Opera Omnia Luigi Einaudi

Carbone, cotone e l’ingombro del porto di Genova

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/03/1915

Carbone, cotone e l’ingombro del porto di Genova

«Corriere della Sera», 15[1] e 18[2] marzo, 3 aprile[3] 1915, 12[4] e 16[5] gennaio, 18 febbraio[6], 5 dicembre[7] 1916

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 138-184

 

 

I

L’impressione che si prova ogni qualvolta si ritorna a studiare il problema del porto di Genova è quella di un confuso vociare, d’un altercare oscuro tra Consorzio del porto e ferrovia, tra speditori, spedizionieri e ricevitori, tra importatori ed esportatori, tra chiattaiuoli, padroni di velieri, armatori, impresari d’imbarco, imprese di stivaggi, compagnie di navigazione, raccomandatari, ecc. ecc. Tutti gridano che c’è qualche cosa che non va e ne danno la colpa a lentezze, abusi, mancanze di iniziativa, di arredamenti, di mezzi di trasporto di enti e persone diverse dal gruppo a cui l’interrogato appartiene. Spesso i rimedi indicati da un gruppo sono dichiarati dall’altro di impossibile attuazione od addirittura nocivi. Cosicché lo studioso finisce di giungere ad una sola convinzione sicura: ed è che il problema è di una complessità grandissima, costante nei suoi caratteri fondamentali, cangiante nelle sue manifestazioni giornaliere. Chi avesse tempo e voglia, non so quale problema economico potrebbe trovare così degno di studio, così affascinante, così vario come il problema del porto di Genova. Un porto è come un cuore a cui affluisce il sangue di mille e mille vene del gran corpo di un paese e da cui il sangue parte per numerose arterie per andare a dar nuova vita alle industrie ed al commercio nazionali. Li si incontrano e si urtano gli interessi dell’industria interna che vuole approvvigionarsi di materie prime o spedire all’estero i prodotti finiti, delle compagnie di navigazione e degli armatori che effettuano il trasporto, di variopinte classi di intermediari che vogliono lucrare sull’obbligatorio passaggio della merce attraverso a quel punto, di ceti organizzati di operai i quali prelevano la loro tangente sulle manipolazioni a cui la merce va soggetta; e sopra a tutti questi interessi privati si elevano il Consorzio del porto, le ferrovie di stato, la dogana, la Camera di commercio, enti che rappresentano tutti un pubblico interesse, visto però da ognuno di essi secondo una visuale che non sempre si identifica con la visuale degli altri. Un economista-letterato potrebbe ricavare da questo groviglio di interessi, da questi atteggiamenti contrastanti un libro denso di fatti e di passioni che si leggerebbe come un romanzo e sarebbe istruttivo come un trattato. Mi contenterò di mettere in luce alcuni lati del fenomeno nel momento presente.

 

 

Forse il punto di vista più attuale del problema del porto di Genova è che la sua insufficienza ordinaria, alla quale soltanto il tempo e la collaborazione di molti enti e persone potranno recar sollievo, si è trovata d’un tratto ingigantita dalla guerra europea. Il porto di Genova, che era un porto quasi esclusivamente nazionale, ha dovuto subitamente adattarsi a diventare un porto internazionale. La guerra che ha chiuso l’accesso ai porti di Amburgo, di Brema, di Anversa, ha richiamato al sud una parte del traffico che prima si svolgeva attraverso ai porti del nord; e poiché Venezia è schivata per paura delle mine, Trieste e Marsiglia appartengono a nazioni belligeranti, e gli altri porti sono troppo lontani o troppo male attrezzati, le correnti del traffico si sono incanalate per Genova: correnti da mare per l’entroterra; e dall’entroterra – alta Italia, Svizzera, Germania, Austria – verso mare. Sotto la straordinaria pressione, le parti del complesso meccanismo portuale stridono; gli attriti crescono, gli arresti si moltiplicano. Ed attriti ed arresti vogliono dire aumenti enormi di spese per speditori e destinatari, angustie gravissime per le industrie ed i consumatori dell’alta Italia, i quali devono subire le conseguenze del lavoro congestionato ed affannoso che il porto deve compiere.

 

 

Forse il dato che meglio permette di valutare l’importanza che la guerra europea ebbe per il traffico del porto di Genova è dato dalle giacenze delle principali merci nel porto (in tonnellate):

 

 

Carboni Cotoni Cereali
24 agosto 1914 98.000 3.522 23.544
24 ottobre 229.491 1.281 16.536
28 novembre 159.077 5.689 35.517
2 gennaio 1915 272.090 11.179 110.931
30 gennaio 215.870 10.246 157.134
20 febbraio 139.820 15.637 180.671
27 febbraio 98.470 15.711 165.232

 

 

Vi è un primo periodo, durante l’agosto, in cui gli arrivi da mare vengono grandemente limitati dalle difficoltà monetarie, dalla crisi improvvisa nel meccanismo degli scambi internazionali, dalla impossibilità di assicurare navi contro il rischio di guerra. Durante l’agosto, mancando i nuovi arrivi, la ferrovia riesce a smaltire gran parte delle merci arrivate prima e le giacenze rimaste in porto scendono a cifre assai basse.

 

 

In settembre comincia la ripresa. Ma non avviene simultaneamente in tutti i rami del traffico. Questo rimane ancora paralizzato in parecchi campi e si risveglia affannosamente solo in certe direzioni per cui sembra più insopportabile la mancanza negli approvvigionamenti e più pericolosa l’attesa. Il primo a risvegliarsi è il traffico del carbone. Tutti ricordano i prezzi di panico dell’agosto, fino a 100 lire la tonnellata. Attratte dagli alti prezzi, l’una dopo l’altra le navi carboniere si rovesciano sul porto di Genova, riempiono le calate, si riversano sulle chiatte, ingombrano di sé le linee ferroviarie: al 2 gennaio le giacenze giungono al massimo di 272.090 tonnellate. Dopo d’allora la importazione del carbone comincia a rallentare. Il rialzo dei noli dall’Inghilterra, avvenuto a partire dal dicembre, la diminuita escavazione nelle miniere che approvvigionavano l’Italia e che hanno visto diminuire la maestranza per i copiosi arruolamenti, la possibilità di far venire il carbone dalla Germania – per la Svizzera transita ogni giorno una trentina di treni carichi di carbone westfaliano diretto in Italia e carbone tedesco arriva persino a Sampierdarena, a due passi dal porto di Genova, fatto miracoloso che in tempo di pace nessuno avrebbe creduto possibile! – fanno sì che gli arrivi di carbone da mare scarseggino e le rimanenze in porto si riducano a 98.470 tonnellate. Le chiatte si vuotano e sulle banchine destinate al carbone si formano larghi vuoti; sicché girando nel porto si veggono appilati i sacchi di grano e le balle di cotone dove a ricordo d’uomo mai non s’era visto altro che carbone.

 

 

Oggi la situazione del porto per quanto riguarda il traffico del carbone è notevolmente alleggerita. La ferrovia assorbe ed inoltra con facilità il carbone destinato all’interno. Ma è una facilità che impensierisce. Si presagisce la prossima bufera. Se noi supponiamo che per una circostanza qualsiasi i valichi alpini si chiudano al carbone della Westfalia, da quali riserve trarrà l’Italia il carbone necessario alle sue industrie ed alla sua vita cittadina? Genova e Savona hanno scarse riserve, bastevoli per alcuni giorni od alcune settimane, a seconda dell’importanza delle riserve esistenti nell’entroterra. Vi sono grandi città dell’alta Italia dove si prevede che, se il carbone non ricomincia ad affluire, i gasometri fra tre mesi non potranno più fornire gas alla popolazione. E se il carbone tornerà ad arrivare in quantità sufficienti, a prezzi altissimi, esso tornerà ad ingombrare le calate e vi sarà di nuovo una congestione nera e polverulenta nel porto di Genova.

 

 

Oggi parlano di congestione i fiocchi bianchi, che dagli strappi e dalle scuciture delle balle di cotone il vento trasporta sulle banchine e l’odore gradito delle enormi pile di sacchi di frumento e di granoturco che aspettano di essere trasportate ai mulini.

 

 

Fino alla fine di ottobre pochi nel porto pensavano ad un possibile ingorgo di cotone; sicché, quando le giacenze in porto si erano ridotte a circa 1.300 tonnellate, si pensò di ridurre il numero degli accosti dei vapori cotonieri al molo nuovo e di destinare una parte dei magazzini generali eserciti dalla ferrovia ad altre merci diverse, destinate anche all’esportazione e che si affollavano sulle banchine, in attesa di un imbarco che non potevano subito avere. Ma a partire dal novembre e più dal dicembre accadde ciò che era fatale: i cotonifici dell’interno esaurirono le loro rimanenze e si rimisero a lavorare in pieno ed a far arrivare cotone greggio dall’America; i cotonifici tedeschi, svizzeri ed austriaci, non potendo più ricevere merci dai porti del nord, indirizzarono i loro piroscafi a Genova. Le giacenze in porto crebbero a poco a poco sino a 15.711 tonnellate il 27 febbraio. La cifra paragonata a quelle del carbone e dei cereali può sembrare piccola; ma se la si traduce in balle appare grandissima. Secondo il bollettino della Docks cotoni, al 5 marzo erano ben 483.100 balle giacenti nel porto, nei magazzini consortili dei cotoni, in un capannone in legno costruito dal Consorzio in fretta e in furia dietro ai docks, nei magazzini generali, sulle calate al vento ed alla pioggia, nella galleria del Passo nuovo che dal porto conduce a Sampierdarena.

 

 

Contemporaneamente al cotone, si sviluppavano gli arrivi di cereali; prima sovrattutto per l’estero e poi sovratutto per l’interno. I sili sono pieni di grano; enormi mucchi di grano giacciono sulle banchine: sulle chiatte si vede il granoturco alla rinfusa; e grosse quantità furono dal Consorzio condotte in grandi magazzini presi in affitto a Sampierdarena. L’avamporto, le rade di Vado e di Santa Margherita sono piene di piroscafi che attendono il loro turno di scarico; mentre altri piroscafi, più impazienti, hanno scaricato su velieri, i quali, invece di navigare, hanno trovato convenienza di trasformarsi in magazzini galleggianti.

 

 

Mentre così si trasformava il traffico delle merci principali all’arrivo, crescevano altresì le importazioni di molte altre merci varie, delle quali sarebbe troppo lungo tenere discorso. Mi fu detto che negozianti greci e turchi, per salvare le loro ricchezze dagli orrori della guerra, abbiano pensato ad importare e a depositare a Genova ben 150.000 balle di tabacco di Macedonia, che ora ingombrano il deposito franco e rendono più difficili le operazioni commerciali.

 

 

Ma è cresciuto anche il commercio di esportazione delle merci varie. In verità i carri scaricati, ossia provenienti dall’estero e dall’alta Italia e condotti sul posto per destinazione d’oltremare, sono diminuiti:

 

 

1913-14

1914-15

Dicembre

9.564

8.148

Gennaio

8.185

6.240

Febbraio

7.606

6.146

 

 

Ma il guaio si fu che, per i divieti di esportazione, molta merce dovette rimanere sul posto in attesa di ottenere il permesso di imbarco; ed il porto è ora ingorgato di merce in sofferenza. Non è possibile perciò sfogare con la dovuta sollecitudine i carri destinati all’esportazione, i quali attendono sulle linee. Erano 1.217 al 22 gennaio ed al 25 febbraio erano saliti a 1.714, i quali aspettavano sulle linee e nelle stazioni che la merce giacente in porto avesse potuto trovare imbarco. Di qui un ostacolo frapposto dai carri in discesa verso il porto e giacenti lungo le linee alla corrente contraria dei carri in ascesa dal porto verso l’interno; di qui rigurgiti ferroviari, sospensioni di accettazione di merci verso l’interno, ritardi nel carico di carri sul posto. Di qui lagnanze vivissime, d’ogni parte insorte, contro le deficienze del servizio portuario e ferroviario e contro gli abusi d’ogni specie che si moltiplicano nei momenti di difficoltà e di crisi.

 

 

II

Quasi tutte le industrie ed i commerci che si servono del porto di Genova si lamentano dell’insufficienza dei servizi portuari e ferroviari, dell’ingorgo del porto, dell’ingombro delle calate, degli abusi delle chiatte e dei velieri. V’è, naturalmente, un certo contrasto di interessi fra le varie schiere di coloro che si lagnano, Poiché l’insufficienza dei mezzi atti a scemare rapidamente l’ingombro è in relazione coll’importanza straordinaria del traffico che vorrebbe sfogarsi attraverso il porto; e quindi la soddisfazione compiuta delle domande degli uni non può d’un tratto avvenire se non con parziale detrimento degli interessi di altri. A dare un’idea del problema, sceglierò una industria particolare: quella del cotone, la quale nel momento presente può essere considerata tipica. Intendo unicamente fotografare la situazione, senza esporre un giudizio mio proprio su tutti i punti controversi, richiedendosi, per esso, conoscenze tecniche precise, senza le quali è impossibile valutare acconciamente le affermazioni degli uni e le denegazioni degli altri.

