Opera Omnia Luigi Einaudi

Carni, dolci, liquori, salumi e pane

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/12/1916

Carni, dolci, liquori, salumi e pane

«Corriere della Sera», 13[1] e 16[2] dicembre 1916, 14 gennaio[3], 16 febbraio[4], 3 marzo[5] 1917

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. 396-413

 

 

I

Non vi è nessun dubbio che i provvedimenti per la limitazione nel consumo della carne, se possono essere giunti un po’ in ritardo, erano necessari.

 

 

In tempo di pace l’Italia bastava a se stessa per l’alimentazione carnea; il che vuoi dire che le sue esportazioni avevano una tendenza a pareggiare le importazioni. Riducendo a valori in lire le quantità eterogenee di capi di bestiame grosso e piccolo importati ed esportati il dott. V. Vezzani in uno studio pubblicato su «La riforma sociale» (1915), ha ottenuto i seguenti risultati (in migliaia di lire):

 

 

Importazione Anno Esportazione
31.192,1 1907 46.586,7
104.537,2 1908 72.138,9
104.090,3 1909 27.675,1
109.189,1 1910 23.327,9
114.493,7 1911 37.625,2
77.017,6 1912 59.842,3
46.788,8 1913 26.067,6
43.312,7 1914 41.651,5

 

 

Dopo gli anni critici dal 1908 al 1911, l’industria zootecnica italiana, incitata dagli alti prezzi, era riuscita a provvedere il consumo di tutto il suo fabbisogno carneo.

 

 

Quale sia il patrimonio zootecnico italiano è malamente noto; poiché l’ultimo censimento generale del bestiame risale al 19 marzo 1908 ed una valutazione fatta per il 1914 dai commissari della statistica agraria ha carattere soltanto approssimativo. Secondo quest’ultima, la ricchezza zootecnica italiana sarebbe stata nel 1914 la seguente:

 

 

Numero

Media per kmq

Proporzione per 100 abitanti

Equini

2.235.000

7,8

6,3

Bovini

6.646.000

23,2

18,7

Suini

2.722.000

9,5

7,6

Ovini e caprini

13.824.000

48,2

38,8

 

 

Questo patrimonio zootecnico dà luogo ad un consumo che il Roseri calcolò per il 1903, escludendo il consumo delle carni suine, in una media annua per abitante di chilogrammi 12,1. Una posteriore indagine, fatta eseguire dal ministero dell’interno nel 1908 per i 346 comuni aventi una popolazione agglomerata superiore ai 10.000 abitanti dà un consumo medio per abitante di chilogrammi 15,38 di carne; cifra però che da un lato pecca per difetto, non tenendo conto del consumo di tutte le qualità di carne e dall’altro pecca per eccesso, essendo il consumo nelle campagne notevolmente inferiore a quello della città.

 

 

Lo stato di guerra perturbò gravemente l’equilibrio che si era andato costituendo fra il patrimonio zootecnico nazionale consistente nel numero dei capi di bestiame sovrindicato ed il consumo calcolabile in una cifra oscillante fra i 4 ed i 5 milioni di quintali all’anno. L’enorme maggiore consumo dei soldati, passato da una media non superiore ai 25 chilogrammi ad una media oscillante fra i 75 ed i 135 chilogrammi annui, probabilmente ha fatto aumentare del 50% il consumo totale italiano.

 

 

Qualche aiuto si è cercato nella importazione dall’estero: la carne fresca, che nei primi 9 mesi del 1914 fu importata nella misura di 32.864 quintali, crebbe a 56.794 quintali nei primi 9 mesi del 1915 ed a 613.587 quintali nello stesso periodo del 1916. Ma è rimedio insufficiente e pericoloso; poiché per tal motivo soltanto il nostro indebitamento verso l’estero crebbe da 4,3 a 122,7 milioni di lire.

 

 

Se non si vuole adunque diminuire troppo il patrimonio nazionale zootecnico, se non si vogliono macellare le vacche pregne o in età feconda, è giuocoforza ridurre il consumo privato per lasciare posto al consumo dell’esercito, contenuto anche questo in più moderati, sebbene sufficienti, limiti di quelli originariamente adottati.

 

 

Il metodo adottato per la limitazione dei consumi si impernia:

 

 

  • sulla limitazione della macellazione;
  • sulla riduzione dei giorni in cui è lecita la vendita delle carni. Il secondo rimedio non sarebbe stato sufficiente, se si fosse lasciata libera la macellazione; poiché sarebbe cresciuta la vendita nel giorno di mercoledì per il desiderio delle famiglie di fare provviste.

 

 

Non si è creduto necessario ed opportuno da noi ordinare le tessere per la carne, probabilmente perché, dovendosi ottenere un risultato apprezzabile, sarebbe stato necessario fissare il massimo del consumo individuale ad una quantità inferiore a quei 12-15 chilogrammi all’anno, che sono gli estremi delle valutazioni sinora fatte. Per prudenza sarebbe stato necessario non andare oltre ai 12 chilogrammi convenientemente ridotti allo scopo di creare un margine di consumo per l’esercito, il che avrebbe impedito di assegnare più di 100-200 grammi a testa e per settimana. Troppo poco per chi consuma carne e troppo per chi non ne ha l’abitudine; talché sarebbe sorto un traffico clandestino e perturbatore delle tessere. Col metodo prescelto sarà possibile tener conto degli effettivi consumi delle varie località ed imporre economie proporzionate a tutti, maggiori per i più forti consumatori e minori per coloro che già consumavano quantità minime.

