Opera Omnia Luigi Einaudi

Che cosa rimarrebbe allo Stato?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1959

Che cosa rimarrebbe allo Stato?

Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1959, pp. 335-359

 

 

 

I quattro statuti della regione siciliana, sarda, valdostana e trentino-atesina non hanno avuto né nella Consulta nazionale né nella Assemblea costituente una discussione degna della loro importanza. La discussione si fece in commissioni parlamentari e ministeriali; e forse solo lo statuto alto-atesino fu, a cagione della delicatezza, anche internazionale, del problema, a lungo dibattuto.

 

 

Tipica fu la procedura di approvazione dello statuto siciliano. Cito le parole del prof. Gilardoni che fu relatore, nella seduta del 7 maggio 1946, alle commissioni riunite degli affari politici e amministrativi, di giustizia, di finanze e tesoro della consulta nazionale.

 

 

«La consulta ha ricevuto un documento segnato con il n. 158, intestato “Statuto della regione siciliana” senza alcuna relazione ministeriale e nello stesso testo, fin nelle virgole, deliberato dalla consulta siciliana dopo una discussione che si è protratta per sette giorni dal 16 al 23 dicembre 1945. Questo documento, quindi, che rappresenta l’espressione definitiva della rappresentanza siciliana convocata in Palermo alla fine dell’anno decorso, è stato fatto proprio dal governo stesso; perché non si può pensare che l’autorità del governo dell’esarchia, pur presentando il documento medesimo all’esame della consulta nazionale, ne abbia declinato la responsabilità».

 

 

In verità, al declino effettivo di responsabilità da parte del governo, corrispose un uguale declino da parte delle commissioni riunite della consulta. Queste, dopo una discussione, alla quale parteciparono i consultori Gilardoni, Berlinguer, Ricci, Einaudi, Guarino Amella, Molinelli, Della Giusta, Aldisio, Oronzo Reale, approvava un ordine del giorno presentato dal relatore in cui:

 

 

«considerato che il provvedimento risponde a finalità politiche che superano ogni esame analitico di pura tecnica legislativa; considerato che il problema delle autonomie regionali in genere e di quella siciliana in ispecie è oramai posto da tutti i partiti e risponde a precedenti legislativi già adottati in conformità alle singole aspirazioni locali; esprime parere favorevole allo schema di provvedimento legislativo sullo statuto della regione siciliana, con l’emendamento della estensione alla Sardegna e a condizione che esso sia sottoposto all’assemblea costituente, per essere coordinato con la nuova costituzione dello stato».

 

Il consultore Federico Ricci, dichiarandosi contrario alle autonomie regionali, benché favorevole ad un sostanziale decentramento amministrativo, si associava al consultore Oronzo Reale il quale, pur fautore delle autonomie regionali, dichiarava prematura e non seria la approvazione dello statuto siciliano negli ultimi giorni di vita della consulta, senza alcun approfondimento delle gravi questioni amministrative, economiche e finanziarie poste dal testo del disegno di legge; e proponeva un ordine del giorno nel quale si affermava «che il progetto per l’autonomia della Sicilia, come ogni altro del genere, debba considerarsi di esclusiva competenza della costituente di imminente funzionamento».

 

 

L’amico Ricci, presentando l’ordine del giorno, si meravigliava che «il ministero non avesse accompagnato il progetto di legge con una sua relazione. Sembra così che si voglia lasciare alla consulta ogni responsabilità. Tutti i progetti sottoposti alla consulta sono accompagnati da una relazione, mentre qui si ha soltanto uno schema legislativo, che egli apprende ora essere quello stesso elaborato dalla consulta siciliana. Il ministero lo passa alla consulta e se ne lava le mani, senza convenientemente istruirlo».

 

 

Respingendo l’ordine del giorno Ricci ed approvando quello del relatore Gilardoni, la consulta fece suo, con la stravagante motivazione trattarsi di norme «di pura tecnica legislativa», l’espediente ministeriale del lavarsene le mani; espediente a sua volta fatto proprio dalla assemblea costituente, con la sola riserva che entro due anni lo statuto siciliano potesse essere corretto dal parlamento (camera e senato) con la procedura “ordinaria”, ossia senza le modalità prescritte per le leggi di carattere costituzionale. Provvide l’alta corte siciliana a dichiarare incostituzionale l’emendamento della costituente; né, del resto, vi era alcuna probabilità che il parlamento trovasse, entro limiti di tempo prescritti, modo di rivedere lo statuto siciliano con la procedura ordinaria. Cosicché lo statuto siciliano vigente, passato attraverso a tante lavate di mano, è quello stesso che fu nel 1945 deliberato dalla consulta siciliana.

 

 

Estraggo dalle pagine 468 a 472 del verbale a stampa della seduta del 7 maggio 1946 delle citate commissioni riunite della consulta il testo della relazione scritta dal consultore Luigi Einaudi. «La relazione – notò il relatore Gilardoni – non fu allegata al documento come relazione di minoranza perché la prassi adottata al riguardo è che la relazione di una sola persona, deputato o consultore nella specie, non possa costituire relazione di minoranza».

 

 

La prassi (o consuetudine o uso, come con parola meno affettata si dovrebbe dire) è curiosa, essendo incomprensibile il motivo per il quale soltanto ai numeri maggiori dell’unità si debba attribuire il carattere di minoranza di portatori di opinioni dissenzienti, le quali possono invece essere offerte dall’uno come dai molti. Per avventura, al rifiuto della dignità minorile fu subito tolta significazione, dichiarando che «con la possibilità di allegare al verbale di questa seduta tutte le osservazioni che egli (il consultore Einaudi) avesse voluto formulare, il suo pensiero e le sue proposte avrebbero senza dubbio avuto in questa sede il dovuto riconoscimento».

 

 

Così fu che, con il nome di “osservazioni”, si poté leggere nel rendiconto ufficiale della seduta la seguente mia relazione:

 

 

«1. Al principio informatore del progetto di statuto della regione siciliana il sottoscritto non solo aderisce pienamente, ma aderisce con pienezza di consenso, convinto come egli è che il riconoscimento di ampie autonomie alle singole regioni italiane sia condizione necessaria per rinsaldare l’unità nazionale. Le critiche che egli ha il dovere di muovere al progetto medesimo, sono mosse esclusivamente dalla persuasione che l’autonomia potrà avere vita salda e duratura nel nostro paese soltanto se vi si dia un inizio razionale rispondente ai fini che tutti vogliamo raggiungere. Condizione essenziale per il successo della nuova esperienza che si impone nel nostro paese è la definizione precisa dei limiti posti da un lato all’attività dello stato e dall’altra parte all’attività della regione. Importa che il sistema funzioni senza attriti tra il governo centrale ed il governo regionale. Nel nostro paese noi dobbiamo fare il cammino inverso a quello che ha condotto alla formazione degli stati federali moderni; e si ricordano ad esempio le federazioni più antiche e più solide quali la Confederazione Svizzera e gli Stati uniti d’America. In questi si è partiti dai cantoni o stati singoli e si è giunti alla federazione. Fu storicamente logico perciò che gli stati si spogliassero di alcune delle loro funzioni attribuendole alla federazione; la quale rimane così investita di quelle sole funzioni che siano espressamente indicate nell’atto fondamentale federale, tutti gli altri compiti spettando ai cantoni o stati singoli. Nuovi compiti sono stati poscia attribuiti alla federazione, ma sempre per emendamenti deliberati di volta in volta nelle forme statutarie all’atto fondamentale. In Italia il processo deve essere inverso. Noi dobbiamo partire da uno stato centralizzato per arrivare ad uno stato più sciolto, con funzioni attribuite alle singole regioni. Il principio informatore della legislazione regionale è dunque che allo stato centrale rimangono attribuite tutte quelle funzioni che esplicitamente non siano state assegnate alle regioni nell’atto di cui queste sono costituite. Compiuta questa distribuzione, stato e regione devono risultare sovrani nell’ambito delle proprie competenze.