 

 

La situazione dei cotonieri non è sicuramente lieta. Dopo un periodo di stasi, in cui per la difficoltà dei noli, i rischi di guerra e preoccupazioni finanziarie riguardo ai mezzi di pagamento la importazione dei cotoni greggi era grandemente scemata e le giacenza dei cotoni sul porto erano giunte al minimo di 1.281 tonnellate (24 ottobre), in novembre si ebbe una ripresa (5.682 tonnellate di giacenza al 28 novembre) e questa si accentuò nei mesi successivi. La filatura, la quale in Italia aveva traversato momenti difficili negli ultimi anni e doveva lottare con la sovraproduzione e la impossibilità di smerciare senza perdita le rimanenze di magazzino, d’un tratto vide iniziarsi giorni migliori. Le abbondanti richieste per forniture militari, sia del governo nazionale, come di governi stranieri, appartenenti imparzialmente ad amendue i gruppi belligeranti, e sovratutto le richieste dei tessitori germanici ed austriaci, quali non potevano procacciarsi cotone greggio dall’America, sfollarono in un batter d’occhio i magazzeni. L’industria, la quale prima lottava contro la insufficienza del consumo, dovette combattere contro la mancanza della materia prima. Per soddisfare alle pressanti richieste dei cotonieri italiani, numerosi carichi di cotone si indirizzarono dagli Stati uniti verso Genova; e tutti si affollarono nel medesimo periodo per trovare sfogo, attraverso il porto, verso l’alta Italia.

 

 

Contemporaneamente si verificava il medesimo fenomeno in Isvizzera, in Germania ed in Austria; e poiché i porti del nord erano chiusi ed i piroscafi non si attentavano a sfidare l’ostacolo delle mine vaganti per l’Adriatico e del blocco anglo-francese i carichi di cotone furono indirizzati anch’essi per Genova. La speculazione, la quale vide la convenienza di acquistare a buon mercato in America e di vendere a caro prezzo al più alto offerente in Europa, si aggiunse alla partita; sicché questi tre movimenti, iniziatisi separatamente l’uno dall’altro e senza che l’uno potesse prevedere le conseguenze dell’azione contemporanea di tutti insieme, condussero ai seguenti risultati (balle di cotone arrivate a Genova):

 

 

1913-14

1914-15
Dicembre

94.730

196.348

Gennaio

87.712

248.518

Febbraio

63.498

228.230

Totale

245.942

673.088

 

 

Gli arrivi poco mancò triplicassero, come si vede, ed il porto fu incapace a sfogarli con la dovuta sollecitudine. Malgrado che il traffico del carbone fosse contemporaneamente diminuito, numerose cause cospirarono a far sì che questi arrivi colossali non trovassero rapidamente sfogo oltre l’Appennino e condusse all’ingombro che tutto si riassume nella cifra terrificante di 483.100 balle giacenti il 5 marzo sul porto di Genova in attesa di inoltro.

 

 

Accennerò ad alcune delle cause che produssero l’ingombro lamentato:

 

 

  • la simultaneità degli arrivi per l’interno e per l’estero. Il corto di Genova che era quasi esclusivamente attrezzato per il servizio dei cotonieri dell’alta Italia, dovette adattarsi a diventare d’un tratto un corto di transito. Pareva che il decreto del 13 novembre, il quale consentiva il transito soltanto alle merci indirizzate all’estero con polizza nominativa, escluse le polizze all’ordine, dovesse porre un rimedio all’esorbitante afflusso; ma il decreto fu dovuto revocare, in seguito alla impossibilità di applicarlo; cosicché i piroscafi continuarono ad arrivare, crescendo la confusione e l’ingombro e le difficoltà di inoltro a destino. Per la scarsezza degli accosti disponibili, vapori contenenti dalle 10 alle 15.000 balle, che in tempi normali avrebbero potuto sbarcare 1.500 balle al giorno, furono costretti a ridurre lo scarico a 6oo – 8oo balle al giorno, di cui una parte andava a finire nelle chiatte. Talvolta vapori già accostati dovettero cedere l’accosto, quando arrivava un vapore di linee regolari, specialmente delle linee sovvenzionate, che portano cotoni dall’Egitto, quasi tutti destinati all’estero;
  • la speculazione. Sulle 483.000 balle giacenti nel porto di Genova, pare che soltanto un terzo sia destinato ai cotonifici italiani. Se si dovesse provvedere soltanto a questo terzo, l’industria italiana potrebbe essere servita con grande sollecitudine. Né l’ingombro maggiore si può affermare sia derivato dall’altro terzo che si può presumere, per sufficiente indizio, essere destinato all’estero. I cotonieri esteri hanno somma urgenza di ricevere il cotone greggio ed e ragionevole che essi usino di ogni mezzo per affrettarne l’inoltro. Ma v’è un ultimo terzo, che forse non è destinato a priori né all’interno né all’estero ma attende l’occasione propizia di essere venduto al massimo prezzo. Sono giacenze speculative, in mano di persone forse in prevalenza del luogo ed influentissime, le quali possono avere interesse ad attendere il momento propizio per la spedizione. Frattanto ingombrano le calate, i capannoni, ostacolano le complesse operazioni commerciali (campionature, miscele) delle altre partite, operazioni richiedenti spazio e comodità di mezzi di carico;
  • la mancanza di carri chiusi e di copertoni. Sia per la emigrazione di un certo numero di carri chiusi in Germania ed in Austria, le quali li restituiscono aperti, sia per altre cause, è certo che in dati momenti le ferrovie non poterono far sì che i 120 carri destinati al carico dei cotoni sul porto di Genova fossero tutti chiusi, come è desiderabile specialmente nei mesi in cui domina il cattivo tempo. Vi si sarebbe potuto provvedere con copertoni; ma, di fronte ad un fabbisogno giornaliero di 400-500 copertoni, la ferrovia pare sia stata in grado di fornirne solo circa 200. Il terremoto degli Abruzzi ha contribuito alla scarsità dei copertoni: poiché parecchie migliaia di essi furono dovuti adoperare per fornire un passeggero ricovero alle sventurate popolazioni colpite dal terremoto. Accadde intanto parecchie volte che per difetto di copertoni fosse impossibile caricare 120 carri destinati al cotone, sebbene la merce fosse pronta ed i carri esistessero sul posto in copia;
  • il mal tempo; il quale fece sì che diminuissero notevolmente i giorni lavorativi nel porto: 25 giorni di pioggia nel trimestre dicembre-febbraio del 1914-15 contro 8 giorni nel 1913-14;
  • gli ingorghi alle stazioni di transito verso l’estero: Chiasso, Luino, Ala, ecc. È accaduto che le verifiche doganali richiedessero, in seguito ai moltiplicati divieti di esportazione ed ai timori di frode, un tempo assai più lungo del solito ai transiti dei confini di terra. Di qui un rigurgito che si ripercosse su tutta la linea fino al punto di partenza. Colonne di carri dovettero rimanere fermi sui binari del porto, finché le stazioni di confine non fossero in grado di accogliere nuovi treni; e da ciò nacquero ritardi nei nuovi carichi, ingombro dei magazzini, attesa sui piroscafi, trasbordi su chiatte e su velieri, con tutta la sequela di malefizi oramai ben noti;
  • i divieti e controdivieti di esportazione. Parecchia merce, indirizzata all’estero, dovette essere trattenuta sul porto perché nel frattempo erano stati decretati od allargati divieti di esportazione. Non pochi industriali o negozianti, nonostante i divieti, seguitarono a dirigere merce su Genova, mossi dalla speranza, fondata o non, di riuscire a strappare al governo una eccezione ai divieti generali o nell’attesa di trarre partito da eventuali scambi in natura di merci nazionali contro merci straniere necessarie all’Italia. Frattanto il porto si ingombrava di partite in sofferenza, specialmente ai magazzini generali del molo vecchio, ostacolando il sollecito carico e scarico del restante traffico;
  • la adozione e la successiva sospensione della trazione elettrica sulla succursale dei Giovi. Durante l’estate scorsa quando il traffico del porto era caduto assai in basso, l’amministrazione ferroviaria pensò di applicare anche alla succursale il sistema di trazione elettrica che aveva dato buoni risultati sulla linea vecchia dei Giovi, permettendo di istradare quivi giornalmente 22-23 treni merci per un peso utile di 380 tonnellate l’uno. Ma la trasformazione era appena compiuta che il traffico cominciò a crescere spaventosamente. Gli impianti ed i locomotori si chiarirono insufficienti a portare l’attuale intenso traffico; cosicché si dovette ritornare alla trazione a vapore, con la quale si smaltiscono sulla succursale giornalmente 32 treni di 670 tonnellate l’uno. Non è escluso che le mutazioni abbiano recato qualche impedimento al normale sviluppo dei trasporti; sebbene l’amministrazione ferroviaria contesti il fondamento del rimprovero ed attenda ad aumentare il numero dei locomotori ed a crescere la potenzialità degli impianti allo scopo di ristabilire nel momento opportuno la trazione elettrica, dalla quale spera risultati altrettanto buoni per la succursale come per la linea vecchia dei Giovi;
  • le difficoltà pratiche di caricare, malgrado l’ingombro della merce e la disponibilità dei 120 carri giornalieri. Il carico del cotone sui carri non sembra essere una faccenda molto semplice. I cotoni sono caricati alla rinfusa nel Golfo del Messico o ad Alessandria d’Egitto o nell’India in partite di 50 o 100 balle. Lo scarico si effettua sul porto di nuovo alla rinfusa, con tutte le marche di provenienza dalle singole ditte le une alle altre mescolate. Invece di portarle dalla stiva sul carro ferroviario, fa d’uopo disporle a terra o sotto i capannoni in uno spazio sufficientemente grande per unire le balle della medesima partita, distinguendole per le lettere che le segnano. Ogni balIa deve essere pesata, se ne deve estrarre un campione per l’eventuale arbitraggio; poi devono essere ricucite e caricate sul carro. Se manca lo spazio, se le balle destinate all’interno sono mescolate con quelle destinate all’estero, se i magazzini ed i capannoni sono colmi di merce, la efficienza di lavoro del metro lineare di calata scema grandemente: ed i carri devono inutilmente attendere un carico che a grande stento e con ritardo può compiersi;
  • le condizioni generali di attrezzatura del porto. Sebbene notevolmente migliorate in confronto a quelle che erano alcuni anni or sono, esse non sono sufficienti ad un lavoro normale intenso. Si vede ancora troppo lavoro fatto a mano; e si veggono, quando c’è furia, rimessi in onore certi macchinari di pesatura che parevano abbandonati da tempo. Con l’esecuzione della trazione elettrica e della nuova galleria dal molo nuovo alla stazione di Brignole, con l’aumento rapido nel numero degli elevatori elettrici, con lo sfollamento, con congrue indennità, dei ruoli degli operai e con una più efficace organizzazione del lavoro si dovrebbe giungere presto a caricare 2.000 carri e scaricare 500 carri al giorno, aspettando il momento in cui la direttissima ed il bacino Vittorio Emanuele consentano di aumentare assai più la produttività del porto. Per ora, bastando il porto al traffico normale, si attendeva dal tempo la soluzione ai problemi prossimi e lontani. Lo scoppio della guerra ha dimostrato che forse si è tergiversato troppo: e che ad un grande porto nazionale, come quello di Genova, converrebbe di essere attrezzato ed organizzato per sfogare un traffico di un terzo superiore al traffico normale. Attrezzato ed organizzato però non solo per quanto riguarda il porto, ma anche per le linee che ad esso fanno capo. Altrimenti l’insufficienza delle linee renderebbe inutili i capitali spesi nella attrezzatura del porto.

 

 

Tutte queste difficoltà, permanenti o temporanee, vecchie o nuove, hanno agito or l’una or l’altra successivamente e talora, in parte, in guisa cumulativa; ed hanno, ad ogni modo, condotto a conseguenze assai poco liete per l’industria italiana.

 

 

III

L’effetto più visibile dell’ingombro del porto è l’aumento delle spese di sbarco, imbarco, sosta e spedizione a carico del destinatario della merce. Ad ascoltare le lagnanze degli industriali e dei loro rappresentanti si sentono cose che paiono incredibili. Le lagnanze più gravi non sono contro la mano d’opera e contro l’organizzazione del lavoro da tempo attuata dal Consorzio. Anzi si ha l’impressione che questa del lavoro non sia una questione attuale. Anche coloro che non sono favorevoli alla regolamentazione del lavoro, ai turni ed ai vincoli del Consorzio, quasi riconoscono che la tariffa del lavoro, nella presente baraonda di prezzi e di abusi, è un qualche cosa di stabile su cui si può fare assegnamento. I salari pagati agli operai possono essere elevati; ma sono certi. Se le maestranze chiedessero salari maggiori di quelli fissati nelle tariffe, l’interessato può depositare la somma e ricorrere agli arbitri. Taluno potrà giudicare troppo breve la giornata di lavoro ed eccessivo l’obbligo di pagare aggiunte quando gli operai scarichino da un boccaporto più di 500 tonnellate al giorno; ma nelle attuali condizioni del porto e delle ferrovie sarebbe inutile e spesso impossibile scaricare di più.

 

 

La spesa normale del carico e scarico di una balla di cotone è calcolata a lire 1,20, corrispondente suppergiù alla tariffa generale di lire 3,40 per tonnellata stabilita dal Consorzio per il prezzo a cottimo del trasporto della merce da sotto paranco a terra. A me da persona competente è stato fatto il seguente conto delle reali spese che l’impresa di sbarco sostiene per effettuare il trasporto:

 

 

Sbarco diretto da piroscafo a terra

Sbarco per chiatte

Facchinaggio

L. 0,65

Nolo chiatta

L. 1,00

Confidente

L. 0,10

Custodia

L. 0,40

Divisione marche ecc.

