capitalisti ottenevano, in cambio dei mutui fatti alla Repubblica, il possesso diretto di certi dazi o dogane od entrate (per es. quelle della Corsica), sicché essi direttamente amministravano quei rami di pubbliche entrate e ne godevano i frutti, a guisa di interesse sui prestiti concessi allo Stato. Poiché tante amministrazioni separate riuscivano troppo dispendiose e complicate esse furono riunite in una sola, la quale prese il nome di Banco di S. Giorgio ed era l’amministratrice, per conto dei creditori della Repubblica, delle entrate cedute da questa ai primi in garanzia dei prestiti ricevuti. Il Banco amministrava queste pubbliche entrate cedute od ipotecarie, pagava col provento di esse gli interessi ai creditori e versava il rimanente all’erario pubblico. A Venezia il medesimo ufficio fu tenuto dalle scuole ed arti, che erano corporazioni di mercanti ed artigiani, godenti la fiducia dei cittadini. A Milano si conosceva il Monte di S. Ambrogio, il quale mutò poi il nome in quello di Monte Napoleone e poi Monte Lombardo Veneto. In Piemonte alcuni redditi erariali e principalmente le gabelle ed i dazi esigibili nella città di Torino furono assegnati prima alla Compagnia di S. Paolo ancor oggi esistente col nome di Istituto delle Opere Pie di S. Paolo e poi al Monte di S. Giovanni Battista, creato dalla città di Torino il quale finì per amministrare, per conto dei creditori dello Stato, la maggior parte delle regie gabelle esatte nella città di Torino. Nelle provincie, il governo piemontese non potendo assegnare le proprie entrate ad una corporazione di rappresentanti dei creditori – salvoché a Cuneo, dove si era creato il Monte del Beato Angelo, pur esso amministrato dalla città – lo Stato usava vendere addirittura ai creditori singoli il diritto di esigere una data somma di tasso od imposta fondiaria dai proprietari di terreni. Ed accadeva perciò che un proprietario di fondi gravato di 100 lire di tasso annuo, imprestando 2.000 lire allo Stato al 5% comprava dallo Stato il diritto di esigere da se medesimo il proprio tasso di 100 lire. Era una specie di riscatto dell’imposta fondiaria, ottenuto mercé un imprestito fatto allo Stato a garantito sul provento della propria imposta fondiaria (cfr. per queste ed altre particolarità del debito pubblico nello Stato piemontese Einaudi, La finanza sabauda all’aprirsi del secolo XVIII ecc.).

 

 

Queste consuetudini di garanzie speciali, le quali erano, altresì diffuse in Francia, Inghilterra, Germania, cominciarono a cadere in disuso nello stesso secolo XVIII. Si vide che talvolta l’imposta venduta od ipotecata era insufficiente e talaltra esuberante al servizio del prestito, sicché i creditori talvolta pretendevano di ricevere un supplemento dal tesoro e qualche volta avrebbero dovuto essere obbligati a rifondere il sovrappiù.

 

 

Tutto ciò complicava i bilanci pubblici e menomava il credito dello Stato.

 

 

Le garanzie avrebbero potuto però continuare ancora a lungo, se fosse rimasta nei capitalisti la sfiducia profonda che essi sentivano verso le promesse più sacre dei principi. Erano talmente abituati essi a veder violata dai primi successori al trono la parola giurata dai sovrani, erano così frequenti le imposte straordinarie e le riduzioni di trimestri intieri degli interessi dei debiti pubblici, che null’altro fuorché la vendita delle entrate pubbliche e la loro amministrazione diretta da parte di enti o corporazioni all’uopo delegate poteva tranquillarli. A poco a poco i governi videro la convenienza di essere onesti; si radicò in Europa il concetto che le entrate pubbliche non potessero essere alienate a privati; le amministrazioni speciali, i Monti ed i Banchi diventarono, già nel secolo XVIII, delle pure forme senza sostanza, semplici rami dell’amministrazione statale del debito pubblico. Nel 1715, dopo la pace di Utrecht, l’Inghilterra riunì in un solo fondo, detto perciò consolidato (consolidated funds), i diversi debiti, prima garantiti su speciali entrate (funds) pubbliche; e durante la rivoluzione francese il governo rivoluzionario, avendo ridotto al terzo i vecchi debiti, tutti li riunì e li confuse, insieme coi nuovi, in un’unica massa, iscritta sul Gran Libro del debito pubblico, anche per togliere argomento ai fautori del vecchio regime di conservare distinzioni pericolose fra i vecchi debiti monarchici ed i nuovi repubblicani.

 

 

Tutti gli Stati d’Europa seguirono un po’ per volta l’esempio francese, abbandonando il metodo delle garanzie speciali. Il debito oggi è garantito dalla legge, dalla fede pubblica, dall’interesse dello Stato di osservare gli impegni assunti, dalle entrate tutte del bilancio. Chi crede sia oggi ancora utile l’assegnazione di una entrata particolare al servizio del debito pubblico, erra: poiché, se lo Stato si trova in disavanzo o vuol mancare fede ai suoi creditori può medesimamente cancellare o ridurre l’iscrizione degli interessi nel bilancio suo generale, ovvero destinare ad altro fine reputato più urgente le entrate speciali che pure erano state ipotecate pel servizio del debito.

 

 

682. Esempi moderni di garanzie speciali: le delegazioni sulla sovrimposta e sul dazio consumo nei comuni italiani e le commissioni internazionali del debito pubblico negli Stati a finanze avariate. – Le garanzie speciali si osservano soltanto in talune particolari circostanze.

 

 

  • a) Ne abbiamo un esempio in paese nelle delegazioni sulla sovrimposta fondiaria o sul dazio consumo che i comuni sono autorizzati a rilasciare alla cassa depositi e prestiti, alle casse di risparmio e ad altri enti indicati nelle leggi. Date queste delegazioni, gli esattori comunali debbono versare direttamente il provento delle entrate delegate, fino a concorrenza degli interessi dovuti, al creditore anziché alla cassa comunale.

 

 

Le delegazioni possono per i comuni essere efficaci, poiché ci sono autorità superiori tutorie e giudiziarie le quali possono costringere il comune recalcitrante ad adempiere ai suoi obblighi verso i creditori. I comuni in Italia possono essere dichiarati anzi in stato di insolvenza – corrispondente al fallimento dei privati – ed essere sottoposti alla tutela di una commissione centrale speciale. Ma chi potrebbe costringere gli Stati ad adempiere ai loro impegni verso i creditori? Essi sono sovrani e possono con un legge mutare le condizioni del debito da essi prima contratto. Non esistono tribunali supremi dinanzi a cui possano essere portati i piati dei creditori contro gli Stati insolventi;

 

 

  • b) Alcuni Stati a finanze avariate o dissestate, come la Turchia, l’Egitto, la Cina, il Marocco, la Grecia dovettero venire a concordato coi creditori; e consentirono che talune entrate pubbliche, principalmente le dogane ed alcuni monopoli, come il tabacco ed il sale fossero amministrate da delegazioni dei creditori, nominate sia direttamente dai creditori, sia e più spesso, dai governi od altri enti pubblici, come le camere di commercio degli Stati a cui appartenevano i più forti gruppi dei loro creditori. A questo estremo si ridussero gli Stati ora detti, anche perché la loro costituzione politica era poco solida o barbarica, salvo nel caso della Grecia, dove il controllo internazionale ha carattere puramente finanziario, e dove le pubbliche finanze e l’economia nazionale si sono grandemente rafforzate dopo l’inizio del secolo presente. Cosicché le commissioni internazionali del debito pubblico istituite in Turchia, in Egitto, al Marocco, in Cina finirono di diventare un vero Stato nello Stato, indipendente dal governo nazionale e minaccioso alla sovranità di esso. La concessione di garanzie speciali ai creditori pubblici è spesso un primo passo verso la perdita della propria indipendenza politica; ed uno Stato deve fare ogni sforzo prima di sottomettervisi.

 

 

Giova notare che l’opera di queste commissioni fu per lo più praticamente utilissima, poiché introdussero l’ordine, l’onestà, repressero le frodi e gli abusi nell’amministrazione delle entrate delegate. I creditori della Turchia, dell’Egitto, della Cina ottennero il puntuale pagamento degli interessi loro dovuti, e per la prudente amministrazione europea il reddito delle dogane e dei monopoli ipotecati aumentò per modo che le commissioni dispongono di ingenti sovraredditi, i quali sono versati nelle casse degli Stati posti sotto tutela. Ai quali la perdita parziale della sovranità può sembrare ed essere realmente compensata dai vantaggi economici che sono derivati dalla concessione di garanzie speciali ai creditori pubblici. In questi casi però le garanzie speciali non sono un fatto originario ma la conseguenza di una condizione posteriore di insolvenza in cui si trovarono gli Stati debitori. A risollevare i quali, traendo le loro finanze dalle condizioni difficili in cui amministrazioni incapaci o corrotte le avevano poste, possono essere utili i rimedi estremi, per cui certe entrate pubbliche sono poste nelle mani di commissioni rappresentanti dei creditori. Il metodo vero e proprio delle garanzie speciali concesse per una o parecchie entrate pubbliche al momento della creazione del prestito è seguito soltanto da quegli Stati che già si trovano sottoposti al controllo finanziario dei creditori o che non troverebbero altrimenti credito per le cattive condizioni della loro finanza. I capitalisti richiesti di nuovi mutui, si professano disposti a concederli; ma diffidando dell’amministrazione finanziaria nazionale pretendono che siano ipotecate all’uopo talune speciali entrate e la gestione di queste sia affidata alla già esistente commissione internazionale o ad una amministrazione speciale da crearsi.

 

 

Sezione quarta

Uniformità o varietà dei tipi di debito pubblico?

 

683. Posizione del problema. Assurdità del tipo unico, date le variazioni dei bisogni dello Stato, delle condizioni del mercato, le momentanee crisi, i diversi gusti dei capitalisti. Assurdità di una moltiplicazione eccessiva dei tipi: confusione nei corsi, ristrettezza del mercato di ogni tipo e minor pregio attribuito ai titoli privi di mercato. – Una questione largamente dibattuta è quella della preferenza da darsi alla uniformità od alla varietà dei tipi di titoli di debito pubblico; questione che spesso è mal posta, come l’altra divenuta quasi grottesca, della preferenza da darsi alla grande o piccola proprietà, alla grande o piccola industria. Come è economicamente assurdo assegnare la palma della vittoria alla piccola ed alla grande proprietà, poiché ognuna di essa è la più adatta a vincere, ossia ad essere più redditizia, a seconda delle altitudini, clima, coltura, densità della popolazione, ecc. ecc.; così sarebbe assurdo di affermare che lo Stato non debba emettere che titoli di un tipo solo, per esempio tutta rendita perpetua 5 o 4 o 3%, o tutti debiti ammortizzabili o in 30 o 50 o 90 anni, o tutti buoni a scadenza fissa fra 5 o 10 anni, ecc. ecc.; e sarebbe parimenti assurdo sostenere la convenienza per lo stato di variare il tipo del debito ad ogni nuova emissione di prestiti, così da avere in circolazione una infinita varietà di titoli.

 

 

È assurda la uniformità od unicità del tipo di debito pubblico:

 

 

  • a) perché lo Stato ha bisogni diversi, che non possono essere soddisfatti con lo stesso tipo di debito. Quando ha d’uopo di ottenere una anticipazione per pochi mesi sul prodotto delle imposte dell’anno sarebbe assurdo contrarre un prestito perpetuo, occorrendo invece il buono del tesoro a 3 o 6 o 9 mesi. Quando si deve provvedere il capitale per la costruzione di una ferrovia, occorre ricorrere al prestito ammortizzabile in 50 o 60 o 90 anni, quanto ricorrere al prestito ammortizzabile in 50 o 60 o 90 anni, quanto si suppone possa durare l’impianto ferroviario. Se si deve sostenere il peso di una guerra, sarà preferibile il debito perpetuo od ammortizzabile in lunghissimo periodo di tempo: 100 o 150 anni;
  • b) mutano da un tempo all’altro le condizioni del mercato, sicché il tasso corrente dell’interesse può dal 5 discendere al 4 1/2, al 4, al 3 1/2 od al 3% e poi risalire al 3 1/2 od al 4 per cento. Avendo dimostrato come le emissioni al disotto della pari non siano convenienti, l’ostinazione posta nel voler emettere soltanto titoli 3%, ad esempio, diventa una superstizione irragionevole, quasi una infantile credenza nella potenza dello Stato di potere arrestare le variazioni del tasso dell’interesse. Emettere un 3% quando il tasso corrente è del 4%, vuol dire emettere al disotto della pari, poco sopra il valore di parità di 75, con scapito evidente dello Stato. Parimenti ostinarsi ad emettere del 5% quando il tasso dell’interesse è ribassato al 4%, porterebbe come conseguenza la necessità di fissare il prezzo di emissione a 125 lire, onde il reddito di 5 lire, su 125 lire effettivamente pagate, corrispondesse ad un 4% effettivo. Ma quale capitalista consentirà a pagare 125 lire un titolo il cui valore nominale è di sole 100 lire e che domani potrà essere rimborsato a 100? Onde nuove perdite dello Stato, il quale non sappia adattarsi alla realtà ed emettere ora del 5 ed ora del 4 o del 3 1/2 o del 3%, a seconda vuolsi per le condizioni del mercato;
  • c) nei momenti di crisi economica o finanziaria, il cui tasso di interesse oscilla fortemente e cerca, attraverso a mutazioni continue, uno stato di equilibrio permanente, sarebbe pericoloso per ambe le parti fissarsi su un titolo ad un tasso di interesse convenuto per lungo tempo. Allora si impongono i buoni a scadenza fissa di 5 o 10 anni, i quali rispondono al provvisorio del momento e dovranno in seguito, a cose riposate, essere sostituiti da un titolo di carattere permanente;
  • d) i gusti dei capitalisti sono svariatissimi. Gli uni amano la vita cosidetta tranquilla delle rendite perpetue, li altri, specie gli enti finanziari con impegni a scadenza fissa, preferiscono il titolo rimborsabile a scadenza fissa o per ammortamento in un dato periodo di tempo. Altri ama risparmiare una parte dell’interesse che a loro spetterebbe, rimandandone l’esazione al momento del rimborso sotto forma di un premio fisso, sebbene modesto. Altri ancora si contenta di un interesse mediocrissimo, ma vuole l’eccitazione del premio delle 100 mila lire annue per estrazione a sorte;
  • e) i bisogni dei capitalisti sono pure svariati. Chi ha risparmiato 100.000 lire e vuole impiegarle in modo permanente, preferirà i titoli perpetui od a scadenza lontana; mentre chi ha disponibili 10.000 lire per qualche mese, fino al momento del consumo, acquisterà buoni del tesoro ordinari, con scadenza di 3,6 o 9 mesi; e così pure chi vuole accumulare a poco a poco 100.000 lire per comprare una casa od un fondo rustico, volentieri impiegherà i suoi risparmi annui di 5 o 10 mila lire nell’acquisto di buoni quinquennali o decennali, di cui avrà il rimborso quando appunto egli reputa giunto il momento di un impiego definitivo e permanente.

 

 

Lo Stato, il quale è un venditore di titoli, ha interesse a fabbricarli della specie che meglio è accetta alla clientela dei suoi capitalisti. Come qualunque altro fabbricante non deve seguire i gusti, le inclinazioni, magari i capricci di essi. Facendo così venderà i titoli al più alto prezzo possibile e ridurrà l’onere degli interessi e quindi delle imposte per i contribuenti.

 

 

Sarebbe però assurdo esagerare nella moltiplicazione dei tipi di titoli di debito pubblico cambiandone, senza ragione, capricciosamente il tipo ad ogni nuova emissione. Si devono seguire sì le variazioni del tasso dell’interesse dal 5 al 4 1/2 al 4 al 3 1/2 per cento, ma sarebbe assurdo emettere titoli al 4,20, 4,50, 4, 3,90, 3,80, 3,70, 3,60, 3,50 col pretesto che il tasso dell’interesse non varia per frazioni grosse ma per quantità piccolissime. È opportuno adattare il periodo di ammortamento delle obbligazioni redimibili alla durata dei valori od impianti in che il provento del prestito si è investito; e così può essere consigliabile la creazione di obbligazioni ammortizzabili in 30, 50 o 90 anni, a seconda dei casi; ma sarebbe assurdo moltiplicare i periodi ed avere obbligazioni estinguibili in 29, 30, 31, 49, 50, 51, 52 ecc. anni.

 

 

  • a) Tutto ciò porterebbe una confusione grandissima nei corsi, nella valutazione dei titoli, nell’apprezzamento di essi da parte dei capitalisti. Questi potrebbero immaginare d’aver comprato un titolo con scadenza al massimo fra 50 anni, mentre la scadenza è a 66 o 78 o 85 anni, cosa la quale potrebbe mutare assai il rendimento del titolo, essendo ben diversa la prospettiva di un premio al rimborso tra 50 o fra 66 o 78 anni.
  • b) La molteplicità eccessiva dei titoli ristringerebbe, inoltre, troppo il mercato di ognuno di essi e, rendendone difficile la negoziazione, ne scemerebbe i corsi di borsa e quindi il prezzo di emissione. Un titolo invero dicesi avere un largo mercato, quando ogni giorno ve ne sono forti quantità offerte in vendite e richieste. Da queste molteplicità di transazioni sorge la possibilità di un prezzo corrente. Chi vuol vendere è sicuro di trovare un compratore; e chi vuol comprare è sicuro di trovare titoli sul mercato. Tra i prezzi di offerta ed i prezzi di domanda, tra la lettera e il denaro vi è uno scarto piccolissimo, spesso di soli 5 centesimi. Ma il largo mercato si può formare solo quando di un titolo esiste una forte quantità, per esempio di almeno due o tre miliardi di lire in un paese come l’Italia. Allora ogni giorno, per infinite circostanze, morti, divisioni ereditarie, disinvestimenti per consumo o per altre specie di investimenti, vi sono milioni di lire di titoli offerti in vendite e milioni di lire richieste; ed allora si può formare un prezzo di mercato effettivo, corrente, a cui si può sempre essere sicuri di vendere o di comperare.

 

 

Se invece vi sono moltissimi tipi di titoli in circolazione e la consistenza totale di essi è di poche decine o poche centinaia di milioni di lire, il mercato non si può formare. Quando un detentore vuole vendere uno di questi titoli a mercato «ristretto», la sua offerta risuona per giorni e giorni, talvolta per settimane nelle sale di borsa senza trovare contropartita. Alla fine, egli, scoraggiato, dà ordine al suo agente di cambio, di offrire per 98 o 97 ciò che era quotato 100, secondo il precedente contratto registrato nella quotazione di borsa; e talvolta il sacrificio di parecchie lire non è sufficiente ad attirare compratori ad un titolo che non è abbastanza conosciuto, che non si sa se si potrà vendere in caso di bisogno, che ha un pubblico ristretto di amatori. Viceversa, se a taluno accade di voler comprare uno di questi titoli «rari», la sua richiesta rischia di cadere medesimamente nel vuoto. In quel momento nessuno si vuol disfare del titolo ed anche aumentando il prezzo di qualche lira, non si provocano vendite. Su questi titoli, lo scarto tra la lettera (prezzo di offerta) e il denaro (prezzo di domanda) può diventare notevole, forse di parecchie lire.

