Opera Omnia Luigi Einaudi

Certezza e buona fede

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/11/1922

Certezza e buona fede

«Corriere della Sera», 7 novembre 1922

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 933-937

 

 

 

La posizione assunta dal governo rispetto ai titoli di stato è oramai chiara per effetto di comunicati positivi e di smentite esplicite:

 

 

  • niente nominatività obbligatoria «diretta»; ossia niente obbligo ai portatori di titoli di stato di farli iscrivere al nome;
  • niente nominatività obbligatoria «indiretta»; ossia niente imposta del 10, o del 15 o del 20% sulle cedole dei titoli al portatore, affine di indurre i possessori a trasformarli in nominativi esenti dall’imposta. Non si farà alcuna differenza, quanto ad imposte, tra i due tipi;
  • niente riduzione forzosa, con imposte od altrimenti, degli interessi del debito pubblico. Lo stato ha promesso il 3 e mezzo sull’antica rendita e 5 sul nuovo consolidato; e pagherà integralmente 3 e mezzo e 5, secondo le fatte promesse.

 

 

Dopo ciò, non occorreva altro che riaffermare il credito dello stato. Spiace che, seguendo non buone tradizioni di altri tempi, l’Agenzia Stefani abbia creduto necessario di gittare la colpa delle voci pessimistiche corse in Italia sulle solite «losche manovre». Purtroppo non si trattava di losche manovre ma di atti pubblici di governo e di dichiarazioni di uomini autorevolissimi. Quando un governo propone al parlamento un disegno di legge per imporre una tassa del 15%, questa non si può chiamare una manovra. È un atto di governo da cui l’opinione pubblica trae le dovute conseguenze logiche. Quando ex presidenti del consiglio, in discorsi non remoti, fanno chiari accenni alla necessità di ridurre gli interessi del consolidato, come può l’opinione pubblica non allarmarsi? Quando successivi governi non osano ritirare il disegno di legge per l’imposta del 15%, contentandosi di lasciarlo andare alla deriva non c’è Agenzia Stefani che valga: le voci corrono, alimentate dal silenzio degli uomini responsabili.

 

 

Il governo attuale ha fatto ottimamente a chiarire con energia un suo atteggiamento risoluto contro le imposte o le riduzioni del debito pubblico. Quanto al resto, è inutile rigettare su manovre fantastiche la colpa di atti che furono realmente compiuti e fecero gran danno. Annullati gli atti, fugata l’incertezza che i governi precedenti si studiavano di mantenere in vita, le voci cesseranno. Perché il consolidato tenda a 100, occorre si veggano i primi atti intesi ad attuare le promesse fatte di pareggiare il bilancio. Le voci sono impotenti a produrre effetti in borsa; gli atti efficacissimi.

 

 

Quel che si dice dei corsi dei titoli di stato, si ripeta dei cambi. Un recente comunicato ufficiale sembra dar la colpa degli eccezionali sbalzi recenti a «speculazioni biasimevoli». Questo è vecchio stile, di marca puramente burocratica. Con circolari identiche si preparò in passato il terreno all’Istituto dei cambi ed al monopolio effettivo sulle divise esercitato dalle maggiori banche. Badino i nuovi uomini che la vecchia burocrazia ed i vecchi parassitismi non hanno disarmato. Con le stesse precise argomentazioni si impedì in passato alla grande massa dei privati banchieri, degli agenti di cambio, dei mediatori in divise di esercitare la loro utilissima opera intermediatrice. Quando si sente qualcuno dire che c’è del disordine sui mercati finanziari, che si specula troppo, che troppa gente vende o compra quel che non ha, che l’estero fa troppe operazioni, bisogna star attenti. Chi parla così, chi invoca dal governo disciplina, chi vuole che i cambi siano venduti solo a chi dimostra di aver ragione di comperarli per effettivi bisogni, quegli si prepara a far razzie di centinaia di milioni. L’età dell’oro per gli speculatori dei cambi, l’epoca felice in cui i grandi istituti guadagnavano differenze formidabili fu appunto quella in cui l’Istituto dei cambi vigilava, ed in cui nessuno poteva comprare o vendere cambi senza essere controllato. L’unica, assolutamente unica garanzia contro le speculazioni veramente dannose, è lasciar ampia libertà a tutti di comprare e vendere divise estere senza alcuna limitazione. S’intende che la libertà da sola non può far ribassare la sterlina a 50 lire; ché, per questo, occorre e basta, quando la cosa sia utile, una lunga e tenace opera di ricostruzione del bilancio dello stato e di riduzione della circolazione. Ma questo non è compito delle banche e dei mediatori di divise: è dovere del governo. Ciò che si vuol dire è questo: che, se il livello naturale del cambio è oggi 100, le circolari ed i provvedimenti burocratici per disciplinare i mercati finanziari tuttalpiù lo possono spingere a 120. La sola libertà lo può conservare a 100.

 

 

Per fugar voci e sventare speculazioni i mercati hanno d’uopo di una cosa sola: certezza. Seguiti il governo sulla via intrapresa per i titoli di stato e dica chiaramente ciò che intende fare in tutti i rami della pubblica finanza.