 

 

Il successo del sistema sta nell’operare con severità e con costanza, senza eccezioni e favori per nessuno. Una eccezione parmi sia contenuta nel decreto stesso, laddove non sottomette ad alcun vincolo di macellazione gli animali suini e non si considerano come rientranti nella definizione di «carni soggette al divieto della vendita nei giorni di giovedì e venerdì» le carni «suine salate». Pare in queste eccezioni di vedere una tendenza ad incoraggiare la macellazione dei suini ed il consumo relativo. È vero che l’urgenza di restrizioni e, per i suini, meno viva che per gli altri animali, data la loro grande fecondità. Ma parmi pericolosa l’eccezione fatta a loro favore, perché il consumo, vincolato per le altre carni, può essere spinto ad indirizzarsi verso il consumo libero o meno vincolato delle carni suine.

 

 

Non si dica, in difesa di questo incoraggiamento al consumo delle carni suine, che:

 

 

  • nel 1915 in Germania fu ordinata l’uccisione di qualche milione di capi di bestiame suino; poiché quel provvedimento fu un colossale insuccesso, provocò lo sperpero di carni male insaccate e male salate, fece rialzare il prezzo delle carni suine e non fu ripetuto nel 1916. Con grandi sforzi in Germania si fece cammino indietro ed il numero dei suini, che al 15 aprile 1916 era stato ridotto a 13.337.202 (da 21.923.107 capi esistenti al 2 dicembre 1912) all’1 settembre 1916 era risalito a 17.261.108. Guardiamoci dall’imitare la Germania nei suoi errori; e cerchiamo piuttosto di rivaleggiare con essa nella ricostituzione del suo patrimonio zootecnico (anche i bovini, che dal 2 dicembre 1912 al 15 aprile 1916 erano scemati da 20.182.021 a 19.921 183 capi, sono risaliti lassù all’1 settembre 1916 a 20.338.950 capi)!
  • i suini consumano farina di grano e granoturco che meglio sarebbe destinata al consumo dell’uomo. Il che può essere vero in certi casi: ma è vero principalmente che i suini consumano crusche e farinette, disadatte all’alimentazione umana. Sovratutto essi vivono di rifiuti, che andrebbero sprecati. Noi possiamo essere sicuri che il contadino, in questi anni di cereali cari, non dà un grammo di roba costosa al suino, se non quando abbia la certezza di ricavarne un valore superiore, ossia un incremento di valore alimentare. I suini non sono soltanto un eccellente salvadanaio: sono anche convertitori impareggiabili di alimenti guasti, secondari o di rifiuto in alimenti utili per l’uomo. Provocarne, anche indirettamente, l’uccisione anticipata, sembrami pericoloso: ed inoltre contrario al fine che si vuol raggiungere di restringere il consumo delle farine. Il crescere relativo dei prezzi dei suini, a consumo relativamente meno vincolato, porterà a rendere proficuo in modo particolare l’allevamento dei suini e quindi ad un consumo maggiore di farine per l’alimentazione suina.

 

 

II

I decreti per la limitazione dei consumi si susseguono: ieri si limitava il consumo della carne, oggi quello del pane e dei pasti nei ristoranti. Avendo condotto dall’inizio della guerra europea, Innanzi alla entrata in guerra dell’Italia, una campagna di articoli in favore del risparmio e della parsimonia nei consumi, debbo riconoscere che quasi sempre le mie parole e quelle di altri predicatori furono gettate al vento. La guerra, provocando spostamenti di fortune a favore di vere moltitudini, probabilmente della maggioranza della popolazione, ha anche provocato un aumento nei consumi. L’aumento nei redditi e nei salari per se stesso non sarebbe, ai fini della condotta della guerra, nocivo. Diventa nocivo e pericoloso, quando si accompagna e produce un aumento nei consumi. Quando ciò si verifica, si ha il brutto spettacolo della popolazione civile, la quale porta via pane, carni, munizioni ai soldati, che difendono il paese; la quale provoca importazioni, e quindi rincari nei noli e nelle materie prime e nei prodotti necessari alla guerra.

 

 

Poiché i privati non ascoltano le prediche degli economisti, ben vengano i decreti limitativi e proibitivi, i quali impediscano ai civili di perpetrare quotidianamente quelli che sono veri e propri delitti continuati a danno della patria.