 

 

In Italia, per citare un esempio pratico, è un titolo di larghissimo mercato la rendita perpetua 3 1/2 per cento netto (1906); e sono titoli di mercato ristretto la rendita 3 1/2 netto (1902), peggio la rendita vecchia 3% lordo. La prima, di cui vi sono in circolazione 8 1/2 miliardi, è contrattata ogni giorno in grandissime quantità; si vende come il pane; con uno scarto di 5 centesimi si può acquistare e vendere in pochi minuti in qualsiasi quantità. Della seconda, che è lo stessissimo titolo, con la principale differenza che l’interesse è pagato a trimestri, invece che a semestri, ossia in modo più conveniente per il portatore, essendovi l’anticipazione del pagamento di due trimestri all’anno, vi sono in circolazione poche centinaia di milioni, onde il mercato ne è assai più ristretto. La conseguenza si rispecchia nelle quotazioni dei due titoli, di cui il primo (93 1/2 1906) ha prezzi effettivi superiori di parecchie decine di centesimi al prezzo nominale del secondo (3 1/2 1902). I primi prezzi sono più alti e sono effettivi, ossia prezzi che si possono sempre realizzare con uno scarto piccolissimo; i secondi sono prezzi più bassi e nominali, ossia prezzi su cui occorre concedere un ribasso non indifferente volendo vendere o bisogna rassegnarsi a fare un’aggiunta non piccola, volendo comprare.

 

 

Lo stesso accade per il vecchio 3% lordo, ossia 2,40% netto, di cui il mercato è ristrettissimo, essendovi in corso poche centinaia di milioni di lire di quel tipo. Tra la lettera e il denaro vi sono non di rado scarti di qualche lira.

 

 

È manifesto che lo Stato ha interesse a emettere titoli che godono di un ampio mercato, che siano negoziali attivamente a prezzi effettivi. Cotali titoli riescono più graditi ai capitalisti, i quali amano piuttosto di compare un titolo il quale frutti lo 0,25, forse anche lo 0,50% di meno, pur di essere sicuri di poterlo rivendere in ogni momento. Il cliente paga più caro il titolo a largo mercato e quindi allo Stato conviene emettere titoli di un tipo già noto, già classato, che non un nuovo tipo ignoto, che deve ancora far la sua strada sui mercati finanziari e di cui si negoziano piccole quantità. Sicché si concluda che in questa materia del tipo unico o dei tipi molteplici importa non esagerare, né moltiplicando i tipi senza necessità, né ostinandosi a tenersi stretti ad un tipo unico, il quale può non corrispondere alle esigenze del momento economico ed ai gusti dei capitalisti od ai fini per cui il debito è contratto. Sarà compito dell’arte finanziaria dell’uomo politico scegliere il tipo che di volta in volta meglio corrisponde alle esigenze dello Stato.

 

 

Sezione quinta

Tagli piccoli o tagli grossi?

 

684. Nozione del «taglio» – Unità di taglio – La scelta tra i tipi di taglio dipende dal genere della clientela – La composizione aristocratica o democratica del ceto dei creditori dello Stato determina il taglio dei titoli. – Problema assai piccolo in apparenza, ma praticamente di peso non lieve è la scelta fra i diversi tagli dei titoli. Dicesi «taglio» del titolo l’ammontare del valor nominale d’ogni titolo o certificato di debito rilasciato ai creditori dello Stato. L’unità di misura è sempre il centinaio di lire; ma il titolo può essere di molti tipi; e così vi sono debiti in cui si emettono titoli di un valor nominale di 100, 200, 500, 1.000, 2.000, 5.000, 10.000 e 20.000 lire; altri il cui taglio più piccolo è dell’ammontare di 500 o 1.000 lire ed altri ancora i quali sono esclusivamente di taglio grosso, per esempio 10.000, 20.000, 50.000 lire. In Italia si emisero persino obbligazioni ferroviarie del taglio di 500.000 lire l’una.

 

 

La scelta fra i diversi tipi di taglio è determinata dalla varia clientela a cui si vogliono vendere i titoli di debito dello Stato. Se i probabili acquisitori sono grandi enti finanziari, come casse di risparmio, banche, istituti di assicurazione, saranno preferibili i grossi tagli, per non ingombrare di carta i forzieri di questi istituti ed allungare la tenuta dei loro registri contabili. Questi enti preferiscono i grossi tagli, sia per le anzidette ragioni pratiche, sia perché non hanno bisogno di avere dei tagli piccoli onde trovare acquisitori, essendo determinati a conservare i titoli comperati, sia ancora perché, essendo ogni titolo colpito in quasi tutti gli Stati da un diritto di bollo fisso (in Italia 60 centesimi per titolo) conviene maggiormente acquistare un titolo da 20.000 lire, pagando soltanto un diritto di bollo di 60 centesimi, piuttosto ché 200 titoli da 100 lire, per i quali occorrerebbe pagare 200 X 0,60 ossia L. 120.

 

 

Ma di solito i grossi prestiti non si possono emettere solo a questi enti finanziari, occorrendo rivolgersi al gran pubblico dei capitalisti, il quale soltanto può assorbire i prestiti di parecchie centinaia o qualche miliardo di lire. Ed in tal caso è preferibile una opportuna varietà di tagli, per soddisfare ai gusti ed alla potenzialità finanziaria dei diversi tipi di capitalisti. Vi sono i capitalisti grossi, i quali preferiscono i tagli da 10 e 20 mila lire, per le stesse ragioni per cui li prediligono gli istituti finanziari; ma talvolta anche costoro non amano i tagli troppo grossi e desiderano avere qualche unità da 1.000 e 5.000 lire allo scopo di potere più facilmente realizzare, in caso di bisogno, una parte dei proprii investimenti, o di potere operare divisioni ereditarie, conguagli di parti, ecc. ecc. I piccoli ed i medi capitalisti ricercano quasi soltanto i titoli di taglio basso, fra le 100 e le 5.000 lire, poiché rispondono meglio alla loro possibilità di investire un po’ per volta i loro modesti risparmi nell’acquisto di titoli pubblici e perché più facilmente riescono a realizzare una parte del grosso taglio in tagli piccoli. Vale anche per queste classi l’argomento della maggiore facilità dei conguagli e divisioni ereditarie.

 

 

685. Lo spostamento storico nella composizione sociale dei creditori dello StatoCrescente importanza dei piccoli creditori – Il premio dei tagli piccoli in borsa è indice di questo spostamento storico. – Notisi a questo riguardo come la composizione sociale dei creditori dello Stato tenda nei tempi più recenti a cambiare. Mentre nei secoli scorsi solo dall’aristocrazia e dalla grande borghesia, tutt’al più da una parte del medio ceto proprietario si traevano i compratori di valori pubblici e di creditori dello Stato (cfr. Einaudi, La finanza sabauda all’aprirsi del secolo XVIII, già citata), durante il secolo XIX crebbe via via il novero dei rentiers tratti dalla media borghesia, dal minuto commercio, dagli impiegati, dai contadini, dagli artigiani.

 

 

E si capisce agevolmente la ragione di questo mutamento. La grande borghesia, la quale si era addestrata nei tempi andati agli investimenti mobiliari, mercé gli acquisti di titoli di debito pubblico (cfr. paragrafo 598), avvertì a poco a poco che questi titoli davano un frutto assai scarso e spesso decrescente, per la fiducia sempre maggiore che gli Stati, divenuti onesti, inspiravano e per la conseguente diminuzione dell’elemento «rischio» nei prestiti pubblici, onde le sue simpatie cominciarono a portarsi verso le obbligazioni e le azioni delle società private, verso i titoli emessi da Stati secondari, i quali fruttavano più alti interessi e dividendi.

 

 

L’eredità dell’aristocrazia e della grande borghesia fu raccolta dalla media borghesia e quindi dal ceto degli artigiani, dei contadini e degli impiegati minuti; i quali conoscevano solo il salvadanaio, i bas de laine, il tesoro nascosto nella cantina, al più il libretto della cassa di risparmio, od il prestito ipotecario. Tra questo ceto medio e minuto di capitalisti si trovano ora, sovratutto in Francia, collocati i titoli di debito pubblico; e sebbene in Italia si possa presumere ancora predominante l’alta borghesia di proprietari e di impiegati superiori, tende ad acquistare importanza crescente il ceto medio e piccolo borghese, artigiano e contadino.

 

 

Per soddisfare ai gusti di questa clientela, la quale è la sola la quale possa e voglia ed abbia convenienza a contentarsi dei bassi tassi di interesse che gli Stati offrono ai loro creditori, è opportuno che lo Stato spezzi i proprii debiti in tagli piccoli da 100, 200, 500, 1.000 lire, sì da rendere i valori pubblici accessibili ad ogni borsa.

 

 

Lo spostamento evidente della composizione sociale dei creditori pubblici è messo in chiara luce da un fatto ben noto: il premio o maggiore prezzo che i tagli piccoli ottengono in borsa in confronto ai tagli grossi. Scorrendo i listini di borsa si vede che i tagli piccoli da 100, 200, 500, 1.000 lire di capitale o 3,50, 7, 17,50, 35 lire di rendita (rendita italiana 3,50%) valgono da 10 a 20 centesimi di più per ogni 100 lire di valor nominale dei tagli grossi. Talvolta, quando i corsi di borsa ribassano alquanto e diventano appetitosi per i piccoli capitalisti, la differenza nelle quotazioni cresce ed accadde vederla aumentare sino ad 1 lira per 100 nominali. La ragion di ciò sta nell’abitudine dell’amministrazione di stampare tanti titoli dei diversi tagli quanti corrispondevano alla probabile ripartizione della domanda secondo l’esperienza passata; ma poiché il numero dei creditori pubblici sempre cresce, allargandosi la fiducia negli Stati a strati sociali più bassi e numerosi, la nuova ripartizione della richiesta fra i tagli diversi contraddice all’esperienza antica; ed i tagli piccoli essendo più fervidamente richiesti aumentano di prezzo in confronto ai tagli grossi relativamente trascurati dalla clientela ricca, la quale comincia ad avere in dispetto il 3 1/2 per cento e vuole il 4, il 4 1/2, il 5, il 6 ecc. per cento offerto da titoli nazionali e stranieri più fecondi, ma più aleatori. Perciò le amministrazioni pubbliche avvedute ritirano i tagli grossi negletti e li sostituiscono, frazionandoli, con tagli piccoli, per soddisfare ai gusti della rinnovata clientela.

 

 

Gli Stati, i quali non sanno tener dietro a questa mutazione sociale dei loro creditori, vedono aumentare moltissimo lo scarto fra i tagli grossi ed i piccoli, come accade alla Spagna, per cui le quotazioni della rendita estera 4% alla borsa di Parigi presentano tra i tagli di 4, 12, 20, 40 pesetas francs ed i tagli da 200 a 400 pesetas degli scarti persino di 3, 4 e 5 pesetas per cento. Indice evidentissimo che la provvista dei tagli grossi è esuberante e quella dei piccoli è scarsa.

 

 

Sezione sesta

Titoli nominativi o titoli al portatore

 

686. Paragone tra la sfavorevole esperienza inglese e quella felice francese, italiana e tedesca – Opportunità della libera scelta fra titoli nominativi ed al portatore. – Allo scopo di accreditare e diffondere l’impiego in valori di Stato tra le classi sociali più numerose e risparmiatrici, giova anche la adozione di discipline chiare, semplici, rapide di acquisto, vendita, svincolo dei titoli di debito pubblico. A questo riguardo possiamo paragonare la sfavorevole esperienza inglese con quella felice francese, italiana e tedesca.

 

 

In Inghilterra i titoli pubblici sono quasi esclusivamente nominativi. Non già che la legge vieti le emissione di titoli di debito pubblico al portatore; ma non essendo questi accetti ai capitalisti inglesi, se ne emettono solo in scarsa quantità per far fronte ad esigenze speciali. Ciò avrebbe scarsa importanza se il legislatore avesse provveduto a rendere facile l’emissione ed il trapasso dei titoli nominativi. Fino a tempi recentissimi accadeva ed ancor oggi per la maggior parte accade invece il contrario: ai possessori di una rendita pubblica lo Stato non consegnava alcun titolo comprovante il loro credito, sibbene unicamente ne iscriveva il nome (inscribed stocks) in certi registri pubblici tenuti presso la Banca d’Inghilterra a Londra od a Dublino; ed all’indirizzo segnato su quei registri inviava unicamente l’assegno (chèque) dell’interesse annuo. Il capitalista che volesse vendere ad altri il suo titolo, non poteva consegnarlo, ché egli non lo possedeva; ma doveva recarsi personalmente alle sedi di Londra o Dublino della Banca d’Inghilterra e chiedere il trapasso. Non volendo e non potendo recarvisi personalmente, doveva autorizzare con atto pubblico (power of attorney) un procuratore legale residente a Londra od a Dublino a compiere in nome suo le formalità necessarie.

 

 

Tutto ciò era ingombrante, irritante e non atto a procacciare ai titoli di debito pubblico simpatie tra le classi medie e popolari; poiché difficilmente si può persuadere un popolano ad investire i suoi risparmi in un mutuo allo Stato senza avere neppure un rigo di ricevuta in cambio.

 

 

Sebbene recentemente le cose siano cambiate e si siano ammessi i titoli nominativi veri e proprii (registered stocks) consegnati al capitalista e da lui trasmissibili ad altri con certe formalità, tuttavia le formalità non sono ancora tanto semplificate e la conoscenza di questi nuovi metodi di iscrizione non è tanto diffusa da aver potuto procacciare al debito pubblico inglese quella popolarità che i vecchi metodi non consentivano.

 

 

Diverso è il metodo francese, a cui si è ispirato l’italiano. Discorrendo di questo, noi vediamo che il capitalista ha la scelta fra:

 

 

  • a) i titoli nominativi, i quali portano la menzione del nome, cognome e domicilio del possessore del titolo, e degli altri vincoli o dichiarazioni che il capitalista desideri: di usufrutto, di cauzione, ecc. Hanno questi titoli il pregio della sicurezza contro i furti, poiché il possessore, a cui un titolo nominativo sia stato rubato, può ottenere che il vecchio titolo rubato sia dichiarato nullo ed in luogo suo gliene sia fornito un altro. Hanno l’inconveniente che per vendere il titolo occorre chiederne il cambio in un titolo al portatore; ottemperando ad alcune formalità, le quali importano una certa modesta spesa ed un lasso di tempo di qualche mese. Similmente, nei trapassi per eredità e nelle divisioni, occorre documentare le domande nel modo all’incirca che s’usa per ogni altra operazione di questo genere per beni immobili. Notisi, che a facilitare l’esazione degli interessi annui, il pagamento di questi viene fatto al portatore, esclusivamente però presso quella sede provinciale di tesoreria, presso cui il possessore iscritto ha scelto il suo domicilio. L’esazione degli interessi si può anche fare a mezzo di qualsiasi ufficio postale del regno;
  • b) i titoli al portatore, i quali non portano alcuna menzione di possessore e si suppone siano la proprietà di chi li possiede, valendo per essi, come per le altre cose mobili, la massima: possesso val titolo. I titoli al portatore sono soggetti al rischio del furto, il quale però è assai diminuito dalle moderne invenzioni dei depositi a custodia e delle cassette di sicurezza presso le banche. Ma presentano per contro molteplici vantaggi: la facilità e rapidità grandissima delle compre-vendite, delle divisioni, dei pegni su garanzia di anticipazioni, delle cauzioni, dei riporti, ecc. ecc. Il capitalista non ama spesso di far conoscere ad altri la consistenza del suo patrimonio; e ne ha il mezzo, mercé l’acquisto di titoli al portatore. Gli interessi sono esigibili senza spesa in ogni ufficio postale, mercé la presentazione dei relativi tagliandi o cuponi, e con tutta facilità se ne incaricano agenti di cambio, banchieri, ecc.;
  • c) i titoli misti, i quali sono nominativi quanto al titolo, ma hanno i cuponi o tagliandi esigibili al portatore. Il tipo misto non ha avuto fortuna, perché in realtà non presenta alcun sostanziale vantaggio sui titoli nominativi. Anche per questi gli interessi sono esigibili al portatore; e l’unico loro svantaggio si è che sono esigibili solo presso una data sede di tesoreria provinciale; mentre i cuponi dei titoli misti sono esigibili dappertutto nel regno. Vantaggio che non fu sufficiente a popolarizzare il titolo misto.

 

 

Vedesi così come l’amministrazione italiana siasi sforzata a cercare ogni mezzo per adattare la forma dei titoli di debito pubblico ai varii bisogni dei capitalisti. E ne ha ottenuto in guiderdone la crescente popolarità dei titoli stessi. Certissimamente il maggior pregio che i titoli di debito pubblico italiano hanno oggi in confronto a qualche decennio fa è in parte dovuto a queste avvedute modalità di titoli nominativi ed al portatore, di grosso e piccolo taglio, così come piace al capitalista, il quale è disposto a pagar di più, pur di avere la merce confezionata e presentata nel modo che da lui si desidera.

 

 

687. Obiezioni ai titoli al portatore. Realtà dell’incremento da essi posto alla frode fiscale. Come però il problema consista nel raffronto tra due inconvenienti, di cui il maggiore non è il rischio della frode fiscale, ma la abolizione dei titoli al portatore. Vera importanza della frode. Come la frode fiscale per i titoli pubblici sia suicida. Opportunità di invogliare i capitalisti a chiedere volontariamente la trasformazione dei loro titoli in nominativi. – Si fa ai titoli al portatore il rimprovero di facilitare la frode fiscale in materia di imposta di successione. L’erede o gli eredi, i quali dovrebbero denunciare nell’attivo dell’eredità il titolo nominativo per ottenerne il trapasso al loro nome, occultano il titolo al portatore e quasi sempre dimenticano di denunciarlo al fisco. Il fatto è vero; ma il rimprovero ciononostante è plebeo e degno di analfabeti dell’economia e della finanza. Non ritorneremo su questa questione su cui già ci intrattenemmo altra volta (cfr. paragrafo 550). Il problema non è di gridare, come oratori da comizio, contro la frode dei pochi ricchi capitalisti, i quali, in materia di titoli di debito pubblico, tendono a diventare numerosissimi e modesti; ma di pesare i due inconvenienti, della frode fiscale e dell’abolizione dei titoli al portatore e vedere quale dei due sia il maggiore. Sembra indubitata la risposta: sono così grandi i vantaggi sovra ricordati dei titoli al portatore e così scarso è il beneficio che il fisco ricaverebbe da un maggior gettito dell’imposta di successione in seguito alla abolizione dei titoli al portatore, che la scelta non può essere dubbia. Favoleggiano i nominativisti di decine di milioni frodate ogni anno al fisco; ma il Cabiati ha dimostrato (vedi il suo studio su La nominatività dei titoli al portatore e la imposta di successione in Riforma Sociale del novembre 1912) che le decine di milioni esistono solo nella fantasia dei progettisti e che si tratta di pochi e scarsi milioni di lire, insufficienti di gran lunga a compensare i danni dell’abolizione dei titoli al portatore.

 

 

Aggiungasi che i titoli di Stato si distinguono in due categorie: soggetti ed esenti dall’imposta sulla negoziazione dei titoli.

