Opera Omnia Luigi Einaudi

Chi è che governa la Banca d’Italia?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/03/1947

Chi è che governa la Banca d’Italia?

«Corriere d’informazioni», 31 marzo 1947

 

 

 

Il titolo dato al presente articolo riassume in linguaggio giornalistico il contenuto delle indagini condotte nelle 250 pagine della mia relazione all’assemblea dei partecipanti (78 Casse di Risparmio, 11 Istituti di Credito di diritto pubblico e banche di interesse nazionale, 11 istituti di previdenza e assicurazione e nessun privato azionista) dell’Istituto di emissione.

 

 

In miliardi di lire la circolazione dei biglietti della Banca d’Italia (am-lire comprese) è variata così: fine dicembre 1945, 382.1; fine gennaio 1946, 374.9; fine febbraio 1946, 372.5; fine marzo 1946, 384.2; fine aprile 1946, 383.2; fine maggio 1946, 385.6; fine giugno 1946, 394.7; fine luglio 1946, 407.5; fine agosto 1946, 417.7; fine settembre 1946, 432; fine ottobre 1946, 445.5; fine novembre 1946, 457.9; fine dicembre 1946, 505.1; 20 gennaio 1947, 489.4.

 

 

La inondazione cartacea ha inizio col maggio; più lenta prima, con impeto accelerato poi fino al massimo della fine dicembre. Ho aggiunto la cifra del 20 gennaio 1947 perché questa data chiude il periodo del prestito della ricostruzione e pone in luce l’effetto netto del prestito sul conto corrente del Tesoro e quindi sulla circolazione.

 

 

Inutile occuparsi dei primi mesi dell’anno; ché della circolazione si può dire lo stesso che dei popoli: «Beati coloro i quali non hanno storia!». Dalla fine maggio 1946 al 20 gennaio 1947 (questo è il periodo tipico al quale si riferiranno tutte le cifre seguenti) la circolazione è dunque aumentata di 103.8 miliardi.

 

 

Usando per un momento il linguaggio penalistico si chieda: di chi è la colpa?

 

 

Non del Tesoro in senso tecnico. Le anticipazioni ordinarie e straordinarie della Banca al Tesoro (ossia i biglietti emessi appositamente per essere accreditati al Tesoro, le ex operazioni speciali del Consorzio valori e alcuni servizi minori) sono aumentate da 502.6 a 503.5 miliardi. La differenza di 0.9 miliardi è irrilevante e si spiega con l’intrecciarsi di migliaia di partite di dare e avere fra l’erario e la sua Tesoreria. Non della Banca d’Italia nelle sue funzioni di banca. La Banca raccolse durante il periodo considerato 11.3 miliardi di depositi in più e ne impiegò solo 8.6 in più; ritirando quindi dalla circolazione 2.7 miliardi di biglietti. Auguro che la Banca possa, durante il 1947, continuare essa a ritirare e indurre le altre banche e ritirare biglietti ossia a limitare il credito. Il credito può espandersi solo entro i limiti del risparmio effettivo; ma l’espansione puramente cartilistica è deleteria.

 

 

Di chi dunque la colpa? Se noi indichiamo con la parola fato le circostanze le quali vietano di comportarsi diversamente da come si fece, dirò che la circolazione aumentò a causa del signor fato.

 

 

Poteva innanzi tutto la Banca rifiutarsi di somministrare agli alleati i biglietti che essi si procacciavano prima emettendo am-lire? Parve e fu cosa ben fatta togliere agli alleati la possibilità di battere moneta di carta in Italia. Frattanto uscirono 10.7 miliardi di lire di biglietti nostri per questo motivo.

 

 

Poteva la Banca rifiutarsi di riscattare la carta degli ammassi obbligatori di cereali e di altre derrate agrarie di prima necessità? Finché ci saranno ammassi e finché il grano sarà comprato e trasformato in pane ai consorzi agrari a un prezzo, e pagato dai consumatori a meno della metà, qualcuno bisognerà paghi grano, macinazione, panificazione, trasporti, consorzi, U.N.S.E.A. ecc. ecc. Le banche che anticipano il valsente chiedono risconti alla Banca d’Italia. Potrebbe questa rifiutarsi contro legge e rischiare, rompendo il circolo, di affamare la popolazione? Ecco 31.4 miliardi di biglietti passati dalla Banca al pubblico.