 

 

Il problema da discutersi è esclusivamente tecnico: quale è il metodo più efficace di impedire ai civili di consumare troppa roba? Rispetto all’ultimo decreto per la panificazione, fa d’uopo approvare senza restrizioni l’obbligo di non vendere il pane se non nel giorno successivo alla cottura. Il consumo del pane fresco è senza dubbio più abbondante di quello del pane raffermo; sicché dalla nuova norma si conseguirà un utile non spregevole. Sarebbe così da studiare se non convenisse imporre la decorrenza di un numero maggiore di ore fra la cottura e la vendita, vietando, ad esempio, la vendita prima delle 9 del mattino. Fin troppo larghe sono ancora le prescrizioni riguardo ai consumi negli alberghi, trattorie e ristoranti. Due vivande in ogni caso, sia nei pranzi a prezzo fisso, sia nei pasti liberi, dovrebbero essere sufficienti per ogni consumatore morigerato in tempo di guerra; tanto più che il formaggio e le verdure crude o cotte, consumate separatamente, si considerano come mezze vivande.

 

 

Tutto ciò però non basta. Troppo ancora si consuma in Italia. Sfogliando a caso l’ultimo bollettino delle importazioni vedo le seguenti cifre per i primi nove mesi del 1915 e 1916:

 

 

Quantità (in migliaia di lire)

Valori

1915

1916

1915

1916

Vini in botti

l 2.417

10.100

132,9

555,5

Vini in bottiglia

cento 1.867

1.730

612,1

570,3

Essenze rose

kg 142

83

127,8

74,7

Essenze menta

2.710

6.521

157,3

378,0

Pepe e pimento

q 16.737

12.257

2.845,3

2.088,9

Vainiglia

kg 4.097

6.642

192,9

323,2

Zafferano

3.377

2.796

249,8

327,4

Pizzi di cotone

18.741

12.046

1.874,1

1.204,4

Pizzi e tulli di seta

18.552

22.248

2.334,9

2.813,3

Madreperla greggia e lavorata

q 4.845

5.072

1.734,8

1.277,4

Zucchero 1a classe

t 2.770

47.940

1.052,6

18.211,4

Zucchero 2a classe

3

24.214

1,0

8.234,9

Cacao in grani

4.302

4.258

9.465,1

9.367,6

Cacao macinato

269

168

815,8

512,4

 

 

Salvoché per lo zucchero ed il cacao, non si vede l’urgenza per cui tanti italiani hanno creduto di dover fare importare con una spesa non piccola le merci sopra elencate dall’estero. La proibizione assoluta di importazione, senza facoltà di eccezione alcuna, sarebbe la maniera più spiccia per far intendere ragione a tutta la gente che fa il sordo alla voce del dovere. Naturalmente bisognerebbe altresì proibire, quando non si oppongano ostacoli insormontabili, la fabbricazione anche in Italia di tutto ciò che non è assolutamente indispensabile alla vita semplice, che in tempo di guerra ognuno deve condurre.

 

 

Il discorso dello zucchero e del cacao è un po’ più complicato. In parte il maggior consumo di queste sostanze è provocato dal cresciuto consumo dei soldati in campo. In quanto la produzione effettivamente serve a questi fini, non vorrei mettere vincoli, bastando assoggettare a controllo le fabbriche produttrici così come accade per tutte le forniture di guerra.

 

 

Ma l’imperversare del consumo «civile» dei dolci, confetture, cioccolatti non può essere lasciato durare. Qui non si può ricorrere alla tassazione, perché il modo tecnico di esigere imposte di questo genere non si vede. Bisogna trovare qualche mezzo coercitivo più efficace di quanto non siano le imposte ed i rincari, pure utilissimi di prezzo. Per le carni di qualità scelte, il pollame, la selvaggina, trattandosi di alimenti che non si possono trasformare in alimenti più grossolani, basterà inasprire i dazi comunali fino al massimo possibile. Per le altre merci o derrate, come i dolci e le confetture, i quali sottraggono materie prime e forza di lavoro ad altre industrie più utili, bisognerà pensare ad altre maniere di limitare il consumo.

 

 

Lo stesso si ripeta per tutte le inutilità relative al vestiario ed all’ornamentazione. Mentre sui giornali si predica l’economia, in realtà si sentono ogni giorno confessioni di industriali e negozianti di non avere mai venduto ai civili tante cose, il cui consumo è prorogabile, come nel momento presente. Persino nei villaggi lontani dalle industrie di guerra, il giorno della distribuzione dei sussidi ed i giorni di mercato in genere, quando i contadini spendono il ricavo dei loro prodotti cresciuti di prezzo, è un’abbondanza mai vista di acquisti di confetture, di pizzi, di seterie. Tuttociò deve essere fatto cessare. La guerra non è tempo per i consumi voluttuari: questa è l’idea semplice che, per amore o per forza, bisogna far penetrare nella coscienza di tutti.