 

 

I titoli di Stato soggetti all’imposta di negoziazione (cfr. paragrafo 550 e segg.) sono la minor parte e consistono sovratutto di obbligazioni ferroviarie emesse da società private e da queste passate a debito dello Stato. Per questi la frode all’imposta di successione può essere eliminata in modo agevole: colpire i titoli al portatore con una maggiore imposta annua di negoziazione corrispondente all’imposta aperiodica di successione che essi possono frodare (cfr. paragrafo 553). Così lo Stato non subisce nessuna perdita finanziaria, ricuperando coll’imposta di negoziazione la somma che perde per la non soluta imposta di successione; e si evita il danno che conseguirebbe alla imposizione della nominatività.

 

 

Ovvero i titoli di Stato sono esenti come dall’imposta di ricchezza mobile altresì dall’imposta di negoziazione. E sono i più; tutta la rendita 3 1/2 per cento e quella 3 per cento e molti altri debiti pubblici essendo esenti da ambe le imposte. Ed allora fa d’uopo riandare le ragioni di questa esenzione; che furono già esposte discorrendo dell’imposta di ricchezza mobile (cfr. paragrafo 544) e si possono riassumere in questa sola: conviene all’erario esentare i titoli di debito pubblico dalle imposte, per venderli a più caro prezzo. Un titolo 5% soggetto ad imposte svariate del 30% in guisa da rendere solo 3,50 lire nette, val;e di meno di un titolo 3,50% netto da qualunque imposta presente e futura. Se il secondo titolo si vende a 100 lire, il primo si venderà a 98, 96, 94 lire soltanto, perché i capitalisti temono gli aumenti futuri di imposte dal 30 al 35 o 40% e si premuniscono in anticipazione pagando di meno il titolo; sicché allo Stato conviene dichiarare senz’altro il titolo immune da tributi.

 

 

La stessa osservazione si deve fare rispetto alla cosidetta frode rispetto all’imposta di successione. Chi calcola i [pochi] milioni che lo Stato perde in causa della frode che s’esercita coi titoli al portatore e si eviterebbe coi titoli nominativi fare un calcolo sbagliato. Dimentica costui il guadagno che lo Stato ha avuto in passato ed avrà in avvenire mercé l’emissione di titoli al portatore, per cui il capitalista sa che potrà sottrarsi all’imposta di successione. È questo un vantaggio noto e che si paga mercé un rialzo di prezzo dei titoli stessi. Una della attrattive dei titoli di Stato in confronto agli investimenti in case, in terreni, in mutui ipotecari è appunto la consapevolezza che il capitalista [modesto] ha di potersi sottrarre all’imposta di successione. Questa attrattiva è tale che, insieme con le altre dei titoli stessi, lo fa esser contento di un 3 1/2 di frutto, laddove da altri impieghi pretenderebbe il 4 od il 5% il che, esposto in altri termini, vuol dire che egli paga 100 quello stesso reddito che in altra forma pagherebbe solo 90 od 80 o 70 lire.

 

 

Non vuol forse questo fatto indiscutibile significare che la frode uccide se stessa? Che il capitalista per sfuggire in futuro all’imposta di successione comincerà subito volontariamente a soggiacere ad un’imposta, e forse ben più elevata, pagando 100 lire ciò che, se la frode non potesse esercitarsi, pagherebbe assai meno?

 

 

Le quali considerazioni, insieme con quelle già fatte intorno ai vantaggi dei titoli al portatore, ci fanno non solo conchiudere che l’abolizione di essi sarebbe un provvedimento dannoso al pubblico erario, ma ci inducono a soggiungere essere forse conveniente dichiarare senz’altro – riconoscendo i fatti ed abolendo una finzione di frode che e insussistente – che i titoli pubblici al portatore sono esenti dall’imposta di successione, allo scopo di accrescere pregio ai titoli stessi.

 

 

Ad agevolare le volontarie richieste di trasformazione dei titoli al portatore in titoli nominativi – già ora oltre la metà delle rendite 3 1/2 per cento sono al nominativo – sarebbe forse opportuno scemare le formalità tuttora sussistenti per la negoziabilità dei titoli stessi. Per questi, volendoli vendere, occorre prima ottenerne il cambio in titoli al portatore; formalità alquanto dispendiosa e lunga. Sotto questo rispetto si potrebbero imitare le norme vigenti in Inghilterra per i titoli – azioni ed obbligazioni – nominativi privati ed ora estesi anche ai titoli di Stato (registered stocks); per cui i titoli nominativi si possono trasferire mediante fogli di trapasso, riempiti dalle parti interessate ed in base a cui, con spesa mitissima ed in un tempo brevissimo di poche ore o giorni, al titolo vecchio si sostituisce un nuovo titolo, con mutata intestazione. Lo stesso metodo viene usato da noi, con soddisfazione dei portatori, per i trapassi delle azioni della Banca d’Italia, le quali sono tutte nominative, conformemente alle prescrizioni del codice di commercio per i titoli non interamente versati (sulle azioni stesse sono state versate finora solo 600 lire su 800 nominali). Questo sarebbe il miglior modo di invogliare molti, i quali preferiscono i titoli al portatore perché temono le difficoltà e le perdite di tempo nella negoziazione dei titoli nominativi, a chiedere il trapasso in quest’ultima forma, più accetta per la sicurezza assoluta contro i furti. Grazie a questo spontaneo passaggio dei titoli dalla categoria al portatore a quella al nominativo, le cosiddette frodi all’imposta successoria scemerebbero vieppiù di importanza; e la esenzione, implicita o dichiarata, dei titoli al portatore avrebbe l’unico e benefico effetto di elevare, con vantaggio dell’erario, il valore di borsa e quindi di emissione dei titoli al portatore e quindi anche dei titoli nominativi, i quali sono nei primi trasformabili a volontà del possessore.

 

 

Sezione settima

Della emissione o vendita ai capitalisti dei titoli di debito pubblico.

 

688. I due principali metodi di emissione: con o senza intermediari. Raffronto. Il metodo della pubblica sottoscrizione non evita gli inconvenienti della concessione ad un consorzio bancario. – Assai dibattuto è il problema della scelta tra i diversi metodi per portare il prestito a notizia dei capitalisti, di guisa che questi possano e siano invitati a comprare tutta la massa dei titoli che lo Stato vuole emettere. Sia stato deliberato un prestito in rendita perpetua 4% per la somma di un miliardo di lire. In qual modo migliore ottenere che i capitalisti versino il miliardo di lire, ricevendo in cambio i titoli di debito dello Stato?

 

 

Due sono i metodi principali: con e senza intermediari; tra i quali due metodi si possono operare combinazioni svariatissime.

 

 

Col primo metodo, lo Stato vende la massa totale dei titoli ad un banchiere o ad un gruppo o consorzio di banchieri, ad un prezzo convenuto, per esempio, a 99 lire. Con questo sistema lo Stato ottiene i seguenti vantaggi:

 

 

  • a) È sicuro di aver collocato l’intiero ammontare del prestito;
  • b) è sicuro di incassare immediatamente od alle scadenze convenute la somma desiderata al prezzo stabilito di accordo; nel caso nostro 990 milioni di lire;
  • c) eccitando la concorrenza tra i banchieri od i diversi gruppi di banchieri, lo Stato, rimanendo fisso il tasso di interesse, per esempio 4%, sarà sicuro di incassare per il titolo del valore nominale di 100 lire, il prezzo effettivo più alto che si possa sul mercato in quel torno di tempo; ovvero anche di fissare al minimo possibile il tasso dell’interesse.

 

 

D’altro canto si obietta contro questo sistema della vendita ad un banchiere o consorzio bancario assuntore dell’intiero prestito, che si viene a creare un intermediario fra lo Stato, venditore dei titoli, ed i capitalisti, che sono i veri suoi clienti. Il quale intermediario, avendo interesse a rendere massima la differenza tra il prezzo d’acquisto dello Stato e il prezzo di vendita ai capitalisti, avrà interesse a deprimere il prezzo di acquisto, per esempio a 98, 97 o 96 e ad aumentare il prezzo di vendita ai capitalisti, ad es. a 100 lire. Questa differenza di 2 o 3 o 4 o 5 lire e forse più è un onere il quale grava sui capitalisti, senza vantaggio per lo Stato.

 

 

Di qui il consiglio di ricorrere all’altro metodo della pubblica sottoscrizione. Lo Stato cioè offre in vendita pubblicamente, a partire da un dato giorno, presso tutti i suoi uffici di tesoreria, uffici postali ed anche presso gli sportelli delle casse di risparmio e delle banche, le quali però non assumono nessun obbligo di procacciare sottoscrizioni, ma hanno il solo ufficio di riceverle, una certa quantità di titoli ad un certo prezzo, per esempio a 99 lire. In tal modo il titolo viene direttamente venduto dallo Stato al capitalista; e tutte le 99 lire da questo sono versate nelle casse dello Stato, senza che nessuna parte sia intercettata dagli intermediari, o tutt’al più una tenuissima provvigione di incasso.

 

 

Questo metodo però presta il fianco ad altre obiezioni:

 

 

  • a) solo gli Stati finanziariamente solidissimi e con larga ed affezionata clientela possono permettersi il lusso di una pubblica sottoscrizione. Gli altri, quelli che hanno bisogno urgente di prestiti per le spese di una guerra o per riparare alle conseguenze di essa, non corrono forse il rischio di offrire al pubblico per un miliardo di titoli e di vederne sottoscritti solo 500 o 400 o forse meno, con gravissimo loro discredito? Non v’è nessuno che abbia interesse ed obbligo di sottoscrivere, salvo sia mosso dalla fiducia nello Stato e se questa non v’è, v’è il pericolo dell’insuccesso.
  • b) lo Stato deve a priori fissare il tasso dell’interesse ed il prezzo di emissione, senza bene conoscere a quale prezzo ed a quale tasso i capitalisti siano disposti ad acquistare il suo titolo. Col metodo della concessione ad un consorzio bancario dalle offerte in concorrenza di molte banche e banchieri, dall’abile contrapposizione dall’uno all’altro gruppo bancario, i governanti si possono formare un concetto preciso del tasso minimo d’interesse al disotto di cui non si può scendere e del prezzo più alto che, a quel tasso, si può ottenere dalla vendita del titolo. Ma, se manca la concorrenza tra gli intermediari, deve lo Stato fissare egli il tasso ed il prezzo di vendita. Ben potranno i governanti prendere a guida i prezzi di mercato dei titoli analoghi già in corso e quotati nelle borse, il tasso di interesse corrente per impieghi affini, interrogare banchieri e finanziari sulle condizioni del mercato. Tutte queste sono notizie approssimate di natura disinteressata e quasi accademica. Nessuno prendendo un impegno preciso in conseguenza delle informazioni date, queste avranno un carattere vago. I banchieri hanno interesse a consigliare prezzi bassi ed a dipingere in modo oscuro le condizioni del mercato, affinché, scegliendo lo Stato per es. il prezzo di 96 mentre avrebbe potuto agevolmente fissarsi quello di 99, essi medesimi possono diventare sottoscrittori a 96, farsi assegnare forti partite dei titoli offerti al pubblico e rivenderli a questo in seguito a 98 o 99 lire.
  • c) In questa incertezza, di solito lo Stato prudentemente fissa un prezzo inferiore a quello che potrebbe essere stabilito, tratto sovratutto dal timore di andare incontro ad un insuccesso, ove fissi un prezzo troppo alto. E qui si vede come il metodo della pubblica sottoscrizione non eviti gli inconvenienti della concessione ad un consorzio bancario. Poiché di solito lo Stato fissa un prezzo di emissione ancora più basso di quello a cui avrebbe venduto l’intiera massa dei titoli ai banchieri, i quali conoscono le vere condizioni del mercato, mentre i capitalisti singoli uno per uno le ignorano, si affrettano a sottoscrivere per fortissime somme in modo da assorbire essi quasi l’intiero prestito, e poi rivendono i titoli al pubblico al prezzo che ad essi piacerà di stabilire. Talché si conchiude che i due metodi, i quali in apparenza paiono profondamente contrastanti l’uno all’altro, in realtà sono più tra loro vicini che non sembra.

 

 

689. Posizione del problema da risolvere: scopi che lo Stato vuole raggiungere. Prestiti «flottanti» sul mercato o «classati». – Il problema di eliminare i difetti di entrambi non pare di facile soluzione. Cionondimeno l’esperienza ha insegnato che diversi avvedimenti possono essere accolti allo scopo:

 

 

  • di ottenere il minimo tasso di interesse ed il più alto prezzo per lo Stato;
  • di ridurre al minimo la provvigione degli intermediari;
  • di collocare il titolo subito tra i veri capitalisti o detentori i quali lo acquistano allo scopo di investimento stabile dei loro risparmi togliendolo agli intermediari, i quali lo acquistano solo a scopo di rivendita. Lo Stato ha interesse a non lasciar rimanere lungo tempo il titolo a mani degli intermediari, o, come si dice, fluttuante sul mercato; poiché i corsi di borsa sono in questo caso oscillanti ed instabili, per la preoccupazione di sapere se il «flottante» potrà essere collocato. Mentre se il titolo è collocato tra i capitalisti i corsi di borsa diventano regolari e poco oscillanti, venendo sul mercato soltanto di tempo in tempo la solita quantità che deve essere venduta per morte, divisioni, disinvestimenti ecc. ecc., offerta controbilanciata da domande in media altrettanto regolari. Quando il titolo è così collocato tra i capitalisti che lo detengono stabilmente, dicesi «classato»; ed il classamento rapido del titolo è grandemente desiderabile per lo Stato.

 

 

690. Sistema misto della pubblica sottoscrizione con la garanzia d’un consorzio assuntore. Opportunità di fissare due prezzi per i titoli concessi ad un consorzio bancario: prezzo di concessione al consorzio e di emissione al pubblico. – Un avvedimento utile al fine di raggiungere gli intenti sovradescritti è quello di affidare l’emissione ad un consorzio bancario, fissando però contemporaneamente il prezzo a cui il consorzio dovrà offrire i titoli ai capitalisti in pubblica sottoscrizione. Così, ad esempio, si può stabilire che il prestito di un miliardo di lire nominale al 4% sia concesso ad un consorzio a 98 e debba essere offerto dal consorzio ai capitalisti a 99 in pubblica sottoscrizione. Ciò vuol dire:

 

 

  • a) il consorzio assume il prestito e si obbliga a versare allo Stato il 98 per cento dell’ammontare nominale di esso, ossia 980 milioni di lire;
  • b) il consorzio dovrà offrire ai capitalisti il prestito al prezzo di 99 lire per ogni cento nominale;
  • c) rimane determinato nell’1% ossia in dieci milioni di lire il lucro massimo che il consorzio potrà ricavare dall’opera sua di intermediazione.

 

 

Massimo si disse, poiché da un lato il pubblico è sicuro di non dover pagare più di 99 lire e dall’altro può darsi che esso non assorba a 99 tutto il prestito e ne lasci una parte tra mani al consorzio, il quale dovrà alienarla in seguito al miglior prezzo che per esso si potrà.

 

 

L’abilità dei governanti sta appunto nel ridurre al minimo lo scarto tra il prezzo di vendita ai banchieri ed il prezzo di rivendita ai capitalisti. Con questo sistema, siccome i banchieri intermediari possono speculare solo sullo scarto e non sul prezzo totale, diventa per essi meno grande l’interesse di ribassare il prezzo di emissione. Ad essi importa solo che si fissi un prezzo non più alto di quello a cui essi prevedono tutto il prestito possa essere assorbito dai capitalisti; ma, determinato colla loro esperienza questo prezzo, essi non hanno interesse ad indurre lo Stato a fissare un prezzo ancor più basso. Poiché un titolo, il quale venisse svenduto al pubblico, incontra più diffidenza che sfiducia; i capitalisti essendo sempre tratti a diffidare di un titolo che viene offerto ad un prezzo che pare troppo basso.

 

 

Il sistema, che ora si è descritto, dicesi della pubblica sottoscrizione con garanzia di un consorzio assuntore ed è una fusione degli altri due metodi. Di volta in volta le modalità possono mutare, qui bastando avere indicato le linee generali del metodo che solitamente viene con successo seguito nelle più importanti emissioni di prestiti pubblici.

 

 

691. Il problema della ripartizione dei titoli offerti fra i sottoscrittori, nel caso che la somma sottoscritta superi l’offerta. Inconvenienti della ripartizione pro rata. – Ma le norme più importanti riguardo alle pubbliche sottoscrizioni sono quelle che hanno tratto alle diverse maniere di ripartizione dei titoli tra i sottoscrittori. È ben difficile invero che alla offerta di un miliardo di lire di titoli da parte dello Stato risponda precisamente la richiesta di un miliardo da parte dei capitalisti. Qualche volta sarà inferiore ed il più spesso superiore. Il caso che i capitalisti sottoscrivano solo una parte del miliardo di lire di titoli offerto dallo Stato può verificarsi, sovratutto quando trattasi di uno Stato secondario, a finanze avariate o non ben conosciuto nel mercato finanziario o quando l’annuncio del prestito e l’apertura della sottoscrizione cadono in momenti di tensione del mercato, di numerose e pressanti richieste di denaro.

 

 

Siccome è probabilissimo che in siffatte circostanze il prestito sia stato assunto da un consorzio bancario, questi, dopo soddisfatte intieramente le richieste dei sottoscrittori, dovrà accollarsi il resto, salvo a vendere i titoli assunti a poco a poco in prosieguo di tempo.

 

 

Il problema più difficile da risolvere si ha quando le sottoscrizioni superano l’ammontare di titoli offerto in vendita dallo Stato. Suppongasi che contro un’offerta di un miliardo di lire, vi sia una richiesta di titoli da parte dei sottoscrittori di 2 miliardi di lire. Come verranno soddisfatte le domande dei capitalisti, dato che intieramente non è possibile soddisfarle? Il metodo più semplice sarebbe quello che consiste nel ridurre proporzionalmente tutte le sottoscrizioni, in guisa da eguagliare la quantità offerta in vendita dallo Stato; nel caso nostro dovendosi ridurre tutte le sottoscrizioni del 50% così da consegnare ai capitalisti solo quel miliardo di titoli che si vuol collocare. Chi ha sottoscritto per 1.000 lire, riceverà un titolo da 500 lire; chi ha sottoscritto per 10.000 riceverà 5.000, chi per 500.000 riceverà 250.000 lire e così via. Il metodo di ridurre proporzionalmente di 1/10, 1/3, 1/2, 2/3, 3/4 od altra opportuna misura tutte le sottoscrizioni è il più semplice e sembra altresì il più conveniente per lo Stato, poiché, senza disparità di trattamento tutti i desideri vengono egualmente soddisfatti nei limiti del possibile.

 

 

In realtà il metodo non è conveniente; poiché non tiene conto dell’indole diversa delle grosse e delle piccole sottoscrizioni. Il grosso capitalista, meglio dicasi il banchiere od intermediario, il quale conosce il mercato e sa che al prestito sarà riservata una accoglienza favorevole, sicché vi è speranza quasi sicura di potere subito rivendere a 100 ciò che si è avuto per sottoscrizione a 99 lire, che cosa fa? Volendo ottenere 1.000.000 lire di titoli sottoscrive per 2.000.000 lire, forse anche per 3 o 5, talvolta persino per 10 milioni di lire, se prevede che il successo sarà grandioso.