L. 0,10

Consegna

L. 0,25

Consegna ecc.

L. 0,25

Divisione marche

L. 0,10

Totale spese

L. 1,10

Facchinaggio

L. 0,80

Lucro

L. 2,30

Confidente

L. 0,10

Tariffa

L. 3,40

Rimorchio

L. 0,40

Totale spese

L. 3,05

Lucro

L. 0,35

Tariffa

L. 3,40

 

 

Poiché in tempi normali lo sbarco su chiatta è l ‘eccezione, vedesi come già in tempi normali la spesa di facchinaggio in lire 0,65 rappresenti una porzione non principale della tariffa complessiva, la quale è assorbita sovratutto dai lucri e dai ristorni a favore delle diverse categorie di intermediari: imprese sbarco, spedizionieri, raccomandatari, capitani ecc. ecc.

 

 

In tempi straordinari, quando per ogni balIa si pagano, invece di lire 1,20, ben lire 10 e 15 e persino 20 e 30, il che equivale per tonnellata a 30 e 45 e forse 60 e 90 lire, la spesa del facchinaggio, anche se si suppone alimentata di una metà al disopra dei 65 ed 8o centesimi per balIa, diventa ancora meno rilevante. Si comprende come di questo fattore di spesa io non abbia sentito parlare da nessuno come di un qualche cosa che fosse interessante nel momento presente. È un fattore importantissimo, perché in tempi normali ad una variazione in meno del costo del facchinaggio dovrebbe corrispondere un perfezionamento tecnico generale del porto, con una riduzione generale di costi. Ma nell’urgenza dell’ora majora premunt, a ben altri carichi occorre por mente.

 

 

Ciò che veramente affligge gli utenti del porto è l’incertezza delle spese varie e straordinarie, sono gli abusi che spuntano e si moltiplicano come funghi nei momenti di ressa.

 

 

La merce deve essere scaricata su chiatte? Il chiattaiolo carica 100 tonnellate di merce su una chiatta e pone un uomo, qualche volta un uomo ed un cane, a guardia di 5 o 6 chiatte. Ma poiché su quelle 5 o 6 chiatte vi possono essere 100 partite di merci diverse, il chiattaiolo fattura ai singoli destinatari 5 lire di guardianaggio, ricuperando così centuplicata la spesa realmente fatta. Nei tempi tranquilli nessuno discorre delle chiatte; le quali spuntano fuori quando c’è ressa e raccolgono messi superbe di diritti d’ogni specie.

 

 

Non bastano le chiatte? Ed allora accorrono da ogni porto d’Italia velieri che lucravano modesti noli col cabotaggio; ed accorrono a ragione poiché, senza correre nessun rischio di navigazione, senza quasi alcuna spesa, questi velieri, trasformati in magazzini galleggianti, raccolgono, rimanendo quieti nel porto di Genova, messi d’oro. Si racconta di velieri, i quali possono valere da 10 a 12.000 lire, i cui proprietari in poco tempo ricuperano il capitale speso. Leggo in un memoriale dei cotonieri:

 

 

Se riflettete che ognuno di questi galleggianti non contiene che 800 o 1.000 balle e che all’inizio si pretendeva un nolo di 300 lire al giorno, cifra che ora è salita a 600, a 800 e forse a 1.000 lire al giorno, comprenderete di leggeri come si arrivi alle cifre iperboliche di 15, 20 ed anche 30 lire per balIa. Quando pensate che vi sono oltre 100.000 balle in velieri, è evidente che i proprietari di questi galleggianti possano a loro agio eccedere nelle loro pretese esagerate, perché se non si vuol cedere non si ha d’altra parte il mezzo di sottrarsi alle loro pretese scaricando la merce.

 

 

Se si riflette che i chiattaioli ed i padroni di velieri sono gente assai influente, che moltissime persone sono a Genova interessate nelle chiatte e che in certi periodi della storia recente genovese costoro erano ascoltati dalle autorità politiche locali, si comprende la ragione per cui gli industriali del nord lamentino l’esistenza a Genova di tutta una fitta organizzazione la quale ha interesse a prolungare ed intensificare l’ingombro del porto. Il consorzio ha cercato, tutti lo riconoscono, di reagire contro queste organizzazioni; e molti augurano che esso riesca a distruggere tutta questa vegetazione parassitaria ed a regolare con tariffe chiare, semplici e costanti il costo dei servizi portuari, normalmente accessori e straordinariamente importantissimi.

 

 

Insieme con l’aumento dei costi portuari, che dalle lire 1,20 normali sono giunti a 10, 15 e, come vedemmo sopra, persino, in casi che voglio credere veramente eccezionali, a lire 30 per balla di cotone, gli industriali hanno dovuto subire inconvenienti svariati per i ritardi e non di rado per l’impossibilità di ottenere la merce necessaria per dar lavoro ai loro stabilimenti. L’Istituto cotoniero italiano ha fatto eseguire alcuni rilievi statistici assai interessanti sullo stato degli approvvigionamenti di cotone dei soci al 5 e 25 gennaio e 13 febbraio, ed è in corso la statistica relativa alla fine di febbraio. Darò alcune delle risultanze principali di questi rilievi:

 

 

5 gennaio

25 gennaio

13 febbraio

Numero dei fusi di filatura dei soci

2.568.000

2.569.000

2.546.900

Balle di proprietà dei soci giacenti nel porto

55.754

108.984

114.508

Balle in stabilimento

24.688

27.763

26.243

Balle acquistate nei successivi periodi da colleghi e mercanti per sopperire al mancato inoltro da Genova

14.685

5.684

5.068

Importo del sovraprezzo pagato

83.050

430.786

380.000

Mancata produzione nei successivi periodi espressa in chilogrammi

1.667.505

669.600

675.500

Perdita subita dalla maestranza per mancate mercedi in lire

343.250

150.050

114.400

 

 

È notevole come le giacenze in porto dei soci dell’Istituto cotoniero crescano di volta in volta, mentre rimangono stazionari gli approvvigionamenti nella fabbrica. In via normale ogni stabilimento dovrebbe avere la materia prima per almeno un mese, onde poter disporre la lavorazione con tranquillità e poter fare le miscele più opportune per avere un tipo di filato costante. Invece spesso gli stabilimenti sono costretti ad andare innanzi di giorno in giorno, con riserve miserrime. Al 13 febbraio vi erano 9 stabilimenti che non avevano affatto riserve, 1 che aveva tanta materia prima da poter lavorare per tre quarti di giorno, 4 per 1 giorno, 4 per 2 giorni, 1 per 2,5, 5 per 3, 5 per 4 giorni, 2 per 5 giorni, 4 per 6 giorni, in tutto 35 stabilimenti su un totale di 62, che avevano al massimo la vita assicurata per una settimana lavorativa. La maggior parte degli altri non giungeva ad un mese di riserve di cotone greggio; talché molti erano quelli che avevano dovuto acquistare cotone da colleghi più fortunati negli arrivi, e da mercanti, pagando rilevanti sovraprezzi; e numerosi erano i casi di sospensioni forzate di lavoro, tanto più dolorose in quanto si sarebbe potuto lavorare in pieno e con profitto.

 

 

Numerosi sono i rimedi che furono proposti per ovviare alle conseguenze dell’ingorgo portuario e delle difficoltà industriali che ne sono la inevitabile conseguenza; e sarebbe ingiusto non riconoscere che il Consorzio del porto, le ferrovie, la Camera di commercio, le autorità centrali hanno cercato di contribuire nella misura del possibile all’auspicato sfollamento del porto. Le difficoltà sono molte: né furono tutte sormontate.

 

 

Un concetto fecondo, che potrà continuare ad essere applicato anche dopo scongiurata la crisi odierna, è quello di prolungare, per così dire, idealmente le calate ed i binari del porto fino ad un punto centrale della pianura padana, dove possono aver luogo molte operazioni che la angustia dello spazio rende costose e complicate a Genova. Disgraziatamente, a differenza dei grandi porti del nord d’Europa, Genova non possiede ora e non possiederà forse mai ampiezza di calate, sviluppi di binari, comodità larghissime di approdi. Il porto è uno specchio d’acqua creato artificialmente a ridosso della montagna e non, come per lo più accade nei porti settentrionali, una serie di bacini, succedentisi a vista d’occhio lungo un fiume navigabile. Per giunta, le comunicazioni fra il porto e l’entroterra si devono compiere attraverso a due e in avvenire tre gallerie ferroviarie e ad una strozzatura ferroviaria, quella di Sampierdarena, che in avvenire diventeranno due. Se i punti estremi della rete ferroviaria (Chiasso, Luino, Ala ecc.) si congestionano o se qualcuna delle stazioni di transito è ingombra, bisogna sospendere le spedizioni anche da Genova, e le merci si accumulano sulle banchine, rendendo difficili accosti, sbarchi, imbarchi e mettendo in onore la chiatta, questo flagello del porto. Pare che per i cotoni il consorzio, la ferrovia e la dogana si siano messi d’accordo per creare ai magazzini raccordati di Milano una specie di succursale del porto, dove il cotone verrà spedito da Genova alla rinfusa, come vien viene, salvo ad eseguire ivi, su più ampio spazio, con maggiori comodi, le operazioni di smistamento, di campionatura, di assortimento, di sdoganamento e di inoltro ai destinatari. Qualche difficoltà deve ancora essere superata, specie per quanto riguarda la responsabilità delle compagnie di assicurazione, la quale oggi si arresta al porto di Genova e dovrebbe prolungarsi sino alla succursale interna del porto.

 

 

L’idea è feconda, e gioverebbe se fosse estesa ad altre merci e perfezionata. Si tratterebbe di creare una corrente continua e costante di carri dal porto dove lo spazio è carissimo ad un punto centrale della pianura dove Io spazio è di gran lunga più abbondante. Da questo punto centrale si dovrebbero poi avviare molte correnti minori, variabili, intermittenti alle stazioni destinatarie dell’interno ed alle stazioni di transito internazionale, correnti che dovrebbero essere acconciamente regolate a seconda della potenzialità della linea e delle esigenze del traffico. Alcuni pensano anzi che lo stesso concetto potrebbe essere applicato altresì per la corrente che discende dall’estero o dall’alta Italia per prendere imbarco a Genova. La costituzione di un centro su cui fossero concentrate tutte le spedizioni su Genova, permetterebbe di formare in quel centro su un unico treno i carichi completi delle merci destinate ad ognuno dei piroscafi la cui partenza fosse avvisata da Genova. I treni partirebbero da quel centro appena in tempo per giungere sul porto e scaricare immediatamente. Così le calate sarebbero di gran lunga meno ingombre, la potenzialità del porto sarebbe assai accresciuta, le due correnti contrarie del traffico non congestionerebbero periodicamente la linea ferroviaria che unisce Genova al centro; ed il porto finirebbe per ricuperare sulla maggiore massa dei transiti le somme perdute per le minori manipolazioni e le minori soste fatte subire alla merce tra chiatta e banchina.

 

 

Un’altra idea feconda è quella di far servire i porti vicini di Savona e Livorno per sfogare il traffico che tenta invano di incanalarsi attraverso Genova. Tanto l’uno che l’altro porto hanno il vantaggio di disporre di linee ferroviarie indipendenti: anzi Savona possiede un impianto di funivia capace di trasportare a San Giuseppe, ad esempio, da 700 ad 800 balle di cotone al giorno. Le maggiori difficoltà, oltre quelle relative alle operazioni doganali, che non sono insormontabili, dipendono da male abitudini locali. Per Savona si sono dette e scritte cose incredibili intorno ai diritti che le corporazioni operaie – bisogna proprio dire «corporazioni» poiché pare di essere ricaduti in pieno corporativismo monopolistico! – vantano per impedire agli elevatori elettrici di funzionare. Per un altro porto sentii raccontare di dinieghi perentori opposti dalle compagnie ad assicurare contro l’incendio il cotone ivi destinato, dopoché, in occasione di un principio di incendio a poche decine di balle, sorsero pretese stravaganti ad indennità di decine di migliaia di lire da parte di coloro che avevano cooperato al salvataggio delle balle gettandole in acqua.

 

 

Questo è forse il nodo del problema; ed è un nodo essenzialmente morale. Finché coloro che vivono in un porto non si persuaderanno che la merce non passa attraverso alla loro città per procurare guadagni e lucri ad essi, sibbene ha bisogno di transitare il più rapidamente e il meno costosamente possibile; è vano sperare di rendere i nostri porti uno strumento permanente e grandioso di traffici internazionali. Oggi la merce è costretta a passare attraverso i porti italiani, per la chiusura dei porti del nord; ed opimi sono i lucri che si ottengono negli improvvisati punti di transito, a spese degli stranieri e dei connazionali, che dall’improvvisa irruzione dei primi si trovano premuti e danneggiati. Passata la guerra, domani tutto ritornerà allo stato di prima; ed invano da taluni preveggenti si sarà accarezzata la speranza di conquistare all’Italia una parte di questo traffico internazionale. Chi vorrà venire da noi a pagare tariffe di chiatta, di veliero, di salvataggio?