 

 

2. A queste esigenze non contraddicono in massima i titoli primo e secondo del disegno di provvedimento legislativo; né vi contraddice l’ultimo titolo di carattere formale. Si potrebbero bensì muovere osservazioni particolari intorno alle singole funzioni devolute alla regione e alla formulazione particolare di taluni articoli. Ad esempio all’articolo 14, lettera d), la inclusione generica dell’industria e del commercio nelle materie di esclusiva pertinenza della regione dimentica le interferenze necessarie tra una regione ed un’altra e dimentica sovratutto la necessità di conservare la unità economica del territorio nazionale. Alla lettera i) del medesimo articolo sorge il dubbio intorno alla convenienza per la regione di regolare con esclusività la materia delle acque pubbliche le quali, se devono essere governate bene, sovratutto nell’interesse regionale, devono essere regolate unitariamente per tutto il territorio nazionale. Altri dubbi sorgono intorno all’incertezza derivante dall’attribuzione alla regione della disciplina del credito, dell’assicurazione e del risparmio. Trattasi però di osservazioni di indole particolare le quali dovrebbero formare oggetto di attento esame. Qui si vuol richiamare l’attenzione delle commissioni riunite soltanto sui principi fondamentali.

 

 

3. Le prime gravi obiezioni sorgono a proposito della sezione 2a del titolo 2°; laddove si stabiliscono le funzioni del presidente della regione e della giunta regionale. Si badi: il presidente e gli assessori regionali esercitano, oltre alle funzioni proprie, anche quelle delegate dal governo dello stato, secondo le direttive date da questo (articolo 20). Si crea così una figura ibrida di presidente del governo regionale e di delegato del governo centrale, il quale nelle materie appartenenti allo stato deve ubbidire agli ordini di Roma. Non si abolisce cioè il prefetto, ma si delegano le sue funzioni al capo del governo regionale. In tal modo si toglie da un lato vigore all’azione statale, e nel tempo stesso si abbassa dall’altro lato la figura del presidente regionale al livello di un funzionario dello stato. Il governo centrale può manifestare il suo malcontento contro l’operato del presidente-prefetto, inviando temporaneamente proprii commissari per la esplicazione di singole funzioni statali (articolo 21). Si creano così attriti fatali fra governo centrale e governo regionale e si contraddice, nel modo più aperto, agli insegnamenti che si traggono dalla pratica seguita in tutti i paesi ad ordinamento federale. Male distinte le funzioni dei due enti, esse sono contemporaneamente affidate alle autorità, elette le une dalla regione e inviate le altre dal governo centrale. L’impossibilità del funzionamento del sistema si manifesta in modo particolare per ciò che riguarda il mantenimento dell’ordine pubblico. Si attribuisce invero la funzione della pubblica sicurezza al presidente regionale, il quale però la esercita a mezzo della polizia dello stato, a sua volta dipendente disciplinarmente per l’impiego e la utilizzazione dal governo regionale. Il presidente regionale può bensì richiedere l’impiego delle forze armate dello stato; ma il governo dello stato, quando sia persuaso che il governo regionale non adempie al suo ufficio fondamentale, può assumere la direzione del servizio di pubblica sicurezza sia da solo, sia congiuntamente al governo regionale. Peggio ancora: il presidente regionale ha diritto di proporre la rimozione e il trasferimento fuori dell’isola dei funzionari di polizia. Il sistema così creato equivale alla creazione del disordine. Esso contraddice quella che è la evoluzione verificatasi in tutti gli altri stati, dove governi centrali e governi regionali esistono gli uni accanto agli altri. Da per tutto, senza eccezione, la polizia cominciò ad essere un compito degli enti locali, sia che si chiamassero cantoni nella Svizzera, ovvero stati nella confederazione americana. Da per tutto si finì per constatare che il sistema era disadatto, anzi completamente impotente nella lotta contro la delinquenza e la malavita, e per l’assicurazione dell’ordine pubblico. La delegazione dell’esercizio delle funzioni di polizia agli enti locali crea infatti la possibilità di conflitto fra le polizie delle diverse regioni e la impunità dei trasgressori alla legge penale e civile. L’esperienza costrinse da per tutto a creare, accanto alla polizia locale, una polizia federale dipendente direttamente ed esclusivamente dal governo centrale. Rinunciare agli insegnamenti di questa esperienza sicura condurrà ai peggiori risultati rispetto a quella che è una delle funzioni essenziali dello stato e cioè la pubblica sicurezza.

 

 

4. La creazione di attriti e la impossibilità di funzionamento della macchina amministrativa sembra sia altresì il proposito voluto dalla maggior parte dei provvedimenti concernenti le materie economiche e finanziarie. Se vi è tendenza certa e corrispondente alle necessità dell’epoca presente e quella della sfera sempre più larga della gestione delle comunicazioni ferroviarie, marittime ed aeree. L’unificazione delle tariffe, la formazione di tariffe differenziali per i trasporti a lunga distanza, la regolazione non solo nazionale, ma internazionale, di tutto ciò che si attiene alle comunicazioni, è una delle caratteristiche più evidenti del mondo moderno. Se in tutte le regioni italiane si applicasse la norma, esposta del resto con un linguaggio indeterminato e vago, dell’articolo 22, ed ogni regione avesse il diritto, non di farsi sentire per interrogatori di periti o per critiche aperte nella assemblea regionale, ma di partecipare alla formazione delle tariffe, sarebbe impossibile formare tariffe di comunicazioni ispirate a criteri di interesse generale. Si spezzerebbe il territorio nazionale in piccole unità, ognuna delle quali tenderebbe ad affermare certi suoi interessi a corta veduta, forse produttivi di qualche piccolo vantaggio immediato, ma contrastanti a quelli che sono gli interessi fondamentali nel tempo stesso dello stato e della regione. L’articolo 22 non si oppone in apparenza alla formazione di tariffe nazionali, ma insinua in una materia, la quale deve essere, per la indole sua propria, nazionale, un elemento di discordia e di do ut des che non può non essere fecondo di pessimi risultati anche per la Sicilia.

 

 

5. Altrettanto indeterminato è il sistema che l’articolo 39 costituisce per la dogana. La norma secondo la quale le tariffe doganali devono essere stabilite, per quanto interessa la regione e relativamente ai loro limiti massimi, solo previa consultazione col governo regionale, se ha un significato sembra sia quello che la regione possa mettere un veto ai dazi doganali troppo alti contro le merci straniere. La illazione pare legittimata anche dalla esenzione da ogni dazio doganale per le macchine e gli arnesi di lavoro agricoli, nonché per il macchinario attinente alla lavorazione industriale dei prodotti agricoli della regione. Se questa disposizione volesse dire che la regione siciliana intende che le macchine e gli arnesi agricoli, nonché il macchinario sopraindicato sono esenti da ogni dazio doganale all’entrata in tutto lo stato italiano, si potrebbe essere – ed io sarei – senz’altro d’accordo; ed è evidente che in questa maniera il disegno di legge sulla Sicilia intende legiferare per tutto lo stato italiano e imporre un dato regime doganale a tutto lo stato. Se così fosse, la disposizione sarebbe plausibile e logica; ma così non può essere, perché il disegno di legge per la Sicilia non può evidentemente porre norme di carattere nazionale. Or dunque l’articolo 39 necessariamente implica la istituzione di una linea doganale tra la Sicilia e il continente. Lo stato italiano essendo libero di stabilire dazi sulle merci le quali dovrebbero essere invece esentate all’entrata in Sicilia, o potendo istituire per l’entrata nelle altre regioni italiane dazi più alti di quelli che potranno essere stabiliti per l’entrata nel territorio siciliano, è evidente che quelle determinate merci, le quali saranno esentate all’entrata in Sicilia, non potrebbero essere da questa riesportate nel continente senza assolvere il dazio intiero o il dazio differenziale non pagato prima. Se questo risultato possa essere ottenuto senza la istituzione di una vera e propria linea doganale, è assai dubbio. Là dove si sono costituiti porti o punti franchi, fu necessario trasportare la linea doganale al limite della zona franca. L’illazione logica di un pericolo di stato autarchico chiuso che si trae dal testo dell’articolo 39 è confermata dalla mancanza di quella disposizione la quale si trova in tutte le costituzioni federali vigenti, e cioè dalla mancanza del divieto assoluto di istituire linee doganali o di porre altri impedimenti di qualunque sorta al movimento di merci e di persone tra i diversi stati e le diverse regioni componenti una federazione. Senza questa norma essenziale non dico uno stato unitario, come continuerebbe ad essere il nostro, sia pure con larghe autonomie regionali, ma non esiste nessuna federazione. Esiste unicamente una sciolta società delle nazioni, od un insieme di nazioni o di regioni prive di unità, economicamente sovrane, discordi e disposte alla guerra fratricida.