 

 

L’ha detto per i titoli di stato. Lo dica anche per i titoli privati, intorno a cui pare ci sia stato qualche disparere nel consiglio dei ministri. Non si è capito bene se i dispareri si riferissero alla nominatività obbligatoria od a quella coatta in virtù dell’imposta del 15 per cento. Come è noto, trattasi di due cose differenti, sebbene l’una sbocchi nell’altra.

 

 

Si vuole applicare il principio per cui tutti i titoli privati – cartelle, obbligazioni, azioni emesse da comuni, province, enti, società – debbono mettersi al nome? Si vuole lasciar libera scelta tra i due tipi, nominativi od al portatore, conservando però l’attuale imposta del 15% sui titoli al portatore, allo scopo di indurli a trasformarsi al nome? Ovvero si vuole abolire anche questa imposta, rinunciando a qualsiasi preferenza per i titoli al nome? è bene chiarire subito il problema, per togliere ogni incertezza in proposito. L’incertezza è la mala pianta all’ombra di cui fioriscono sul serio le speculazioni, i colpi di borsa ed i latrocini finanziari. Per non rendersene complici, le circolari non servono a nulla. Basta dire chiaro e tondo che cosa si vuol fare.

 

 

In verità l’abbandono tassativo della nominatività obbligatoria per i titoli di stato ha quasi annullato il valore dell’unica ragione che stava a favore della nominatività obbligatoria dei titoli privati. Voglio sperare che, tra gli attuali uomini responsabili, nessuno darà il minimo peso alle fandonie con cui da taluno si voleva spiegare la nominatività allo scopo di moralizzare i mercati e le società anonime. Tante volte ho fatto la seguente constatazione, non potuta mai negare: ci sono società anonime buone e società cattive, ci sono assemblee di azionisti serie e assemblee manipolate, ci sono bilanci veri e bilanci falsi ugualmente e nelle proporzioni identiche tanto nei paesi e nei casi di nominatività, quanto nei paesi e nei casi di titoli al portatore. Amministratori asini o disonesti se ne trovano in tutti i paesi del mondo; e così pure prosperano dappertutto gli azionisti allocchi. Pretendere di guarir tutti i mali col cerotto della nominatività è una superstizione ridicola. Sarebbe fare un grave torto a uomini di buon senso supporre che essi vogliano conservare la nominatività per queste buffe ragioni.

 

 

La sola ragione seria era quella fiscale. Bisogna sapere chi sono i possessori dei titoli per esentarli se possessori di piccoli redditi, tassarli coll’1% se hanno redditi modesti, col 10% se il reddito è più vistoso e così via. Perché il ragionamento corra, occorre però che tutti i titoli siano al nome. Che valore ha la nominatività parziale? Che importanza ha conoscere i nomi dei possessori dei 20 miliardi di titoli privati se ignoriamo i nomi dei possessori degli 80 miliardi di titoli di stato? I ricchi, che dovrebbero pagar molto, compreranno buoni del tesoro o consolidati e continueranno, se le imposte sono troppo feroci, a non pagarle.

 

 

Così come stanno le cose, io non so trovare altra ragione al mantenimento dell’imposta del 15% sul reddito dei titoli privati al portatore (nominatività coatta) fuorché questa: che l’imposta esiste, frutta ed è spiacevole rinunciarvi. È una ottima ragione di fatto. Per farla diventare una ragione di diritto, bisognerebbe forse fare un passo innanzi sulla via del riconoscimento della realtà: che è di rendere quella imposta, come pure l’altra, detta di negoziazione (imposta del 3,50%. sul valore capitale degli stessi titoli al portatore, invece che del 2%. sui titoli al nome) delle vere imposte surrogatorie. L’irrazionale e, per molti, il rivoltante di queste due imposte è che esse sono fatte pagare ai possessori di titoli al portatore perché si dice loro: «voi frodate, non pagando l’imposta di successione o quella patrimoniale o qualche altra ancora, come la futura globale sul reddito. Pagate dunque, almeno, queste due del 15% e del 3,50‰ a titolo di multa». Ma se il contribuente si presenta e dice: «ecco qua i miei titoli al portatore. Sono tali e tanti. Valgono tanto. Tassatemi, ché io voglio pagare tutte le imposte dovute», la finanza gli ride in faccia, rispondendogli: «Benissimo; – paga queste sull’importo che bonariamente mi confessi, ma paga anche quelle altre – il 15% sul reddito e il 3,50‰ sul capitale – che io ho stabilito nell’ipotesi che tu mi frodassi”. Questo linguaggio a quasi tutti pare cinico e assurdo, sicché molti si credono autorizzati da tanta perversità a prendere la finanza in parola ed a frodare. A me sembra urgente studiare seriamente e con spirito di onestà se sia lecita una simile condotta. Una soluzione logica e corretta mi parrebbe questa: mantenere l’obbligo di denunciare anche i titoli al portatore, che furono già tassati col 15% o col 3,50‰ allo scopo di calcolare il patrimonio o il reddito complessivo del contribuente e conoscere l’aliquota giusta da applicare ad esso; ma dedurre dall’imposta patrimoniale o successoria o sul reddito l’ammontare già pagato a titolo di 15% e 3,50‰. I particolari tecnici possono variare; ma deve essere tolta l’impressione odierna d’imbroglio ingannevole che danno questi tiri della finanza alla buona fede del contribuente.

 

 

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