 

IV

Il problema «italiano» del carbone ha cause complesse; né è possibile pensare a soluzioni facili e pronte. Cercherò di delineare, con la maggiore sobrietà possibile, cause e rimedi; avvertendo, però, che né il quadro dei rimedi potrà essere compiuto, né la indicazione dei rimedi «efficaci»potrà sembrare soddisfacente a chi immagina che una soluzione pronta sia in potere di privati o di governanti. Dopo avere a Genova discorso con parecchi competentissimi, appartenenti a ceti aventi gli interessi più svariati, l’unica convinzione veramente salda che mi sono formato è quella della complessità e difficoltà del problema. Una opinione diversa, mi sia consentito di dirlo, può far parte solo del bagaglio intellettuale di scrittori e uomini politici desiderosi – anche in perfetta buona fede – di illudere con parole grosse la opinione pubblica. Né io spero che la esposizione che farò possa essere compiuta, in tutto precisa, e scevra di errori. Occorrerebbe, per ciò, essere vissuto per anni ed anni nel porto, conoscere, per esperienza vissuta, il meccanismo mirabile dei noli, del traffico, del mercato del carbone all’origine ed all’arrivo. Ma, forse, chi tutto questo sul serio conoscesse, non avrebbe nessuna voglia di scrivere; sicché il pubblico conviene si adatti ad avere quella rappresentazione imperfettissima dei fatti che un «laico» può offrire.

 

 

Il fatto essenziale può essere esposto in una tabellina brevissima, che riassume i prezzi ed i noli di una qualità primaria di carbone da gas inglese (il newpelton) a tre date differenti: alla vigilia dello scoppio della guerra europea, appena dichiarata la guerra italiana contro l’Austria ed in un giorno dei primi del gennaio corrente.

 

 

Metà luglio 1914 Fine maggio 1915 4 gennaio1916
1. Prezzo f.o.b. sul mercato inglese d’origine in scellini per tonnellata 

13,25

23

23

2. Prezzo c.i.f. a Cenova in scellini per tonnellata

21

54

102

3. Differenza fra 1) e 2) in scellini per tonnellata

7,75

31

79

4. Di cui nolo in scellini per tonnellata

7,50

30,25

66,50

5. Cambio percentuale su Londra delle lire italiane sulle lire sterline

100,55

111,75

124,08

6. Prezzo dello scellino da nominali lire italiane1,261

1,268

1,409

1,565

7. Aumento del prezzo dovuto al cambio, in lire italiane

0,15

8 31

8. Prezzo c.i.f. (cfr. sopra n. 2) tradotto in lire italiane al cambio del giorno

26,63

76,10

159,60

9. Prezzo a Genova per consegna su carro ferroviario, in lire italiane per tonnellata

30

86

190

10. Differenza fra 8) e 9), in lire italiane per tonnellata

3,37

9,90

30,40

 

 

Ho cercato di costruire la tabellina in modo da mettere in risalto le varie responsabilità, per così dire, dell’aumento verificatosi nel prezzo del carbone.

 

 

All’origine, abbiamo un prezzo f.o.b., ossia free on board, consegnato franco sul piroscafo in partenza dal porto inglese (Cardiff, Newcastle ecc. a seconda delle qualità del carbone). Il prezzo all’origine è aumentato di circa 10 scellini per tonnellata, per cause relative all’organizzazione del lavoro, della produzione e del traffico in Inghilterra: centinaia di migliaia di minatori arruolatisi nell’esercito di Lord Kitchener, aumento dei salari degli operai rimasti, in relazione al crescere del costo della vita, minore efficienza media dei minatori rimasti dopoché i più vigorosi si erano arruolati e di quelli nuovi racimolati qua e là in furia dai coltivatori delle miniere; insufficienza, in parte, del lavoro ferroviario e saltuario ingorgo dei porti per le esigenze militari e dell’ammiragliato. Su questa causa di aumento del prezzo complessivo del carbone non ritornerò più, sia perché essa è assolutamente fuori del campo d’azione di ogni rimedio che potesse essere immaginato in Italia, sia perché, a parer mio, essa non è suscettibile di un qualsiasi rimedio nemmeno da parte dell’Inghilterra; e noi ci possiamo soltanto augurare che il male non si aggravi col proseguire della guerra.

 

 

Il secondo elemento del rincaro del carbone è dato dalla cresciuta differenza (n. 3) fra il prezzo f.o.b. all’origine ed il prezzo c.i.f. all’arrivo a Genova. Il prezzo c.i.f. (iniziali delle parole inglesi cost, insurance, freight, ossia prezzo di costo per l’armatore all’origine, assicurazione e nolo) è il prezzo negoziato sul mercato di Genova per il carbone reso sul vapore in arrivo, nel momento in cui cominciano a decorrere i giorni stipulati nel contratto di noleggio per lo scarico della nave (le cosidette stallie e controstallie). Questa differenza fra il prezzo all’origine ed il prezzo all’arrivo è grandemente cresciuta. Era di 7,75 scellini nel luglio 1914, divenne di 31 scellini all’inizio della guerra italiana e balzò a 79 negli ultimi giorni. In massima parte (come si vede dalla linea 4) questa differenza è data dal nolo marittimo, che fu di 7,50, 30,25 e 66,5o alle tre date. Mentre però nel luglio 1914 e nel maggio 1915 la differenza fra i due prezzi, all’origine ed all’arrivo, era quasi tutta assorbita dal nolo, con un piccolissimo margine per l’assicurazione, oggi rimangono 12,50 scellini di differenza, oltre il nolo. Questi 12,50 non sono assorbiti certamente dall’assicurazione marittima normale e dal rischio di guerra, sia pure accresciuto dai siluramenti operati nel mediterraneo dai sottomarini tedeschi. Ho ragion di credere che l’assicurazione marittima, compreso il rischio di guerra, non superi ora I’1,50% del prezzo c.i.f. Genova, dedotta la metà del nolo, ossia non superi 1 scellino per tonnellata, tenendosi piuttosto al di sotto di questa cifra addotta come un massimo. Gli altri 11,50 scellini di differenza devono essere un fatto prevalentemente d’indole locale, inerente al porto ed al mercato dei carboni di Genova; e quindi le sue cause possono assimilarsi a quelle di cui si discorrerà in ultimo (sotto linea 10).

 

 

Il prezzo c.i.f. a Genova viene sempre calcolato, anche sul mercato genovese, in scellini per tonnellata. Dovendolo trasformare in lire italiane, occorre tener conto del cambio. Ecco il terzo grande elemento di rialzo: il rialzo del cambio dal 100,55 al 111,75 ed al 124,08 alle tre date assunte sopra: grazie al quale lo scellino, che alla parità varrebbe lire italiane 1,261, costò invece rispettivamente lire italiane 1,268 alla metà luglio 1914, lire italiane 1,409 a fine maggio 1915 ed 1,565 al 4 gennaio 1916. Il carbone, che se il cambio fosse stato alla pari, avrebbe avuto il prezzo di lire italiane 26,48 – 68,10 – 128,60 alle tre date, costò invece, per il rincaro del cambio, lire italiane 26,63 – 76,10 e 159,60 come si legge nella tabellina; con un sovrappiù di lire italiane 0,15 – 8 e 31. Anche su questa causa importantissima di aumento del prezzo del carbone, a cui sono da attribuirsi da 30 a 35 lire del maggior prezzo pagato all’interno, a seconda delle qualità, non ritornerò per ora: non essendo una causa specifica al carbone e meritando perciò un discorso apposito.

 

 

In calce alla tabellina, si legge ancora il prezzo in lire italiane del carbone posto sul carro ferroviario sulla banchina del porto e pronto alla partenza per l’interno. È il prezzo che maggiormente interessa il consumatore. Il rialzo è enorme: da 30 a 190 lire. Il sovrappiù di questo prezzo sul carro in confronto al prezzo c. i. f. su vapore Genova tradotto in lire italiane è trascritto nell’ultima linea (n. 10) della tabellina ed è uguale alle cosidette «spese di porto». Prima della guerra europea il trasporto di una tonnellata di carbone da vapore a carro ferroviario costava lire italiane 3,37 per tonnellata; allo scoppio della guerra italiana costava già 9,90 ed ora costa 30,40. Se a queste lire 30,40 aggiungiamo gli 11 scellini circa, di cui ho detto sopra e che un tempo si riducevano a mezzo scellino, potremo dire che le spese relative, direttamente od indirettamente, al porto di Genova sono, in cifra tonda, aumentate da circa 4 a circa 45 lire. Ecco la quarta grande causa di aumento del prezzo del carbone.

 

 

Riassumendo, si può dire che, se il prezzo del carbone – prezzi all`ingrosso, a Genova, su carro ferroviario è aumentato da 30 a 190 lire, ossia di 160 lire, l’aumento è dovuto:

 

 

1. al rialzo del prezzo all’origine per L. 12,50
2. al rialzo del nolo ed assicurazione L. 75
3. al rialzo del cambio L. 31
4. al rialzo delle spese attinenti direttamente od indirettamente al porto L. 41,50

Aumento totale

L. 160,00

 

 

Naturalmente queste cifre vanno considerate con quella ragionevole larghezza, la quale è inerente al problema, variabile di giorno in giorno, di qualità in qualità di carbone, di porto in porto d’origine. Tutto sommato, però, ritengo che le cifre ora addotte siano una rappresentazione tollerabilmente accettabile della realtà.

 

 

Avendo già osservato che sul rialzo del prezzo all’origine non v’è alcuna azione possibile e che dal rialzo del cambio converrebbe fare un discorso a parte, rimangono i due fattori più importanti del rialzo: 75 lire di più per nolo ed assicurazioni e 41 – 42 lire circa per spese relative, anche indirettamente, al porto. Sono due fattori, fra di loro strettamente e si potrebbe dire inestricabilmente riuniti, inquantoché il rialzo dei noli ha influito al rialzo delle spese di porto, e viceversa l’ingorgo del porto ha contribuito per riverbero sul rialzo dei noli.

 

 

Intorno alle cause di questi due fatti farebbe d’uopo avere molto spazio a disposizione; troppo di più di quanto non possa offrirne nelle presenti contingenze un giornale quotidiano. Perciò, e per brevità, accennerò di passata a quelle che sono le cause ben note del rialzo generale dei noli nel mondo: la scomparsa dai mari delle bandiere germanica ed austro-ungarica; la parziale utilizzazione di una parte sola delle navi nemiche sequestrate nei porti dall’intesa; lo storno di una frazione cospicua delle bandiere belligeranti ai trasporti militari, intensificati negli ultimi mesi dalla spedizione di Salonicco; la parziale inutilizzazione della bandiera greca in seguito a timore di fermo nei porti dell’intesa. Tutto ciò non poteva non produrre una rarefazione delle navi disponibili per il commercio e quindi non poteva non avere per effetto un forte rialzo dei noli. Siccome io qui ricerco le cause dei fatti e per ora non accenno ai rimedi, né dò un giudizio morale sui fatti stessi, così è inevitabile la conclusione che il rialzo dei noli fu quale, date le cause, doveva essere. Né mi meraviglierei che il rialzo continuasse ancora; e che, dopo aver pagato un nolo decuplo di quello che si pagava prima della guerra europea, si finisse di pagare anche quindici volte o più il nolo originario. Ogni sottrazione, per siluramenti, mine e sovratutto per destinazione militare, al naviglio mercantile ha ed avrà per effetto un rialzo dei noli. Trattasi inoltre, si rifletta, di una merce il cui prezzo non cresce solo in ragione direttamente proporzionale alla diminuzione della quantità offerta ed all’aumento della quantità domandata; ma in ragione più che proporzionale. Come per il grano la deficienza nel raccolto di un decimo può produrre un aumento nel prezzo di una metà, così per il tonnellaggio navale, una relativamente piccola deficienza può produrre un fortissimo aumento nei noli. Grano e tonnellaggio navale sono due merci di prima necessità, per il consumo e per l’industria o per tutti e due insieme; e pur di ottenerle, i consumatori rinunciano ad altri consumi secondari e fanno a gara per procurarsele. Rincarano il frumento, il carbone, il cotone? Consumatori ed industrie sono presi dall’affanno e fanno urgenti richieste; cresce il margine di profitto; conviene perciò noleggiare navi a prezzo sempre più alto; i noli aumentano ed il loro aumento reagisce a sua volta sui prezzi del frumento, del cotone e del carbone.

 

 

V

Ho cercato sopra di mettere in luce come, sulle 160 lire di aumento (da 30 a 190) del prezzo del carbon fossile reso su carro ferroviario a Genova, 12,50 fossero dovute all’aumento del prezzo all’origine, 75 al rialzo dei noli e dell’assicurazione marittima, 31 all’inasprirsi del cambio, e 40-42 circa a cause direttamente od indirettamente connesse col porto. È quest’ultima cifra la quale subito attrae la nostra attenzione; inquantoché sembra a primo aspetto che sia maggiormente facile agire su di essa che sugli altri elementi del rialzo.

 

 

La parola «cause connesse col porto» non deve essere però interpretata nel senso che i servizi portuari siano essi direttamene la sola causa dell’aumento da 4 a 45 lire circa per tonnellata di carbone. A bella posta ho sempre aggiunta la parola indirettamente, per indicare che si trattava di fatti i quali hanno un certo rapporto col porto, più che con la miniera od il noleggio, od il cambio e che perciò meglio possono riassumersi con quella che con qualsiasi altra indicazione. In realtà il fatto è estremamente complesso. Sicché può dirsi che a produrlo abbiano contribuito tutte le circostanze le quali riescono a determinare il prezzo di una merce su un mercato.