 

 

6. La illazione tratta dal tenore dell’articolo 39 è rafforzata dal contenuto dell’articolo 40. Le disposizioni vigenti nel mondo contemporaneo sul controllo valutario sono certamente responsabili di gran parte degli impedimenti che si riscontrano oggi al commercio internazionale con danno gravissimo dell’economia di tutti gli stati. La sola giustificazione che si può addurre a favore del controllo valutario è la necessità derivante dallo stato di guerra e la impossibilità di passare immediatamente da una economia di guerra a una economia di pace. Ma i danni indiscutibili che il controllo valutario procaccia alla nostra economia italiana, come alle economie dei paesi stranieri, sarebbero di gran lunga aggravati se fosse adottato il concetto di istituire, come vorrebbe l’articolo 40, presso il Banco di Sicilia una camera di compensazione allo scopo di destinare ai bisogni della regione le valute estere provenienti dall’esportazione siciliana, dalle rimesse degli emigranti, dal turismo e dal ricavo di nolo di navi iscritte nei compartimenti siciliani. Notisi, innanzitutto, che il sistema equivale alla istituzione di un sistema peculiare di compensazione esteso alle importazioni ed alle esportazioni siciliane. Gli esportatori siciliani potrebbero conservare tutto il ricavo in valuta delle esportazioni; ma non per sé, sibbene a prò degli importatori siciliani. Essi avrebbero per le loro valute un mercato non più nazionale, ma ristretto alla Sicilia. Timeo Danaos et dona ferentes. L’esportatore siciliano dovrebbe riflettere a lungo prima di accettare un dono, il quale significa che egli non può vendere a chi crede, come può fare oggi [1946] nel caso di compensazione privata per il 100 per cento, e come può fare per le altre per il 50 per cento; ma dovrebbe vendere ad un gruppo particolare di acquirenti, suoi compaesani bensì, ma non per ciò disposti a pagargli il prezzo migliore ottenibile su un mercato più ampio. Sarebbe un protezionismo creato inconsapevolmente a vantaggio degli industriali locali a danno sovratutto degli agricoltori e dei più progrediti tra gli agricoltori siciliani. Si aggiunga che l’autonomia che qui si auspica per la Sicilia non potrebbe essere attuata qualora non fosse istituito il controllo doganale su tutte le esportazioni e le importazioni siciliane. Quando si affermi il principio che le disponibilità valutarie costituite con esportazioni di beni e servizi siciliani siano destinate a far fronte esclusivamente al pagamento di importazioni di beni e servizi a favore della Sicilia, ne discende logicamente che non dovrebbe essere lecito importare in Sicilia, dalle altre provincie italiane, merci importate da parte di quest’ultime con pagamento in valuta. Se infatti non si impedisse la esportazione dal continente verso la Sicilia di merci che il continente ha importato dall’estero, ne seguirebbe che le disponibilità valutarie della Sicilia sarebbero incrementate dalla facoltà di comprare, con lire, merci che altre regioni italiane hanno comprato con valuta. Sia consentito a chi, per dovere di ufficio deve occuparsi ogni giorno di problemi relativi al controllo valutario, affermare che nessun dono più funesto potrebbe essere fatto alla Sicilia di questa autonomia valutaria. Gli articoli 39 e 40 insieme congiunti renderebbero necessario separare la Sicilia con una cintura doganale e valutaria dalle restanti regioni italiane. Si determinerebbe necessariamente in Sicilia un livello di prezzi diverso da quello vigente nelle restanti regioni d’Italia. E cioè si creerebbe una lira siciliana con potere di acquisto diverso dalla lira continentale e di conseguenza sorgerebbe un cambio tra la lira siciliana e quella continentale. Già oggi l’ostacolo forse maggiore che si incontra per lo stabilimento di un livello di cambio corrispondente alla realtà tra l’Italia e i paesi stranieri consiste nel fatto appunto che coesistono infinite lire, una diversa dall’altra. Nessuno sa quale sia il potere di acquisto della lira italiana per confrontarlo con il potere di acquisto del dollaro o della sterlina, o del franco svizzero, o di un’altra moneta qualunque, perché di lire ne esistono troppe nel nostro paese; lire libere di acquistare merci in generale, lire di chi compra a prezzo di calmiere e di chi compra sul mercato nero, lire di chi paga fitti vincolati o di chi è costretto a vivere in camere mobiliate a prezzi liberi e via dicendo senza fine. Tuttavia la molteplicità delle lire esistenti è una molteplicità di fatto alla quale si può sperare di porre rimedio e termine in avvenire. Ma la norma contenuta nell’articolo 40 istituirebbe legalmente una lira siciliana diversa dalla lira continentale. Se questa norma fosse accolta, noi segneremmo un regresso gravissimo sulla via della ricostruzione economica. Tutto il cammino della civiltà consiste nell’abolire le barriere doganali e le barriere valutarie e noi invece creeremmo nuove barriere doganali e nuove barriere valutarie per separare territori congiunti dal vincolo della comune appartenenza alla medesima nazione ed al medesimo stato.

 

 

7. Incertissime e quindi produttive di attriti sono altresì tutte le norme le quali si riferiscono alle materie tributarie. Allo stato, da quanto si può dedurre dall’articolo 36, sarebbero riservate unicamente le imposte di produzione e le entrate dei monopoli dei tabacchi e del lotto. Che cosa accadrebbe di tutto il resto del sistema tributario? A chi apparterrebbero le imposte sui redditi reali e personali, le imposte patrimoniali, le imposte successorie e sui trasferimenti (registro e bollo)? E a chi il provento dei dazi doganali? A tutti questi problemi il disegno di legge non dà risposta. Qualche lume si trae dall’articolo 37, dal quale risulta che il provento dell’imposta di ricchezza mobile delle categorie B per le imprese industriali e commerciali, le quali hanno sede centrale fuori del territorio della regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, spetta alla regione per la quota di reddito tratta della Sicilia. A fortiori spetta alla regione altresì il provento di ricchezza mobile categoria B per le imprese commerciali e industriali con sede in Sicilia, ad eccezione forse del reddito ricavato dagli stabilimenti posti in altre regioni italiane. Se così è, risulta evidente che lo stato italiano rimane per questa categoria, che è la principalissima dell’imposta di ricchezza mobile, privo della capacità di istituire tributi nella Sicilia. Se è privo della capacità di imporre per la categoria B, perché non dovrebbe esserlo parimenti per le altre categorie della medesima imposta? E perché non lo sarebbe altresì per le imposte sui terreni e sui fabbricati? Il proposito evidente dell’estensore del disegno di legge è che tutte le imposte attualmente riscosse dallo stato in Sicilia, ad eccezione delle imposte di produzione e dell’entrate dei monopoli del tabacco e del lotto, debbano spettare alla regione; ma lo stato sul provento di questa minor parte dell’entrata tributaria a lui riservata dovrebbe prelevare a norma dell’articolo 38, una somma da impiegarsi a favore della regione a titolo di solidarietà nazionale, in base ad un piano economico nella esecuzione di lavori pubblici. Si domanda: se il sistema ideato in Sicilia dovesse essere applicato a tutte le regioni italiane, quali mezzi rimarrebbero allo stato per far fronte alle sue spese? E poiché in tutti i paesi del mondo le spese spettanti allo stato sono di gran lunga superiori alle spese spettanti alle unità locali minori, l’adozione del sistema non vorrebbe dire l’annientamento dello stato per la impossibilità di far fronte ai proprii compiti? Basta porre queste domande formidabili per dimostrare che il disegno di legge, forse inconsapevolmente, ha per scopo e risultato essenziale quello di distruggere non solo l’unità nazionale, ma benanco la esistenza medesima dello stato italiano.