 

 

Seguendo l’esempio già fatto, contentiamoci di una sottoscrizione di 2.000.000 lire. Alla resa dei conti, siccome si verificherà che le sottoscrizioni raggiunsero i 2 miliardi di lire, contro un’offerta di titoli di 1 miliardo, tutte le sottoscrizioni saranno ridotte alla metà; ed anche il nostro grosso capitalista vedrà ridotta la sua sottoscrizione da 2.000.000 ad 1.000.000 lire. Ma 1.000.000 lire era appunto la somma da lui desiderata; ad ottenere la quale egli aveva artificiosamente raddoppiata la sua apparente sottoscrizione, ben sapendo che i colleghi suoi e le altre banche avrebbero fatto altrettanto.

 

 

Costoro, ingrossando sulla carta le loro sottoscrizioni, ottengono altresì l’effetto di tenere indietro i medi ed i piccoli sottoscrittori, i quali vorrebbero sul serio tenere i titoli sottoscritti. Il medio capitalista il quale ha 100.000 lire e vorrebbe investirle nei titoli offerti dallo Stato non osa aumentare la sua sottoscrizione a 200.000 lire, anche se, prevedendo che l’esito del prestito sarà brillante, tema una riduzione. Egli, che non conosce a fondo il mercato, ha timore di essere preso sulla parola e di vedersi assegnate tutte le 200.000 lire sottoscritte, nel qual caso si troverebbe, possedendo solo 100.000 lire, in imbarazzo, non sapendo come ritirare le restanti 100 mila lire. Il grosso capitalista od un banchiere non ha di queste preoccupazioni, perché sottoscrive a ragion veduta; ed ove anche le sue previsioni non si realizzino compiutamente ha sempre modo di collocare tra la sua clientela le partite esuberanti assegnategli. Il medio capitalista non saprebbe come uscire dall’imbroglio e non osa sottoscrivere per molto più della somma realmente posseduta. Forse, egli si spingerà sino a 120.000 lire; sicché riceverà la metà ossia 60.000 lire, e cioè sempre 40.000 lire di meno della somma per lui disponibile.

 

 

Il piccolo capitalista, il quale possiede solo 10.000 o 1.000 lire non si azzarderà a sottoscrivere per una somma maggiore della posseduta. Gli parrebbe di correre una gravissima alea e di mettersi in imbarazzi senza fine; sicché egli riceverà solo 5.000 o 500 lire di titoli, rimanendogli ancora altrettanto capitale disponibile.

 

 

L’esempio ora fatto era impostato sull’ipotesi moderata che le sottoscrizioni giungessero al doppio dell’offerto e dovessero perciò tutte ridursi alla metà. Ma accade non di rado che le sottoscrizioni siano 10, 20, talvolta 50 e persino 100 volte superiori all’offerto. Basta che i più grossi istinti bancari e di assicurazione si accordino per elevare enormemente le sottoscrizioni sulla carta, perché il piccolo capitalista venga messo inesorabilmente da parte o tutto il prestito venga assorbito dai grossi sottoscrittori. Notisi ancora, a spiegare meglio le difficoltà per i piccoli e medi capitalisti, che di solito viene richiesto ai sottoscrittori il versamento di una frazione, spesso una quinta o quarta parte della somma sottoscritta. Sia l’anticipo richiesto di un quinto. Il piccolo capitalista sottoscrive per 10.000 lire e deposita 2.000 lire. Anche se volesse, non potrebbe elevare la sua sottoscrizione apparente a più di 50.000 lire, perché dovrebbe depositare più di 10.000 lire ed egli non ha di più. Le grandi banche possono anche sottoscrivere le 20 o le 50 o le 100 volte la somma realmente desiderata trattandosi soltanto di disporre per pochi giorni di una parte dei loro fondi di cassa; onde facile riesce ingrossare enormemente le sottoscrizioni. Supponiamo che queste riescano 50 volte superiori al richiesto. La banca che voleva 1 milione ed ha sottoscritto per 50 milioni – depositando 10 milioni che gli sono subito dopo pochi giorni restituiti – ottiene un cinquantesimo del sottoscritto, ossia appunto il milione che voleva.

 

 

Il piccolo capitalista, inoltre, il quale voleva avere per 10.000 lire di titoli e sottoscrisse per 10.000 lire o forse per 20.000 lire – ma gli parve di aver fatto un salto nel buio e stette per alcuni giorni in affanno per la paura di essere preso sul serio – riceverà un cinquantesimo di 10.000 o 20.000 lire, ossia 200 o 400 lire. Ossia una quantità piccolissima di titoli, che gli è inservibile, obbligandolo alla stessa fatica di sorveglianza come una partita assai più grossa e che egli si affretterà, disgustato, a vendere, ove lo possa fare senza perdita.

 

 

Quando sui giornali si legge di un prestito pubblico brillantemente riuscito, in cui l’ammontare offerto in vendita fu coperto 10, 20, o 50 volte dalle sottoscrizioni, si può essere quasi sicuri che nell’interesse pubblico un successo meno brillante sarebbe stato più opportuno e che le sottoscrizioni furono artificiose e volute dai grossi capitalisti e dalla banche per assorbire tutto il prestito e tenerne lontani i medi ed i piccoli capitalisti. I quali, chiusa la sottoscrizione, dovranno andare dagli intermediari ad acquistare ad 1 o 2 lire di più per cento i titoli che non poterono ottenere direttamente dallo Stato; e spesso, ammaestrati dall’esperienza, non si recano neppure a sottoscrivere, ma aspettano di potere acquistare dal banchiere, di cui sono clienti, la quantità desiderata di titoli, sia pure ad un prezzo alquanto maggiore. E si deve conchiudere che siffatto modo di ripartire i titoli, in guisa cioè egualmente proporzionale per tutti, non è conveniente per l’erario in quanto raggiunge precisamente l’effetto opposto a quello voluto, che è di «classare» subito i titoli tra i detentori loro effettivi.

 

 

692. Metodo della riduzione crescente col crescere dell’ammontare delle singole sottoscrizioni, ossia della preferenza alle piccole sottoscrizioni. Come questo avvedimento si possa eludere. – A scansare il danno ora descritto fu immaginato ed è seguito spesso un avvedimento: che è di variare la ragione della riduzione, facendola piccola o nulla per le piccolissime sottoscrizioni e crescendola a mano a mano che l’ammontare delle sottoscrizioni unitarie aumenta. Così:

 

 

 

Ammontare unitario delle sottoscrizioni

Numero delle sottoscrizioni

Somma totale sottoscritta in ogni categoria

Quota percentuale assegnata ad ogni categoria

Somma totale ripartita

  Lire   Lire   Lire
1

1.000

200.000

200.000.000

100%

200.000.000

2

5.000

100.000

500.000.000

40%

200.000.000

3

10.000

70.000

. 700.000.000

20%

140.000.000

4

100.000

10.000

1.000.000.000

17%

170.000.000

5

1.000.000

1.000

1.000.000.000

15%

150.000.000

6

2.000.000

500

1.000.000.000

10%

100.000.000

7

5.000.000

100

500.000.000

7%

35.000.000

8

10.000.000

10

100.000.000

5%

5.000.000

 

381.610

5.000.000.000

1.000.000.000

 

 

Sia il prestito di 1 miliardo; e siano le sottoscrizioni tante come è scritto nella tabella, in modo che il totale giunga a 5 miliardi di lire 200.000 sottoscrizioni da 1.000 lire l’una, con un totale sottoscritto di 200 milioni, 100.000 da 5.000 lire l’una con un totale di 500 milioni e così via. Poiché le sottoscrizioni totali giungono a 5 miliardi e lo Stato ha bisogno di 1 miliardo solo, dovrebbesi operare una riduzione ad un quinto di tutte le sottoscrizioni; ma per scampare il pericolo detto dianzi, si delibera di accogliere intieramente le piccolissime sottoscrizioni, quelle da 1.000 lire l’una; ed a questi minimi capitalisti si dà tutto ciò che desiderano, lieto essendo lo Stato di circondarsi di una corte fedele di piccoli creditori, oramai interessati alla sua prosperità. Ai sottoscrittori di 5.000 lira si dà il 40% del richiesto; ed il 20% ai sottoscrittori di 10.000 lire, il 17% a quelli di 100.000 lire, il 15% a quelli di 1 milione, sempre decrescendo e finalmente il 10% a quelli di 2 milioni, il 75 a quelli di 5 milioni e solo il 5% a quelli che chiesero 10 milioni di titoli. Le proporzioni naturalmente sono puramente ipotetiche ed addotte a scopo d’illustrazione.

 

 

Spesse volte, siffatto metodo ha fatto buona prova ed ha veramente contribuito a far pervenire i titoli di debito pubblico a quei capitalisti, sovratutto piccoli e medi che li desideravano come investimento permanente dei loro risparmi, impedendo che li accaparrassero i grossi capitalisti ed i banchieri, i quali li volevano solo per rivenderli a più alto prezzo.

 

 

La riuscita dell’avvedimento non è sempre stata però egualmente compiuta.

 

 

Infatti può ammettersi, sebbene il gioco sia abbastanza scabroso, che il capitalista grosso, il quale prevede che il prestito in media sarà sottoscritto cinque volte, moltiplichi non per 5 ma per 10 o 20 la sua sottoscrizione, allo scopo di eliminare il danno della più forte riduzione operata su di lui che sui piccoli sottoscrittori. Gioco pericoloso, per le complicate previsioni a cui dà origine, ma non impossibile.

 

 

E sovratutto nulla vieta che i capitalisti grossi cerchino di eludere la norma ora indicata, ripartendo le proprie grosse sottoscrizioni in molte piccole e facendole eseguire da proprii impiegati, commessi, fattorini, famigli ed altri cosiffatti fittizi sottoscrittori. La creazione di cosidette teste di legno è largamente usata in simili circostanze; ed il governo, il quale crede favorire i piccoli sottoscrittori, in realtà favorisce le teste di legno mandate innanzi dagli accorti intermediari.

 

 

693. Il metodo della preferenza alle sottoscrizioni a corso più elevato. Perché esso sia il più conveniente per lo Stato. – Più efficace pare sia un altro metodo, che nelle emissioni compiute a Londra è abbastanza frequente; ed è di favorire non le piccole sottoscrizioni ma le sottoscrizioni fatte a più alto corso. Il governo annuncerà che nel tal giorno accetterà sottoscrizioni a un prestito di 1 miliardo di lire al 45 ad un prezzo non inferiore a 98; e preferirà nella ripartizione quei sottoscrittori i quali offriranno un prezzo più elevato. Sia il seguente il risultato ottenuto:

 

 

 

Numero dei sottoscrittori

Prezzo offerto

Quantità sottoscritta

Quantità ripartita

Somma effettiva incassata

 

 

Lire

Lire

Lire

Lire

1

20.000

99.50

100.000.000

100.000.000

99.500.000

2

30.000

99.30

120.000.000

120.000.000

119.160.000

3

50.000

99

250.000.000

250.000.000

247.500.000

4

70.000

98.75

300.000.000

300.000.000

296.250.000

5

100.000

98.50

500.000.000

230.000.000

226.550.000

6

200.000

98

1.000.000.000

 

2.270.000.000

1.000.000.000

988.960.000

 

 

I sottoscrittori si divisero in parecchie categorie. Gli uni, per la paura di essere scartati, si spinsero sino ad offrire il 99.505 del prezzo nominale e la loro sottoscrizione fu tutta accettata; e così pure quella di coloro che offersero 99.30 o 99 o 98.75. Una quinta categoria di sottoscrittori si spinse solo ad offrire il prezzo di 98.50 e sottoscrisse per 500 milioni di lire. Ma poiché le categorie precedenti avevano da sole già assorbito 770 milioni dei 1.000 offerti in sottoscrizione, poterono a questa quinta categoria ripartirsi solo i restanti 230 milioni sui 500 richiesti, il 46 per cento. E con questi essendo stato completato il miliardo, i restanti sottoscrittori della sesta categoria, che si erano limitati ad offrire il prezzo di 987 che il governo aveva messo come minimo alla accettazione delle offerte, dovettero rinunciare ad ogni assegnazione.

 

 

Qual è il fondamento di questo metodo? Il fatto che i sottoscrittori non si ripartano a caso lungo la serie dei prezzi offerti oltre il 98. Il prezzo più alto è offerto da quei capitalisti i quali vogliono ad ogni costo assicurarsi il titolo alla sottoscrizione per non doverlo comprare in seguito in borsa ad un prezzo ancora più alto. Codesta è gente che, per definizione, compra per tenere e non per rivendere; in quanto ché la compra fatta coll’intenzione della rivendita suppone che si compri a prezzo relativamente basso per poter rivendere a prezzo più alto. Ma se già si compra a prezzo alto, a 99.50, è esclusa la possibilità e quindi la intenzione di rivendere con lucro. Noi perciò possiamo essere sicuri che il sottoscrittore della prima categoria è un capitalista, il quale vuole investire risparmi in modo permanente.

 

 

All’altro capo della serie, vi è il sottoscrittore che offre appena 98, ossia il minimo al disotto di cui le offerte non sarebbero accettate dallo Stato. Costui sottoscrive probabilmente nella speranza di ottenere un riparto e di rivendere a 98.50, a 99 o più il titolo che ha ottenuto a 98.

 

 

Il sottoscrittore a prezzo basso è l’intermediario il quale vede la possibilità di un margine di lucro e solo per la speranza di ottenerlo si decide a sottoscrivere.

 

 

Siccome noi sappiamo che lo Stato ha interesse a prediligere il primo tipo di sottoscrittori in confronto all’ultimo, il piano di ripartizione ora descritto appare logico ed efficace. E con esso si ottiene un altro risultato utile al pubblico erario: che è di tastar sul serio il polso al mercato ed indurre i capitalisti ad offrire il prezzo massimo che ognun di essi è disposto a pagare. È questa una applicazione elegante della teoria dei prezzi multipli, (cfr. par. 74/77) fondata sul sentimento della paura di essere scartati nella ripartizione di un bene, che nel caso nostro è il titolo di debito pubblico. Lo Stato, che, col prezzo unico di 98, avrebbe ricavato solo 980 milioni di lire dalla vendita dei suoi titoli e, per di più, avrebbe fatta la vendita a capriccio, senza sapere se attribuiva i titoli a coloro che sono per lui i clienti più desiderabili, con questo sistema incassa 988.960.000 lire, ossia quasi 9 milioni di lire di più, ed inoltre è sicuro di aver ripartito i suoi titoli a preferenza tra coloro che maggiormente li desideravano per tenerli e cotale loro desiderio manifestavano in modo serio, anzi nel solo modo serio con cui si manifestano i desideri più intensi, ossia coll’offerta di un prezzo maggiore. Adunque questo pare sia l’ottimo tra i sistemi i quali possono essere seguiti nel ripartire i titoli in occasione di sottoscrizioni esuberanti.

 

 

694. Il metodo delle sottoscrizioni «chiuse o serrate». – Un metodo, che però non esclude quello precedente, è usato spesso in Germania, e consiste, a parità di prezzo offerto, a preferire le sottoscrizioni di coloro che si obbligano a non vendere il titolo acquistato per un certo lasso di tempo, ad es. un anno o due. Questo avvedimento ha sempre per iscopo di impedire che il mercato dei titoli pubblici sia perturbato da una insolita e notevole affluenza di nuovi titoli sul mercato che vengono a fare concorrenza ai vecchi. Quasi mai le sottoscrizioni «chiuse», come esse vengono dette, assorbono l’intiero ammontare del prestito; ma solo, si supponga, 200 su 500 milioni. In tal modo il mercato sopporta per ora il peso dei 300 milioni di titoli «liberi» i quali possono formare oggetto di contrattazioni; e solo quando questa prima parte si sia classata, vengono liberati i 200 milioni di titoli che sono rimasti «chiusi» o «serrati» per un anno o due; ma il loro giungere sul mercato non esercita più la stessa pressione che si sarebbe avuta se tutti i 500 milioni fossero stati insieme e subito liberati. E v’è ragion di preferire il capitalista, il quale si sottopone all’obbligo della «serrata» essendovi una forte presunzione che egli sia un capitalista vero e proprio, il quale vuol fare un investimento permanente. Un intermediario non chiude sicuramente sotto chiave i suoi capitali per un anno o due.

 

 

695. Vendita diretta al pubblico agli sportelli degli uffici dello Stato. – Condizioni del successo di questo metodo. – Prima di abbandonare quest’argomento dei metodi di emissione o collocamento dei titoli nel pubblico, è d’uopo ancora far cenno d’un sistema molto usato in Francia dallo Stato e dalle grandi compagnie ferroviarie e non inusitato in Italia.

 

 

Vuolsi accennare al metodo della vendita diretta al pubblico, senza intermediario e senza pubblica sottoscrizione. Lo Stato, il quale è autorizzato ad emettere 100 milioni di rendita 3 1/2 dello stesso tipo di quella già in corso o 100 milioni di obbligazioni ferroviarie 3% uguali a quelle già quotate, rende noto che i capitalisti potranno, fino ad esaurimento del disponibile, recarsi presso le sue sezioni di tesoreria, presso gli uffici di posta, ecc. ad acquistare quei titoli al prezzo corrente in borsa nel giorno della sottoscrizione.

 

 

Senza spese, senza provvigioni, senza la solennità delle pubbliche sottoscrizioni, lo Stato vende i nuovi titoli alla spicciolata al pubblico che si reca ad acquistarli, al prezzo del giorno.

 

 

Metodo ottimo, quando concorrano alcune condizioni:

 

 

  • a) che non vi sia urgenza di incassare l’ammontare del prestito; poiché colla vendita alla spicciolata non si sa quanto tempo farà d’uopo per vendere tutti i titoli disponibili. È vero che lo Stato può accelerare le vendite, col farne ogni giorno offrire alcune partite in borsa per mezzo di suoi agenti di cambio; e se le partite non saranno grosse e sapientemente dosate tra le diverse borse dello Stato, i corsi non ne soffriranno sensibilmente. Tuttavia trattasi sempre di metodo che è opportuno seguire a preferenza nei tempi di calma e di pace, quando si possono sospendere le vendite nei giorni di ribasso o di fiacco andamento dei corsi di borsa e riprenderle nei momenti di ripresa;
  • b) che non si tratti di somme molto forti. Non senza ragione si è addotto l’esempio di un prestito di 100 milioni. È facile vendere in questo modo tranquillo e quasi casalingo una o poche centinaia di milioni di lire di titoli; sarebbe assai più arduo collocare un prestito di un miliardo. Per questo giova assai la pubblicità delle sottoscrizioni aperte a giorno fisso, l’interessamento di un consorzio bancario, che consiglia il titolo alla propria clientela, gliene spiega i vantaggi, la spinge all’acquisto. Invece, dovendo collocare solo 100 milioni, si può aspettare che i capitalisti vadano da sé, senza alcuna opera di persuasione, a farne domanda;
  • c) finalmente occorre che si tratti di un titolo già noto al pubblico dei capitalisti. Costoro non vanno, da sé, agli sportelli del tesoro a chiedere un titolo nuovo, non quotato in borsa. Diffidano e si astengono; salvo che in una pubblica sottoscrizione siano loro dimostrati i vantaggi della nuova maniera di investimento. Ma se si tratta di un titolo dello stesso tipo dei titoli vecchi, già conosciuti e quotati in borsa, per es. rendita italiana 3 1/2 per cento, molti vi sono i quali preferiranno all’acquisto in borsa la sottoscrizione diretta agli uffici pubblici. Risparmiano la mediazione dell’agente di cambio; nelle piccole città e nei villaggi, che provvedono così numerosa clientela ai titoli di Stato, dove non esistono borse od agenti di cambio, la possibilità di fare acquisti diretti in tesoreria e per mezzo dell’ufficio postale è una comodità, di cui molti risparmiatori vorranno servirsi.