 

 

Poiché importa non dimenticare un fatto principe: che Genova non è solo il maggior «porto» carbonifero ma è anche il solo grande «mercato» di carbone dell’Italia ed uno dei maggiori mercati carboniferi del mondo. Se Genova fosse solo un porto attraverso a cui il carbone passa, questa cifra sarebbe di gran lunga minore di 45 lire: perché sarebbe uguale solo alle pure spese di scarico da nave e carico su carro ferroviario; le quali, per quanto siano cresciute, costituiscono la minor parte del totale. Io decomporrei così,senza garanzie di esattezza assoluta, quelle cifre di 4 e di 45 lire

 

 

Prima della guerra europea

Adesso

Spese di porto propriamente dette L. it.

3

6-7

Altri fattori del mercato dei carboni

1

38-39

 

 

Le maggiori spese di porto propriamente dette sono tutt’altro che trascurabili; ma non assurgono all’importanza degli altri fattori e agiscono sul mercato dei carboni. Il quale non è, come dissi, un mercato puramente genovese, ma un mercato mondiale. Qui hanno sede i rappresentanti delle maggiori miniere inglesi ed ora anche americane; qui vi sono cospicui depositi di carbone in attesa di vendita; qui si fanno giornalmente contratti per migliaia di tonnellate contanti ed a termine. In un mercato attivo, come quello di Genova, si incontrano continuamente domande ed offerte di carbone; prezzi oscillano giornalmente in funzione di avvenimenti attuali di avvenimenti futuri previsti: e si negoziano quantità esistenti quantità future. Come è possibile in un mercato simile pretendere che il prezzo collimi esattamente con la somma dei soli elementi di costo conosciuti: prezzo all’origine, nolo, assicurazione e spese di porto? Il prezzo alla lunga tende ad adeguarsi a questi fattori ma oscilla spesso al disopra ed al disotto, in rapporto ai prezzi futuri previsti all’origine, ai noli anch’essi probabili, alla domanda prevista del consumo. Ciò accade in ogni merce ed accade quindi anche per il carbone. Aggiungo essere una grande fortuna per l’Italia che il porto di Genova sia non solo un grande porto, ma grande mercato, poiché, se così non fosse, l’Italia non potrebbe influire sui prezzi del carbone, ma dovrebbe accettare senz’altro quelli inglesi od americani: non esisterebbero depositi cospicui a Genova ed a Savona, i quali funzionano da volante regolatore nel meccanismo dei prezzi: ed oggi assisteremmo a volate di prezzi ben più stupefacenti di quelle già verificatesi. Quella buona gente, che avendo visto rialzare il carbone a Genova, si è immaginata di fare un’economia andando a comprare a Cardiff o ad Hampton Road ha dimenticato che un grande ed attivo mercato locale è il meccanismo più perfetto che, finora almeno, sia stato inventato per ridurre i prezzi al minimo. Dove si incontrano centinaia di produttori, rappresentanti, negozianti, armatori, consumatori, tutti alla cerca di un profitto, dove c’è una borsa di merci, vi è ogni probabilità che, per la reciproca concorrenza, i prezzi in media tendano ad essere minori di quelli che, fatti bene i conti, può spuntare un incompetente consumatore, partito nella illusione di saltare i profitti degli intermediari, alla scoperta del carbone al costo in una miniera del Galles inglese o della Pennsylvania. Il costo dell’incompetenza è certo maggiore del profitto dell’intermediario.

 

 

Come mai, se questa è la verità, è accaduto che il margine delle spese di «mercato» non dirò più delle spese di «porto» si sia decuplicato dopo l’inizio della guerra europea? I fattori sono molti: e, senza avere affatto la pretesa di elencarli tutti, accennerò ad alcuni di essi.

 

 

  • In primo luogo metterò la insufficienza del servizio ferroviario. Ma debbo avvertire subito che trattasi di insufficienza relativa, non assoluta. Ho l’impressione che i funzionari ferroviari, i quali hanno bene meritato dal paese sia durante il periodo della mobilitazione sia in quello della guerra guerreggiata, abbiano con molto fervore cercato di assolvere il loro compito. Nonostante l’assorbimento di carri avvenuto nella zona delle retrovie assorbimento inevitabile e contro il quale non si possono muovere critiche se non da gente disposta a criticare, come colpa imperdonabile, una eventuale trascuranza da parte dell’intendenza militare di ogni più lontana possibilità di movimenti di truppe da ordinarsi dallo stato maggiore nonostante che più di un terzo dei carri disponibili sia, ed assai giustamente, accaparrato dall’autorità militare, il porto di Genova ha avuto un movimento di carri caricati superiore agli anni trascorsi. Ricorderò solo i mesi da giugno in poi:

 

 

1912

1913

1914

1915

Giugno

29.115

29.155

27.181

33.406

Luglio

31.993

32.914

30.436

35.365

Agosto

31.723

28.049

20.643

32.431

Settembre

28.594

25.515

18.853

31.574

Ottobre

33.708

28.742

23.474

33.987

Novembre

32.878

30.582

30.080

36.137

Dicembre

32.190

33.312

29.457

35.436

Totale anno

361.054

366.637

326.937

394.255

 

 

Nel mese di dicembre 1915 si giunse a caricare in un giorno 1.705 carri, mentre nel dicembre 1914 la punta massima era stata di 1.447 carri e nel dicembre 1913 di 1.442 carri. Se si pensa che la massima potenzialità teorica di carico al porto di Genova è di 2.000 carri; e che questo massimo carico si potrebbe raggiungere solo in condizioni ideali, impossibili a verificarsi in pratica (calate perfettamente libere, bel tempo al porto, ai Giovi, all’interno, carico da elevatori, senza uso di chiatte, vie perfettamente libere, nessun ingombro in nessuna stazione ricevitrice, ecc. ecc.), si vede che praticamente era quasi impossibile fare di più. Forse si sarebbe potuto aumentare il carlco se si fosse soppressa la metà dei residui treni passeggeri, se i lavori in corso per la direttissima fossero più avanzati, se il nuovo grande bacino Vittorio Emanuele fosse ultimato. Ma è inutile, parmi, occuparsi ora dei se, il cui verificarsi farebbe alzare al cielo gli strilli dei passeggeri o che si sarebbero verificati con maggiore prontezza di deliberazione e di attuazione in passato da parte di parlamenti, governi, corpi locali, corpi consultivi, ecc. L’insufficienza ferroviaria di Genova non cesserà se non quando le ferrovie ed il porto siano attrezzati in modo da sopperire di anno in anno ad un traffico notevolmente maggiore delle massime punte a cui si sia arrivati in passato. Attuare un simile programma è di una difficoltà grande, specie se non si vuole turbare il traffico esistente; ma, finché non sia stato attuato, sempre si lamenteranno di tratto in tratto ingorghi di merce ed insufficienze ferroviarie.

 

 

Il carico di carri ferroviari fu nei mesi scorsi insufficiente non, come parmi di avere dimostrato, in via assoluta, ma in relazione al traffico crescente. La guerra italiana interruppe bensì i traffici con gli imperi centrali: ma riversò sul Tirreno e sovratutto su Genova il traffico dell’Adriatico, costrinse i carri a più lunghe percorrenze, crebbe l’urgenza del traffico militare e d’ordine pubblico. Il commercio «ordinario» è probabile sia stato peggio servito di prima: poiché i più numerosi carri dovettero servire ad un traffico assai maggiore ed ogni servizio, specialmente tra quelli che non avevano carattere d’urgenza militare o politica, dovette essere sacrificato. Invece di 1.200 carri in media per ogni giorno, lavorativo o non, avrebbe fatto d’uopo disporre di 1.500 o più carri; ma da persone competenti mi venne assicurato che ciò era per ragioni tecniche assolutamente impossibile;

 

 

  • in secondo luogo le assegnazioni privilegiate di carri a taluni consumatori. Entro un certo limite, la guerra ha reso inevitabili le assegnazioni privilegiate di carri e quindi di banchine, e di elevatori elettrici e di accosti a talune categorie di piroscafi. Quando il comando del corpo d’armata richiede un dato numero di carri, non vi è discussione possibile. La difesa del paese passa avanti a tutto. Nemmeno si può discutere se l’autorità militare richiede 100 e poi di fatto utilizza solo 80 o 70 carri. Che direbbero i critici quando, per non essere stata ultra-prudente, l’autorità militare non avesse potuto provvedere per tempo ad una esigenza dello stato maggiore? Neppure si può discutere intorno al privilegio di carri ed accosti a favore dello stato, dei suoi stabilimenti militari e di quelli assimilati che fabbricano munizioni da guerra. Salus respublicae suprema lex esto.

 

 

Il commercio genovese dei carboni si lagna non di questi, ma di altri privilegi. Senza voler discutere il problema particolare, intorno a cui si sono sparsi fiumi d’inchiostro, noto che le assegnazioni privilegiate di carri e di accosti, quando non siano ridotte al minimo possibile per ragioni strettamente militari e di utilità pubblica, sono dannose e producono aumenti di spese di porto e di nolo. Prima di chiedere un accosto privilegiato, fa d’uopo che comuni, ferrovie, autorità politiche facciano ogni sforzo: lascino la città in condizione di semibuio, dimezzino le corse, riducano al minimo il consumo pubblico del carbone. Che cosa vuol dire invero un accosto privilegiato? Che su 10 piroscafi, ad esempio, in attesa di accosto alla banchina per scaricare, il decimo salta sopra al turno degli altri e scarica anzitempo. Gli altri nove debbono aspettare, due tre e più giorni a scaricare; e frattanto pagano le controstallie. Queste, che normalmente erano di 20-25 centesimi al giorno e per tonnellata di carbone, sono salite ora ad 1 lira e persino 1,50 al giorno e per tonnellata.

 

 

L’armatore, che, navigando, guadagnava un nolo di 7 scellini per viaggio, perdeva in passato poco a star fermo in avamporto e si contentava di un indennizzo piccolo: oggi che, navigando, guadagna noli di 60-70 scellini, pretende indennità maggiori. Prima, sapendo di potere scaricare subito, si adattava ad aspettare senza pretendere di far decorrere subito i giorni assegnati per il carico. Oggi, premuto dal desiderio di guadagnare e spaventato dal pericolo di attendere, stipula che i giorni delle stallie e controstallie decorrono non, come accadeva prima, dal momento della ammissione in porto, ma dal momento della presentazione in avamporto o magari nelle rade di Vado e S. Margherita. Se gli accosti privilegiati fanno perdere inoltre tempo ai non privilegiati, si può immaginare a che altezze possano salire le indennità dovute agli armatori. Si parla di carbone, per cui furono dovute pagare 20 e fino a 30 lire per tonnellata di pure controstallie per ritardi in avamporto di 20 e 30 giorni. Chi ha l’accosto privilegiato scarica con una spesa di 2 lire; ma cioè produce un aumento nel costo dei meno fortunati; un rialzo dei rischi dei piroscafi che fanno rotta per Genova ed un rialzo correlativo dei noli. Tutti i prezzi si influenzano a vicenda; e non si può negare che in parte il rialzo dei noli dell’Inghilterra è dovuto a cause nostre. Oggi alla distribuzione dei piroscafi e alla assegnazione degli accosti provvede una commissione presieduta dal presidente del Consorzio e composta di un rappresentante del ministero della guerra e di uno di quello degli interni. La commissione decide inappellabilmente;

 

 

  • l’arrivo irregolare della merce. Riferendomi al solo carbone, noterò che, forse sperando inesplicabilmente in un ribasso, molti industriali dell’entroterra attesero luglio, attesero agosto e settembre, decidendosi tardi ad ordinare. Così accadde che nelle quattro settimane dal 24 settembre al 21 ottobre, arrivarono d’un colpo 324.369 tonnellate di carbon fossile. Era impossibile sfogare tutta questa massa di piroscafi e di carbone arrivata in un sol colpo, e fu allora che si produsse l’ingorgo, si innalzarono mucchi enormi sulle banchine, si occuparono le chiatte; si cominciarono a pagare controstallie crescenti; i chiattaioli diventarono sempre più esigenti; si intensificarono, per la non facile sorveglianza, i furti; si rese difficile il carico, perché i carri ferroviari si muovono male a banchine ingombre. Le giacenze di carbone sul porto che il 13 marzo 1915 erano di 133.710 tonnellate ed ancora il 7 agosto erano di 133.310 tonnellate, giunsero il 23 ottobre alla cifra di 287.210 tonnellate, mantenendosi alte fino al 20 novembre, con 271.370 tonnellate. Il 20 novembre le navi in avamporto e nelle rade di Vado e S. Margherita in attesa di accosto giunsero al numero di 52: una vera flotta che perdeva tempo, faceva pagare indennità fortissime, persino di 5.000-6.000 lire al giorno, ai ricevitori e diffamava all’estero il buon nome del porto di Genova.