 

 

8. Fa d’uopo accennare da ultimo allo spezzamento della unità nazionale che sarebbe la conseguenza dell’adozione degli articoli da 23 a 30 relativi agli organi giurisdizionali. Non si può sovratutto non rilevare la gravità estrema del principio affermato dall’articolo 24 e seguenti relativi all’istituzione di una alta corte sulla costituzionalità delle leggi emanate dall’assemblea regionale e di quelle emanate dallo stato rispetto allo statuto regionale ed i regolamenti relativi. Questa è materia gravissima la quale dovrà essere ampiamente discussa dalla costituente nazionale. Il disegno di legge odierno ha scelto senz’altro, fra i tanti tipi che si possono immaginare di giudizio sulla costituzionalità delle leggi, quello che ha carattere più spiccatamente politico. I membri dell’alta corte sarebbero invero scelti dalle assemblee legislative dello stato e della regione. Si dice in verità che i membri della corte dovrebbero essere scelti fra persone di speciale competenza in materia giuridica; ma quale probabilità vi è mai che assemblee politiche giudichino secondo criteri di competenza e non invece secondo criteri politici? Il sistema scelto affida in sostanza il giudizio sulla costituzionalità delle leggi ad una assemblea che, per essere composta soltanto di otto membri, non sarebbe meno una assemblea di carattere politico giudicante secondo gli interessi e i principi propri della parte politica dominante in ogni successivo momento nelle assemblee legislative statali e regionali. Giudizio siffatto non è un giudizio giuridico, ma giudizio di parte e non assicura la osservanza della legge e degli statuti fondamentali. Esso conduce necessariamente alla sopraffazione di una parte politica sulle altre. È inutile cercare precedenti di corti per la difesa della costituzione negli stati dove il giudizio di legittimità costituzionale non ha mai funzionato o ha dato luogo a lacrimevoli insuccessi. Il solo precedente noto di un paese dove il giudizio di costituzionalità delle leggi funzioni efficacemente da 156 anni in qua si trova negli Stati uniti e testimonia nettamente contro il sistema proposto nel disegno di legge. In quel paese non esiste nessuna speciale corte di giudizio sulla costituzionalità delle leggi, non esiste nessun magistrato speciale per la materia costituzionale. Esistono solamente ordinarie corti inferiori e una corte superiore, le quali pronunciano sentenze su tutte le materie e quindi anche sulle questioni di costituzionalità. Quelle corti inferiori e supreme sono composte di giudici nominati a vita, indipendenti, di magistrati in senso proprio e non di giudici politici incaricati di dare entro breve termine, così come prescriverebbe l’articolo 29, giudizi passionali sulla costituzionalità delle leggi. Negli Stati uniti il giudizio costituzionale della legge ha luogo così come qualunque altro giudizio, ad istanza di parte in qualunque momento, anche lungo tempo dopo la promulgazione delle leggi impugnate e la sentenza dei magistrati ha valore per il caso specifico deciso e, come per ogni altra controversia, la sentenza data oggi può essere revocata domani dalla medesima corte la quale abbia mutato opinione.  Questo è il solo sistema il quale abbia efficacemente operato per lungo periodo di tempo in difesa dei cittadini contro la incostituzionalità delle leggi. Non si vede la ragione per la quale con una improvvisazione frettolosa, e prima che se ne sia discusso ampiamente nella futura costituente, si debba, in Italia, pregiudicare la soluzione più opportuna del problema gravissimo, adottando una soluzione diversa dall’unica la quale subì la prova del tempo, e conforme invece alle escogitazioni compiute qua e là dopo l’altra guerra da dottrinari privi di esperienza politica, escogitazioni delle quali non si fece mai alcuna applicazione probante.

 

 

9. Altre osservazioni particolari potrebbero essere aggiunte; ma esse non farebbero che rafforzare la conclusione: l’approvazione del disegno di legge sottoposto al nostro esame sarebbe la sconfitta maggiore che potesse toccare agli ideali, che furono sempre quelli di chi vi parla, agli ideali di autonomia locale, di riduzione dei compiti del governo centrale. È una disgrazia per gli ideali di autonomia affidare alle regioni, alle comunità e alle provincie compiti che non siano nettamente definiti e non siano loro proprii. Agli ideali di autonomia locale nessuna peggiore sciagura può accadere dell’approvazione di un sistema necessariamente fecondo di discordie, di impoverimento, ed alla fine di lotta aperta tra le diverse parti componenti la nazione italiana. Dio salvi la Sicilia dal dono infausto che oggi le si vorrebbe fare!».

 

 

Le critiche mosse nel maggio 1946 al progetto di statuto siciliano conservano ancora oggi valore. L’esperienza ne ha smussato alcune punte, non perché la osservanza delle norme statutarie relative al regime doganale ed a quello valutario non potesse essere causa dei danni da me prognosticati, ma perché gli amministratori ed i consiglieri della regione siciliana rifletterono alle conseguenze fatalmente disgregatrici della condotta che essi avrebbero avuto ed avrebbero piena ragione di tenere.

 

 

In qualche caso in cui fu offesa la unità economica del territorio nazionale, l’offesa può significare l’augurio che essa sia estesa al resto del paese. È il caso della abolizione della nominatività dei titoli. Inutile ai fini tributari ed a quelli moralizzatori, vessatoria al punto di vista economico, la nominatività è uno dei tanti arnesi inventati dai giustizieri per tormentare i contribuenti e ridurre le entrate fiscali. Se le legislazioni siciliana e sarda, creando disordine, persuaderanno a saggezza il legislatore italiano, tanto meglio per tutti.

 

 

Non avevo invece approfondito il rilievo all’art. 38, secondo il quale lo stato dovrebbe prelevare dal bilancio nazionale, nonostante che le entrate tributarie siciliane rimaste a favore dello stato siano tanto scarse, una somma da impiegare a favore della regione “a titolo di solidarietà nazionale” in base ad un piano economico nella esecuzione di lavori pubblici. Non avevo veduto abbastanza la stranezza del secondo comma di quell’articolo: «Questa somma (il cosidetto “fondo di solidarietà nazionale”) tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella regione in confronto della media nazionale.»

 

 

L’uso di far intervenire lo stato sia unitario che federale, con contributi forniti da imposte pagate dalle regioni più ricche a vantaggio di quelle meno fortunate o più povere, è ovvia attuazione del principio detto “del forte che porta il debole”. Soccorrono all’uopo motivi onesti e ragionevoli: terremoti, inondazioni, urgenza di rimboschire e di risanare terre distrutte dalle acque, dalle frane e dalla malaria, di provvedere a strade, a fognature, a cimiteri, ad acquedotti, ecc. ecc. Le autonomie regionali possono agevolare la deliberazione e l’esecuzione di opere che le regioni arretrate o povere non hanno i mezzi di compiere. L’istituzione delle regioni agevola l’adempimento dei fini pubblici, la distribuzione dei mezzi tra fini concorrenti, la compilazione dei progetti o piani più efficaci a compiere l’opera con la spesa e nel tempo minori consigliati dalla scienza e dalla esperienza. Perciò ero e rimango favorevole alle autonomie locali.

 

 

La discussione è forse agevolata se le decisioni debbono essere prese, come impone l’art. 38, sulla base di un fondo determinato in maniera indipendente dagli scopi da conseguire e dalla stima dei mezzi occorrenti?