 

 

Laonde si spiega come, in tempo di pace e per prestiti poco importanti, codesto sia un metodo utilmente seguito.

 

 

696. Pagamento delle sottoscrizioni in parecchie rate successive. Convenienza di un primo versamento non troppo esiguo. – Allo scopo di agevolare le sottoscrizioni ai capitalisti, conviene allo Stato stabilire che l’ammontare sottoscritto sia versato in parecchie rate successive, ragionevolmente scaglionate lungo un dato lasso di tempo. Invece di far pagare ai capitalisti tutte le 10.000 lire sottoscritte, si chiedono solo 2.500 lire e le altre 7.500 si fanno pagare in tre rate a distanza di tre mesi l’una dall’altra. In tal modo il capitalista, il quale oggi ha disponibili solo 2.500 lire e potrebbe sottoscrivere solo per questa somma, se il versamento fosse unico ed immediato, può sottoscrivere per 10.000 lire, poiché sa che nel lasso di tempo stabilito egli incasserà i fitti dei suoi terreni o delle sue case, od avrà altri redditi capitalistici o personali, che gli permetteranno il risparmio di altre 7.500 lire, con le quali potrà far fronte ai suoi impegni. Notisi che i risparmi d’un paese sono in continua formazione ed a mano a mano si formano, vengono impiegati.

 

 

Sicché il fondo di risparmio disponibile nel paese nel momento in cui lo Stato lancia un prestito di un miliardo può essere solo di 300 milioni; ed il prestito non potrebbe essere sottoscritto per intiero se si pretendesse il versamento immediato. Ma continuamente si formano nuovi risparmi; i quali possono dai risparmiatori essere anticipatamente impegnati per il prestito, ove si dia loro un sufficiente lasso di tempo per effettuare i versamenti.

 

 

La ripartizione dei versamenti in parecchie rate è dunque un fattore spesso indispensabile di successo del prestito; ed è anche adatto per lo più all’indole della spesa straordinaria che si tratta di sopportare; poiché nessuna spesa si può compiere in un attimo, occorrendo un certo tempo prima ché lo Stato abbia fatto gli acquisti di materiale bellico o ferroviario, approntato i disegni, date le ordinazioni, ricevute e collaudate le consegne, ordinati ed eseguiti i pagamenti. Cosicché nessun nocumento, salvo il caso di spese urgentissime di guerra, risente lo Stato per ritardo; anzi risparmia interessi.

 

 

Un solo rimprovero si può fare col metodo dei versamenti frazionati in parecchie rate; ed è di facilitare le sottoscrizioni degli intermediari. I quali sono, anch’essi, come i capitalisti veri, agevolati dal dover versare solo un anticipo, onde crescono a dismisura la cifra delle loro sottoscrizioni affine di poter assorbire la più parte dei titoli offerti in vendita.

 

 

Ad impedire il quale danno, giova che il primo versamento da farsi all’atto della sottoscrizione, non sia troppo esiguo; poiché se si chiedesse solo il 5% della somma sottoscritta si faciliterebbe assai l’opera degli intermediari, che sono invece meglio tenuti a freno da una richiesta del 15 per cento. Giova altresì la adozione delle norme che furono sopra esposte e che sono intese a tener lontani dalle sottoscrizioni i puri intermediari.

 

 

Sezione ottava.

Delle emissioni all’interno o all’estero dei prestiti pubblici.

 

697. Soluzione del problema dal punto di vista economico: i prestiti all’estero sono convenienti se fatti ad interesse minore che all’interno. – Tra le modalità discusse dei pubblici prestiti vi è pur quella della convenienza di farli piuttosto all’interno che all’estero. Il problema ha molti aspetti che si potrebbero, per brevità, riassumere in due: economico e politico.

 

 

La soluzione economica del problema fu già data sopra (cfr. par. 588), quando si disse che la possibilità di contrarre prestiti all’estero accentuava i vantaggi del metodo del debito pubblico sul metodo dell’imposta straordinaria. Supponiamo che il credito di uno Stato sia tale che possa trovare le somme occorrenti a mutuo all’interno al 4%. Tre ipotesi si possono dare rispetto al tasso dell’interesse a cui si potrà conchiudere l’uguale prestito all’estero: o l’interesse sarà uguale, ed in questo caso sarà indifferente la scelta tra i due metodi o maggiore, per es. il 5% e converrà piuttosto contrarlo all’interno, ovvero minore, come il 3% e converrà senza dubbio conchiudere il prestito all’estero. Poiché un prestito di 1 miliardo al 4% costa per interessi, 40 milioni di lire all’anno sarebbe assurdo che i governanti assurdo contrarlo all’interno quando all’estero si può avere il mutuo al 3% con un onere di soli 30 milioni di lire all’anno. Trattasi di scegliere il metodo che meno costa ai contribuenti per l’imposta – interessi che ogni anno essi dovranno pagare per il servizio dei debiti; e poiché i governanti hanno il mandato di provvedere ai pubblici servigi col minor onere possibile dei contribuenti, essi tradirebbero la fiducia in essi riposta dai loro mandanti, se scegliessero il metodo il quale costa 50 invece di 40, ovvero 40 invece di 30 milioni di lire all’anno.

 

 

La possibilità di contrarre all’estero al 3% il mutuo per cui all’interno occorrerebbe pagare il 4% ha un significato economico indubbio in caso di mercati economici intercomunicati, ossia quando il capitale può liberamente spostarsi dall’estero all’interno e viceversa in cerca della maggiore renumerazione possibile. Se i capitali esteri chiedono solo il 3%, mentre i capitalisti interni pretendono il 5%, ciò non può spiegarsi per il fatto che i tassi di interesse in genere siano diversi nei due paesi.

 

 

Ciò contrasterebbe con l’ipotesi ora fatta che i due mercati siano intercomunicanti; poiché, essendolo, al tasso dell’interesse deve essere necessariamente uguale, ostando ad una o qualunque differenza la facilità di trasferire i capitali dal paese dove ricevono rimunerazione più bassa a quello dove la rimunerazione è più elevata. L’unica spiegazione che si può dare della differenza di tasso a cui lo Stato trova a far prestiti all’interno e all’estero, in tal ipotesi è la seguente: che i capitalisti esteri abbiano maggior fiducia in esso dei capitalisti nazionali. Se così stanno le cose sarebbe assurdo che lo Stato si ostinasse a ricorrere ai buoni uffici di coloro che apertamente per tal modo dimostrano di non avere in esso fiducia; e diventa non solo economicamente conveniente ma doveroso ricorrere all’estero per dimostrare col fatto ai capitalisti nazionali che la loro sfiducia è irragionevole[7].

 

 

Di solito però la differenza tra il tasso di interesse più alto preteso all’interno e più basso all’estero non dipende da questa causa; la quale può aver forza solo in circostanze eccezionali di un governo inviso alle classi danarose, le quali sarà bene ridurre a governo inviso alle classi danarose, le quali sarà bene ridurre a ragione dispensandosi di ricorrere alle loro grazie. Più spesso, anzi quasi sempre la differenza nasce dal fatto che i due mercati capitalistici, interno ed estero, non sono perfettamente tra loro comunicanti; onde il tasso dell’interesse per tutti i debitori e non solo per quel singolo Stato è più basso all’estero che all’interno. In questa ipotesi, che è la normale, il ragionamento fatto dapprima ha pieno valore. Nessuna ragione economica può essere profferita, la quale valga a scrollare la verità del principio: essere conveniente e doveroso verso i contribuenti contrarre il prestito all’estero al 3% piuttosto ché all’interno al 4%.

 

 

698. Ipotesi di un mercato chiuso interno in cui il tasso dell’interesse per i prestiti pubblici sia più basso che all’estero: i prestiti all’interno sono convenienti alla generalità soltanto se a breve scadenza. – Con l’enunciazione della quale verità il problema sarebbe risoluto dal punto di vista economico e si potrebbe senz’altro passare a discuterlo sotto l’aspetto politico per vedere quali correzioni si debbano portare, a cagione del fattore politico, alla soluzione data. Ma importa prima discorrere ancora di taluni casi particolari, che hanno natura economica ed importa anche sbarazzare il terreno da certi fattori sentimentali o «verbali» i quali offuscano la netta visione del fenomeno.

 

 

E prima si osservi che il fatto dell’essere all’interno il tasso dell’interesse vigente del 4%, mentre all’estero è del 5%, dimostra che il paese ha abbondanza di capitali disponibili e questi non trovano ad impiegarsi con sicurezza a più del 4%; mentre all’estero i capitali sono più scarsi e per l’uso di essi si deve pagare il 5%. Sarebbe assurdo che un paese ricco di capitali andasse a farseli imprestare da un paese, dove essi scarseggiano.

 

 

Può darsi tuttavia che la tenuità relativa del tasso dell’interesse all’interno sia dovuta a circostanze particolarissime, per le quali diventa dubbia la conclusione ora affermata. Suppongasi invero che diventa dubbia la conclusione ora affermata. Suppongasi invero che nello Stato i capitalisti, per dolorose esperienze recenti, si siano disamorati degli impieghi in azioni od obbligazioni industriali, commerciali o bancarie, che essi ignorino la possibilità di impiegare i propri risparmi in titoli esteri altrettanto sicuri come i titoli nazionali e fruttanti il 5% o più, che essi non abbiano fiducia nei titoli esteri, perché di essi non avvengono quotazioni nelle borse nazionali, che gli investimenti in titoli esteri siano scoraggiati da speciali tasse di bollo che li colpiscono, quando tuttavia essi circolino, malgrado la mancata ammissione alle quotazioni di borsa. In siffatta ipotesi si sarà creato un mercato chiuso o quasi – chiuso di capitali, il quale durerà fino che duri lo stato di sfiducia o di ignoranza dei capitalisti. Ed in questo mercato chiuso i capitalisti avranno tendenza ad impiegarsi in titoli di Stato, pur quando l’interesse lucrato sia solo del 4%; mentre il tasso forse salirebbe al 5% quando si aprissero i canali comunicanti tra il loro mercato degli impieghi in titoli di Stato nazionali con il mercato degli impieghi in titoli di Stato nazionali con il mercato degli impieghi industriali interni o dei titoli esteri di Stato.

 

 

In queste condizioni, quale giudizio dovrà recarsi dei governanti, i quali preferiscono il prestito interno al 4% a quello estero al 5%?

 

 

Ragionando a breve scadenza, si dirà che essi hanno operato benissimo, non essendovi ragione alcuna di pagare il 5% quando vi sono capitalisti disposti a contentarsi del 4%. Si avvantaggia l’erario ed i contribuenti sono meno gravati d’imposta, cosicché i governanti hanno adempiuto al mandato loro.

 

 

Può dubitarsi tuttavia se le conseguenze abbiano ad essere alla lunga ugualmente buone. Non può presumersi invero che la sfiducia dei capitalisti riguardo agli investimenti industriali interni duri a lungo; né che il mercato interno rimanga separato da una barriera insormontabile dai mercati esteri dei capitali. Col progredire dell’educazione economica dei capitalisti, questi imparano a scegliere all’interno tra le azioni od obbligazioni buone e quelle cattive, e sono attratti dagli impieghi esteri più lucrativi e sicuri. Perciò si avveggono che farebbero una conveniente operazione, vendendo titoli i quali fruttano il 4% per acquistarne altri, i quali rendono il 5%. Ma per vendere i titoli 4%, occorre capitalizzarli su una base che sia conveniente ai compratori d’oggi; e poiché il tasso dell’interesse è ora aumentato al 5% un titolo che rende 4 lire non può essere venduto a 100 lire ma soltanto ad 80 lire. Qui si vede quale sia l’effetto della emissione all’interno, in un periodo in cui il tasso dell’interesse è ivi, per circostanze eccezionali di mercato chiuso ad altri investimenti mobiliari ed aperto solo ai titoli di Stato, del 4%, mentre il tasso normale estero è del 5% e quando sia trascorso il momento eccezionale; e questo effetto si è la perdita di una parte del valor capitale dei titoli di Stato è acquistati dai capitalisti.

 

 

Siccome sembra scorretto che i governanti, i quali si può supporre siano in grado di prevedere il corso di questi avvenimenti, possano vendere a 100 lire un titolo 4% il quale far pochi anni varrà solo 80 lire e d’altro canto non v’è ragione per cui lo Stato non debba profittare di questa momentanea inclinazione dei capitalisti interni a fargli il desiderato mutuo al 4%, così sembra che la soluzione corretta stia nella promessa da parte dello Stato di rimborsare ai capitalisti interni il capitale mutuato a 100 lire, dopo un non lungo periodo di tempo, per es. 5 anni. Ecco un’altra delle ragioni, le quali spiegano i prestiti a breve scadenza (cfr. sopra par. 655). Passati i 5 anni o il tasso sarà ancora il 4%, ed il mutuo si rinnoverà su questa base, od è ribassato al 3% e rialzato al 5% e su queste nuove basi il mutuo sarà rinnovato, all’interno od all’estero a norma delle convenienze.

 

 

S’intende che bene opereranno i governanti, i quali con una opportuna legislazione torranno via tutti i vincoli che nello Stato sovra immaginato separano il mercato dei capitali mutuati allo Stato dal mercato degli investimenti industriali e dei mercati capitalistici esteri. Non ripeteremo qui le osservazioni e le dimostrazioni che ripetute volte demmo (cfr. par. 606-607 e 617-647) dei danni che alla collettività derivano dalla creazione di mercati chiusi in cui il tasso dell’interesse per i mutui privati, più basso di quanto naturalmente non sia in ogni luogo per la maggior fiducia che inspira il debitore «Stato». Onde sembra che la ricchezza collettiva cresca quando si tolga ogni vincolo o barriera di tal fatta ed i capitalisti abbiano acquistato la educazione economica ed insieme la possibilità di scegliere all’interno od all’estero gli impieghi più proficui e sicuri; e sembra altresì che sia compiuto dello Stato abolire ogni vincolo legislativo atto ad impedire la inter-comunicazione tra i diversi mercati interni ed esteri.

 

 

699. L’obbiezione che i prestiti conchiusi all’estero asservano il paese allo straniero ha carattere sentimentale o verbale. L’asservimento allo straniero è possibile solo in caso di malgoverno interno. – Un obbiezione si fa ai prestiti esteri, la quale non ha ancora carattere politico, ma puramente «verbale» o «sentimentale». Dicesi invero che uno Stato, il quale si indebiti verso capitalisti esteri, si asserva allo straniero; epperciò un prestito estero appare ripugnante ai più, perché sinonimo di asservimento allo straniero. Ma, ragionando, subito si vede che le parole «servaggio» od «asservimento» nel presente discorso sono tropi o traslati i quali fanno appello più all’immaginazione che al raziocinio. Il rapporto giuridico di mutuo non è invero un rapporto di servaggio; ma di interdipendenza reciproca, per cui si ignora quale dei due, creditore o debitore, sia maggiormente dipendente dall’altro. Il debitore deve pagare gli interessi e rimborsare a suo tempo il capitale; ma dall’altro canto il creditore ha prestato la somma capitale mutuata. Chi più interessato del creditore alla buona salute ed alla prosperità economica del debitore, poiché queste sono le guarentigie più sicure del suo credito? Le discorse correnti sulle gazzette quotidiane intorno alla disgraziata condizione dei debitori, in confronto ai creditori, dimostrano soltanto l’analfabetismo dei gazzettieri, i quali, nella loro beata ignoranza, immaginiamo che la delicata fabbrica del credito moderno sia paragonabile al rapporto di usura tra il piccolo prestatore di villaggio ed il povero contadino affamato della Sardegna o della Russia. Oggi, la cambiale ossia il riconoscimento di debito di un industriale o commerciante onesto e rispettato è una merce preziosa che le banche si disputano con accanimento. I debitori buoni sono ricevuti con ogni deferenza ed ossequio dai banchieri, i quali amano conservare la loro clientela; ed i banchieri diventano, forse, altezzosi e tirannici soltanto verso i debitori cattivi, i cui affari vanno male.

 

 

Connettere l’idea del «servaggio» al fatto del prestito estero significa, stortamente, supporre che tutti gli Stati siano cattivi debitori e come tali, debbano essere maltrattati ed asserviti dai prestatori di denaro. Il che non è. Essendovi Stati che sono buoni debitori od altri che sono cattivi. Da questi i capitalisti stranieri richiederanno garanzie umilianti (cfr. par. 882); mentre ai primi sono sempre disposti a fare ogni sorta di agevolezze, e ad essi nessuna altra garanzia si richiede fuori della parola data. Perciò si deve dire che il pericolo del servaggio non sta nel fatto del contrarre il debito all’estero; ma nell’eventuale mal governo interno.

 

 

Uno Stato ben governato non sarà mai asservito allo straniero anche se collocasse tutti i debiti all’estero mentre uno Stato mal governato sarà schiavo dello straniero conquistatore o dei tiranni interni, anche se avrà contratto all’interno tutti i suoi prestiti.

 

 

709. Le emissioni di prestiti all’estero sono indice di rigoglio economico, diminuiscono il carico dei contribuenti, e danno incremento alla ricchezza nazionale. Il rimpatrio dei titoli emessi all’estero. – Né si dica che il solo fatto del contrarre il debito all’estero è indice di cattiva situazione economica o finanziaria interna. Poiché, al contrario, di solito è indice della rigogliosa espansione dei paesi nuovi o da poco assurti a nuova vita industriale, i quali abbisognano, per progredire, del concorso del capitale straniero, essendo insufficiente il capitale nazionale. Alla stregua di coloro che si impressionano delle parole e non badano alla sostanza delle cose, il Canadà e gli Stati Uniti, l’India e l’Australia, il Giappone e la Cina, il Brasile e l’Argentina, la Russia e l’Egitto dovrebbero essere paesi decadenti od asserviti, solo perché si fecero imprestare miliardi dai capitalisti di Londra e di Parigi. Mentre, se taluno di essi ha perso la propria indipendenza, la perse per ragioni tutt’affatto diverse e precedenti; e l’afflusso di capitale straniero ha giovato a farli potentemente avanzare sulla via del progresso, e dar loro quella ricchezza e quella vigoria economica che gioveranno assai a conservare l’indipendenza che già possiedono o a farla loro riconquistare, se l’hanno perduta.