 

 

III

Il provvedimento relativo ai dolciumi è opportuno e necessario, al pari di quello della restrizione del consumo della carne. Per questa si trattava di impedire il depauperamento della ricchezza zootecnica italiana; per i dolciumi si tratta di restringere un consumo voluttuario, il quale sottrae farine all’alimentazione generale e zucchero alle donne, ai vecchi ed ai bambini. Ho già avuto occasione di notare che l’incremento enorme nel numero, nel lusso e nello spaccio delle botteghe dei dolciumi era uno dei maggiori scandali della vita economica italiana nel momento presente. Poiché le prediche non servono, ben venga l’ordine del legislatore a porre fine allo scandalo protrattosi già fin troppo a lungo. I dolcieri non possono lagnarsi del provvedimento imposto dalla pubblica necessità; poiché essi hanno ancora lo spaccio libero negli altri giorni della settimana. Purtroppo i consumatori consumeranno di più in quei giorni e faranno provviste; ma è da augurare vivamente che i venditori aumentino notevolmente il prezzo dei dolci, allo scopo di potersi rifare delle spese generali rimaste le stesse in un numero minore di giorni; cosicché il rialzo dei prezzi freni automaticamente il consumo. A nessuno verrà in mente per fermo di chiedere e di istituire un calmiere su generi di cui occorre restringere la vendita.

 

 

Bene ispirata fu la devoluzione del 20% delle ammende agli agenti scopritori. Bisogna in questi tempi passare sopra a scrupoli ed adottare mezzi conducenti allo scopo che si vuole ottenere. Ora nessun mezzo più sicuro di assicurare l’osservanza della legge di quello di interessarvi pecuniariamente gli agenti incaricati della sorveglianza.

 

 

Perché lo stesso sistema non si adotta per tutti i casi di restrizione dei consumi, come per le panetterie e le macellerie? Si può essere sicuri che lo zelo degli agenti raddoppierebbe. di molto zelo vi ha bisogno: ed anche di persone le quali siano interessate ad impedire le largizioni facili di condoni delle ammende. Più difficile sarà condonare ammende, quando parte di esse spetti a singoli funzionari dello stato.

 

 

Sento da varie parti lagnanze contro talune formalità inutili rispetto alla vendita del pane. Vi è chi afferma che la forma grossa unica spinge allo spreco più delle forme piccole; altri dice che il divieto dei tagli sui pani è non solo inutile ma dannoso alla cottura. In certi casi, dove i richiami hanno ridotto ad una sola persona il personale delle panetterie, risulta impossibile confezionare il pane necessario ai comuni rurali nel ristretto orario prescritto. Talvolta ai consumatori riesce impossibile o grandemente scomodo recarsi al mattino nel concentrico per l’acquisto del pane.

 

 

Tutte queste sono questioni tecniche, le quali vanno risolute cercando di evitare vessazioni inutili e mantenendo fermo il principio della limitazione del consumo.

 

 

A questo proposito giova insistere su un argomento che già rilevai al momento della pubblicazione del decreto sulle carni. Era facile prevedere che, essendosi lasciata libera la macellazione dei suini, il consumo si sarebbe rivolto ai salumi e carni salate. Così infatti sta dappertutto accadendo. Scema il consumo delle carni bovine ed ovine; ma cresce quello delle carni suine. Il risultato, che si voleva ottenere, si allontana; né il risparmio nel consumo si raggiunge. Importerebbe o chiudere le salumerie negli stessi giorni in cui sono chiuse le macellerie o meglio, limitare la macellazione dei suini. Spingere allo sterminio dei suini è un errore economico, di cui la Germania si pentì, facendone larga ammenda, e che noi non dobbiamo imitare. Il suino è un economo consumatore di crusca e cruschello, un magnifico utilizzatore dei rifiuti della cucina e delle aziende agricole; e non c’è ragione di provocarne la diminuzione ora, con scapito dell’avvenire. Si rifletta ancora che ogni quintale di carni suine consumate di troppo dai civili, vuol dire necessità di acquisto dall’estero di altrettanta quantità di carni per l’esercito.

 

 

IV

Sottoscrizione al prestito e riduzione dei consumi sono come due sorelle siamesi, inseparabili, se si vuole dare i mezzi allo stato di condurre innanzi la guerra. Se il problema consistesse soltanto nel dar denaro all’erario, sarebbe facilmente risoluto. Basterebbe fabbricare biglietti, il che è operazione tipografica facile e poco dispendiosa. In tal modo però lo stato dovrebbe aumentare a cifre folli il suo debito in carta-moneta, che un giorno o l’altro si dovrà pure regolare.

 

 

Il vero problema è un altro: sottoscrivere per rinunciare alla disponibilità del denaro e trasferire questa disponibilità allo stato. Se si sceglie il metodo della emissione della carta-moneta, il privato conserva le 100 lire che aveva in tasca e lo stato ne fabbrica altre 100 per potere fare i suoi acquisti; sicché sul mercato vi sono 200 lire che si fanno concorrenza per comprare merci e queste salgono di prezzo; ed il privato vede raggrinzirsi, per così dire, le sue 100 lire, le quali comprano solo più tante merci quante prima ne comprava con 50. Se egli perciò non vuole che i suoi denari gli sfumino in mano, automaticamente, fa d’uopo che egli faccia i più grandi sforzi per ridurre i consumi e dare il denaro risparmiato allo stato. Se egli risparmia 100 lire e le dà allo stato, sottoscrivendo al prestito, sul mercato rimangono sempre soltanto le vecchie 100 lire, possedute dallo stato invece che dal privato. Costui non può più comprare nulla con le 100 lire, che non ha più; ed in vece sua compra lo stato; ma ai prezzi antichi, non essendovi due, sibbene uno solo, il quale fa acquisti. Il privato, grazie al suo risparmio, ha la soddisfazione di non spendere di più per le cose indispensabili, che pure deve comprare col resto del suo reddito.