 

 

La norma, discorrendo di «bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella regione in confronto della media nazionale», è innanzitutto calunniosa. Il compilatore dello statuto siciliano affermando, forse senza accorgersene, che il lavoratore siciliano ha una capacità produttiva inferiore a quella del lavoratore medio italiano, ha innocentemente affermato cosa falsa ed auto-calunniosa. Chi ha visto i giardini – così e giustamente si definiscono in Sicilia gli agrumeti – della Conca d’oro e della costa fra Messina e Siracusa non può ammettere che i creatori di siffatti miracoli non stiano alla pari dei migliori lavoratori di ogni progreditissima contrada agricola. Il paragone fra reddito o produttività del lavoro siciliano e reddito e produttività del lavoro italiano deve essere fatto fra termini omogenei. La Sicilia può chiedere ragionevolmente aiuto al tesoro italiano non perché il lavoro siciliano renda meno del lavoro italiano; ma perché il lavoratore siciliano deve lottare contro difficoltà di clima, di terreno, di attrezzature, di strade, di sistemazione di acque e di distruzione del suolo maggiori di quelle contro di cui devono lottare oggi, dopo millenarie durissime fatiche, i lavoratori di altre parti d’Italia. La regione siciliana si troverà di fronte a rappresentanti di non poche regioni appenniniche da Bologna a Reggio Calabria, di parecchie zone montagnose nella catena delle Alpi, i quali dimostreranno che le condizioni dei loro territori sono peggiori di quelle medesime siciliane. La disputa è sana e feconda; tutto il problema della distribuzione delle spese pubbliche è un problema di confronti fra necessità e utilità e di urgenza di talune spese in confronto a talune altre. Nel discutere e nel decidere si possono commettere errori; ed il grande merito dei governi liberi in confronto a quelli tirannici sta appunto nel fatto che nei regimi di libertà discussione ed azione procedono attraverso al metodo dei tentativi e degli errori. Trial and error è l’emblema della superiorità dei metodi di libertà su quelli di tirannia.

 

 

Il tiranno non ha dubbi e procede diritto per la sua via; ma la via conduce il paese al disastro. L’istituto della regione ha degno compito nella soluzione del problema proprio della formazione dei bilanci statali e locali; e nessuno potrà muovere querela se una regione meglio attrezzata riuscirà ad addurre prove migliori di quelle apprestate da altre per dimostrare la necessità e l’utilità per lo stato di venire prima e più largamente in suo aiuto.

 

 

Non può tuttavia alcuna regione fondare il suo diritto all’aiuto partendo dal principio che debba essere soccorso colui il quale rende e cioè vale meno di altri. Il principio, che è nel caso specifico siciliano falsamente auto-calunnioso, è distruttivo di ogni convivenza civile e di ogni progresso. Esso non significa offrire ad ogni uomo uguali probabilità nei punti di partenza. A ciò occorrono scuole, istruzione gratuita, borse di studio ai meritevoli, agevolezze di tirocinio e simili; che son cose, entro i limiti del possibile e di un possibile crescente, ragionevoli.

 

 

Significa invece pagare un sussidio agli incapaci e neghittosi in modo da recarli al livello di rimunerazione dei capaci e volonterosi. Se Tizio merita e riceve 100 e Caio, lavoratore capace e volonteroso, ottiene 150, è dannoso colmare la differenza con l’aiuto pubblico. Perché Tizio dovrebbe sforzarsi a diventare migliore se è sicuro di ricevere un sussidio di 50?

 

 

Perché Caio deve lavorare meglio e più di Tizio se costui, con minore fatica, è sicuro di ricevere lo stesso compenso?

 

 

Il compilatore dell’art. 38 dello statuto siciliano non ha certamente voluto dir cosa tanto oltraggiosa al buon senso; ma inconsapevolmente l’ha detta. Con lui l’hanno detta e continuano a dirla tutti coloro i quali invocano e statuiscono e rendono operanti le cosidette “casse di conguaglio”, le quali non so quante siano, ma ritengo si siano moltiplicate in Italia oltremisura ad opera dello stato e di imprenditori privati. Qualcosa non va, qua e là taluno perde danaro o incontra difficoltà nel vendere i proprii prodotti? Taluni beni si vendono a troppo caro prezzo in un luogo perché ivi i costi sono alti? Ecco pronto il rimedio: di volta in volta la carta da giornali, il riso, la canapa, l’elettricità, lo zolfo, il frumento, il cotone ecc. sono oggetto di cure dette di compensazione, di parificazione, di conguaglio, di soccorso al debole a carico del forte; in nome della dea “giustizia comparativa”. Ecco stabilita, per ricordare un esempio, una bella tassa sui fabbricanti di carta di ogni specie, dai cartoni da imballaggio alla carta finissima da lettera; la tassa frutta miliardi e questi sono versati ai soli editori di giornali, allo scopo di tenere basso il prezzo della carta da giornali. In verità il prezzo dei giornali non ribassa, essendo fissato d’autorità dallo stato; ed è, manco a farlo apposta, più alto di quello che la convenienza stabilirebbe per i giornali che si vendono e più basso di quello che sarebbe ritenuto indispensabile per i giornali che non si vendono. Non si consegue l’effetto desiderato; bensì l’altro, tutto diverso, di diseducazione e di corruzione. Sono colpiti i libri di scuola e sono avvantaggiati i fogli dei fumetti, dei settimanali sostanzialmente pornografici, i giornali di vilipendio e ricatto politici e simile roba. Frattanto, siccome la tassa frutta qualche miliardetto di più del richiesto per pagare, secondo criteri oggettivi, ai giornali il sussidio, non è detto non scappino fra le dita premi ai pubblicisti, agli scrittori fabbricanti di articoli e di libri meritevoli di incoraggiamento; ossia non è detto non nasca qualche nuovo mezzo di corruzione o di intossicazione del pubblico, oltre quelli da cui siamo naturalmente afflitti.

 

 

C’è qualche buona ragione perché esistano, qualunque sia il loro nome, casse di conguaglio risi, canapa, elettricità, zolfo ecc. ecc.? No. C’è solo la cattiva scusa che occorre sussidiare colui che non riescirebbe a vendere, senza perdere, quei prodotti, a spese di chi li potrebbe produrre a prezzi anche minori di quelli fissati dai consorzi. Talvolta, invece di durar la fatica del consorzio, è più semplice far pagare pantalone. Oggi ci si preoccupa della eccessiva produzione in Italia del frumento: 10 o 15 milioni di quintali di più del fabbisogno di alimentazione per i consumatori e per le semine? Il prezzo non copre abbastanza i costi, non di rado superiori alle 6.000 circa a cui oggi si vende il frumento, astrazion fatta del dono supplementare di un migliaio di lire per la quota consegnata all’ammasso? Io non so di costi; ché i calcoli di costo dei prodotti agrari sono misteriosi e spesso viziati da ragionamento in circolo. La derrata è cara, perché la terra è cara e valendo, ad es., un milione di lire all’ettaro, fa d’uopo calcolare 50 mila lire all’anno di interessi nel costo di produzione e quindi tante e tante lire per quintale di prodotto. La terra, a sua volta, vale un milione all’ettaro perché, la derrata si vende cara così e così; che se si vendesse a miglior mercato, anche la terra varrebbe meno; e gli interessi annui sul capitale terra dovrebbero essere calcolati solo a 30 mila lire e la derrata verrebbe a costar meno e lascerebbe forse un margine sul prezzo di vendita. Tutto un imbroglio di calcoli di costi, dal quale non si deduce nulla di serio.

 

 

Qualcosa è caro perché le imposte statali, provinciali, comunali, consorziali, regionali, autonomistiche (di enti autonomi forniti di potestà tributaria) sono alte, perché i salari, i contributi unificati, i sussidi familiari sono alti, perché gli imponibili costringono ad occupare salariati inutili e dannosi alla buona agricoltura? Fa d’uopo un compenso: assuma lo stato il monopolio del frumento e paghi un prezzo bastevole a coprire i costi, ivi compresi i costi del coltivare frumento sul dorso degli Appennini, le imposte e sovrimposte, i contributi unificati, gli assegni familiari, i supplementi ai mulini collocati in luoghi disadatti, con l’aggiunta dell’utile occorrente all’ente pubblico monopolista per coprire le spese dei falsi impiegati, dei falsi trasporti e degli sfridi inseparabili dell’organizzazione di cotal pubblico latrocinio. Gli agricoltori immaginano di avere conseguito il desiderato compenso, scaricando su qualche altro gli oneri eccessivi da cui sono gravati? Pura illusione. Col mirare a falsi scopi non si ottiene nulla. Il malanno sta non negli oneri eccessivi in se stessi, ma nella mala politica che li rende necessari. Data una certa politica, le imposte di varie denominazioni non possono scendere ad esempio al di sotto di 4.000 miliardi e più; che è proporzione veramente troppo grande del reddito nazionale. Vano fare smorfie: i 4.000 miliardi sono tanti e non meno ed importa pagarli. Se i produttori di frumento riescono a farsi rimborsare la quota ad essi spettante, non perciò i 4.000 diventano 3.500. Qualcuno pagherà. Se i salari dei giornalieri montano, comprese le aggiunte obbligatorie dei contributi sociali, degli imponibili, dei sussidi ecc. ecc., a 2.500 lire al giorno, tali rimangono anche se i produttori di frumento o di riso o di canapa o di burro riescono a farsene rimborsare una parte con monopoli di stato, dazi, contingenti, proibizioni ed altre somiglianti invenzioni. Qualcun altro pagherà il di più che gli agricoltori dicono di non poter pagare.