 

 

Né, in via normale, v’è da temere che lo Stato debitore, contraendo il prestito all’estero, per ciò stesso diventi impotente a far fronte ai suoi impegni e cada quindi sotto l’egemonia finanziaria e politica dello stato creditore. Poiché, al contrario, il debito estero, essendo stato contratto a più miti condizioni che all’interno, consente di ripartire un’imposta – interessi minore; ad es., 30 milioni di lire invece di 40 ogni anno. Sovratutto non depaupera il paese del suo capitale disponibile. Il nuovo risparmio interno, invece di investirsi al 4% in titoli di debito pubblico, cercherà altri investimenti interni più fruttiferi, agricoli, commerciali ed industriali, contribuendo così all’aumento della ricchezza nazionale, alla formazione di nuovo e più abbondante risparmio, il quale farà scendere anche all’interno il tasso dell’interesse per i valori pubblici dal 4 al 3%, rendendo conveniente il «rimpatrio» dei titoli di debito pubblico, prima alienati all’estero. Il quale «rimpatrio» altro non è che la logica conseguenza dello scomparire del divario tra i due tassi d’interesse, disdegnato il titolo di debito pubblico 3% del proprio Stato, perché egli poteva impiegare i proprii risparmi al 4% e più in investimenti agricoli od industriali, ora che – per l’aumento del nuovo risparmio prodotto dall’accresciuta ricchezza – non trova all’interno rimunerazione superiore al 3% volontieri ricompra dagli stranieri i titoli stessi e magari, per la maggiore fiducia che egli ha nei titoli «nazionali», è disposto a pagare 100 lire quel titolo che il capitalista estero valuta solo 99 lire. Onde lo straniero vende il titolo e questo «rimpatria».

 

 

701. Si dimostra come, dato che si debba conchiudere un prestito all’estero, sia più conveniente allo Stato che ai privati imprenditori contrarre siffatto prestito. – Può discutersi se ad un paese progressivo, il quale produce un miliardo all’anno di nuovo risparmio ed ha bisogno invece di 1 1/2 miliardi, di cui uno per nuovi investimenti privati e 1/2 per nuove imprese pubbliche, giovi maggiormente far chiedere in prestito sui mercati esteri il mezzo miliardo mancante dallo Stato o dai privati. Che un mezzo miliardo di lire manchi a compiere il fabbisogno annuo necessario a costruire nuove fabbriche private, a prosciugar paludi, a rimboschir montagne, a migliorare e crescere gli impianti ferroviari di Stato, ad attrezzare le colonie, si suppone sia cosa certa; ed è parimenti certo, che non producendosi abbastanza risparmio in paese è utile contrarre ogni anno un debito di mezzo miliardo all’estero. Trattasi di debito fecondo, intorno al punto se meglio convenga allo Stato od ai privati contrarre all’estero siffatto debito.

 

 

Per impostare esattamente il problema, giova premettere:

 

 

  • a) che all’interno lo Stato ottiene a prestito capitali al 4%; mentre ai privati debbono pagare il 4 1/2 %. Lo Stato è il debitore privilegiato, torniamo a ripeterlo, dei tempi moderni. Astrazion fatta da qualsiasi artificiosa creazione di un mercato chiuso a sotto-interesse, i capitalisti amano imprestare i loro risparmi più allo Stato, di cui conoscono i bilanci e in cui hanno fiducia per la puntualità dimostrata nel pagare gli interessi in passato, e che è ente imperituro, che ai privati i quali muoiono, invecchiano, imbizzarriscono, hanno figli degeneri, ecc. ecc.; sicché si spiega lo scarto, da noi supposto, di un mezzo per cento nei due tassi d’interesse;
  • b) che, per l’ipotesi originaria, lo Stato trova a mutuo all’estero ad un tasso inferiore che all’interno. Se così non fosse, all’interno la produzione del nuovo risparmio (1 miliardo) non sarebbe inferiore al fabbisogno per i nuovi investimenti (1 1/2 miliardo), e non si potrebbe ottenere il miliardo mancante con un prestito all’estero; dove, dunque, per definizione o logica premessa, i nuovi risparmi devono essere superiori ai nuovi investimenti, sì da consentire l’esportazione di mezzo miliardo di lire per soddisfare ai bisogni altrui. Supponiamo che lo Stato, il quale all’interno deve pagare il 4%, possa ottenere il prestito all’estero al 3%.

 

 

Fatte queste due premesse, quale supposizione faremo noi per il tasso dell’interesse a cui i privati riuscirebbero a farsi imprestare il mezzo miliardo all’estero? Fino ad un certo punto, colla sola clausola di non dire stravaganze, le precedenti ipotesi erano arbitrarie. Arbitrario supporre che lo Stato all’interno ottenesse mutui al 4 ed i privati al 4 1/2 % e che all’estero lo Stato trovasse denari al 3%. Avremmo potuto con altrettanta ragionevolezza supporre il 5 ed il 6% per l’estero; pur di conservare tra i due tassi la relazione reciproca sovra delineata. Non è però più arbitrario il tasso a cui i privati troveranno mutui all’estero; ma è una derivazione logica delle ipotesi precedenti. E cioè: dato che tra tasso pubblico e tasso privato esiste all’interno uno scarto del 1/2 %, quale sarà lo scarto che all’estero esisterà probabilmente fra i medesimi due tassi, per i medesimi debitori nazionali nostri? Sembra che lo scarto fra i due tassi per i prestiti esteri debba essere probabilmente maggiore del mezzo per cento, se questo era lo scarto per i prestiti interni. La ragione di ciò è chiara e plausibile. I capitalisti esteri conoscono lo Stato nostro[8], ma difficilmente conoscono le singole imprese industriali esistenti nello Stato. Se è vero che ogni capitalista ama piuttosto il titolo dello Stato proprio che il titolo dello Stato straniero, a maggiore ragione cioè si deve dire delle imprese nazionali in confronto alle imprese estere. Il capitalista apprezza il gazometro e la tranvia della propria città ed apprezza meno quelli d’una città lontana dallo stesso Stato, ed ancor meno le azioni di una analoga impresa di uno Stato straniero. Trattandosi di Stati civili, bene organizzati e bene amministrati, basta la differenza di 1/4 o di 1/2 per cento nel reddito in più dei titoli nazionali per rendere attraenti i titoli di uno Stato estero; ma nessun capitalista si decide ad investir capitali in un’azienda privata straniera solo per avere 1/4 od 1/2 per cento di più di reddito. I titoli di Stato hanno un mercato internazionale che li rende commerciabili ovunque; i titoli privati hanno un mercato locale che li rende negoziabili di solito solo nel paese di origine. Se nei mercati stranieri il tasso che basta a rendere appetibile il titolo di uno Stato è il 3%, sarà quasi impossibile che il tasso, a cui si riuscirà a vendere titoli privati sia inferiore al 4%. Non varrebbe la pena, per i capitali stranieri, di emigrare per ricevere una rimunerazione minore, sottoponendosi alle alee ed alle incertezze di imprese amministrate da sconosciuti e di legislazioni diverse da quelle nazionali. Nessuna difficoltà incontrerebbe lo Stato italiano a collocare, al tasso corrente di interesse, un prestito all’estero; ma una ben maggiore ne incontrerebbero le imprese italiane, i cui bilanci, il cui attivo patrimoniale sono assai meno noti di quanto non sia il bilancio dello Stato.

 

 

Pei capitalisti nazionali all’interno lo scarto tra il tasso dell’interesse pei prestiti allo Stato ed il tasso pei prestiti ai privati può essere solo del mezzo per cento, perché essi hanno bensì maggior fiducia nello Stato che nei privati, ma conoscono anche abbastanza bene questi privati, di cui sono vicini, di cui possono controllare la gestione, che sono sottoposti alle stesse leggi, agli stessi tribunali, ecc. Ma pei capitalisti esteri all’estero lo scarto fra il tasso dell’interesse pei prestiti allo Stato nostro ed il tasso dell’interesse pei prestiti alle imprese private nostre deve essere maggiore, perché essi conoscono bensì abbastanza bene lo Stato nostro ed in esso hanno fiducia, ma non conoscono affatto le nostre intraprese, salvo forse le maggiori di esse, le grandi società di trasporti, o di navigazione o di banca o di miniera, e per indursi ad imprestar loro denaro vogliono essere compensati per il rischio che essi immaginano di correre.

 

 

Non par dunque supposizione erronea quella di ritenere che all’estero lo scarto sia maggiore del mezzo per cento e giunga all’1% tra i tassi pubblico e privato; e se questa conclusione è esatta, come l’osservazione dei fatti fa ritenere, la soluzione del problema posto al principio di questo discorso è facilissima.

 

 

Riflettasi che i tassi di interesse che lo Stato ed i privati dovrebbero pagare ricorrendo, per il mezzo miliardo mancante ogni anno all’economia nazionale, al mercato interno od all’estero sono, secondo le ipotesi e le logiche deduzioni sovra esposte, i seguenti:

 

 

 

Prestito conchiuso sul mercato

 

Interno

Estero

Stato

4%

3%

Privati

4 1,2

4%

 

 

Si deduce che se il mezzo miliardo e richiesto all’estero dallo Stato costerà il 3% invece che il 4% quanto costerebbe all’interno, ossia 15 milioni di lire di interesse all’anno, invece di 20, con un risparmio di 5 milioni di lire di interessi all’anno; se invece il mezzo miliardo è richiesto all’estero dei privati, costerà il 4 1/2 % ossia 20 milioni invece di 22 1/2 con un risparmio di 2 1/2 milioni di lire di interessi all’anno.

 

 

Resta dunque dimostrato che la collettività ricava il maggior risparmio – 5 milioni di lire invece di 2 1/2 all’anno – e quindi il maggior vantaggio se il prestito all’estero è compiuto dallo Stato invece che dai privati; epperciò si conchiude che, in condizioni normali, e preferibile che i prestiti esteri siano contratti dagli Stati piuttosto ché dai privati. Contro alla quale conchiusione si possono sollevare critiche puramente sentimentali e verbali, delle quali è inutile occuparci, dopo quello che dianzi si è detto di questa specie di critiche. Delle obbiezioni di indole politica si dirà or ora.

 

 

702. Il problema politico dei prestiti all’estero. I due gruppi di paesi produttori ed esportatori di risparmio – Il primo gruppo comprende gli Stati dove il risparmio è apolitico – Funzione intermediaria dei piccoli paesi neutrali – In questo gruppo si nota l’assenza di pregiudizi contro l’esportazione dei capitali. – Il problema dei prestiti all’estero ha invero un aspetto politico, di cui conviene fare cenno. Se i capitalisti esteri ubbidissero soltanto a moventi economici, le conclusioni, a cui si giunse sopra, sarebbero inoppugnabili. I paesi fornitori di capitali alle altre nazioni, i quali in Europa sono principalmente la Francia, l’Inghilterra ed in minori proporzioni la Svizzera, il Belgio e l’Olanda, si dividono però in due categorie, alla prima delle quali appartiene l’Inghilterra, seguita dalla Svizzera, del Belgio e dell’Olanda, e in essa il capitale è quasi perfettamente neutro cioè a dire apolitico. Sul mercato di Londra, i prestiti si fanno quasi esclusivamente in base a considerazioni economiche, preferendo l’un debitore all’altro solo perché offre, a parità di sicurezza, un interesse più alto; od a parità di interesse, una sicurezza maggiore. Su quel grande marcato libero si pesa il credito dello Stato per sé stesso, astrazion fatta dall’appartenere lo Stato ad un gruppo politico diverso da quello a cui appartiene l’Inghilterra. La splendid isolation politica in cui si tenne per così gran parte del secolo XIX l’Inghilterra favorì il formarsi di un mercato finanziario indipendente dal governo; ed anche oggi, che l’Inghilterra ha stretto intesa politica con la Francia e con la Russia, questa indipendenza si mantiene. I banchieri non vanno a chiedere consigli o ispirazioni al Foreign office prima di conchiudere il prestito; né il governo interviene a vietare o permettere la quotazione di titoli stranieri allo Stock-Exchange, il quale è libero da ogni ingerenza governativa, ed a differenza delle borse continentali, che sono una istituzione pubblica, è governato da una corporazione privata di azionisti.

 

 

Qualche deviazione, per ora lievissima, da questa regola si ebbe negli ultimi anni (1912-1913) in Inghilterra, quando un gruppo di banchieri inglesi concorse, insieme con banchieri francesi, tedeschi, banchieri e giapponesi al cosidetto prestito delle cinque Potenze alla Cina, prestito inteso sotto l’egida dei governi interessati ad esercitare un influenza politica in quel paese. Accadde che un gruppo di banchieri inglesi, a cui capo stava il signor Crisp, contrattasse colla Cina un altro prestito, indipendentemente da quello che si negoziava manifestò il suo malcontento che un banchiere privato contrastasse i disegni economici-politici del governo; ma quando il signor Crisp dichiarò di essere pronto a troncare ogni trattativa, a condizione di ricevere una lettera in cui il Foreign Office manifestasse il suo desiderio di non vedere compiuto alcun prestito fuori di quello ufficiale, il Foreign Office si rifiutò a scrivere la lettera e lasciò libero il Crisp di conchiudere il suo prestito, sebbene la sua condotta fosse poco gradita. Anzi il governo inglese dichiarò ripetutamente, per bocca dei suoi ministri in parlamento, che esso non intendeva abbandonare la politica antica di non esercitare alcuna pressione od ingerenza sui mercati finanziari.

 

 

Si può conchiudere che in Inghilterra il mercato dei prestiti è puramente economico, con quelle naturali riserve che derivano dal fatto che certamente i banchieri e capitalisti inglesi volontariamente, senza uopo di alcuna ingerenza diretta od indiretta del governo, non vorranno imprestar denari ad uno Stato il quale si trovi in condizioni di guerra guerreggiata col loro paese o di violenta ostilità politica internazionale nel momento della contrattazione del prestito. Si vuol dire insomma che sulla piazza di Londra il fattore politico ha importanza secondaria e transitoria, mentre il fattore economico è di gran lunga il predominante.

 

 

I mercati di Svizzera, Olanda, Belgio, come sono neutri politicamente, così come neutri finanziariamente. I banchieri di quei paesi non badano a nazionalità, in materia di investimenti di denaro; e corrono con indifferenza dietro a Stati tra loro nemici, quando vi sia la convenienza del mutuo. Essi, per la qualità di neutri, sono anzi il tramite per cui i capitali di paesi politicamente appartenenti ad un gruppo politico vengono riversati su paesi appartenenti ad altri gruppi politici. Capitalisti e banchieri francesi, i quali rifiuterebbero hanno scrupolo ad imprestarli alla Svizzera od al Belgio; e chiudono un occhio se dalle banche svizzere o belghe i loro capitali prendono poi la via degli investimenti tedeschi od austriaci. I piccoli mercati neutrali sono perciò la via di comunicazione tra due o più gruppi di mercati che in apparenza sono chiusi l’uno all’altro. La via è forse tortuosa e viscosa; un po’ del capitale trasferito rimane appiccicato ai canali di trasmissione, sotto forma di provvigioni ai banchieri svizzeri o belgi; ma evidentemente il trapasso è ancora conveniente, date le differenze nel tasso dell’interesse.

 

 

Nei paesi appartenenti a questo primo gruppo si nota un’assenza quasi totale dei pregiudizi contro l’esportazione dei capitali all’estero, che erano consentiti un tempo, parvero scomparire durante il secolo XIX e risorgono ora che i governi democratici si irritano vieppiù contro i capitalisti, riluttanti a mutuar loro a basso interesse i capitali necessari alle loro imprese. In Inghilterra e nei piccoli paesi neutri si considera utile l’esportazione dei capitali nazionali ogni volta che all’estero possono lucrare un interesse maggiore che all’interno. Essi osservano che questa possibilità vuol dire che le industrie, e l’agricoltura ed i commerci nazionali hanno assorbito una porzione sufficiente del risparmio mondiale, che ogni ostinazione nel voler continuare in ulteriori impieghi nazionali equivarrebbe a promuovere imprese in perdita o poco produttive. Riflettono che l’esportazione dei capitali all’estero cresce l’influenza economica e politica del paese produttore di risparmi sui paesi esteri e provoca correnti di ordinazioni di merci, di contrattazioni finanziarie, di denaro, di depositi di merci che riescono per altra via profittevolissime alle industrie ed ai commerci interni. Sicché l’esportazione dei capitali non che diminuire l’attività interna è condizione efficacissima del suo incremento.

 

 

703. Nel secondo gruppo l’esportazione dei capitali tende ad avere carattere politico – Del cosidetto nazionalismo finanziario e dei suoi effetti reali. – Accanto a questa vi è una seconda categoria di paesi produttori ed esportatori di risparmi, di cui il prototipo è la Francia. Ivi sono stretti i legami tra la politica e la finanza, nessun titolo straniero può essere ammesso alle quotazioni di borsa senza il consenso del governo e principalmente del ministero degli esteri; i banchieri, innanzi di assumere un prestito di Stati stranieri chiedono il gradimento del loro governo. Un vivo spirito di nazionalismo si va accentuando in Francia, sovratutto ad opera di quel partito radico socialista il quale parrebbe a primo tratto internazionalista ed umanitario.

 

 

I deputati interpellano spesso il governo contro le grandi benché francesi ed estere, le quali investono una parte dei loro depositi in imprese ed in prestiti stranieri; e si lagnano che l’esportazione dei capitali all’estero abbia per effetto di diminuire la quantità di lavoro che in patria è offerta all’operaio francese e di scemare la materia imponibile alla imposta di successione che esiste ed ignora si vorrebbe inasprire. Per ragioni di indole elettorale, è difficile ai governi resistere contro queste pretese di un nazionalismo grettamente demagogico; ché anzi, partecipando ai medesimi pregiudizi dei loro elettori, i governanti spesso cercano di frenare l’esportazione dei capitali all’estero poco curandosi degli insegnamenti della scienza economica la quale dimostra (cfr. sopra par. 702) che essa è vantaggiosa al paese. Ed anche quando sanno resistere a così fatti errori, i governanti di tipo francese non si trattengono dal fare pesare la loro influenza sull’indirizzo della esportazione per i prestiti di Stati amici od indifferenti; lo negano per i prestiti di Stati contrari o nemici od incerti; si servono di quest’arma per ottenere l’adesione di Stati stranieri agli scopi della politica francese.

 

 

È dubbio se la Francia abbia giovato ai suoi veri interessi con questa politica nazionalista. Innanzitutto, è certo che esso ha un successo soltanto parziale, perché i capitali francesi, i quali in apparenza non osano andare in Germania, vi accorrono ugualmente, tratti dal più alto interesse, sotto veste svizzera o belga (cfr. par. 702); sicché la Svizzera ed il Belgio godono in parte i frutti ed hanno tutto il merito dei prestiti di danaro francese ai tedeschi. Inoltre, è grandemente dubbio se la Francia non avrebbe tratto giovamento da una larga e liberale politica di esportazione di capitali verso la Germania. I rapporti, non di sudditanza, ma di interdipendenza sarebbero cresciuti; le vittorie che l’industria tedesca conseguì ugualmente, sebbene con maggior sforzo, sarebbero state conseguite con l’aiuto del capitale francese; sicché più facilmente la politica tedesca sarebbe stata influenzata da riguardi verso la Francia, fornitrice di capitali. Graecia capta ferum victorem coepit, dicevano gli antichi: e non si sarebbero dovute far meraviglie se la Francia avesse, grazie al suo oro, potuto ottenere nella Germania medesima una rivincita morale.