 

 

Né vale il dire: i prezzi sono già cresciuti abbastanza, Perché si possa sperare di ottenere qualcosa colle piccole rinunce individuali, che ognuno dei consumatori è in grado di fare. Scetticismo fuor di posto; poiché molte piccole rinunce fanno i risparmi di miliardi e poiché, se sul serio non si riducono i consumi nei paesi belligeranti, si può prevedere che noi siamo appena all’inizio del possibile rialzo dei prezzi.

 

 

Siano benvenute perciò tutte le provvidenze intese a ridurre i consumi ed a salvarci da prezzi doppi e tripli di quelli attuali. Qualcosa comincia a farsi dallo stato e dai privati: ma non basta e l’opera loro incontra resistenze infinite.

 

 

Per aver chiuso i negozi di dolci il sabato, la domenica ed il lunedì, grande fu ed è il clamore dei dolcieri. I quali tengono ugualmente i negozi aperti per vendere liquori, fichi secchi, uva secca e simili surrogati delle solite ghiottonerie e vorrebbero essere autorizzati a tenere chiusi o semi-aperti i negozi a giorni alternati, col pretesto che la domenica era il giorno del loro maggiore spaccio e che le famiglie potrebbero così fare provviste per il giorno successivo.

 

 

Ma la chiusura dei negozi fu appunto voluta per ridurre i consumi! Se la chiusura avvenisse a giorni alternati, verrebbe a mancare lo scopo della legge, che è di indurre la popolazione a mangiar meno, perché lo stato possa mantenere l’esercito, senza uopo di importare troppe derrate dall’estero e far crescere troppo i prezzi. Piuttosto converrebbe inasprire la legge:

 

 

  • per evitare che ai dolci, nei giorni proibiti, si surroghino altre derrate, come la frutta secca, di cui si può fare a meno;
  • per evitare che si ritorni all’abuso dei liquori, che in parte era scemato;
  • per aggiungere ai tre giorni di chiusura un quarto, sì da rendere gli approvvigionamenti privati sempre più difficili;
  • per vietare in modo assoluto il consumo dei dolci nella bottega stessa. Molti, che avevano l’abitudine di fare il giro delle liquorerie per offrirsi a vicenda l’aperitivo, ora vi hanno sostituito il consumo dei dolci in compagnia nella bottega del dolciere. In tempo di pace ciò era un miglioramento in confronto al consumo dei liquori. Ma siamo in guerra; e lo spettacolo di giovanotti, di donnine e di persone anche di altre classi sociali, che fanno a gara a chi ingozza più dolci e pasticcini, non è confortante ed è dannoso al paese. Compri ognuno nei giorni leciti quanti dolci crede; ma per portarli a casa.

 

 

Dicono i dolcieri: voi rovinate una industria la quale dà pane a tanta gente e colpite in sostanza una classe sola con una imposta speciale di guerra, la quale dovrebbe gravare sulla generalità. Il primo argomento, che purtroppo fu autorevolmente addotto in pieno consiglio comunale di Torino, non val nulla. È anzi interesse del paese che gli operai non siano impiegati in questa industria ed in quella dei liquori e simili. Chi impiega operai in cose non necessarie all’esercito ed alla alimentazione del paese è, senza saperlo, un nemico pubblico. Sottrae operai alle fabbriche di munizioni e contadini all’agricoltura. Dove si è rifugiato il buon senso, perché siffatti argomenti siano presi sul serio?

 

 

Invece è valida teoricamente la seconda obiezione. Non è giusto che, per raggiungere un fine di interesse generale, una classe speciale di persone sia soggetta ad un danno particolare. Chi è sempre stato contrario alle scandalose espropriazioni senza indennità che nell’ultimo decennio hanno imperversato in Italia, non può volere l’espropriazione senza indennità dell’industria dei dolcieri. Finora però l’obiezione ha carattere puramente teorico. Malgrado la chiusura dei negozi per tre giorni, in generale i dolcieri guadagnano ancora più che nel 1913 e 1914. Probabilmente accadrebbe la stessa cosa anche se i giorni di chiusura fossero aumentati a quattro.

 

 

Se, col tempo, lo stato ritenesse di dovere, nell’interesse pubblico, ordinare la chiusura assoluta per tutta la durata della guerra, si dovrebbe per la stessa durata concedere ai dolcieri una indennità uguale al reddito denunciato ed accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile negli anni immediatamente precedenti alla guerra. Per coloro che avessero aperto negozio in seguito, l’indennità dovrebbe essere calcolata su basi analoghe. E sarebbe giusto calcolo, perché fondato sulla dichiarazione dell’interessato medesimo.