 

 

Nessun problema si risolve tirando la coperta per coprire se stessi e lasciare gli altri al freddo. Il problema è irresolubile, se non ci si persuade che il metodo degli imbrogli reciproci, del far credere che esiste una ricetta per non pagare le imposte prescritte secondo le esigenze dei bilanci, per ridurre i salari al di sotto di quel che i salariati di fatto ricevono, è pura illusione.

 

 

Se alla domanda posta dall’art. 38 dello statuto siciliano si può rispondere soltanto negando il principio medesimo che informa il contributo di solidarietà nazionale scritto in quell’articolo, come gli altri contributi di simigliante falsa solidarietà venuti in moda, ad un’altra domanda si può tentare di dare un inizio di risposta atto a redigere in avvenire testi costituzionali ragionevoli. Avevo nella contro relazione del 1946 posto la domanda così: «Se il sistema tributario ideato in Sicilia dovesse essere applicato a tutte le regioni italiane quali mezzi rimarrebbero allo stato per far fronte alle sue spese?».

 

 

Poiché gli statuti regionali vigenti in Italia sono quattro: siculo, sardo, valdostano e trento-atesino, la domanda non poteva essere posta solo per lo statuto siciliano; e deve essere invece così formulata: «Se si suppone che il sistema tributario stabilito rispettivamente negli statuti delle quattro regioni ad autonomia speciale sia applicato a tutto il resto del territorio nazionale, quale proporzione delle entrate statali dovrebbe essere destinata al funzionamento delle regioni?».

 

 

È ovvio che la risposta è diversa a seconda dello statuto considerato; e perciò si deve porre la domanda separatamente per ognuno di essi: e quindi, successivamente: 1) che cosa accadrà all’erario nazionale se si applicasse a tutte le regioni lo statuto siciliano; 2) in secondo luogo e separatamente, che cosa accadrà… se si applicasse al medesimo territorio nazionale lo statuto sardo; 3) e poi se si applicasse lo statuto valdostano; e finalmente 4) se si applicasse dappertutto lo statuto trento-atesino?

 

 

Dico subito che le risposte alle quattro domande così formulate sono provvisorie, parziali e criticabili. Chiedo venia se, in mancanza di meglio, offro i risultati di un primo tentativo allo scopo esclusivo di dire al legislatore: «nel 1946 hai risoluto il problema tributario delle regioni a statuto speciale senza compiere prima alcuna indagine, senza calcolare le conseguenze possibili delle norme proposte ed approvate, quasi senza discussione. Non è logico legiferare sulla ventina di statuti regionali ordinari rimasti in aria nella  stessa maniera. Dopo tanti anni non si deve più improvvisare alla cieca. Esiste oramai una esperienza abbastanza lunga in materia. Che cosa dice l’esperienza fatta?».

 

 

Purtroppo, se l’esperienza ci fu, le notizie sull’esperienza fatta sono assai poco chiare e sicure. Il lettore le pigli con le molle e ne tragga solo l’augurio di andare a fondo nelle indagini, innanzi che i legislatori si accingano a dettare le norme, pur necessarie, che regoleranno la finanza regionale per il resto d’Italia.

 

 

Le difficoltà incontrate per mettere insieme anche alcuni dati imperfetti sono state parecchie, fra le quali non novererò, essendo mia la colpa, quella derivante da non avere proseguito le indagini dopo la primavera del 1958.

 

 

Non è tuttavia mia la colpa se, nonostante la solerzia posta nella ricerca, i bilanci delle regioni sono risultati disponibili soltanto per alcune di esse o per qualche esercizio. Per lo più si poterono rintracciare sovratutto pubblicazioni varie, le quali contenevano notizie riassuntive sui bilanci. I bilanci disponibili, inoltre, sono di previsione, anziché consuntivi. Né parve possibile senza un dispendio di tempo e di scritture epistolari, non comode per uno studioso isolato, chiedere ed insistere direttamente presso le presidenze delle singole regioni, di qualcuna delle quali, ad esempio quella siciliana, si ha la sensazione sia riluttante a fornire dati particolareggiati sulla sua situazione finanziaria e particolarmente di cassa, intorno alla quale sembra esistere un alone misterioso.

 

 

Le fonti più attendibili di dati, riepilogativi e per anni solari, sui bilanci regionali sono la relazione generale sulla situazione economica del paese presentata ogni anno dal ministro del tesoro al parlamento e una rilevazione dell’istituto centrale di statistica sui bilanci delle amministrazioni regionali, provinciali e comunali dedotta dai conti consuntivi del 1953 e del 1954. In caso di sconcordanza tra le fonti, si debbono preferire i dati della “relazione generale” i quali concordano con le cifre riportate dall’annuario statistico e finanziario pubblicato dal ministero delle finanze.

 

 

I dati della “relazione generale” non riportano, peraltro, gli  introiti provenienti alla Sicilia dal fondo di solidarietà nazionale e non consentono di accertare la misura delle contribuzioni straordinarie che lo stato eroga saltuariamente alle altre regioni, in aggiunta alle compartecipazioni ai tributi erariali.

 

 

Quali fra le entrate regionali possono essere ritenute di provenienza statale? Le entrate patrimoniali derivano in massima parte da proventi di beni già di proprietà dello stato e sono quindi trasferimenti di beni i quali prima spettavano al bilancio statale. Le eccezioni paiono di scarsa rilevanza.

 

 

I tributi regionali hanno quasi sempre fondamento nella attribuzione all’ente regionale di proventi i quali prima spettavano ad altre amministrazioni territoriali. Non dunque creazioni di nuovi cespiti, ma trasferimento di cespiti vecchi. Solo la Sicilia si valse della facoltà di imporre nuovi tributi, istituendo una superaddizionale per gli enti comunali di assistenza (E.C.A.) e l’Alto Adige per istituire una imposta sulla produzione di energia elettrica.

 

 

Sull’indole di derivazione statale della compartecipazione a tributi erariali non cade dubbio. per le “entrate varie”, eccetto minimi introiti aventi relazione con le spese o poco classificabili (interessi attivi, diritti varii) il grosso è dato dalle sovvenzioni statali: 8 miliardi alla Sardegna nel 1955 a titolo di conguaglio e fondo di solidarietà nazionale per la Sicilia.

 

 

Non essendo possibile dai dati forniti dalla “relazione generale” calcolare, per la difficoltà di escludere le poche entrate non provenienti dallo stato, la misura esatta dei versamenti erariali, l’indagine fu rivolta allo studio dei conti consuntivi di competenza dello stato, anche perché questi forniscono dati per esercizi finanziari, omogenei con quelli, utilizzati più innanzi, sul gettito tributario ripartito regionalmente. I conti sono di pubblico dominio sino al 1952-53; per gli esercizi successivi, sino al 1954-55, i cui conti sono in corso di elaborazione, ho potuto disporre solo di notizie provvisorie.

 

 

Dalle cifre tratte dai consuntivi statali, le quali talvolta divergono da quelle ricavate dai bilanci regionali e divergono perché le ultime sembrano talvolta provvisorie e la registrazione è probabilmente soggetta a sfasamenti a seconda delle fonti – è confermata la illazione già esposta che il grosso delle entrate regionali è fornito dall’erario dello stato, nella forma di trasferimenti erariali ovvero di contributi.