 

 

Poteva la Banca rifiutarsi di acquistare e pagare in lire i dollari e le sterline che gli esportatori italiani ricavano dalla vendita delle loro merci all’estero? Tanto varrebbe costringere gli industriali italiani a chiudere i battenti. A meno di mettere sul lastrico centinaia di migliaia di operai, la Banca d’Italia non poteva non cacciar fuori altri 27.6 miliardi di lire.

 

 

Poteva la Banca, depositaria per legge di ingenti depositi degli Istituti di credito, rifiutarsi dal rimborsare quando le banche dovevano far fronte al ritiro di depositi da parte della loro clientela? Questa, ad esempio, come avrebbe potuto sottoscrivere al prestito della ricostruzione se non ritirando sui propri depositi in banca? Coloro i quali si lamentano che i prestiti non siano nulla di nuovo ma operino in gran parte solo un giro di conti bancari dal credito dei privati al credito del tesoro, vivono nel mondo della luna. Ed ecco altri 34.5 miliardi di biglietti usciti fuori dalle casse della Banca.

 

 

Poteva la Banca, tesoriera dello Stato, non versare al Tesoro, ossia non pagare per conto del Tesoro, le somme che il Tesoro ha a suo credito in conto corrente? Evidentemente no, perché, anche in tempi di moratoria, come fu nell’altra grande guerra, l’Istituto di emissione deve pagare a vista i suoi debiti. Ed ecco altri 4.6 miliardi di fuoruscita dei biglietti.

 

 

Tiriamo le somme:

 

 

Versamenti agli alleati

 

10.7

Risconto ammasso

31.4

Acquisto valute

27.6

Rimborso depositi bancari vincolati

34.5

Diminuzione saldo creditore del conto corrente del Tesoro

4.6

Totale

108.8

 

 

La differenza fra il totale delle partite inflazionistiche e l’aumento della circolazione a 103.8 è spiegato dal ritiro di 2.7 miliardi di biglietti per le normali operazioni bancarie e da altre variazioni minori.

 

 

Colpa dunque di nessuno? No. La verità è che, nell’ordine naturale delle cose, i 108.8 miliardi di lire fuorusciti dovrebbero rientrare. Le lire versate agli alleati rientrerebbero, almeno in gran parte, quando coi dollari accreditati dagli americani il Governo, comprando carbone e grano e altre merci, le rivendesse in Italia contro lire e restituisse queste alla Banca. Lo stesso accadrebbe per le lire emesse per l’acquisto di valuta. Permutando valute contro merci e rivendendo le merci, contro lire queste potrebbero rientrare in Banca.

 

 

Le lire uscite per pagare il grano degli ammassi rientrerebbero, se i consumatori ne pagassero il prezzo pieno. E finalmente i depositi bancari dovrebbero, a poco a poco, nuovamente locupletarsi a mano a mano che, fabbricando nuovo risparmio questo tornasse a depositarsi nelle casse di risparmio e nelle banche e queste ne trasferissero parte all’Istituto di emissione.

 

 

Ma, invece, le lire che lo Stato dovrebbe ricavare dalle vendite delle merci acquistate all’estero sono lente a ritornare nelle casse dello Stato sia perché – e questa è una ragione ottima – si è potuto fare a meno, per ora, grazie all’U.N.R.R.A. e ad altre assegnazioni americane, di spenderle tutte (e si spenderanno solo lungo il 1947) sia perché, nei casi nei quali i dollari servono ad acquistare merci, le lire ricavate dal Tesoro sono forzatamente impiegate a far fronte a impegni più urgenti di quanto non sia la restituzione alla Banca.