 

 

704. È preferibile contrarre prestiti sui mercati economici, tipo Londra che sui mercati economico-politici, tipo Parigi – Come all’interesse in denaro si aggiunga, in questi ultimi mercati, un super interesse in riconoscenza politica; e come sia conveniente in tal caso rinunciare ai prestiti all’estero. – Ad uno Stato il quale abbia bisogno di contrarre un prestito all’estero, perché all’estero il tasso dell’interesse è del 3% o meno, mentre all’interno sarebbe del 4 per cento o più, può accadere perciò che si affacci la scelta fra Stati, a mercato finanziario economico, come sono quelli del primo gruppo, e Stati a mercato finanziario politico a tipo francese. È evidente che, a parità di tasso di interesse, è preferibile emettere un prestito su un mercato tipo Londra piuttosto che su un mercato tipo Parigi. Sul primo si fa un puro contratto economico-politico, in quanto si ottiene il prestito non solo perché si sia dei buoni dei buoni e solvibili ed onesti debitori, ma anche perché si è amici od alleati politici della Francia. È chiaro che in realtà il tasso dell’interesse, preteso dal creditore a tipo francese, sebbene sia in apparenza uguale, in realtà è maggiore del tasso preteso a Londra; poiché oltre al 3 1/2 % in denaro, lo Stato debitore deve pagare un super interesse, non esattamente valutabile, in riconoscenza politica. Può darsi anche che, se per qualsiasi circostanza il mercato di Londra non fosse accessibile ad un paese, sia perché non vi è abbastanza conosciute, sia perché ivi temporaneamente il tasso dell’interesse è elevato per una crisi finanziaria o per una grande affluenza di richieste di mutui, e quindi sia soltanto accessibile il mercato il mercato di Parigi, convenga piuttosto rinunciare al prestito all’estero e pagare del 4% o più all’interno, piuttosto ché il 3 1/2 od anche il 3% all’estero.

 

 

Ciò sarebbe irragionevole se il prestito all’estero si potesse fare su una base puramente economica; ma poiché il capitalista estero si contenta di un mite tasso di interesse in denaro, a condizione di ricevere in cambio un super-interesse in riconoscenza od alleanza politica; e poiché il valore di questa riconoscenza od alleanza può essere superiore al mezzo od all’un per cento di interesse che si risparmia ed anzi può essere così moralmente grande da non potersi neppure apprezzare in lire, soldi e denari, cosi è chiaro che conviene rinunciare al prestito estero e rivolgersi unicamente al mercato interno. I contribuenti sopporteranno ben volentieri il maggior carico di imposta-interessi, pur di serbare la più assoluta libertà ed indipendenza di movimenti politici allo Stato.

 

 

Questa è la correzione che si deve apportare, per ragioni politiche, alla verità dianzi dimostrata: essere conveniente ad uno Stato ricorrere pei suoi prestiti all’estero sempre quando il tasso dell’interesse sia ivi inferiore che all’interno. La ragion politica, badisi, coincide con la ragione economica; poiché non si può dire in realtà dichiarato in denaro, ma si accresce poi per l’aggiunta non dichiarato in denaro, ma si accresce poi per l’aggiunta non dichiarata e non valutata pecuniariamente di riconoscenza politica. Non inferiore, sibbene maggiore deve essere in questo caso reputato il tasso d’interesse preteso all’estero; onde sarebbe assurdo preferire il prestito estero a quello interno.

 

 

705. I prestiti esteri si contraggono in monete aventi corso all’estero – Il metodo «spagnolo» della creazione di un debito «estero»; ed il metodo «italiano» del pagamento degli interessi all’interno in moneta nazionale ed all’estero in moneta estera – Raffronto – Come sia preferibile il metodo italiano. – Perché uno Stato possa contrarre prestiti con stranieri, occorre soddisfi consuetamente a talune esigenze tecniche; di cui la principalissima è quella relativa al tipo monetario in cui capitale ed interessi debbono essere pagati. I capitalisti stranieri non vorranno certamente acconciarsi a ricevere pagamenti in valuta cartacea, la quale potrebbe deprezzare; e perciò stipulano che il pagamento debba farsi in talune monete aventi corso internazionale e non soggette a fluttuazioni di aggi o cambi. Così i capitalisti francesi, svizzeri o belgi stipuleranno che il pagamento debba essere fatto in franchi oro nelle piazze di Parigi, Zurigo, Ginevra, Bruxelles ecc.; i capitalisti inglesi esigeranno il pagamento in lire sterline a Londra, quelli tedeschi in marchi oro a Berlino o Francoforte.

 

 

Di solito si stipula il pagamento ad un cambio fisso: ad esempio si calcola la lira italiana o la peseta spagnuola uguale ad 1 franco francese, 0,80 marchi tedeschi, od 1/25 di lira sterlina inglese, e sulla base di questo rapporto fisso devono essere fatti i pagamenti qualunque siano di tempo in tempo i corsi dei cambi.

 

 

Evidentemente questo obbligo riesce oneroso ai paesi debitori, perché essi si accollano tutti i rischi delle oscillazioni del cambio; e stipulato ad es. il rapporto fisso di 1 lira italiana od 1 peseta spagnuola contro 1 franco d’oro, saranno obbligati a pagare, se il tasso d’interesse stipulato fu il 4%, 4 franchi d’oro a Parigi per ogni 100 franchi di debito, anche se, per procurarsi questi 4 franchi d’oro, dovranno spendere 4,40, 4,60 o 5 lire o pesetas di carta nazionale.

 

 

A questo riguardo due possono essere i metodi seguiti, di cui il primo fu appunto adottato in Spagna e l’altro in Italia.

 

 

Il metodo spagnolo consiste nel distinguere il debito pubblico in due parti: una parte che si dice debito interno, i cui interessi sono pagabili esclusivamente all’interno in moneta nazionale, d’oro o di carta, alla pari o deprezzata; ed un’altra parte che si dice debito esterno (rente exterieure spagnola) i cui interessi sono pagabili esclusivamente all’estero in moneta d’oro, per es. in franchi francesi. Con questo sistema, lo Stato debitore sa con assoluta sicurezza quale sarà la massa del debito su cui si deve pagare gli interessi in oro, accollandosi il rischio e l’onere del cambio. Anche se i capitalisti stranieri acquistassero titoli di debito interno, non perciò lo Stato debitore sarebbe obbligato a pagare gli interessi in oro, essendo invece in diritto di pagarli in carta. Supponendo che uno Stato abbia un debito 4% di 5 miliardi, di cui 4 debito interno e 1 debito estero; solo sul miliardo di debito estero è lo Stato debitore obbligato a pagare gli interessi in oro, mentre sui 4 miliardi di debito interno sarebbe sempre obbligato solo a pagare gli interessi in moneta nazionale, anche se, per ipotesi estrema, fossero tutti posseduti da creditori esteri. Questo metodo ha però l’inconveniente di fissare ad 1 miliardo la cifra del debito estero fossero rimpatriati e fossero in possesso di capitalisti nazionali, lo Stato dovrebbe continuare a pagare gli interessi in oro, come se fossero posseduti da capitalisti esteri. L’inconveniente corrisponde però ad un’esigenza corretta; poiché i capitalisti per i titoli di debito estero pagarono un prezzo capitale in oro, ed i capitalisti nazionali, che li ricomprarono dagli stranieri, anch’essi li pagarono con un prezzo espresso in oro, sicché è logico abbiano in oro ad essere pagati gli interessi anche dopo il rimpatrio. Diverso è il metodo italiano, almeno quello che fu adottato per il titolo principe nostro: la rendita, prima 5% lordo ed ora 3 1/2 per cento netto (1906).

 

 

Lo Stato italiano si è obbligato di pagare in oro a cambio fisso gli interessi di tutti i titoli al portatore, i cui cuponi o tagliandi fossero presentati al pagamento a certe piazze determinate, come Parigi, Londra, Berlino, Francoforte, Bruxelles. Non vi è distinzione fra titoli di debito estero o di debito interno; tutti i titoli possono diventare stranieri e quindi hanno gli interessi pagabili in oro, se i cuponi sono presentati al pagamento all’estero, e tutti possono essere nazionalizzati, e quindi gli interessi diventano pagabili in moneta nazionale, quando i cuponi sono presentati al pagamento piazze italiane.

 

 

Sembra che il metodo italiano sia preferibile al metodo spagnolo. Il quale:

 

 

  • 1) È più rigido, istituendo una netta divisione fra titoli nazionali e titoli esteri, la quale può non corrispondere a realtà, per la vendita di titoli interni a stranieri e la ricompra di titoli esteri da parte di nazionali; mentre il sistema italiano è elastico e consente che la quantità di titoli esteri pagabili in oro aumenti o diminuisca a seconda che è maggiore o minore la quantità di titoli collocati all’estero;
  • 2) è più ristretto nei suoi benefici effetti, perché garantisce i capitalisti contro il deprezzamento della moneta nazionale solo per il debito estero, riconoscendo esplicitamente l’esistenza di una moneta buona, in cui si contrae il debito estero, e di una moneta cattiva, in cui si contrae il debito interno. La qual moneta cattiva nulla esclude non possa diventare ancora peggiore.

 

 

Mentre col metodo italiano nessuna differenza di valore tra la moneta nazionale e quella estera è riconosciuta; ché anzi lo Stato ad assicurare i capitalisti che essi saranno pagati sempre in moneta buona, dichiara che la lira italiana è uguale ad un franco francese in oro e che, a questo cambio fisso, essi potranno sempre farsi pagare gli interessi a Parigi. È chiaro come questa assicurazione ufficiale e solenne data ai capitalisti contro le oscillazioni di valore ed i deprezzamenti eventuali della moneta nazionale, la quale fu per lunghi anni ed è ora (1913) moneta cartacea a costo forzoso, dovesse essere un fattore atto ad inspirare fiducia ai capitalisti ed a crescere il credito dello Stato. E poiché le leggi italiane non fanno distinzione fra capitalisti italiani e capitalisti francesi; ma soltanto dicono che gli interessi del debito pubblico saranno pagati in lire in Italia ed in franchi in Francia, ne venne che anche agli occhi dei capitalisti italiani il titolo nostro acquistava maggior pregio, in quanto ché nel caso che la lira italiana in carta deprezzasse troppo, essi erano sicuri di potersi far pagare in moneta buona, col solo inviare il metodo italiano si presenta perciò come il più raccomandabile di tutti, in quanto esprime la ferma volontà dello Stato di mantenere intatto il valore della moneta, e non giovarsi di un eventuale deprezzamento della carta moneta nazionale per pagare gli interessi dei propri debiti in moneta svilita. Chiunque voglia, disse il legislatore italiano, può esigere sulle piazze estere gli interessi in moneta d’oro a cambio fisso. Dichiarazione solenne fatta in tempi nei quali i grandi costruttori dell’unità nazionale conoscevano le vie per le quali, osservando religiosamente le fatte promesse anche con grave proprio sacrificio, il credito d’un paese aumenta e diviene incrollabile.

 

 

706. Istituzione ed abolizione in Italia dell’affidavit – La speculazione sui cuponi nei momenti di cambio alto al disopra della pari – Grida dei gazzettieri in Italia per il ristabilimento dell’affidavit. – Vennero in seguito tempi, in cui l’obbligo di pagare in oro gli interessi di tutti i titoli, i cui cuponi erano presentati al pagamento all’estero, parve gravoso. Per il malgoverno della circolazione, l’aggio era salito al 10 ed al 15 e fino al 20 per cento; onde lo Stato italiano, il quale sui cuponi presentati in Italia pagava 1 lira in carta, sui cuponi presentati all’estero doveva pagare 1 franco in oro, equivalente ad 1,10, 1,15 e fino 1,20 lire in carta. Si osservò che molti italiani residenti in Italia avvistisi di questo fatto, piuttosto ché esigere 1 lira in Italia, mandavano i cuponi a Parigi ed esigevano 1 franco in oro equivalente ad 1,10 e più lire in carta; si ebbe il timore che tutto il debito diventasse apparentemente, nel momento della riscossione degli interessi, estero ed il carico pel tesoro crescesse troppo. Fu perciò deliberato, dapprima nel 1875, sino al 1881, di pagare all’estero gli interessi in oro, a condizione che, oltre ai cuponi, si presentassero i titoli di rendita e dai presentatori si prestasse giuramento (affidavit) che i titoli appartenevano a persone di nazionalità straniera.

 

 

Questa formalità, che fu detta dell’affidavit, bastò ad impedire che gli italiani mandassero ad esigere gli interessi all’estero e ridusse i pagamenti fatti sulle piazze straniere alla quantità di titoli realmente posseduta da stranieri. Gli italiani invero, i quali senza diffidenza inviavano i cuponi o tagliandi all’estero anche perché banchieri ed agenti di cambio si profferivano di pagarne anticipatamente il prezzo, divennero diffidenti quando si trattò di consegnare ai banchieri pur lo stesso titolo al portatore, temendo furti, smarrimenti e mala fede da parte dei consegnatari. Quei pochi i quali sarebbero passati sopra al rischio ed alle spese dell’invio e del ritorno dei titoli, pur di lucrare dal 3 al 20% di aggio, si arretrarono dinnanzi alla formalità del giuramento od affidavit, né vollero dichiarare cosa contraria al vero.

 

 

A partire dall’1 gennaio 1904 l’affidavit, senza essere abolito in diritto, non venne di fatto più richiesto; ma, poiché l’aggio era divenuto tenue ed in seguito scomparve, non vi furono invii di cuponi all’estero; anzi per alcuni anni, dopo il 1900 fino verso il 1907, essendo il valore della moneta nazionale italiana di tanto aumentato da far scomparire non solo l’aggio, ma da ridurre il cambio al disotto della pari, sicché con 99,50 o 99,75 lire italiane si potevano comprare 100 franchi francesi, accadde il fatto inverso a quello precedente ed eranvi portatori esteri della rendita italiana i quali mandavano i cuponi all’incasso in Italia per potere lucrare la differenza.

 

 

Nel 1913 essendo ricomparso l’aggio ed essendosi elevato temporaneamente a quasi il 3%, di nuovo vi furono italiani, i quali mandarono il cupone a scadenza 1 luglio 1913 all’incasso a Parigi; e di nuovo vi furono banchieri ed agenti di cambio i quali profferivano di pagare i cuponi anticipatamente od anco promettevano un premio dell’1% a chi portasse loro i cuponi, allo scopo di farne incetta e spedirli a Parigi all’incasso. Subito i gazzettieri gridarono contro l’«indegna speculazione» e le «mene antipatriottiche» di questi «incettatori», i quali a scopo di privato lucro incettavano i cuponi per farseli pagare a Parigi con danno del tesoro nazionale e, non contenti di additarli al disprezzo universale, invocarono del governo il pronto ristabilimento dell’affidavit abolito nel 1893, così da far rimanere scornati gli incettatori di cuponi, i quali non sarebbero stati in grado di presentare i titoli di rendita ed avrebbero dovuto contentarsi di ottenere il pagamento in Italia in moneta italiana, rimettendoci fatica, premi pagati ed interessi anticipati. Saviamente però il governo italiano non ristabilì questa volta l’affidavit e pagò a Parigi e nelle piazze estere in moneta d’oro quanti cuponi furono presentati ivi all’incasso.

 

 

707. Si dimostra che il ristabilimento dell’affidavit sarebbe dannoso – Quale delle due classi degli incettatori di cuponi e degli scribi denunciatori di essi faccia opera giovanile alla collettività – Si dimostra l’utilità dell’opera degli incettatori – Ciò che non si vede nella speculazione – Il danno dell’erario per il pagamento dei cuponi all’estero induce i governanti a dar opera affinché l’aggio scompaia. – Nota sulla convenienza da far pagare in carta i dazi doganali. – Quale delle due vie scelte fu migliore? Quella seguita dopo la prima dichiarazione del corso forzoso nel 1866, per cui si pretese la presentazione del titolo e l’affidavit, istituendo di fatto una distinzione fra debito nazionale e debito estero inesistente in diritto, o quella preferita nel 1913, quando non si volle, sotto nessuna forma, ristabilire l’affidavit e si pagarono in oro i cuponi da chiunque, italiani o stranieri, fossero presentati all’estero? Sembra a noi che il miglior partito sia stato indubbiamente il secondo. Il che è facile dimostrare, solo che si sappia fare astrazione dal linguaggio, privo di significato, dei gazzettieri, maestri sempre in analfabetismo economico. Avemmo già occasione altra volta (cfr. par. 633) di analizzare il vero significato della parola «speculazione» e di vedere come il fatto della «speculazione» abbia un contenuto giovevolissimo alla collettività. Soltanto l’ignoranza degli scribi popolareggianti può far uso turpe di parole, le quali hanno in realtà un significato preciso economico, senza alcun attributo morale. Non è compiuto della scienza economica o finanziaria ricercare quali siano le qualità psicologiche, le passioni, i desideri più o meno elevati o bassi di coloro i quali, in tempi di aggio, cercano di fare incetta di cuponi di debito pubblico, pagandoli in moneta nazionale di carta per mandarli all’incasso all’estero in moneta d’oro.

 

 

Costoro obbediscono per fermo a desiderio di lucro; ma ad ugual meta di lucro intendono tutti gli uomini, quando operano economicamente ed in particolare i gazzettieri quando, denunciando al popolo le mene degli incettatori, sperano di guadagnare popolarità a sé e diffusione al proprio foglio. Il problema economico non sta nel decidere chi delle due classi di persone, gli incettattori ed i pennaiuoli, sia moralmente più alta, ché forse amendue si equivalgono. Sta invece nel decidere chi dei due compia opera utile o dannosa all’incremento della ricchezza collettiva. La quale non aumenta per la carità o filantropia degli uomini, sibbene sovratutto e di gran lunga sovratutto per la loro ingordigia di lucro; ma per la stessa causa può diminuire. La scienza economica dimostra, ad esempio, che tanto l’industriale protetto da dazi, quanto quegli che è soggetto alla concorrenza straniera producono per scopo di lucro; però soggiunse che, mentre il primo scema la ricchezza collettiva del paese, il secondo la accresce. Hanno affaticato amendue; né l’opera del primo – supponendo che egli non si sia adoperato in modo scorretto ad ottenere i dazi protettori – può essere normalmente soggetta ad alcun biasimo; e tuttavia egli danneggia la collettività.

 

 

Lo stesso problema si presenta nella contesa fra l’incettatore di cuponi ed il pennaiolo che lo denuncia all’esecrazione universale e, se fosse possibile, al procuratore del re, come erede degli accaparratori di grano e farine di cui gli scribi forse lessero, quando invano davano opera agli studi ginnasiali, i fasti nella descrizione della carestia e della peste di Milano di Alessandro Manzoni. Quale delle due categorie di persone è atta a crescere, conseguendo il suo intento, la ricchezza nazionale?

 

 

Per rispondere correttamente alla domanda, si premetta:

 

 

  • a) la riduzione e la scomparsa dell’aggio sulla carta moneta nazionale è lo scopo che massimamente si desidera a vantaggio della cosa pubblica. Tutto ciò che fu detto sopra intorno ai danni del corso forzoso (cfr. par. 608 e 616) dimostra ampiamente come nessun sacrificio sia eccessivo purché si raggiunga l’intento;
  • b) il mezzo più efficace per raggiungere l’intento è il progressivo annullarsi di ogni beneficio che lo Stato raggiunga dal corso forzoso.