 

 

La ricerca è stata limitata all’ammontare dei versamenti statali in seguito alla cessione dei tributi erariali ed al contributo al fondo di solidarietà nazionale corrisposto alla Sicilia. Sono esclusi così gli interventi “straordinari”, l’acquisizione da parte delle regioni di rendite patrimoniali, i proventi già spettanti ad altri enti territoriali, gli scarsi tributi nuovi istituiti dalle regioni. Non si tiene conto altresì delle entrate varie, né dei privilegi speciali goduti dagli abitanti della regione, come quello derivante dalla zona franca valdostana, o, per questa, dal provento della bisca di Saint Vincent, provento che in sostanza ha natura tributaria, al pari del gioco del lotto.

 

 

Non facile è stato il calcolo di quel che sarebbe stato il sacrificio per le altre regioni se a tutte fosse esteso il bislacco criterio usato per il calcolo del fondo siciliano di solidarietà nazionale. Allo scopo di non mutare criterio si stimarono i redditi prodotti in ciascuna regione e si calcolò, fatto uguale a 100 il reddito siciliano, il contributo che spetterebbe alle regioni al di sotto della media nazionale, ove venisse riservato ad esse un trattamento uguale a quello usato per la Sicilia.

 

 

L’indagine, per essere compiuta, dovrebbe tener conto, accanto al sacrificio di perdite tributarie per il tesoro dello stato, dei vantaggi che lo stato gode, perché talune spese sue proprie sono invece o dovrebbero essere sostenute dalle regioni. Purtroppo, su questo punto, è buio pesto. Laddove per gli oneri statali i dati, sebbene approssimativi, sono conosciuti, per le spese non si ò dire nulla di preciso.

 

 

Innanzitutto, gli statuti sono vaghi per quanto si riferisce alle spese che debbono o dovrebbero essere trasferite dallo stato alle regioni. Anche se i servizi per i quali la regione è stata chiamata a subentrare allo stato fossero precisamente noti, rimane incerto entro  quali limiti le spese che la regione compie corrispondono a quelle che lo stato, mancando l’autonomia, avrebbe sostenuto e quali oneri debbano invece essere considerati addizionali. Taluno è persuaso che tutte le spese sostenute dalle regioni siano aggiuntive e crescano, in sostanza, a spese dell’erario statale il quale fornisce la quasi totalità delle entrate regionali, la spesa pubblica nel suo complesso.

 

 

Il convincimento degli scettici non sembra in tutto esatto. In sede di liquidazione del fondo di solidarietà per la Sicilia sono state invero dedotte, dalla somma calcolata nel modo convenzionale già descritta, le spese sostenute dallo stato per conto della regione; sicché l’ammontare delle spese trasferite dallo stato alle regioni parrebbe coperto da un equivalente ammontare non pagato dallo stato sul fondo di solidarietà teoricamente dovuto. Parrebbe che, sino al limite delle spese accollate al fondo, queste non gravino sulle entrate proprie della regione. D’altra parte, le spese amministrative per il funzionamento dell’ente regione, comprese quelle relative alle assemblee regionali ed ai suoi organi esecutivi (presidenti, assessori e relativi gabinetti) siano una aggiunta alle spese che lo stato avrebbe dovuto sopportare in caso di assenza dell’autonomia. In tanto buio, è ovvio l’augurio che si faccia luce piena anche in quest’altra faccia della medaglia: e che non solo si conoscano meglio i sacrifici sostenuti dallo stato per la creazione delle autonomie regionali; ma si chiarisca quali sono stati i vantaggi dell’erario per i trasferimenti che effettivamente si siano verificati di certe spese statali a carico delle regioni.

 

 

Ecco ora un primo calcolo degli oneri sopportati dallo stato per trasferimento di tributi alle regioni e per il fondo di solidarietà nazionale corrisposto alla Sicilia. Il calcolo è desunto dagli stanziamenti nei bilanci consuntivi dello stato (in miliardi di lire):

 

Anni o periodi di riferimento

Sicilia

Sardegna

Trentino Alto Adige

Valle di Aosta[1]

Fondo di solidarietà nazionale[2]

1950

24,3

}

18

4,3

2,8

1,0

1951

28,0

6,9

4,8

0,5

1952

31,2

8,0

2,2

0,5

1953

34,7

8,7

8,5

0,7

1954

34,6

23

8,6

6,2

1,0

1955

37,5

7,5

4,0[3]

1,6

1957[4]

49,3

10

15,5

5,3

1,8

 

 

Avendo conosciuto così l’ammontare degli oneri sopportati dallo stato a causa della istituzione delle regioni, possiamo compiere il tentativo di calcolare l’onere che lo stato dovrebbe sopportare se estendesse alle regioni non autonome il regime stabilito per le quattro regioni a regime speciale. E prima supponiamo si voglia estendere il regime proprio della regione Trentino-Alto Adige. La regione riceve una partecipazione al provento delle imposte ipotecarie di registro, sulle successioni e donazioni, sulle concessioni governative, sulle entrate dei monopoli, del lotto, sulle imposte di fabbricazione del gas e dell’energia elettrica. La estensione del regime trento-alto atesino avrebbe cagionato un sacrificio per il tesoro di 180 miliardi nel 1953-54 e di 211 miliardi nel 1954-55. La Valle d’Aosta fruisce di una partecipazione al provento delle imposte sui terreni, sui fabbricati, sui redditi agrari, su quelli di ricchezza mobile e della complementare, sulle successioni e donazioni, sul registro, sul bollo, in surrogazione del registro e bollo, ipotecaria, sulle concessioni governative, di pubblico insegnamento, sul gas e sulla energia elettrica, e sui monopoli. La filastrocca è lunga ed il risultato è che se il regime valdostano fosse esteso alle regioni sinora non autonome, l’erario statale avrebbe perso 405 miliardi nel 1953-54 e 388 miliardi di lire nel 1954-55. S’intende gli importi non tengono conto del provento per la regione della bisca di Saint Vincent. La Sardegna partecipa al provento statale delle imposte sui terreni, sui fabbricati, sui redditi agrari, su quelli di ricchezza mobile, di bollo, in surrogazione del registro e bollo, sulle concessioni governative, sull’I.G.E., ipotecarie, di fabbricazione sul gas e sulla energia elettrica e sui prodotti dei monopoli. Se il trapasso dallo stato alle regioni oggi non autonome avesse luogo secondo il metodo sardo, l’erario statale avrebbe perso 723 miliardi nel 1953-54 e 817 miliardi nel 1954-55. La regione siciliana fruisce delle imposte sui terreni, sui redditi agrari, sui fabbricati, sui redditi di ricchezza mobile, complementare, sugli affari, dazi e diritti doganali. Se il regime siciliano fosse esteso alle regioni oggidì non autonome, l’erario statale avrebbe perso nel 1953-54 la somma di 989 miliardi e nel 1954-55 quella di 1.116 miliardi. Se finalmente si estendesse alle regioni che attualmente non ne godono il beneficio ed il cui reddito medio individuale fu calcolato nel 1956 inferiore alla media nazionale (questo è invero il criterio posto dallo statuto siciliano), il concetto del fondo di solidarietà nazionale sancito per la regione siciliana, il sacrificio ulteriore dell’erario statale sarebbe di 117 miliardi.

 

 

Chiedo venia ai lettori se mi limito a comunicare i risultati finali di una indagine, che fu minutissima, richiese calcoli non brevi, dovette fondarsi su non poche premesse ipotetiche scelte fra le più ragionevoli. A render conto di ogni cifra, farebbe d’uopo riempire probabilmente tutto un quaderno delle Prediche inutili le quali diventerebbero perciò, oltrecché inutili, illeggibili. L’indagine del resto intende unicamente dare lo spunto a ricerche sicure, che qualche organo dello stato dovrebbe condurre a termine prima che si affronti il problema di dar vita a nuove regioni.