 

 

Le stesse cose si dovrebbero dire per i macellai ed i salumai. Per questi non si può pensare ad una chiusura totale, ed a eventuali conseguenti indennità; ma si può e si deve pensare ad estendere la chiusura al sabato per i macellai ed a vietare la vendita dei salumi negli stessi giorni in cui è vietata la vendita delle carni. Altrimenti, dove va a finire la riduzione nei consumi; se al vuoto della carne fresca si provvede non col mangiare effettivamente di meno, ma con la sostituzione dei salumi? O se al mercoledì sera la gente si affolla nelle macellerie per fare provviste per i giorni susseguenti?

 

 

Il governo pare si sia deciso ad avere alquanto pietà dei porci; e mentre tempo fa pareva che i supremi moderatori dei consumi fossero decisi alla strage di quegli innocenti, oggi si riconosce che l’esperimento tedesco in materia fu un insuccesso.

 

 

È da augurarsi che l’annunciato aumento dall’85 al 90% della percentuale di farina da estrarsi dal grano sia stato studiato attentamente anche dal punto di vista della alimentazione dei porci, dei vitelli e dei buoi da ingrasso. Qui non si vuol fare nessuna argomentazione perentoria in argomento; ma solo chiedere se il problema sia stato studiato attentamente prima di prendere una decisione la quale potrebbe essere dannosa al paese. In una recente adunanza alla Accademia delle scienze di Torino, il problema fu posto così: quale incremento si darebbe all’alimentazione umana aumentando le farine disponibili di un 5% di farinette? Il valore di questo incremento è maggiore o minore del danno che ne verrebbero a risentire gli agricoltori, i quali non disporrebbero più delle farinette per l’alimentazione del bestiame? Giova di più al paese che gli uomini consumino direttamente le farinette, ovvero le consumino sotto forma di carni dopo averle fatte consumare ed assimilare a porci, vitelli e buoi?

 

 

Al consiglio comunale di Torino fu posta anche la questione della forma grossa del pane. Da dati accuratamente vagliati dei principali istituti educativi e dei ricoveri di Torino risultò che il consumo del pane aumentò dall’11,15 al 25% dopo la introduzione del pane raffermo a forma grossa. In parte il pane è consumato in maggior copia perché è più gustoso; ma in parte va anche sprecato, perché la mollica abbondante delle forme grosse si sbriciola ed è buttata via. Sembra che si sia verificato un aumento di residui di pane nelle spazzature delle case. A Torino, l’esperienza di secoli aveva insegnato ai direttori dei convitti ad usare il celebre grissino, forma di pane biscotto sottile, rotondo ed allungatissimo, allo scopo di economia. I ragazzi facevano gran movimento di mascelle; ma consumavano poco peso di pane. Il problema avrebbe dovuto essere ristudiato. Il grissino ed in generale le forme di pane duro, senza mollica, consumano più carbone e più lavoro; ma riducono il consumo del grano. Dove sta in sostanza la vera economia?

 

 

Ho espresso l’augurio che si siano studiati o studino sul serio tutti questi argomenti prima di decidersi. Ma debbo confessare che l’augurio è fatto più per scrupolo di coscienza che per fiducia di vederlo avverato. Oramai i ministeri economici, specie quelli nuovi, di agricoltura e dei trasporti, ci hanno abituati talmente all’improvvisazione da un lato ed all’inerzia dall’altro, che la fiducia sarebbe una ingenuità. Chi può essere sicuro che il passaggio dall’85 al 90% nel coefficiente di resa del grano sia stato preceduto da studi adeguati? Io ho invece l’impressione che esso sia il frutto della smania di fare qualcosa e dello spirito d’imitazione delle cose, belle e brutte, che ci vengono dall’estero.

 

 

V

Alle richieste di associazioni e di autorità torinesi le quali chiedevano fosse consentita la fabbricazione del pane nelle forme da noi ritenute universalmente economiche del grissino o del pane allungato cosidetto «biscotto», sembra che il commissario ai consumi abbia risposto negativamente, affermando che la forma grossa è stata adottata dopo severi studi e facendo appello al patriottismo dei fornai e dei consumatori per utilizzare colla maggiore economicità le provviste esistenti di frumento.

 

 