 

 

Ma ancora, il cancro roditore del prezzo politico del pane fa sì che il debitore ultimo della carta riscontata per ammassi grano non sia il consumatore del pane ma il Tesoro; e poiché questo ha urgenze maggiori, la cifra del conto ammassi nell’ultimo anno è cresciuta senza tregua laddove, negli anni passati, aveva un minimo a maggio, prima del raccolto, cresceva fino a ottobre, e poi ridiscendeva.

 

 

Ma i depositi delle banche presso l’Istituto di emissione non possono aumentare se, come detto sopra, non si forma nuovo risparmio nel Paese.

 

 

La conclusione è ovvia: la circolazione non può essere frenata se il Tesoro non è messo in grado di restituire le lire che l’Istituto di emissione ha dovuto emettere per ragioni di interesse pubblico alle quali deve ubbidire. E le maniere con le quali il Tesoro può far ciò sono ovvie, antiche e accettate: aumentare le entrate e diminuire le spese dello Stato. Quanto alle entrate, gli auspici sono buoni per la parte derivata dalle imposte. Durante il secondo semestre del 1946 il gettito delle imposte aumentò regolarmente fino a toccare, nel dicembre, un aumento del 116 per cento in confronto della media mensile del primo semestre. La circolazione aumentò a fine dicembre solo del 31 per cento in confronto del maggio. Non così i proventi che il Tesoro ricava da ogni sorta di prestiti (prestito ricostruzione, buoni del Tesoro, conti correnti della banche e casse ecc.): questi si ridussero da 123 a 100 miliardi. Dal mercato non si può spremere più di una parte del risparmio nuovo che si forma in Paese. Dal 1939 al ’45 gran parte di quello che sembrava risparmio non lo era. Non si potevano mantenere e rinnovare impianti; si liquidavano scorte di fabbriche e di negozi; e il ricavo liquido affluiva alle banche. Nuovi impieghi privati erano vietati o di fatto impossibili; e perciò il liquido delle banche affluiva al Tesoro. Oggi la vita rinasce; si ripara, si ricostruisce, si rinnovano le scorte. Da gente che non poteva spendere, sia perché la roba mancava sia perché era scomodo uscire di sera e tutti stavano tappati in casa o sfollavano nelle campagne, ora spende. I mezzi liquidi sono diminuiti; e la parte di essi giunta al Tesoro è scemata da 100 nel primo semestre a 81 nel secondo semestre.

 

 

Nel frattempo le spese sono cresciute; del 53 per cento del primo al secondo semestre del 1946; e poiché sono partite da un livello più alto delle entrate da imposte, hanno dato luogo a quella cifra terrorizzante di 610 miliardi di disavanzo per l’esercizio 1946-47 annunziata l’altro giorno dal ministro del Tesoro.

 

 

Se vogliamo salvare la lira, altra via di salvezza non c’è fuori di quella da lui segnata: aumentare il gettito delle imposte e ridurre le spese. Il maggior gettito delle imposte dipende dalla rigorosa e giusta amministrazione e dall’ubbidienza dei contribuenti; la diminuzione delle spese dallo spirito di sacrificio dei cittadini.

 

 

La rinunzia al preteso beneficio del prezzo politico del pane, rinunzia senza riserve e sena eccezioni; la rinunzia a aumenti di salari e di stipendi; la rinunzia a lavori pubblici affrettati e a vuoto; non sono in realtà rinuncia. Sono una scelta consapevole fra questi apparenti vantaggi e la ruina universale che sarebbe effetto dell’annullamento monetario. Il giorno nel quale si paghino imposte sufficienti e ragionevoli e si eliminino tutte le spese nuove e quelle inutili, la fiducia rinasce e il risparmio si forma di nuovo e nuovamente si distribuisce a pro dell’industria privata e della ricostruzione pubblica.

