Opera Omnia Luigi Einaudi

C’è ancora la lira-oro d’un tempo?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/02/1922

C’è ancora la lira-oro d’un tempo?

«Corriere della Sera», 1 febbraio 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 535-539

 

 

 

Il ritorno alla precedente parità della lira-carta con la lira-oro ovvero ad un’altra diversa parità è una affermazione opinabile e non un articolo di fede. Ogni unità monetaria, di qualunque lunghezza sia, è buona, purché sia stabile. Purché sia una lira sempre uguale a 100 centesimi di lira-oro, ovvero a 50 od a 25; e non variabile da 100 a 50 e poi a 25 e poi a 50, senza un punto fermo.

 

 

Non già che l’essere uguale a 100 centesimi di lire oro, ovverosia a grammi 0,3.225.806 d’oro, al titolo di 900 millesimi (900 parti oro fino e 100 lega), faccia la lira una unità ugualmente stabile e precisa come il metro od il chilogramma. È ben noto invero che lo stato, chiamando lira un disco di metallo, non attribuisce a quel disco nessunissimo valore; non dice che quel disco equivale a tanto pane, a tanta carne, a tanta lana ecc. ecc.; dice semplicemente, in linguaggio «abbreviato», simile a quello che usano i matematici per esprimersi rapidamente, senza ripetere ad ogni momento troppe parole, che quel disco, detto una lira, pesa 322 milligrammi d’oro ed ha un fino di 900 parti su 1.000. Niente di più e nient’altro. Poi, gli uomini usano quel disco come unità di paragone rispetto alle altre merci. È questa tuttavia una unità di paragone anch’essa instabile. Il «metro» è sempre uguale a se stesso; e quando si dice che una pezza di stoffa è lunga 3 metri, si sa precisamente che cosa si dice. Quando si dice invece che un paio di scarpe vale 20 lire oro, si dice qualcosa di più preciso che non affermando l’uguaglianza delle stesse scarpe a 100 lire carta; ma siamo ben lontani dalla precisione assoluta. Il concetto delle 100 lire carta è oltremodo vago, perché le lire carta cambiano assai di potenza d’acquisto, ossia di lunghezza, da un momento all’altro. Se di lire carta ce n’è molte o poche, se il credito dello stato è buono o cattivo, se gli affari sono vivi o fiacchi: ecco altrettanti elementi che fanno variare la lunghezza delle lire carta. La lira-oro è assai più stabile, sovratutto per una ragione: che i governi non possono fabbricarne a piacere. Se, per disgrazia, si avverasse la probabilità accennata dall’economista americano Fisher, della scoperta dell’oro artificiale e se sul serio privati o governi potessero fabbricare oro a volontà, l’oro diventerebbe anch’esso soggetto a variazioni forse frequenti. Diventerebbe una cattiva moneta come la carta-moneta e bisognerebbe abbandonarne l’uso monetario. Per fortuna, l’oro ancora non si fabbrica a piacere; la produzione delle miniere è poca cosa in confronto alla quantità esistente: oggi circa il 5% ad anno; e non può perciò d’un tratto far variare il pregio dell’oro, come fa un abbondante o scarso raccolto per il frumento.

 

 

Tuttavia, anche l’oro, in occasione della guerra ultima, è variato notevolmente di valore ed è variato – talvolta ce ne dimentichiamo – precisamente a causa della disordinata fabbricazione di cartamoneta da parte degli stati belligeranti. A mano a mano che questi stati fabbricavano carta-moneta, e questa sviliva, l’oro scompariva dalla circolazione in Russia, in Austria, in Germania, in Italia, in Francia, in Inghilterra; praticamente scompariva da tutta l’Europa, perché anche i paesi neutrali sospendevano il cambio a vista dei biglietti in oro e si dedicavano, sebbene meno intensivamente, all’industria cartacea. Per la ennesima volta, si verificava la celebre legge detta di Gresham, enunciata già da Aristofane nella commedia «Le Rane»: «la moneta cattiva caccia via la buona». Chi potendo pagare merci o debiti in lirette di carta, si dà la briga di pagare in lire d’oro? L’oro si nascose, in parte nelle casse delle banche di emissione, in parte nelle calzette di lana dei contadini ed in parte se ne andò ramingo per il mondo.

