Opera Omnia Luigi Einaudi

Chiarificazioni di conti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/12/1923

Chiarificazioni di conti

«Corriere della Sera», 27 dicembre 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 518-521

 

 

 

 

Il conto del tesoro va migliorando di mese in mese. Stavolta è diventato un fascicolo a sé, pubblicato in supplemento speciale dalla «Gazzetta Ufficiale» del 21 dicembre. Se ricordiamo gli enormi ritardi d’un tempo nel pubblicare sei pagine di dati abbastanza misteriosi, dobbiamo registrare con soddisfazione le venti pagine odierne uscite al ventunesimo giorno dopo quello a cui si riferiscono.

 

 

Sono aumentate di numero le annotazioni, le quali costituiscono il sale del conto. Così si sa per la prima volta ufficialmente che certi 400 milioni di biglietti di stato non sono indicati nel conto del tesoro «perché iscritti tra le passività finanziarie patrimoniali». Sarebbe come dire che quei 400 milioni non sono, come i restanti 2.028 milioni degli stessi biglietti, un debito che si spera di rimborsare, ma un debito, fisso, che rimarrà tale per l’eternità dei secoli. Poiché questa differenza è puramente decretistica, ossia risultante da qualche decreto o carta o circolare o immaginazione di tempi preistorici, ordini l’on. De Stefani un altro decreto o circolare per fare un tutt’uno dei 400 milioni di prima e dei 2.028 di dopo, stampandone la cifra insieme dovunque essa deve figurare.

 

 

Invece sono compresi nel conto del tesoro e non nella situazione dei debiti i 281 milioni di buoni di cassa da 1 e 2 lire, «trattandosi di monete divisionali e tenuto conto della contropartita in argento divisionale accantonato presso le tesorerie e non compreso nel fondo di cassa». Ciò vorrebbe dire che quando un debito è sminuzzato in minutissime frazioni e contro di esse c’è in qualche luogo una qualche contropartita non bisogna tener conto del debito. Nel caso presente, ciò non reca danno perché la contropartita è di 191 milioni di argento, che è cifra sostanzialmente più grossa dei 281 milioni di debito. Ma il principio parmi strano; e fa venir voglia di chiedere al ministro un ulteriore perfezionamento del conto: perché la nuova «situazione dei debiti pubblici» non può essere il germe di una chiara compiuta «situazione patrimoniale»? Si sa che esiste un volumaccio intitolato «Conto generale del patrimonio dello stato» dove si potrebbero leggere molti dati su attività e passività statali. Ma è un volume irreperibile ed illeggibile per la comune dei mortali, il quale serve a poco per il grande arretrato con cui si pubblica. Una situazione mensile la quale mettesse di fronte le passività, compresi i debiti propriamente detti, e le attività dello stato darebbe un’idea approssimativa della grandiosità delle cifre relative al patrimonio dello stato. Bisognerebbe certo distinguerlo in sezioni: una potrebbe essere in cifre certe, per le partite di debito e di credito liquide, in lire italiane; una in cifre straniere per i debiti esteri; una in cifre immaginarie, per i residui attivi e passivi, che in gran parte sono semplici regolazioni contabili; ed una quarta, e forse non ultima, in cifre di conto per le attività e passività reali, ma valutate a prezzi di inventario non aventi nessun rapporto con i valori attuali. Una biblioteca pubblica, inventariata per 100.000 lire, può valere 10 milioni; ma è bene tenerla in evidenza ugualmente. Gioverebbe a chiarire che lo stato non è soltanto un debitore di 96 miliardi di lire – carta all’interno e di 22 miliardi di lire – oro all’estero, ma è possessore di un patrimonio imponente. La pubblicazione avrebbe un altro vantaggio: che i lettori, vedendo tante cifre immaginarie o di conto, vuote di significato preciso, si irriterebbero e comincerebbero a tempestare di critiche il ministero delle finanze, accusandolo di confondere il pubblico con notizie prive di senso. Ciò non si fa adesso, perché quel tale volumaccio nessuno lo legge; ma se un sunto mensile, aggiornato nelle partite mobili, fosse compreso nel conto del tesoro; le critiche diventerebbero fastidiose al punto, che un po’ alla volta il ministro riuscirebbe ad ottenere dagli uffici competenti la trasformazione delle cifre immaginarie o di conto in cifre attuali in lire italiane valuta corrente. Sarebbe una grande conquista della chiarezza e della verità in questo territorio contabile, dove oggi è scritto: hic sunt leones.

 

 

Discorrerò, in occasione del prossimo conto del tesoro al 31 dicembre, di talune appendici che per la prima volta compaiono nel conto (circolazione, corso dei titoli di stato, dei cambi, commercio con l’estero, gettito delle dogane); stavolta estrarrò soltanto alcuni dati dal quadro degli «incassi di bilancio», portato a due pagine ed assai meglio specificato. La cifra delle «entrate diverse» che per la parte ordinaria era arrivata a 1.001 milioni nei primi quattro mesi dell’esercizio corrente, si è sgonfiata a 290 milioni nei primi cinque mesi. Era veramente una stranezza questa partita delle «diverse» che nei primi quattro mesi giungeva a 1.001 milioni su 5.567 milioni di entrate effettive ordinarie. Dal 1914 in qua, le classificazioni delle entrate erano rimaste suppergiù le stesse, e tutto ciò che non entrava nelle vecchie classifiche era cacciato nelle «diverse». Ad esempio, nelle «diverse» si collocavano in gran parte le entrate doganali, per il bel motivo che «dogana« propriamente detta erano soltanto le 100 lire nominali esatte con tal titolo; le 340 lire in più, pagate per ogni 100 dagli importatori, per l’aggiunta del cambio, erano chiamate «quote di cambio» e, per non sapere dove metterle, erano cacciate nel calderone delle «diverse». Sembrava che da luglio ad ottobre 1923 le dogane avessero fruttato solo 249 milioni; ma adesso si sa che da luglio a novembre hanno gittato, comprese le quote di cambio, ben 1.228 milioni. In complesso le entrate effettive ordinarie vanno bene. Nei primi cinque mesi diedero 6.881 milioni contro 5.312 nell’esercizio precedente. Parmi che vi sia una sola cifra dubbia, ed è quella di 182 milioni esatta per ritenuta di ricchezza mobile nel novembre 1923 contro 36 nell’anno scorso. Probabilmente lo stato deve avere erogato qualche somma straordinaria, su cui eseguì la ritenuta di ricchezza mobile per una somma che non si riprodurrà più. C’è qualche altra cifra che tende a sparire o diminuire: 328 milioni di imposta sui sovraprofitti e aumenti di patrimonio, 110 milioni di successoria. Ma l’imposta patrimoniale passa, nei cinque mesi, da 175 a 251 e durerà a crescere per un pezzo la ricchezza mobile per ruoli da 489 a 507; le tasse di registro da 260 a 180; le poste da 171 a 210; i telegrafi da 45 a 49; i telefoni da 54 a 6; il vino da 135 a 158; e la tassa sugli scambi da 90 a 227. Quest’ultima, a larga base, con aliquota moderata, dà luogo a grandi speranze, anche se si dovrà compiere qualche ragionevole ritocco per tener conto delle lagnanze di quelle industrie, nel cui costo di produzione essa entra per cifre troppo pesanti. Non esistono dunque, per ora, motivi ragionevoli per ritenere che la diminuzione inevitabile nel gettito delle imposte straordinarie transitorie non debba essere compensata dall’incremento delle imposte ordinarie.

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