 

 

A sfollare il traffico si presero vari provvedimenti; di cui il principale fu di dirigere alcune navi a scaricare a Livorno, Savona, Porto Vecchio, Noli, Oneglia, Vado, Spezia, S. Margherita. Non è un’allegria per il consumo, sebbene questo abbia avuto il condono del 75% delle maggiori eventuali spese ferroviarie; essendo le spese di scarico, in porti talvolta non sufficientemente attrezzati, maggiori e più alte le provvigioni e le spese per rischi di ogni genere per gli spedizionieri. Ma un certo effetto si ottenne. Le navi in attesa di scarico erano, tra carbone, granaglie, merci varie, solo più 30 al 3 gennaio e verso il 10 gennaio si dovevano essere ridotte a circa 10. Contribuì al buon risultato la diminuzione degli arrivi. Contro a 324.369 tonnellate di carbone giunte nelle quattro settimane dal 24 settembre al 21 ottobre stanno 175.658 tonnellate giunte dal 21 ottobre al 18 novembre, 142.504 tonnellate dal 19 novembre al 16 dicembre e 67.077 tonnellate nelle due settimane dal 17 al 31 dicembre (corrispondenti a 134.154 tonnellate per l’ugual periodo di quattro settimane). Le giacenze di carbone in porto si sono ridotte; scendendosi dal massimo di 287.210 tonnellate il 23 ottobre e da 271.370 tonnellate il 20 novembre a 253.505 tonnellate il 27 novembre ed a 176.015 tonnellate il 31 dicembre;

 

 

  • il rischio di fare arrivare carbone. Se per molti rispetti la diminuzione delle giacenze del carbone in porto è utile, per altri la diminuzione degli arrivi può fare impensierire. Per il momento il fatto non mi sembra preoccupante; ma non bisogna trascurare il pericolo, potenziale e lontano, che può nascondersi nel dato statistico dei minori arrivi.

 

 

Non dimentichiamo invero che Genova è un grande mercato di carboni, su cui si formano i prezzi, in relazione ai prezzi d’origine, ma tenendo conto di elementi aggiuntivi sorti in seguito. Il carbone in arrivo a Genova non è, per lo più, carbone già venduto, con destinatario conosciuto. È carbone invenduto, a disposizione degli armatori, dei negozianti o spedizionieri. Se a Genova arrivasse solo il carbone già venduto alla clientela dell’entroterra, non esisterebbero depositi ed, al primo accenno di domanda nuova, i prezzi del carbone, anche in piena pace e tanto più in tempo di guerra, salirebbero a salti non di decine ma di centinaia di lire per volta. Fortunatamente, il commercio provvede in via normale a far venire carbone invenduto; e, costretto dalla concorrenza, lo vende a prezzi i quali lasciano il margine ordinario di profitto. In tempi straordinari, come i presenti, il margine di profitto rialza, perché si adegua ai rischi massimi che si corrono all’origine, in navigazione ed in porto. Teme il commercio di pagare 20 lire per controstallie per tonnellata di carbone? Ed il prezzo sul mercato rialza di 20 lire per tutto il quantitativo disponibile, anche se questo in passato non ha pagato controstallie od ha pagato molto meno. Rialzano i noli da Cardiff a Genova, perché una parte del tonnellaggio navale viene sottratta da urgenti richieste dell’Estremo Oriente, timoroso di non potere più passare, se ritarda ancora un po’, attraverso il canale di Suez e di dovere allungare il viaggio di 20 giorni, passando a largo del Capo di Buona Speranza? Ed il prezzo del carbone disponibile a Genova rialza in rapporto al nolo cresciuto, sebbene in passato i noli pagati da questo stesso carbone fossero minori. Corre voce di una possibile pace a non lunga scadenza? Il carbone rialza ancora, perché, in previsione del tracollo nei noli che si verificherebbe al semplice annuncio di un armistizio, i negozianti temono di caricarsi di troppo carbone, acquistato a prezzo alto, e non hanno desiderio di perdere i milioni guadagnati durante il rialzo e tanto meno desiderano fallire. Cosa la quale accadrebbe sicuramente se essi dovessero comprare a 190 e vendere a 100 e ad 80. E così le giacenze si riducono ed in un mercato ristretto i prezzi salgono.

 

 

Al rialzo finora non ha contribuito la circostanza che il governo vende all’industria ed agli enti pubblici carbone a prezzi inferiori a quelli di mercato ed uguali, a quanto pare, ai prezzi passati di costo. Non ha influito perché sinora pare che il governo abbia venduto solo da 50 a 60 mila tonnellate di carbone, che è una quantità irrilevante di fronte ai 10 milioni di tonnellate di consumo italiano ed ai 2 milioni che il commercio privato importa da solo attraverso il porto di Genova.

 

 

Se l’azione del governo si estendesse, bisognerebbe pensare a renderla completa, ossia tale da provvedere tutto il fabbisogno del paese. Perché provviste governative e provviste del commercio possono coesistere solo se si sa a priori che il governo si adatterà in tutto ai prezzi correnti di mercato. Se il commercio è persuaso di ciò, l’intervento di un venditore di più sul mercato (il governo) non disturba l’azione degli altri. Ma appena si sa che il governo invece interviene per quantità apprezzabili e vende ad un prezzo di costo, differente da quello corrente di mercato, il commercio si ritira. Si corre un rischio troppo grande a comperare, quando si sa che vi è un concorrente che può vendere al suo costo, forse anche al disotto del suo costo e probabilmente al disotto del prezzo corrente di mercato.

 

 

Sono in contrasto due metodi di fissare i prezzi: l’uno tenuto dal commercio, secondo cui i prezzi sono uguali al costo di sostituzione del carbone, ossia al costo che si avrebbe oggi se si dovesse comprare in Inghilterra o negli Stati uniti il carbone, trasportarlo, assicurarlo, scaricarlo e ricaricarlo; l’altro, invocato dal pubblico, e seguito spesso dagli stati, secondo cui il prezzo è uguale al costo effettivamente sopportato in passato per porre il carbone sul carro. Il primo consiste nel vendere al prezzo corrente di 190, uguale al costo attuale, anche se in passato costò 100 o 300; e consente al commercio guadagni e perdite. L’altro vorrebbe impedire i lucri degli intermediari, vendendo a 100 ciò che si acquistò a 100 ed a 300 ciò che costò 300. Sarebbe facile, ma un po’ lungo, dimostrare che il primo sistema è il solo pratico, ed efficace ed il meno costoso per le collettività. Ma, anche senza dare tale dimostrazione, è chiaro che i due sistemi non possono coesistere. Il commercio si eclissa da se stesso, spontaneamente, appena sorge un concorrente che, per quantità rilevanti, vende a prezzi che possono essere diversi da quelli del mercato e possono convertire in perdita il suo guadagno. I timori del commercio vogliono dire scarsità di depositi e prezzi in rialzo, fino a che il governo non si accinga da solo a provvedere a tutto il consumo del paese.

 

 

Ho voluto fare una descrizione; non dare dei giudizi. Pure, la sola descrizione è imperfettissima.

 

 

Sarebbero necessarie la competenza vissuta di un negoziante e la penna di un Balzac per compiere il quadro. In un mercato in cui si accentuano gli elementi di incertezze e di rischio, in cui le valutazioni del futuro diventano sempre più difficili, in cui alle forze normali economiche agenti su di esso si aggiungono fattori politici, concioni ed articoli contro la speculazione, clamori di consumatori, pressioni di città e di regioni, insistenze di industrie per richiamare su di sé l’attenzione dei poteri pubblici e scavalcare, con privilegi, gli altri consumatori, il terreno è propizio al sorgere di quella che il pubblico chiama «speculazione» e che non ha nulla a che fare con quella a cui noi economisti diamo unicamente il nome di speculazione e che è previsione del futuro, facoltà rarissima, ignorata dal volgo, calunniata dai politicanti, molla potentissima e superba di progresso e di civiltà. Sorge la piccola speculazione, il volgare trucco del piccolo negoziante che ha venduto la partita di carbone a 100 e cerca pretesti nella pioggia, nel vento, nei funerali di Pietro Chiesa, nella serrata per non consegnare e per vendere a 200 a chi più offre. In questo ambiente il chiattaiolo impone la sua esorbitante taglia sul carbone che deve essere scaricato sul barcone ed attendere, alla Dio mercé e degli incendi e dei furti, il turno del carico su carro. Si acuisce la voglia di guadagnare nella gente accorta che vive del porto; e vien meno la voglia di lavorare nell’operaio, il quale, essendo privo di grandi desideri, preferisce riposare il quinto ed il sesto ed il settimo giorno, quando per il rialzo dei salari può guadagnare in quattro giorni la somma che prima faticava ad ottenere in sei.

 

 

Tutti questi non sono fatti-cause dell’aumento complessivo del prezzo del carbone. Possono bensì entrare per 10, 15, 20 lire a comporre quelle 40-45 lire di «spese relative al porto di Genova»; ma sono essi stessi la conseguenza della situazione anormale del mercato. I profitti degli intermediari crescono in occasione dell’aumento degli altri elementi di costo. Essi però non potrebbero crescere, se gli intermediari non potessero cogliere il pretesto dell’esistenza di vere cause dell’aumento. Tuttavia, i consumatori dell’interno si esasperano sovratutto contro questi che sono i piccoli fatti, i fatti occasionali dall’aumento e chiedono calmieri, requisizioni, multe e carcere contro gli speculatori e gli affamatori. Il che altresì è sempre accaduto, nonostante ogni sforzo posto dagli economisti nel fare le descrizioni più oggettive possibili dei fatti e delle loro cause.

 

 

VI

Ho osservato altra volta, ed è osservazione non mia, bensì di tutti gli studiosi delle condizioni del porto di Genova, che il limite alle operazioni portuali è dato dal numero dei carri ferroviari i quali possono essere caricati sul porto ed inoltrati verso l’entroterra. Senza ritornare sopra i vari aspetti del problema della insufficienza relativa dei carri in confronto del cresciuto traffico portuale, è evidente che una via d’uscita dalle difficoltà attuali del porto di Genova potrebbe essere parzialmente trovata nella soppressione artificiale di una parte dell’entroterra servito dal porto. Se noi supponiamo che il numero dei carri ferroviari richiesti per sfogare regolarmente il traffico di importazione del porto di Genova sia di 1.500 carri; e che invece il numero dei carri disponibili e caricabili sia soltanto, in media per ogni giorno, compresi i non lavorativi, di 1.200, la deficienza risulta in 300 carri al giorno. Se esistesse un mezzo, grazie al quale l’entroterra gravitante sul porto fosse ridotto di estensione, sicché il numero dei carri necessari fosse ridotto a 1.200, ecco risolto il problema dell’equilibrio tra ferrovia e porto.

 

 

Ho addotto questa proporzione di un quinto come quella «teorica» che oggi risolverebbe compiutamente il problema, pure essendo ben consapevole delle grandi difficoltà le quali si dovrebbero superare per giungere ad una soppressione anche minore e dei buoni risultati che si otterrebbero anche da una soluzione incompiuta.

 

 

È possibile sopprimere un quinto circa dell’entroterra che fa capo a Genova? A primo aspetto, sembra non solo impossibile, ma neppure conveniente; poiché la soppressione pare voler dire diniego ad intiere industrie o città di valersi del porto di Genova per l’importazione di carbone, frumento, materie prime ed altre derrate necessarie od utili. Il che è assurdo e sarebbe dannoso.

 

 

«Soppressione di un quinto dell’entroterra» non ha però questo significato catastrofico. Vuole semplicemente dire: servire un quinto dell’entroterra con mezzi diversi da quelli ferroviari. Io non mi attenterei certamente a mettere innanzi questa idea se non sapessi che, in forma consimile, essa fu già patrocinata da autorità competentissime, quali il senatore Ronco, presidente del Consorzio del porto e la Camera di commercio di Genova. Il presidente del Consorzio deve avere ripetutamente fatte presenti al ministero dei lavori pubblici alcune proposte da lui ricevute allo scopo di fare assumere da imprese di carattere semi-pubblico il servizio del trasporto con carri ordinari od autocarri dalle banchine del porto alla zona industriale di Genova. La Camera di commercio di Genova, presieduta dall’attivissimo Oberti e su relazione Bagnara, deve avere approvata una proposta di assunzione da parte delle ferrovie di stato dei trasporti di merci con mezzi diversi da quelli ferroviari, per le destinazioni a breve distanza alle quali si possa accedere con veicoli a trazione meccanica senza guida di rotaie, con aleggi a rimorchio o con scarico diretto. Il relatore alla Camera di commercio calcola a 250-300 carri al giorno il traffico che dal porto va all’entroterra immediato, quella che potrebbe essere chiamata «la zona industriale di Genova». Se fosse possibile servire questa zona senza ricorrere alla ferrovia utilizzando le strade rotabili ordinarie o, mediante scarico diretto da barconi su appositi pontili, rimarrebbero disponibili 250-300 carri per l’entroterra più lontano, il quale non può essere altrimenti servito fuorché colla ferrovia.

 

 

Né si tema di compiere con ciò opera contraria al progresso. Il problema che oggi si presenta per il porto di Genova, si è presentato in passato per tutte le grandi agglomerazioni urbane, come Parigi, Londra, Berlino, New York. Arriva un momento, sia per i passeggeri che per le merci, in cui il traffico ferroviario a breve distanza impaccia e rende costosissimo il traffico a lunga distanza. In una grande agglomerazione urbana, la ferrovia, quando desideri accaparrare i viaggiatori, i quali al mattino ed alla sera fanno la spoletta fra la città e la casa situata nelle zone vicine, deve fare partire un gran numero di carrozze e di treni, i quali al X, XX o XXX chilometro devono interrompersi o viaggiare quasi interamente vuoti. Può darsi che, ad un certo punto, l’incaglio prodotto da questi treni brevi al traffico a lunga distanza sia così grande che alla ferrovia convenga abbandonare addirittura il traffico a breve distanza, dedicandosi al perfezionamento degli impianti e dei servizi per il traffico oltre, ad esempio, il XX chilometro. È vantaggioso venire ad una simile divisione del lavoro tra la ferrovia e gli altri mezzi di trasporto (tramvie economiche, carri ordinari, autocarri, ecc.) perché il costo complessivo dei trasporti viene per tal modo a diminuire.