 

 

Dove andò? Ecco una recente stima presentata dal signor Kitchin alla conferenza economica di Ginevra della Società delle nazioni (in milioni di lire italiane-oro):

 

 

1912

1921

Francia

6.175

3.575

Russia

5.150

250

Germania

4.450

1.375

Italia

1.275

825

Austria-Ungheria

1.500

Turchia

725

Paesi impoveriti d’oro

19.275

6.025

Stati uniti

9.675

16.575

Inghilterra

3.750

3.925

Argentina

1.450

2.275

Giappone

725

3.200

Paesi arricchiti d’oro

15.600

25.975

Altri paesi

3.525

4.500

Giacente presso banche di emissione, o tesaurizzato o circolante

– –

13.500

Totale generale

38.400

50.000

 

 

La tabellina riassume l’oro esistente nel mondo nel 1912 e nel 1921, sia quello depositato nelle casse delle banche di emissione, a titolo di riserva per i biglietti, sia quello circolante presso i privati o nascosto o tesaurizzato. Nel 1912 le cifre indicano tanto l’oro esistente presso le banche come l’oro circolante; nel 1921 quest’ultimo, non essendosi potuto assegnare giustamente ai diversi paesi, è messo in fondo in blocco.

 

 

La tabella insegna parecchie cose:

 

 

  • che ora il grosso dell’oro è tenuto come riserva dalle grandi banche, sicché appena 13 miliardi e mezzo circolano o quasi nel pubblico, su un totale di 50 miliardi di oro monetato conosciuto;
  • che dal 1912 al 1921 la quantità dell’oro totale è cresciuta, per la produzione delle miniere, da 38.400 a 50.000 milioni di lire. Quanto poco cresciuta, in confronto alla quantità di carta! Nella sola Italia da 2.800 milioni di carta passammo a più di 20.000 milioni, con un incremento assai maggiore del totale incremento dell’oro nel mondo;
  • sebbene cresciuta, la massa d’oro è ripartita in modo sensibilmente diverso che nell’anteguerra. Vi sono dei paesi – Francia, Russia, Germania ed Italia – impoveriti d’oro; ed altri, Austria Ungheria e Turchia, del tutto privi. In complesso questi paesi perdettero circa 13 miliardi d’oro. Invece, altri paesi, come gli Stati uniti, l’Argentina, il Giappone, ed in minor grado l’Inghilterra, guadagnarono più di 10 miliardi, oltre ad una buona parte dei 13.500 milioni, di cui è ignota la distribuzione, ma che probabilmente finirono nei medesimi paesi, compresi l’Egitto e l’India.

 

 

Né l’emigrazione dell’oro per gli Stati uniti, i maggiormente arricchiti, giovò ad essi. Trattasi di un arricchimento del tutto apparente. Gli americani, avendo maggior copia d’oro, non mangiarono, né vestirono meglio né altrimenti godettero di più di prima. Ebbero un numero maggiore di dischi gialli con cui fare i loro contratti. Ed ottennero lo stesso bellissimo o bruttissimo risultato che ebbimo noi, in conseguenza dell’aumento del numero delle lire carta; crebbero i prezzi delle merci in dollari oro, come da noi crebbero in lire carta. Il sugo del cosidetto arricchimento «aureo» degli Stati uniti è tutto lì: pagare tutto più caro di prima.

 

 

La conclusione, per ora, è questa: che oggi il ritorno della lira-carta alla parità della lira-oro, non vorrebbe dire ritorno alla lira-oro d’una volta. Nel frattempo, mentre sviliva la carta, sviliva, sebbene in grado assai minore, anche l’oro. Oggi se, per miracolo, in Italia fosse possibile cambiare a vista la carta con dell’oro, gli uomini si troverebbero in mano l’antico identico disco, di 322 milligrammi di peso, al titolo di 900 millesimi; ma quel disco sarebbe economicamente una cosa diversa da prima. Prima, c’erano 38.400 milioni di lire oro che circolavano in compagnia a un numero M di milioni di biglietti, di chèques e di altri mezzi di scambio; epperciò ogni lira d’oro acquistava una certa massa di merce. Adesso ci sarebbero 50.000 milioni di lire oro che circolerebbero in compagnia ad un numero M moltiplicato per 5 o per 10 o per 20 (chi lo sa quale sia il moltiplicatore?) di biglietti, chèques ecc. ecc. E quindi ogni lira-oro acquisterebbe una quantità minore di merci. Il mestiere della moneta, oggi, è un po’ sciupato. Ci sono in tanti a farlo ed ognuno dei concorrenti è pagato meno. È pagato meno anche l’oro, che pure continua ad essere il più nobile dei concorrenti al difficile mestiere della moneta.

 

 

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