Sarebbe bene che il governo si persuadesse che le critiche ed i dubbi manifestati intorno alla forma grossa ed alla resa al 90% non sono mosse da amore ingiustificato ad abitudini antiche o da ossequio ad interessi particolari. Tutti noi, che dubitiamo e che ci facciamo l’eco dei dubbi largamente diffusi nella popolazione, non desideriamo di meglio che di essere persuasi che le restrizioni attuali sono ragionevoli. Ma la persuasione non può essere inculcata con i decreti e con i comunicati, nei quali si dice che il governo, prima di adottare la forma grossa e la resa al 90%, ha compiuto esperimenti tali da convincerlo della loro convenienza. Affermare non è persuadere. Quando scienziati insigni, come il prof. Guareschi dell’università di Torino, notano che la resa al 90% permetterà di far consumare all’uomo preziosi elementi nutritizi che oggi sono consumati dal bestiame, con minore rendimento per il consumatore definitivo, che è pur sempre l’uomo; e quando egli avverte che il ritorno alla forma grossa rotonda, che è la forma classica del pane, è utile, noi assentiamo. Assentiamo altresì quando il comm. Sebastiano Lissone, sulla «Gazzetta del popolo», avverte che il maggior consumo del pane scuro e grosso è largamente compensato dall’aumento di peso in crusca e dalla maggior quantità di acqua, sicché risulta ancora una economia del 10%. Ma d’altro canto udiamo a Torino i direttori dei convitti, delle congregazioni, degli ospizi affermare che la forma grossa dà luogo ad un consumo maggiore, anzi ad uno spreco dall’11,5 al 25%; noi sentiamo la più parte delle massaie confermare la stessa osservazione; e ci perviene l’eco delle esperienze compiute in Austria, dove sembra si sia alla fine tornati ad una forma di pane lungo e duro. E vien fatto di chiedere: perché il commissario ai consumi sul «Bollettino dei consumi» non ci narra le sue esperienze e non dice in base a quali dati di fatto, precisi e circostanziati, egli si è persuaso dell’utilità delle norme promulgate coll’ultimo decreto?

 

 

Avevo appena augurato su queste colonne che, almeno per le patate, i fagiuoli, le fave e le altre derrate alimentari consimili non fosse stabilito alcun calmiere e che il ministro di agricoltura inviasse un breve catechismo economico a prefetti e sindaci per persuaderli del danno dei calmieri in tal materia; ed ecco, un breve decreto del commissario ai consumi fissare in 22 lire per quintale il prezzo massimo delle patate. Non è un prezzo basso, questo di 22 lire; ma quale bisogno v’era di aggiungere alle altre una nuova inutile grida? Il prezzo di calmiere può essere, per una derrata assai variabile per qualità e per costo di produzione, qua troppo alto e là troppo basso. Dove è troppo alto, il mercato starà al disotto, ed il calmiere sarà stato per lo meno inutile. Dove è troppo basso, frastornerà le semine.

 

 

Anche in regime di calmiere, è utile vi siano derrate a prezzo libero. Se furono commessi errori nella fissazione degli altri prezzi, si opererà così una correzione automatica; ed il maggior prezzo eventuale spingerà a seminare e produrre. Patate, fagiuoli, fave, insieme col granoturco, possono essere nel 1917 delle grandi risorse. Le patate possono dare anche 100 quintali per ettaro; ed i coltivatori delle patate di gran reddito affermano che la produzione può spingersi sino a 200-300 quintali per ettaro. Anche se si calcola la capacità nutritiva a solo un terzo di quella del frumento, si vede subito come la patata possa, per uguale superficie, dare un rendimento maggiore del frumento e del granoturco. I fagiuoli e le fave sono un alimento di primissimo ordine, superiore per certi rispetti al frumento. Qui il ministero di agricoltura, i professori ambulanti, i comizi agrari potrebbero spiegare un’azione utilissima, diffondendo sementi, dando istruzioni e facendo propaganda pratica tra i contadini.

 

 

Una lagnanza che sento fare e che mi sembra ragionevole è quella relativa al divieto imposto dalle autorità militari ai soldati di prestare la loro opera a pro dell’agricoltura nelle ore di libera uscita. I provvedimenti relativi ai 160.000 contadini, mandati in licenza per i lavori primaverili, sono stati salutati con lode. Perché vietare ai contadini soldati di impiegare il loro tempo libera nei lavori agricoli? Moltissimi piccoli comuni agricoli hanno guarnigioni e distaccamenti di soldati, in istruzione o già mobilitati, che non possono essere occupati tutto il giorno in faccende militari. Per forza rimane libera ai soldati molto tempo. Che male v’era se alcuni di essi occupavano il tempo libero in lavori agricoli? Guadagnavano qualche complemento di paga essi: e rimanevano sollevati, i proprietari dei dintorni, dal prezioso concorso in lavori urgenti. Si temeva forse danno alla disciplina? In tempi grossi, come i presenti, fa d’uopo badare alla disciplina sostanziale più che a quella formale. Ed alla disciplina vera giova, parmi, più il lavoro fecondo e remunerato, che non l’ozio.

 

 

Il discorso di Lloyd George ha dato una gran scossa anche a quelli tra gli inglesi che si lusingavano di potere vivere come al solito. Occorrerebbe che anche da noi il commissario ai consumi ai provvedimenti già annunciati altri ne facesse seguire, anche apparentemente piccoli, purché efficaci ad aumentare di qualcosa le disponibilità di derrate necessarie. Da noi, il consumo della birra è poca cosa; ed il taglio sulla sua produzione non può dare quei grandi risultati che dà in Inghilterra ed in Germania. Tuttavia, i 525.605 ettolitri di birra prodotti nel 1914-15 richiesero 111.040 quintali di materie prime; ed una riduzione proporzionale a quella inglese darebbe una disponibilità non spregevole di orzo, di malto che potrebbero essere altrimenti usati.