 

 

Perché gli Stati ricorrono a questo detestabile modo di procacciarsi entrate straordinarie che è il corso forzoso? Perché immaginano di potere ottenere un prestito senza onere di interessi. In tale falsa credenza essi rimarrebbero se i danni conseguenti al corso forzoso ricadessero tutti sulla collettività, lasciando immune l’erario pubblico.

 

 

Se soltanto i creditori dei privati fossero danneggiati per il minor valore della moneta in che i debitori solvono gli interessi o rimborsano il capitale, se unicamente gli operai si lamentassero per la diminuita potenza d’acquisto dei loro salari e la cresciuta disoccupazione, se esclusivamente i commercianti e gli industriali si querelassero pel cresciuto tasso dell’interesse, per la difficoltà di trovare capitali a mutuo, per le ostacolate comunicazioni con l’estero, i governanti a reattivi potrebbero continuare innanzi nella mala via intrapresa a crescere vieppiù le emissioni dei biglietti a corso forzoso. A ciò fare sarebbero confortati eziandio dalla letizia di coloro, i quali scorrettamente e temporaneamente sono avvantaggiati dall’aggio, e cioè dei debitori e degli imprenditori, che pagano interessi e salari in moneta cattiva e degli esportatori, i quali sono pagati in oro, mentre i loro costi sono tuttora conteggiati in carta.

 

 

Perché i governanti si destino e si avvedano che il corso forzoso e le emissioni esuberanti di biglietti sono fonte di danni ben più gravi alla collettività del beneficio del risparmio di pochi interessi all’erario, è d’uopo che anche essi sentano direttamente il danno del corso forzoso. Uopo è che l’onere degli interessi sul debito pubblico, il prezzo delle forniture governative, i salari degli impiegati pubblici espressi in carta subito crescano e che diminuisca il pregio in oro della carta moneta incassata per imposte, dazi, prezzi dei tabacchi, sali, ecc. Di fronte a questi danni per l’erario è illusorio e che è urgente provvedere alla sua abolizione.

 

 

La premessa ora fatta ci persuade agevolmente che l’opera della speculazione incettatrice dei cuponi di rendita per ottenerne l’incasso all’estero è utile alla collettività. Invero supponiamo che uno Stato debba ogni anno pagare 400 milioni di lire di interessi sul suo debito pubblico; e supponiamo che, essendo stato proclamato il corso forzoso e, per l’abbondanza della carta moneta emessa, aumentato l’aggio al 10% l’opera degli speculatori si eserciti con tale successo, che tutti i 400 milioni di lire di cuponi o tagliandi vengano presentati non più all’interno, sibbene all’estero. Accadrà che lo Stato, il quale all’interno avrebbe dovuto pagare solo 400 milioni di lire in carta, all’estero deve pagare 400 milioni di lire in oro, equivalenti, con l’aggio del 10%, a 440 milioni di lire in carta. Ecco il danno per l’erario, contro cui gridano gli scribi quotidiani: 40 milioni di maggior spese per gli interessi del debito pubblico. Ed ecco ciò che si vede nel fatto economico finanziario.

 

 

Ciò che non si vede dagli scribi, ciò che costituisse la vera sostanza è un’altra cosa. Quel danno di 40 milioni a che cosa è dovuto? Forse all’opera degli speculatori, come suppongono gli analfabeti economici? Mai no. Gli speculatori non creano i fatti; ma li utilizzano. Ad essi è indifferente utilizzare un fatto utile o dannoso; ma non perciò ne sono la causa efficiente. Il danno è dovuto all’aggio. Se l’aggio non fosse, nemmeno potrebbero gli speculatori giovarsene. E l’aggio a quale causa rimonta? Indubbiamente, come fu dimostrato a suo tempo (cfr. par. 609 e 610), alle eccessive emissioni di carta moneta a corso forzoso compiute dal governo. Quindi furono i governanti, responsabili del corso forzoso e delle eccessive emissioni di carta, coloro che cagionarono il sorgere dell’aggio: e sono quindi essi la causa del danno dei 40 milioni di maggior spesa da cui adesso è afflitto l’erario.

 

 

Imprigionare e processare gli incettatori, ristabilire l’affidavit, come vogliono i gazzettieri, sono rimedi disadatti al fine, poiché non tolgono la causa del male. Tutt’al più codesti rimedi empirici avrebbero per effetto di risparmiare l’onere dei 40 milioni all’erario. Ma cotale effetto, come fu dimostrato dianzi, sarebbe nocivo alla collettività, poiché i governanti, vedendo che essi non soffrono alcunché per l’insorgere dell’aggio, non si darebbero alcuna pena per farlo scomparire, riducendo la circolazione di carta moneta ed abolendo il corso forzoso; e noi sappiamo già che la prosecuzione dell’aggio cagiona danni gravissimi alla collettività.

 

 

Mentre se un’opinione illuminata insiste affinché lo Stato faccia onore al suo impegno di pagare all’estero i cuponi in oro, senza fare alcuna indagine sulla loro appartenenza a nazionali o stranieri, l’effetto sarà:

 

 

  • a) che l’erario per alcuni anni sarà soggetto al danno di dover pagare 440 invece di 400 milioni di lire in oro per gli interessi del suo debito;
  • b) che l’opinione pubblica si persuaderà essere interesse dell’erario e non solo dei privati di provvedere alla riduzione della quantità emessa di carta moneta, onde far scomparire l’aggio;
  • c) che anche i governanti più a reattivi si persuaderanno della necessità di fare economie e di dedicare gli avanzi di bilancio al ritiro ed all’abbruciamento della carta moneta sovrabbondante;
  • d) che in conseguenza di questa saggia politica finanziaria, l’aggio via via si ridurrà e scomparirà l’onere dei 40 milioni per maggiore costo degli interessi in carta sul debito pubblico; e nel tempo stesso andranno attenuandosi i danno gravi che l’economia in generale, i creditori, gli operai, i capitalisti risentivano a causa dell’esistenza dell’aggio. Ciò che è massimamente desiderabile [9].

 

 

È dimostrato, dunque, che la speculazione incettatrice di cuponi, senza alcun suo merito, è vero, compie opera utile alla collettività, essendo una forza che spinge i governanti sulla via del bene; mentre le querimonie dei gazzettieri sono dannose alla collettività, come quelle che tendono a perpetuare uno stato di cose malefico, togliendo di mezzo un maggior onere il quale, se è dannoso momentaneamente per l’erario, in realtà è una utile forza reattiva la quale fa ritornare i governanti sulla buona via da cui s’erano dilungati. Ad attenuare la colpa dei quali scribi, si può notare che essi, per l’analfabetismo economico che li affligge, volevano il male con intenzioni innocentissime di desiderare il bene. Sicché la pena, che dovrebbe ad essi venire inflitta, sarebbe l’obbligo di andare a scuola. Ma sarebbe pena sovra ogni altra dolorisissima, poiché essi, per lunga abitudine di tener cattedra sulle gazzette, hanno finito di credersi sapientissimi e sarebbe troppo grave lo scorno di dover confessare la propria ignoranza tracotante.

 

 

Resta altresì dimostrato come meriti lode il governo italiano, il quale il 1913 non pose mente alle querimonie ed alle denuncie degli analfabeti economici, non perseguitò gli incettatori né ristabilì l’affidavit; ma intese, d’accordo coi dirigenti degli istituti d’emissione, a scemar forza alle cause le quali avevano l’aggio; sicché ritornata la circolazione in condizioni normali, l’aggio finì per scomparire quasi del tutto (ottobre 1913) e per conseguenza cessò ogni danno per il pagamento degli interessi all’estero. La speculazione rimase debellata; ma non alla maniera empirica e medievale invocata dagli scribi, sibbene nel modo corretto insegnato dalla scienza economica.

 

 

La quale insegna altresì che il miglior modo di tenere alto il credito di un paese è di ridurre al minimo od a zero ed il pagamento del capitale. Fra due titoli di debito al 4% di cui l’uno è pagabile certamente in moneta buona d’oro e l’altro è pagabile in moneta nazionale di carta, di pregio variabile, è certamente più apprezzato il primo, perche il creditore con esso è sicuro di ricevere 4 lire, mentre col secondo teme sempre di ricevere tante lire nominali che equivalgono a meno e forse a molto meno delle 4 lire effettive promessegli. Quindi, se il titolo pagabile in oro vale 100 lire, il secondo varrà di meno e potrà scadere a 95, 90, 85, 80 lire ed anche più bassi corsi, se la moneta, in cui suoi interessi sono pagabili, deprezzerà maggiormente. Bene operano perciò quei governi i quali pagano sempre gli interessi dei loro debiti in moneta buona e si assoggettano a qualunque sacrificio, pur di non lasciar cadere nel pubblico l’estimazione dei titoli di debito pubblico.

 

 



[1] La somma che lo Stato si obbliga a rimborsare si chiama anche il nominale del prestito. Valor nominale o la pari del prestito (100 lire) è sempre la somma che il tesoro deve rimborsare quando voglia estinguere il prestito contratto.

[2] Emettere vuol dire «offrire in vendita» ad un certo prezzo; e «prezzo di emissione» è il prezzo incassato dallo Stato colla vendita del titolo sotto deduzione delle spese di commissione, pubblicità, ecc.

[3] È noto come il divieto dell’usura, ossia del pagamento di un interesse superiore a quello stabilito dal legislatore, per es. il 5%, sia una cosa diversa dalla fissazione dell’interesse legale allo stesso tasso, per ipotesi, del 50 per cento. Il divieto dell’usura significa che nessun privato può, neppure con contrattazioni private, obbligarsi a pagare od aver diritto di ricevere un interesse superiore al 5 per cento. La fissazione dell’interesse legale vuol dire soltanto che, in assenza di una convenzione contraria, nel silenzio delle parti, correrà sulle somme dovute l’interesse del 5 per cento. Il divieto dell’usura e oramai caduto in disuso; mentre la fissazione di un interesse legale, da valere nel silenzio delle parti, è una necessità della vita civile. Il concetto dell’interesse legale diventa un pregiudizio, nel senso dichiarato nel testo, solo quando il legislatore creda necessario di applicare allo Stato un criterio che è stato adottato solo per supplire al silenzio delle parti.

[4] Notisi che la definizione del valore di parità per un prestito ammortizzabile e non convertibile anticipatamente è un po’ diversa dalla definizione generica del valore di parità, data nel paragrafo 671.

[5] Notiamo di passata che il capitalista ottiene anche il risultato di esentare il suo risparmio di L. 16.51; il quale è un vero risparmio, consistente in rinuncie agli interessi di L. 0.41 all’anno e dei loro interessi composti, in vista della percezione di un cumulo di L. 16.51 al momento del rimborso dell’imposta. La legge invece (cfr. sopra paragrafo 508) considera erroneamente capitale e non reddito questi premi al rimborso e li esenta dall’imposta. Notisi però che l’errore sta solo rispetto ai principi informatori della nostra legislazione, non rispetto ai principii dottrinali, i quali richiedono l’esenzione del risparmio. Anzi l’errore della legge italiana è una nuova dimostrazione della verità del principio in questo corso propugnato.

[6] Togliamo la citazione da carte 370 dell’ottava edizione del Traité de la Science des finances di Paul Leroy Beaulieu il quale in questa materia del debito pubblico, come del resto in tutte le altre parti del suo corso, espone molte osservazioni sennate o penetranti. Raccomandiamo vivamente la lettura di questo trattato ai giovani, sebbene or sia divenuto di moda dire che il Leroy Beaulieu non è un teorico profondo e che i suoi libri sono piuttosto una raccolta di consigli o ricette per i governanti che una esposizione di leggi scientifiche. Rimproveri i quali in gran parte sono infondati o muovono da due cause: 1) di cui la prima si è il malvezzo di reputare teorici profondi solo coloro i quali si esprimono in modo contorto ed incomprensibile; come se una brillante attraente e chiara maniera di scrivere non aggiungesse pregio ai libri di teoria; e 2) la seconda si è la mala abitudine di inchinarsi dinnanzi a coloro i quali non hanno altro merito se non quello di aver tradotto le massime esposte dagli scrittori «ricettasti» tipo Leroy Beaulieu in «leggi scientifiche». Codesti traduttori acquistano fama di avere inventato «nuovi principii scientifici» solo perché hanno cambiato la maniera di esprimere lo stesso concetto ed ancora si divertono, tra l’ammirazione dei sicofanti, a tirar calci a coloro, che hanno copiato, sbeffeggiandoli come gente buona solo a scriver ricette ed a dar consigli, incapaci di comprendere le bellezze della vera scienza, la quale non si occupa di esigenze pratiche ma espone solo leggi che regolano i fatti. Mentre l’onestà scientifica più elementare avrebbe imposto ai manipolatori della roba altrui di riconoscere che, sotto la maschera o la forma delle ricette o dei consigli, in molti vecchi scrittori si nascondono vere e proprie leggi scientifiche e che il vero merito della scoperta spetta a chi primo espose queste leggi, anche se malamente si espresse sotto forma di consiglio pratico, mentre l’opera del traduttore di una in altra e più perfetta «forma» pur essendo meritoria, è di gran lunga la meno importante. La qual digressione fu fatta per mettere in luce che nei libri dell’autore citato si leggono ad ogni pagina massime di osservazioni che, sebbene spesso esposte sotto forma di consigli ai governanti o norme da seguire nelle faccende finanziarie, hanno valore prettamente scientifico di leggi teoriche. Con questo di più, che mentre l’amatore della teoria pura può senza difficoltà cavarne fuori le regole da lui predilette, l’uomo politico è tratto dalle applicazioni continue a fatti odierni, a leggere libri di economia e di finanza, senza essere allontanato dal linguaggio oggi divenuto di moda tra i «puristi» e massimamente tra gli «equilibristi». Col qual nome non si vogliono indicare i grandi scrittori come il Walras ed il Pareto, che fecero compiere alla scienza veri progressi con le nuove dottrine dell’equilibrio economico, ma i loro fanatici seguitatori. Al Leroy Beaulieu può rimproverarsi in verità un linguaggio talvolta acceso e forse qualche ragionamento partigiano. Sono mende facilmente osservabili da chi legge e che paiono giustamente peccati venialissimi quando si pensi al linguaggio turpemente rettorico dei predicatori della finanza democratica e dei patroni della giustizia tributaria. Tolta questa piccola scoria, rimane un trattato, forse disordinato pel giustapporsi di parecchie successive edizioni, ma istruttivo ed utilissimo a leggersi dai giovani, più di molti altri trattati scritti con grande apparato di dottrina e di erudizione ma privi di vital nutrimento pel lettore.

[7] Può darsi che la sfiducia dei capitalisti nazionali verso il loro Stato sia ben giustificata. Così al prestito ottomano del 1873, il quale procedette la grande bancarotta della Turchia, ben pochi capitalisti nazionali avevano partecipato sebbene i ricchi non siano rari in Turchia. La ragione si è che essi bene conoscevano il proprio governo e ne diffidavano; mentre molti capitalisti francesi, italiani (di Napoli e Roma) inglesi troppo ingordi e poco riflessivi si lasciarono attrarre dagli alti interessi offerti dal governo turco e disgraziatamente sottoscrissero ai suoi prestiti. Il tasso di interesse offerto dal governo turco sembrava loro elevato, in proporzione agli interessi correnti nei rispettivi paesi: ma i capitalisti turchi avrebbero preteso ancor di più perché meglio conoscevano l’alto rischio a cui andavano incontro. Non è inutile di avvertire che qui si parla delle finanze turche quali erano prima della riorganizzazione del debito pubblico turco e della istituzione della commissione europea, del debito pubblico (cfr. par. 882), la quale aveva, innanzi agli ultimi avvenimenti di guerra, grandemente contributo al miglioramento delle finanze turche al consolidamento del credito pubblico di quel paese.

[8] Diciamo «nostro» per indicare che si tratta dello Stato che deve contrarre un prestito all’interno od all’estero. «Nostro» vorrà dire «Stato italiano» in Italia, «tedesco» in Germania, «russo» in Russia e così via dicendo: ossia quel qualunque Stato a cui appartiene colui che fa il ragionamento economico.

[9] La stessa dimostrazione vale anche per i pagamenti dei dazi doganali. Qui è interesse pubblico che i dazi siano pagati in moneta nazionale di carta, contrariamente alla norma invalsa in alcuni paesi ed adottata anche in Italia, nei momenti in cui l’aggio era cresciuto. Poiché il pagamento in oro dei dazi doganali fa siche l’erario nessun danno risenta dallo svilire della moneta cartacea, svilire che è imputabile alle emissioni disordinate di biglietti da parte sua. Mentre se i dazi continuano ad essere pagati in carta, lo Stato, incassando 500 milioni, ad es., di lire in carta, incassa una somma che in realtà equivale solo a 450 o 460 milioni di lire in oro; cosicché per evitare siffatta perdita è spinto ad adottare quelle provvidenze le quali valgano a fare riacquistare alla carta la parità con l’oro. Né si dica che lo Stato deve farsi pagare i dazi in oro dagli importatori stranieri, perché la moneta d’oro è quella che da costoro è usata. Ben si sa infatti che questa è la pura apparenza del fenomeno tributario: e che non gli importatori stranieri pagano in realtà il dazio, sibbene i consumatori nazionali (cfr. par. 363 e segg.). Ai quali è strano che lo Stato imponga il pagamento dei dazi in oro, quando una sua legge ha dichiarato valuta legale la carta moneta, obbligando tutti i cittadini a valersi di essa nella loro contrattazioni. Vero è che il pagamento dei dazi in oro giova ai produttori nazionali, a favore di cui conserva la protezione doganale di cui godevano prima contro le importazioni estere. Invero un imprenditore, il quale godeva di una protezione doganale di 10 lire in carta equivalenti a 10 lire in oro per quintale, quando non esisteva aggio, dopo godrà ancore della stessa protezione di 10 lire in oro, se i dazi si pagano in oro. Quindi egli, il quale per qualche tempo paga gli stessi salari, interessi, imposte di prima in carta svilita, per es. 20 lire al quintale, è avvantaggiato perché i prezzi di vendita rimangono fissi a 30 lire in oro, risultanti da 20 lire, prezzo in oro della merce estera fuori dogana, e 10 lire, dazio doganale in oro, ossia equivalgono a 31 32, 33 lire in carta svilita. Prima egli produceva ad un costo di 20 lire in carta e vendeva a 30 lire in carta, equivalenti a 30 lire in oro: dopo continua a produrre, per un po’ di tempo, al costo di 20 lire in carta e vende a 31, 32, 33 lire in carta, che sono il nuovo equivalente delle 30 lire in oro, al disotto di cui non può scendere la concorrente merce straniera. Quindi per causa dell’aggio e del dazio pagabile in oro, il produttore temporaneamente – ma è un temporaneamente, il quale fa ritenere maggiormente utile alla collettività il pagamento in carta anziché in oro. È inutile di avvertire che i gazzettieri hanno altresì qualificato come «frodolento» il fatto del pagarsi in carta i dazi doganali da parte degli importatori; sulla quale qualifica non ci indugieremo, trattandosi di una delle tante «parole» sentimentali e popolaresche, che si sostituirono alle corrette maniere di ragionare nei tempi nei quali è rara la cultura economica di coloro che fanno professione di illuminare il pubblico.

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