 

 

La conclusione? Tento di esporla in un quadro finale e pongo la premessa che, nelle varie ipotesi formulate, alle regioni già esistenti a regime speciale continui ad essere applicato il regime consacrato negli statuti vigenti. Poiché dianzi mi sono chiesto: che cosa succederebbe se a volta a volta si applicassero le norme dell’Alto Adige, della Valle d’Aosta, ecc. ecc. avrei anche potuto partire dalla premessa: che il regime vigente in ognuna delle quattro regioni sia modificato nel senso che anche ad esse si applichi a volta a volta il regime trento-atesino, valdostano, sardo e siciliano. Sarebbe stato aggiungere ipotesi ad ipotesi; e poiché nei quattro casi si conosce approssimativamente la realtà, faccio a meno di una ipotesi non necessaria.

 

 

Il fondo di solidarietà siciliana pone il quesito: come calcolarlo nelle quattro ipotesi? Trattandosi di un istituto proprio dello statuto siciliano, non potevo ricorrere ad ipotesi trento-atesine, valdostane, sarde inesistenti; ed ho supposto perciò che, se l’istituto dovesse estendersi alle regioni ancora non autonome, si applichi la formula siciliana (cfr. tabella a fronte).

 

 

I risultati sono ammonitori. L’ammonimento non è nuovo. Che in Italia i problemi grossi si risolvano in fretta e in furia, all’ultimo momento, a pezzi e bocconi non è rimprovero si possa muovere solo agli uomini politici d’oggi. È il rimprovero di sempre: l’esercizio di stato delle ferrovie, le convenzioni marittime del principio del secolo furono abborracciate alla bell’e meglio, senza tener conto degli studi, delle inchieste, delle relazioni di commissioni nominate a bell’apposta; così come nel 1946 – ma in questo caso, salvo per il Trentino-Alto Adige, non si era studiato niente – si approvarono gli statuti speciali. Cammin facendo, le cose si aggiustano; qualche santo provvederà. Camera, senato studieranno, perfezioneranno. Invece, nessun santo provvede, cammin facendo le cose, invece di aggiustarsi, peggiorano; nessun governo, nessun parlamento osa prendere di petto i problemi grossissimi posti da statuti dietro i quali vigilano in armi presidenti, giunte, assemblee regionali, che  volentieri si atteggiano a presidenti, governi, parlamenti di corpi sovrani, decisi a non cedere nulla, anzi a muovere verso conquiste maggiori.

 

 

  Ipotesitrento atesina     Ipotesi    Valdostana Ipotesi  sarda  Ipotesisiciliana
 1953-54 1954-55 1953-54 1954-55 1953-54 1954-55 1953-54  1954-55
Trentino -Alto Adige

5,9

6,3

5,9

6,3

5,9

6,3

5,9

6,3

Valle d’Aosta

1,5

1,3

1,5

1,3

1,5

1,3

1,5

1,3

Sardegna

8,2

8,9

8,2

8,9

8,2

8,9

8,2

8,9

Sicilia

37,2

32,0

37,2

32,0

 37,2

32,0

37,2

32,0

» Fondo

23

23

   —

23

23

Dati effettivi approssimativi

 53

72

 53

72

53

 72

53

72

Altre regioni oggi non auton.

180

211

405

388

723

817

989

1116

Fondo di Solidarietà

117

117

117

117

117

117

117

117

Dati ipotetici

297

328

522

505

840

934

1106

1233

Totale gener.a

350

400

575

577

893

1006

1159

1305

Entrate tributarie dello stato b

1872

2079

1872

2079

1872

2079

1872

2079

% a : b =

18,7%

19,2%

30,7%

27,8%

47,7%

48,4%

61,9%

62,8%

 

 

I risultati sono quelli riassunti nelle percentuali finali. Nell’ipotesi più benigna, quella della estensione a tutto il territorio del metodo trento-atesino, lo stato cederebbe alle regioni il quinto all’incirca delle sue entrate tributarie. Via via si sale; con la Valle d’Aosta, senza tener conto della solita bisca, la quale pure fa concorrenza ad analoghe imprese di gioco di stato, si giunge al 30 per cento. Con la Sardegna si balza al 47-48 per cento; con la Sicilia a più del 60 per cento. I recuperi sono ignoti ed incerti. La domanda che formulavo nel 1946, prima che l’irreparabile si compiesse nella fiducia ingenua che qualche santo avrebbe provveduto: «se il sistema ideato per la Sicilia dovesse essere applicato a tutte le regioni italiane, quali mezzi rimarrebbero allo stato per far fronte alle sue spese?» – quella domanda attende ancora, una risposta sicura. Offro le conclusioni con tutti i debiti scongiuri, al solo scopo di invitare chi può ad apprestare il materiale necessario ad un esame serio del problema. Tanto meglio se le mie percentuali provvisorie dovranno essere corrette; e se il rischio per il bilancio dello stato, per la cassa comune, si chiarirà meno terrificante. Siamo in tempo a mutar strada; ed in circostanze più difficili seguire la via lungo la quale i cantoni svizzeri e gli stati dell’America del nord continuano ad essere enti vivi ed amati. Cantoni, regioni, comuni, enti territoriali, qualsisia il nome ad essi attribuito, non vivono vita sana e feconda se non hanno entrate proprie, autonome nate e volute e patite dai contribuenti locali in aggiunta e non in sostituzione delle imposte statali; né debbono vivere di elemosine largite dallo stato, di partecipazioni ad imposte statali. Lo stato può venire in aiuto, a ragion veduta, per scopi specifici volta per volta illustrati, discussi e votati nel parlamento nazionale. Lo stato può cedere interamente alcune sue imposte; e della cessione delle imposte cosidette reali si discute, ad esempio, fin dai primi decenni della unità nazionale.

 

 

Se non se ne fece mai nulla, salvo a casaccio, in modi disformi da regione a regione, ad occasione degli statuti speciali, qualche motivo buono deve esserci – ed è ottima la necessità che gli accertamenti dei redditi, i rilievi catastali debbono essere uniformi e compiuti da organi tecnici imparziali all’uopo addestrati, che né regioni, né provincie, né comuni posseggono – e c’è altresì qualche ragione cattiva, come la repugnanza di talune amministrazioni finanziarie a rinunciare anche al minimo balzello, pur a quelli che frutterebbero di più in mano altrui o frutterebbero per lo meno il risparmio delle spese di gestione.

 

 

Se regioni, provincie, comuni devono ricorrere ad entrate proprie, nasce il controllo dei cittadini sulla spesa pubblica, nasce la speranza di una gestione sensata del danaro pubblico. Se gli enti territoriali minori vivono di proventi ricevuti o rinunciati dallo stato, di proventi di cui lo stato ha bisogno per soddisfare ai compiti suoi, o vivono, come accade, addirittura di sussidi, manca l’orgoglio del vivere del frutto del proprio sacrificio e nasce la psicologia del vivere a spese altrui, dell’emulazione nel chiedere sempre e non essere mai contenti, del mettere innanzi sempre nuove querele per i torti del passato, anche di un passato remoto, segnalato talvolta dalla inerzia dei rappresentanti elettivi locali, e nuove rivendicazioni di risarcimenti per l’avvenire. Se si vuole che le regioni nascano sotto stella propizia, fa d’uopo non ripetere l’errore della impreparazione. Importa conoscere prima di operare.

 

 



[1] Fra le entrate della regione non si novera il provento della bisca di Saint Vincent, provento che la voce pubblica valuta con nove zeri (?) in favore della regione.

[2] Gli ammontari qui indicati sono in aggiunta a quelli della colonna precedente. Data la diversità dei periodi di riferimento, si noti che la cifra per il 1950, 1951 e 1952 si riferisce agli esercizi della regione dal 1947-48 al 1951-52; quelle per il 1953 e il 1954 agli esercizi dal 1952-53 al 1954-55; quelle per il 1955 all’esercizio 1955-56; quelle per il 1957 all’esercizio 1956-57. Le cifre sono al netto del rimborso allo stato del costo dei servizi sostenuto per conto della regione.

[3] Cifra riguardante il solo primo semestre. La Sardegna, inoltre, per il 1955 ha ricevuto dallo stato 8 miliardi a titolo di «conguaglio» relativo ad opere pubbliche previste dallo statuto.

[4] Quota di partecipazione ai tributi erariali dalla «relazione generale sulla situazione economica per il 1957».

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