 

 

È inutile cianciare di ricostruzione finché non cresca il risparmio nuovo con capitale già formato il quale ha già trovato il suo impiego; e con pezzi di carta non si ricostruisce nulla. Unica fonte di ricostruzione è il risparmio, ossia l’atto volitivo di chi prima lavora e produce e poi decide di non impiegare il frutto del suo lavoro in consumi immediati, bensì in beni strumentali o consumi futuri. Nessuno tuttavia risparmia se non ha fiducia nell’avvenire. Perché risparmiare se le 100 lire risparmiate oggi avranno domani una potenza d’acquisto di 80, di 60 o di 40 lire? Coloro i quali, al principio del 1946, investirono i risparmi in titoli a reddito fisso, durante l’anno furono assoggettati dalla riduzione della potenza d’acquisto della lira a un tributo, che nel tempo stesso è sul patrimonio e sul reddito, non minore del 25 per cento.

 

 

Il governo della lira non è dunque in mano di una persona piuttosto che di un’altra. È in mano di noi tutti. Siamo al bivio. Da una parte la strada facile dei prezzi politici, degli aumenti di salari monetari, dei lavori pubblici, della larghezza nello spendere conduce alle rive fiorite dell’inflazione e di li nell’abisso. Dall’altra parte la via dura delle imposte, delle rinunzie, delle riduzioni di spese pubbliche e private conduce verso l’alto, verso la ripresa, verso la prosperità duratura. Siamo in tempo a scegliere la via buona; e se la sapremo seguire con costanza la vittoria è certa.

 

 

Non occorre molto sforzo di volontà per rinunziare alla via che conduce verso l’abisso. Basta ripetere quello che, in altri tempi, fecero gli uomini della generazione passata. Ricordate le cifre dei disavanzi dell’altro dopo guerra? A pronunziarle sembrano piccole: 23.3 miliardi del 1918-19, 11.5 nel 1919-20, 21 nel 1920-21, 17 nel 1921-22. Piccolissime in confronto col disavanzo che il valoroso ministro del Tesoro d’oggi, on. Campilli, ci ha annunziato per l’anno corrente: 619 miliardi di lire. Ma traduciamo, per renderle paragonabili, quelle cifre in lire aventi eguale potenza d’acquisto delle lire odierne; e constatiamo che nel 1918-19 il disavanzo fu di 759 miliardi, nel 1919-20 di 320, nel 1920-21 di 520, nel 1921-22 di 465 miliardi.

 

 

Eppure qualche anno dopo, nel 1924, il ministro del Governo fascista poteva orgogliosamente annunziare che il suo Governo aveva riconquistato il pareggio. Vanto bugiardo: ché il pareggio esisteva già, a conti fatti, il 28 ottobre 1922 e esisteva perché i Governi che si erano succeduti dopo la fine della guerra avevano mirato a liquidare l’eredità di essa e a liberare il bilancio degli oneri permanenti i quali avrebbero condotto anche allora la moneta al disastro. Marcello Soleri, con diuturna fatica, era riuscito a persuadere il Parlamento nel 1921 a abolire il prezzo politico del pane e a porre così le fondamenta del pareggio.

 

 

Ho fiducia nei regimi liberi che sono regimi di discussione. Gli italiani di oggi non tollereranno più che un nuovo tiranno, raccogliendo l’eredità dei loro sforzi, possa vantarsi di aver ricondotto il bilancio al pareggio e di aver salvato la lira. La salvarono essi, gli Italiani, nel 1920-22 e la salveranno di nuovo oggi. Ma è necessario che gli Italiani non aspettino la salvezza della lira da nessun Messia da nessun supposto taumaturgo, anche se preposto al governo della moneta; è necessario che essi non credano di dover la salvezza a nessun altro fuorché a se stessi.

 

 

La salvezza è sicura, immancabile. Basta un atto di volontà; la volontà di rinunziare alle spese superflue, il che oggi vuol dire a tutte le spese nuove, sia a quelle già deliberate, sia quelle che fossero proposte in avvenire; e la volontà di sopportare i necessari sacrifici di imposte. Non voglio neppure porre la domanda; questa volontà noi l’avremo? Non la pongo perché all’imperativo categorico del dovere si risponde a un modo solo: obbedisco!

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