 

 

Vari sono i modi con cui le amministrazioni ferroviarie possono raggiungere l’intento di liberarsi del traffico a breve distanza:

 

 

  • rialzo delle tariffe di trasporto per ferrovia ad altezze proibitive. È rimedio semplice ed efficace;
  • dichiarazione che le merci destinate, ad esempio, all’entroterra immediato del porto di Genova, non otterranno il carico su carro se non quando non rimanga neppure una tonnellata di merce in attesa di carico a destinazione più lontana. Gli industriali ed i consumatori temono talvolta più la perdita di tempo che di denaro; e si affretteranno a cercare altri mezzi di trasporto;
  • soppressione assoluta dell’accettazione di merci per l’entroterra immediato. Forse è il mezzo più sicuro e risolutivo.

 

 

Certamente però non bisogna lasciare a se stesse le merci destinate allo entroterra immediato; poiché questo ha diritto di essere servito altrettanto bene come le regioni più lontane. Taluni proposero la formazione di imprese private assuntrici dei trasporti a breve distanza. Ma la proposta urterebbe forse contro l’ostilità delle ferrovie di stato, timorose di perdere il traffico locale; né si può negare un certo peso alla preoccupazione di perdere, con danno dell’erario, i proventi del traffico locale. Poiché, tuttavia, una soluzione si impone, siano le stesse ferrovie dello stato le assuntrici del servizio o provvedano, con concessioni particolari, a stipulare contratti di concessione ad imprese da esse dipendenti. Il concetto fondamentale potrebbe essere quello di considerare, sotto il rispetto del suo sfollamento, il porto come una grande stazione ferroviaria, da cui le consegue a domicilio, entro limiti di distanza, variabili secondo le varie direzioni ed accuratamente fissati dai competenti, sarebbero effettuate dalla ferrovia, mediante mezzi di trasporto non ferroviari, sia direttamente, sia per mezzo di imprese sub-concessionarie.

 

 

Le modalità del sistema dovranno essere accuratamente studiate: né forse esso potrà essere attuato d’un colpo. Importa però che qualcosa si faccia e che gradualmente si tenti di arrivare, mediante la soppressione «ideale» di una parte dell’entroterra, a stabilire un equilibrio normale fra le navi in scarico ed i carri disponibili per il carico.

 

 

Naturalmente, il mezzo ora descritto non è il solo il quale possa rimediare alle periodiche congestioni ferroviarie. Molti altri mezzi furono suggeriti, d’indole tecnica, i quali possono avere per effetto una migliore utilizzazione dei carri, minori soste di essi nelle stazioni, maggiore potenzialità delle linee a sopportare un crescente traffico. Vedo ricordato il raddoppiamento del binario che lambisce la via Carlo Alberto, la comunicazione più diretta fra gli impianti ferroviari prossimi al deposito franco e quelli del nolo vecchio e della calata Boccardo, la elettrificazione della linea Sampierdarena-Ovada; la più rapida rinnovazione delle fronti di scarico e carico nei porti con simultaneo smistamento di carri in partenza (intorno a cui ha scritto nel «Giornale del collegio toscano degli ingegneri ed architetti» una interessante monografia l’ing. Flavio Dessy) ecc. ecc. Le ferrovie hanno già dato opera ad intensificare l’utilizzazione dei carri; e fu certamente savio consiglio aver quintuplicato le tasse di sosta nelle stazioni dopo il secondo giorno dall’arrivo, col risultato di spingere il commercio a scaricare i carri nel minimo tempo possibile, togliendo il vantaggio che prima talvolta vi era a lasciare ingombre le linee in arrivo di carri carichi, perché la tassa di sosta era inferiore alla spesa di magazzinaggio e di scarico a magazzino e ricarico per il trasporto a domicilio del consumatore. Anche fu bene aver dato un premio di cointeressenza al personale di stazione quando dalla stazione parte un numero di carri non inferiore a quelli in arrivo; o per ogni carro, il quale riparte entro le 24 ore dall’arrivo, premio maggiore se il carro riparte carico, minore se deve ripartire vuoto per recarsi alle stazioni di concentramento.

 

 

Ad aiutare l’azione della ferrovia gioverà l’opera del Consorzio del porto. E qui non è inopportuno accennare ad un’idea, la quale può forse avere un ‘importanza non piccola nel momento attuale, in cui è tanto sentito il bisogno di tonnellaggio navale. Ho già avuto occasione di notare come si possa distruggere navi, senza affondarle materialmente, col solo farle viaggiare adagio e far loro perder tempo nei porti. Per converso, si possono creare navi, senza d’uopo di costruirle nei cantieri, col fare viaggiare più rapidamente le navi esistenti. Uno dei mezzi di far fare alle navi un numero maggiore di viaggi è quello di far perdere loro meno tempo in porto. Il problema che si tratta di risolvere è il seguente: dato che il porto di Genova non può caricare più di 1.500 carri per ogni giorno lavorativo, è meglio che vi siano due navi in scarico, ognuna delle quali scarichi in media 500 tonnellate al giorno, ovvero una nave sola la quale scarichi 1.000 tonnellate?

 

 

Badisi che il problema non è di fare scaricare più merce. Il risultato di scaricare maggior quantità di merce si potrà a mano a mano ottenere quando la ferrovia, coi mezzi sopra descritti o con altri, si sarà posta in grado di assorbire quotidianamente un maggior quantitativo. Il porto è oggi attrezzato in modo da non potere provvedere ad un carico di più di 1.500 carri; e non dovrebbe essere impossibile aumentare in futuro la sua potenzialità in funzione dei miglioramenti ferroviari. Il problema è un altro: ferma rimanendo la quantità di merce da scaricare da nave a carro in 1.000 tonnellate, è meglio scaricare 1.000 tonnellate da una nave sola ovvero 500 tonnellate per una da due navi?

 

 

Oggi la soluzione data al problema è a favore delle due navi. Di qui la meraviglia di coloro i quali notano che da una nave oggi si potrebbero scaricare ben più delle 500 tonnellate che sono la media di scarico. La meraviglia è giustificata in se stessa; ma non porta alla conseguenza, immaginata da molti, che ci possano essere due navi, ognuna delle quali scarichi 1.000 tonnellate, ossia 2.000 in tutto. No; perché la ferrovia può assorbirne solo 1.000; e le restanti 1.000 meglio restino nelle stive della nave, se non si vogliono ingombrare in pochi giorni le scalate e non si vuole rendere assolutamente impossibile il traffico ferroviario.

 

 

Ma se è irragionevole pretendere che due navi scarichino ognuna 1.000 tonnellate al giorno, è possibile che le 1.000 tonnellate si scarichino da una nave sola invece che da due?

 

 

Io non mi attento di rispondere alla domanda, perché la soluzione del problema non è così semplice come potrebbe sembrare molti; ben potendo darsi che, per alcune merci ed alcuni tipi di navi come pure per talune calate servite dalla ferrovia in modo particolare, sia tecnicamente più opportuno scaricare 500 tonnellate per ognuna, da due navi. Ma, nei casi in cui è tecnicamente possibile parmi si dovrebbe fare ogni sforzo per giungere a scaricare 1.000 tonnellate da una nave sola piuttostoché le stesse 1.000 da due navi. La ragione è evidente. Se una sola nave è all’accosto, l’altra rimane disponibile e può viaggiare e guadagnare noli. Per ora non importa indagare fra quali porti essa viaggerà, se servirà al traffico di Genova o dell’ltalia o di altri paesi. L’importante è che invece di due navi all’accosto in porto ve ne sia una sola, ferma rimanendo quantità di merce da scaricare. L’altra nave cercherà il suo traffico; il suo tonnellaggio sarà posto per alcuni giorni di più sul mercato: invece di 10 viaggi all’anno potrà farne 11 o 12. Diminuire il numero dei giorni per cui una nave sta in porto equivale a creare nuovo tonnellaggio; ed equivale perciò a far diminuire i noli. Se anche si potesse contribuire in minima parte a siffatto risultato questo sarebbe pur sempre così benefico da giustificare ogni più grande sforzo.

 

 

 

VII

In seguito alle pubblicazioni fatte in questi giorni da alcuni giornali sulla minacciata mancanza di carbone per defezione del naviglio neutrale dopo l’accordo di Londra, abbiamo creduto opportuno attingere dirette, precise informazioni a persona che, per il suo ufficio, è in grado di conoscere a fondo la questione e ne abbiamo avuto le seguenti dichiarazioni:

 

 

L’accordo anglo-italiano sussiste sempre, checché se ne dica, in tutta la sua efficienza. Esso consta, come è noto, di diverse parti: una prima riguardava la provvista all’Italia del carbone che le occorre da parte delle miniere inglesi, a prezzo ragionevole, dati i tempi che corrono e il complesso di circostanze che accrescono la richiesta di questa merce di prima necessità. Questa prima parte, che aveva lo scopo di evitare l’aumento dei prezzi che diventava minaccioso in forza degli accaparramenti, ha avuto pieno successo, perché i prezzi sono discesi notevolmente dagli alti limiti raggiunti in passato e la quantità disponibile è sufficiente ed anzi forse eccedente rispetto alla richiesta. Viene poi la seconda parte che non è meno importante, vale a dire quella riguardante i trasporti mediante requisizione o noleggio di vapori sia esteri che nazionali. Per i vapori di bandiera italiana, si è proceduto, con energia e senza riguardi alle molte influenze che si andavano spiegando, alla requisizione di tutta la parte possibile della non larga nostra disponibilità. Per il noleggio di naviglio inglese che, come è noto, rappresenta da solo una quantità maggiore di tutto il resto del naviglio mondiale preso insieme, gli inglesi si sono, impegnati solennemente verso di noi a fornircene una parte proporzionata ai nostri bisogni.

 

 

Resta il naviglio neutrale, per il quale si sono verificati alcuni incidenti che sono quelli cui accennavano le pubblicazioni di questi giorni, incidenti che si cerca di eliminare con ogni sforzo. Ad esempio, le compagnie di assicurazioni della Norvegia, che da sola rappresenta la massima parte del naviglio neutrale, hanno visto esaurire il proprio fondo di riserva ascendente a circa 50 milioni di lire, e allora la Norvegia si è fatta avanti a chiedere agli alleati la ricostituzione di questo fondo mediante contributi proporzionali. Si sta ora lavorando ad esaminare la importante questione, che è quella appunto, la quale ha arrestato per ora il noleggio del forte contingente di navi norvegesi.

 

 

Vi è fondata speranza che, mercé il buon volere di tutte le parti interessate, si verrà presto ad un accomodamento in grazia del quale le navi norvegesi, momentaneamente scomparse dal traffico marittimo, ritorneranno al noleggio con i premi più che rimunerativi che il traffico stesso offre nelle condizioni presenti.

 

 

Come si vede dunque, questa, e non altra, è la ragione fondamentale degli inconvenienti lamentati. Circa poi l’osservazione che si è fatta che una certa parte di navi neutrali possa avere trovato convenienza di dirigere il suo traffico verso porti come Barcellona, o altri, per dove i noli sono più convenienti che non quelli stabiliti dall’accordo di Londra, si deve osservare che il fatto è indubbiamente, sebbene entro certi limiti, vero; ma occorre aggiungere subito che il governo inglese, il quale se ne è preoccupato, mostra già di voler adottare provvedimenti opportuni, uno dei quali sarebbe, a mo d’esempio, quello di negare il permesso d’esportazione a quegli armatori che per qualsiasi porto fruiscono di noli eccessivi.

 

 

Ma un’altra circostanza che sfugge completamente agli attuali critici, conclamanti per la temporanea deficienza di tonnellaggio, è quella dell’impellente necessità nella quale si sono trovati i governi alleati di distrarre una grandissima parte del tonnellaggio che era destinato al carbone per poter far fronte ad un altro bisogno non meno urgente per le rispettive popolazioni. Ed ecco quale: la chiusura definitiva dei raccolti del grano e, in genere, di tutti gli altri cereali nell’Europa occidentale, ha rivelato una deficienza che urgeva colmare. Questa deficienza imponeva di andare a cercare d’urgenza il grano in America o in altre regioni anche più lontane, per portarlo a tempo debito sui nostri mercati: quindi la necessità di uno sforzo immediato per approfittare del momento non ancora sfavorevole e trasportare l’ingente quantità di granaglie che occorreva per il rifornimento dei nostri depositi. Questo sforzo è stato compiuto con grandissima attività e con preveggenza, nei limiti del possibile.

 

 

Infine non v’è bisogno di aggiungere che il tonnellaggio mondiale è in notevole diminuzione per gli eventi stessi di una guerra che ormai è al suo terzo anno. Inutile dunque parlare di teorici e di pratici. In condizioni come le attuali non può sussistere altra regola fuori che la vigilanza assidua e continua nell’adozione di temperamenti che dalla teoria e dalla pratica prendano il buono e lo compenetrino.

 

 

Questi provvedimenti hanno fatto sì che il prezzo del carbone, dalle lire 230 alla tonnellata a cui era salito nei primi mesi dell’anno, sia sceso a lire 170 nei migliori momenti. Poi, per gli incidenti e le ragioni alle quali abbiamo accennato, vi è stata una certa ripresa fino a lire 200 circa; ma è da sperare fondatamente e da augurarsi che questa ripresa sia temporanea e che i prezzi possano nuovamente scendere al livello di prima. Il governo non ha monopolizzato il commercio dei privati. Essi sono liberi di esercitarlo come prima. Soltanto, il governo si è riservata la facoltà di vigilanza sui prezzi di vendita, affinché non trasmodino, e ciò facendo il governo ha esercitato un diritto di tutela del quale non sono i consumatori che potranno dolersi.