 

 

Nessun male vi sarebbe se fosse limitata od addirittura proibita la produzione degli spiriti e dei liquori, eccettoché con materie prime assolutamente inutilizzabili per altra via. Le fabbriche di spiriti assorbono melasse, cereali di scarto ed altre materie preziose per l’alimentazione del bestiame; e le fabbriche di liquori assorbono zucchero, che viene poi negato alle donne ed ai bambini. Quando ci ricorderemo che siamo in guerra dura; e che lasciar consumare un solo chilogrammo di zucchero alle fabbriche di liquori è contrario al buon senso?

 

 

Specialmente le industrie che consumano carbone dovrebbero andare soggette a stretto controllo, per limitare la produzione di ciò che non è strettamente indispensabile. Per tenermi ad un esempio notissimo, si è proceduto abbastanza innanzi nella limitazione del consumo della carta? Non parlo delle circolari commerciali, cataloghi, manifesti; i quali non saranno mai abbastanza repressi durante la guerra. Poiché si deve consumare soltanto l’indispensabile, non vi è ragione che si abbondi in circolari. Ognuno sa dove procacciarsi le cose necessarie alla vita. Se la posta accettasse solo stampati aperti, non chiusi in busta, di dimensione determinata, il consumo della carta diminuirebbe.

 

 

Il costo cresciuto della carta ha diminuito assai la produzione dei libri ed ha costretto le riviste periodiche a diminuire il numero delle pagine; ma non ancora abbastanza fu ridotto il consumo della carta per giornali. Ancora questi escono talvolta in 6 pagine. Perché non proibire i giornali quotidiani di 6 pagine ed imporre una o due volte per settimana il giornale di due pagine sole? Il pubblico si è abituato a poco a poco alla sobrietà delle notizie; e non si dorrebbe di vedere applicato in Italia il sistema che in Francia è largamente diffuso.

 

 

Le fabbriche di mattoni, calce, cementi, ecc. assorbono quantità notevoli di carbone; e certo nessun capomastro inizia per speculazione nuove case in questi momenti a costi tripli del normale. Tuttavia, qua e là si veggono iniziare e proseguire costruzioni per conto di privati arricchiti o di amministrazioni pubbliche, le quali non si sono ancora accorte della esistenza della guerra. Perché non assoggettare l’inizio od il compimento delle costruzioni edilizie ad una autorizzazione, la quale dovrebbe essere concessa solo nei casi di costruzioni interessanti le industrie di guerra o di opere di finimento di costruzioni già condotte quasi al loro termine?

 

 

In generale, il carbone dovrebbe essere concesso soltanto a chi compie lavori utili alla condotta della guerra. Non dubito che il sen. Bianchi già avrà provveduto a ripartire il carbone solo tra le industrie le quali producono cose necessarie; ma è utile che egli si senta confortato ad agire in tal senso dall’opinione pubblica. Altra volta ho detto che dovrebbe costituirsi un consorzio bancario, con l’intervento di un delegato del tesoro, ma all’infuori di una diretta ingerenza governativa, allo scopo di concentrare il commercio dei cambi e vendere le divise solo a chi avesse acquistato all’estero cose necessarie, negandole assolutamente a chi avesse, ad esempio, comperato pellicce, orologi, libri non periodici, sciampagne e simili. Così vorrei che il sen. Bianchi negasse assolutamente carbone a chi volesse consumarlo per produrre cose non indispensabili alla vita più semplice od alla condotta della guerra.

 

 

Per le industrie esportatrici, il carbone dovrebbe essere concesso solo quando rappresentasse una piccola quota del costo di produzione; ed il costo diretto ed indiretto dell’ingombro delle navi sia davvero compensato dai guadagni dell’esportazione. E non vedo la ragione per cui il carbone non debba essere venduto dallo stato a prezzi differenti e più alti per le industrie meno direttamente necessarie alla guerra.

 

 

Fra i casi in cui il carbone dovrebbe essere negato, citerà solo quello delle fabbriche di liquori; ed anzi dovrebbe essere imposto alle società elettriche di sospendere a loro favore ogni somministrazione di forza elettrica. Si boicotti chi produce cose di cui si può fare a meno. Senza costringerlo a chiudere, gli si renda la vita impossibile, per mancanza di combustibili e di materie prime. Se vi saranno disoccupati, vi sono le fabbriche di munizioni pronte ad assorbirli: mentre la terra reclama lavoratori per produrre frumento, granoturco, patate, fagiuoli e fave.

 

 


[1] Con il titolo Il decreto per la limitazione del consumo delle carni. [ndr]

[2] Con il titolo Per l’obbligo della vita semplice. (A proposito dei decreti sul pane e sui ristoranti). [ndr]

[3] Con il titolo Il decreto sui dolciumi. Bisogna insistere sulla limitazione dei consumi.[ndr]

[4] Con il titolo Prestito e restrizione di consumi. (A proposito di dolci, liquori, carni, salumi e pane). [ndr]

[5] Con il titolo Consumi e produzione.[ndr]

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