 

 

È bene però che tutti si convincano che attraversiamo un momento di sacrifici necessari e che tutti gli altri paesi impegnati nella lotta gigantesca ne stanno affrontando ancora di assai più considerevoli che non noi. Ripetere, dunque, occorre senza posa che è necessario, anzi è urgentissimo, ridurre tutti i consumi e, non solo quelli che possono apparire di lusso, ma anche molti di quelli che sono ordinariamente giudicati di prima necessità. A questo proposito è bene si sappia che presto nuove ed ingenti riduzioni saranno fatte sulle ferrovie dello stato, sulla navigazione, sulle ferrovie secondarie, e forse anche su qualche industria non necessaria alla guerra.

 

 

Articoli di giornale, voti di rappresentanze comunali, proteste di industrie consumatrici hanno risollevata la questione del carbone, la quale pareva risoluta dalla convenzione italo-inglese sui prezzi del carbone all’origine e sui noli massimi tra i porti britannici e quelli italiani. Sembrava che i prezzi a Genova del carbone dovessero ribassare a 160 lire la tonnellata per il Cardiff ed invece le ultime quotazioni superano per la medesima qualità le 220 lire; e presto non si potranno più fare quotazioni, per la mancanza della merce da contrattare. Le rimanenze del commercio, che ancora negli ultimi due anni di guerra, usavano oscillare a Genova fra le 100 e le 150.000 tonnellate, ora sono discese al disotto di 70.000 tonnellate, cifra minima mai toccata in passato. Manca il tonnellaggio; e mentre nel mese di novembre si sarebbero dovuti noleggiare 50 piroscafi carbonieri dall’inghilterra a Genova, se ne noleggiarono soltanto 5.

 

 

La mancanza dei noleggi e degli arrivi in parte è dovuta al maltempo che imperversò durante il mese scorso; ed in parte ancora al riacutizzarsi della campagna dei sottomarini. Questa sembra abbia preso di mira principalmente il naviglio francese, italiano e neutrale, su cui in così notevoli proporzioni è fondata la possibilità del trasporto del carbone. Le perdite totali (ordinarie e belliche) di tonnellaggio marittimo furono negli ultimi quattro mesi le seguenti, secondo le statistiche mensili degli assicuratori di Liverpool (in migliaia di tonnellate lorde):

 

 

Navi inglesi

Altre

1914

1915

1916

1914

1915

1916

Luglio

8,1

13,3

5,1

16,1

17,1

29,7

Agosto

48,1

142,7

61,2

40,4

43,0

96,3

Settembre

96,7

74,7

76,7

44,2

73,0

73,1

Ottobre

105,4

60,9

115,0

24,6

81,2

138,7

Totale

258,3

291,6

258,0

125,3

214,3

337,8

 

 

È chiaro il programma germanico di terrorizzare la bandiera neutrale, per indurla ad abbandonare il proficuo commercio di approvvigionamento dell’intesa. Il naviglio norvegese si è rinchiuso nei suoi porti o naviga in mari lontani; e per navigare tra l’inghilterra ed il mediterraneo gli armatori norvegesi chiedono un premio di assicurazione fino del 9% del valore della nave e del carico per viaggio completo di andata e ritorno. Il nolo dovrebbe aumentare di ben 20 scellini per tonnellata di carbone tra Cardiff e Genova per poter far fronte all’aumentato rischio marittimo.

 

 

Se gli affondamenti dovessero continuare nella misura raggiunta nel mese di ottobre, sarebbero circa 600.000 tonnellate al mese da sottrarre da un tonnellaggio, il quale ha potuto mantenersi nel mondo fino al 30 giugno 1916 stazionario intorno alla cifra di 45 milioni di tonnellate lorde, di cui però una rilevantissima parte appartenente alle bandiere nemiche chiuse nei porti od assorbita per trasporti militari. Le difficoltà di ottenere tonnellaggio sufficiente non potranno non crescere, perché se le costruzioni nuove poterono bastare nei primi tempi a compensare le perdite, oggi, che queste sono cresciute e le costruzioni diventano ogni dì più costose ed aleatorie, la compensazione sembra divenuta impossibile. È da augurare che possano intensificarsi l’armamento delle navi mercantili ed i mezzi di lotta contro i sottomarini; poiché dal successo di questa lotta dipende la possibilità di impedire un ulteriore rialzo dei noli.

 

 

Ma gli affondamenti di navi da trasporto non sarebbero stati sufficienti a provocare l’odierna crisi dei trasporti del carbone, se ad acuirla non fossero intervenuti i provvedimenti presi dai governi e principalmente la fissazione dei noli massimi dall’Inghilterra ai porti italiani. Scrivendo, su queste colonne, il 29 gennaio scorso intorno alla requisizione della marina mercantile, io chiedevo che cosa sarebbe successo delle merci le quali non avessero potuto trovar posto sulle navi dei paesi belligeranti. E la risposta era ovvia:

 

 

Dovrebbero cercare carico sulle navi neutre greche, danesi, norvegesi, svedesi, olandesi, nordamericane: le sole le quali rimarrebbero libere e che potrebbero andare alla cerca dei noli massimi. Io lascio immaginare ai lettori l’altezza a cui giungerebbero i noli, i quali dovrebbero essere pagati da coloro che avessero veramente urgenza di effettuare un trasporto. È inutile sforzare la punta; non è possibile ridurre i noli del carbone da 80-90 a 50 scellini colla requisizione, senza spingere da 80-90 a 500, 200 e forse a 300 scellini il nolo di qualche partita di carbone urgentissima o di qualche altra merce… L’ineluttabilità di questo risultato è talmente chiara che taluno assevera la necessità. di fare un altro passo innanzi: decretare una specie di blocco dei porti dell’intesa, vietando alla bandiera neutrale di approdarvi se non si assoggetti ai medesimi massimi di noli stabiliti per le navi dell’intesa. Ma qui la mia mente si perde in un mare di difficoltà politiche, economiche e tecniche, che dovrebbero essere affrontate quando l’intesa si decidesse ad una azione la quale potrebbe trasformare i neutri in nemici; e li trasformerebbe in nemici senza alcuna sicurezza di vantaggio per noi. Si possono, infatti, escludere dagli approdi le navi neutre contravventrici ai massimi di nolo: non si possono costringere ad approdare.

 

 

Dopo che queste parole erano state scritte, la tendenza, la quale spingeva alle requisizioni ed alla fissazione dei noli massimi, si affermò sempre più, sino a condurre in Italia alla totale requisizione del naviglio mercantile ed in Inghilterra alla requisizione di una rilevantissima parte di esso; e sino a provocare gli accordi inglesi con la Francia e con I’Italia per la fissazione dei massimi di nolo. Solo coloro, i quali hanno fede nella potenza taumaturgica dei decreti governativi potevano credere che in tal modo il problema fosse stato risoluto. I fatti vengono invece ora a dar ragione agli economisti, i quali avevano sempre sostenuto che i calmieri dei noli non potevano non provocare difficoltà maggiori di quelle a cui si voleva porre riparo. Gli effetti ottenuti furono quali dovevano necessariamente essere; e cioè:

 

 

  • la bandiera neutrale è scomparsa dai viaggi, per cui è fissato il nolo massimo. Vi è qualche buona ragione per cui una nave greca o svedese o nordamericana si adatti a lucrare 59 scellini e 6 pence a trasportare carbone dal canale di Bristol a Genova, quando può lucrare 65 scellini andando soltanto sino a Barcellona, il che corrisponde a 75 scellini per un viaggio a Genova? Vi è abbondanza di lavoro per il naviglio neutrale in mari non regolati; e non vi è motivo perché gli armatori neutrali rinuncino ai più larghi guadagni che essi possono ottenere altrove;
  • la bandiera norvegese, pur simpatizzante con noi, non può accettare i noli massimi fissati nell’accordo italo-inglese, perché da essi dovrebbe dedurre circa 20 scellini per maggiori costi dell’assicurazione contro i sottomarini; sicché la perdita sarebbe troppo forte in confronto ai noli che si possono guadagnare altrove. Come scrivevo nel gennaio, i noli massimi possono respingere la bandiera neutrale, non mai costringerla ad approdare;
  • il commercio, il quale non trova tonnellaggio ed è soggetto a rischi di assicurazione, di aggio crescenti, mentre teme che il carbone gli possa venire requisito in Italia a prezzi inferiori al costo, si astiene dall’importazione. Federico Ricci ha in parecchie istruttive corrispondenze al «Corriere economico» di Roma descritto assai bene il risultato unico delle continue promesse da parte del governo di fare, di intervenire, di provvedere: ed è che il commercio non fa più nulla ed il governo non può fare abbastanza. Come in tutte le altre faccende economiche, il problema non può essere risoIuto con espedienti intermedi; o si assicura il commercio che il governo non interverrà con calmieri, vendite in concorrenza, ecc., ed il commercio potrà, a costi più o meno alti, funzionare; ovvero il governo deve provvedere a tutto il fabbisogno del paese;
  • i prezzi all’origine, nei porti inglesi, diminuiscono, per talune qualità, persino di 10 scellini alla tonnellata, in confronto ai prezzi di settembre; mentre crescono a Genova. Il che è fatto naturale, perché in Inghilterra il carbone ristagna per mancanza di tonnellaggio da carico: ed in Italia difetta per mancanza di arrivi.

 

 

Dicesi che i due governi avrebbero dovuto provvedere, prima della stipulazione dell’accordo, ad accaparrare le necessarie quantità di tonnellaggio. Coloro, che oggi così opinano, e sembra siano uomini politici ed amministratori della cosa pubblica ascoltati ed industriali sperimentati, avrebbero dovuto per tempo dimostrare che i massimi dei noli non giovano e che giova invece porre uomini competenti a capo dei servizi e delle commissioni di requisizione e di navigazione. Invece preferirono lasciare soli noialtri scrittori teorici a pestar l’acqua nel mortaio; ed ora si svegliano e gridano: bisognava noleggiare per tempo navi per un tonnellaggio sufficiente!

 

 

Intanto notisi che tutto il naviglio italiano è già requisito; e che per questo rispetto nulla vi è da fare. Ignoro quale sia la proporzione del naviglio inglese requisito; ma non credo di errare affermando che le difficoltà di far bastare a tutto la relativamente piccola quota del naviglio inglese disponibile sono grandissime. Quanto al naviglio neutro, che è il vero padrone della situazione, sappiamo noi a quali condizioni gli armatori neutri fossero e siano disposti a dare a nolo le loro navi? Ad occhio e croce sembra difficile che, quando i noli erano ad 80, 90, 100 scellini, gli armatori neutrali si decidessero a noleggiare navi da carico a 60 o meno, solo perché questi erano i noli massimi dell’accordo italo-inglese.

 

 

Oggi, come ieri, come per secoli in passato e come probabilmente per molto tempo avvenire, due sole sono le vie per cui si può ottenere che il carbone venga in Italia:

 

 

  • lasciare i noli ed il commercio liberi. Il prezzo salirà a 250, a 300, discenderà a 200 ed a 150 lire alla tonnellata, a seconda delle circostanze, adottandosi il livello necessario per attivare un sufficiente tonnellaggio neutrale da carico, per compensare i cresciuti rischi di affondamento da parte dei sottomarini, per coprire le variazioni dell’aggio, ecc. ecc.;
  • fissare il prezzo del carbone di una data qualità tipo, ad esempio Cardiff, a 200 lire, a 180 o 150 franco vagone Genova; ed accollare al governo tutte le spese ed i rischi inerenti. Il governo farà contratti di noleggio migliori possibili con gli armatori neutrali, requisirà le navi italiane, otterrà, a condizioni speciali fissate d’accordo col governo inglese, navi britanniche; comprerà il carbone e lo rivenderà. Comprerà a 250 e venderà a 200, perdendo 50, che andranno a carico dei contribuenti. È il metodo seguito per il frumento, che oggi il governo deve comprare a 37 lire negli Stati uniti, il che equivale probabilmente ad almeno 65 lire in Italia e rivende a 36 lire al consumatore italiano, accollando la differenza di 30 lire (per le partite che si acquistassero oggi) al contribuente pure italiano.

 

 

Preferisco il primo metodo, che ritengo più economico, meno ingombrante, più rapido. Ma anche il secondo è un metodo logico. Il frumento, sembrando a buon mercato ai consumatori, viene consumato in quantità non minore che in tempo di pace, e perciò costa assai caro ai contribuenti; ma arriva. Se si vuole seguire anche per il carbone il metodo seguito per il frumento, si segua. Ma si lasci stare ogni metodo intermedio, da cui nessun bene, per quanto si faccia; può uscire.

 

 


[1] Con il titolo La crisi odierna del porto di Genova. [ndr]

[2] Con il titolo Le cause dell’ingombro del porto di Genova. [ndr]

[3] Con il titolo L’ingombro del porto di Genova. Le conseguenze e i rimedi. [ndr]

[4] Con il titolo La questione del carbone ed il porto di Genova. [ndr]

[5] Con il titolo Il prezzo del carbone e le spese connesse col porto. [ndr]

[6] Con il titolo L’equilibrio fra mezzi ferroviari e servizi portuari. [ndr]

[7] Con il titolo La crisi dei carboni: sue cause e suoi effetti. I massimi di noli e prezzi. [ndr]

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