Opera Omnia Luigi Einaudi

Chiarimenti opportuni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 27/03/1923

Chiarimenti opportuni

«Corriere della Sera», 27 marzo 1923

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 166-170

 

 

 

Alcune notizie recenti di concessioni ferroviarie sono state commentate variamente: una rete di circa 400 chilometri compresa nel quadrilatero Cremona-Treviglio-Mantova-Brescia alla società ferroviaria lombardo-emiliana; un gruppo di parecchie centinaia di chilometri delle complementari e secondarie sicule ad una società di combattenti e mutilati; altri 450 chilometri da costruirsi nelle province di Messina, Catania e Siracusa ad una compagnia generale per lavori e servizi pubblici; e finalmente 1.728 chilometri comprendenti tutte le reti principali dell’isola ad un’altra società privata.

 

 

La concessione della costruzione della direttissima Bologna-Firenze avrebbe dato occasione indirettamente, se è vero ciò che ha scritto qualche giornale romano, ad un violento incidente tra un direttore di giornale ed un commissario politico del partito fascista nella regione emiliana.

 

 

I particolari di cronaca non si prestano a considerazioni d’indole generale; le quali debbono restringersi ai principii. Fino da quando il governo chiese ed il parlamento accordò la concessione dei pieni poteri in materia di economie, fu detto su queste colonne che gravissima era l’impresa a cui il governo si accingeva e tale che il consenso generale doveva suffragarla. Epperciò fu grandemente lodevole il sistema inaugurato dall’on. Mussolini di render conto dell’opera del gabinetto da lui presieduto in ampi comunicati al pubblico. Si vide che i pieni poteri dovevano equivalere ad azione energica, insensibile alle influenze parlamentari e locali; ma erano perfettamente compatibili, nella concezione del capo del governo, con l’ossequio all’opinione della nazione, che si volle largamente informata di tutto quanto il governo deliberava in suo pro.

 

 

Non sempre però i singoli ministri assecondano queste direttive. Le notizie citate sopra rispetto alle concessioni di linee ferroviarie costrutte e della costruzione di nuove ne farebbero dubitare. Chi ricordi le dispute sorte prima del 1885, e poi di nuovo prima del 1905 intorno ai migliori metodi di concessione delle ferrovie a privati esercenti, non può non essere ansioso di sapere in qual modo fu tutelato l’interesse pubblico nelle odierne concessioni. Un comunicato precedente ci aveva informati sui criteri generali con cui il governo proponevasi di addivenire alle concessioni; ma erano criteri così generali che scarso lume se ne poteva trarre rispetto alla loro attuazione concreta. Oggi che l’attuazione sembra rapidamente aver luogo, sarebbe stato bene che il ministro dei lavori pubblici avesse evitato che la notizia di avvenute concessioni fosse resa pubblica – o meglio prima della firma delle concessioni – senza che contemporaneamente fossero pubblicati dati precisi sulla natura, estensione, durata, condizioni della concessione. Come furono scelti i concessionari? Come si provvide ad accertarsi, esperendo trattative private, che la concessione fosse data a quell’ente o persona la quale offrisse allo stato le condizioni migliori? Quali norme sono stabilite per la partecipazione dello stato agli eventuali utili, per la regolazione delle tariffe, per il trattamento degli agenti e la liquidazione dei rapporti precedenti con lo stato? L’on. Mussolini ha dimostrato di avere ben netta la visione di questa verità: che pieni poteri non vogliono dire segreto, anzi significano tutto il contrario; che il segreto può essere necessario nel momento della deliberazione; ma che un governo di pieni poteri, appunto perché investito di così alta ed illimitata fiducia, ha interesse a rendere conto amplissimo, delle deliberazioni prese, al pubblico, affinché questo possa trarne argomento a più vivo consenso nell’opera dei suoi reggitori. Sarebbe bene che in questa sua metodologia di governo, il capo del governo fosse meglio assecondato da tutti i suoi collaboratori.

 

 

In materia di imposte, ricordano forse i lettori una mia tesi; che se le economie e le riforme amministrative sono opera di governo, deliberate da chi sta a capo dell’amministrazione e ne conosce le magagne ed i bisogni, le imposte e le riforme tributarie toccano troppo davvicino la vita e gli averi dei cittadini per essere delegate senza alcun vincolo al potere esecutivo. Inutile ritornare oramai su questa tesi, che per tutto quest’anno è rimasta soccombente di fronte alla concessione dei pieni poteri. Persisto però a credere che all’opera volonterosa dell’on. De Stefani gioverebbe pur sempre una forma di collaborazione preventiva del pubblico alle riforme in materia d’imposta. È bastato, ad esempio, che due proposte di riforma dell’imposta successoria – surrogatoria del 5% per i titoli mobiliari ed estimazione presuntiva dei titoli al portatore – fossero dai loro ideatori portate alla ribalta della pubblica discussione, perché esse fossero senz’altro eliminate. Forse se l’imposta sui redditi agricoli fosse parimenti stata discussa nei suoi termini concreti prima di tradursi negli articoli del decreto 4 gennaio 1922, si sarebbe raggiunto più rapidamente quel risultato che il regolamento, oggi uscito alla luce, vuole conseguire con non poca fatica; e probabilmente lo stato avrebbe incassato di più.

 

 

Sul gruppo delle riforme annunciate ieri in materia di tasse di bollo, un primo giudizio è favorevole. Il ministro prosegue nell’opera spinosa di semplificare il groviglio delle innumeri tasse di bollo; e si devono senz’altro lodare le semplificazioni e le riduzioni ed anche gli aumenti apportati alle tasse sui conti d’albergo e ristorante, a quelle sulla caccia con le reti ed alle tasse scolastiche.

 

 

Ma il provvedimento di gran lunga più importante fra quelli che compongono l’odierno blocco, è certamente il decreto istitutivo di una tassa generale di bollo sugli scambi commerciali in base alle fatture. La nuova imposta è destinata a sostituire tre imposte di guerra, le quali hanno dato cattiva prova: a) l’imposta di fabbricazione sui tessuti di seta, merletti e guanti. Colpiva un gran prodotto italiano con un’aliquota del 10%, e ne ostacolava lo sviluppo a vantaggio di altre industrie tessili produttive di merci spesso più ricche di quelle seriche; b) l’imposta progressiva sulle gemme e sugli oggetti d’oro e d’argento, la quale dava luogo, per la facile occultabilità della cosa tassata, ad evasioni su vasta scala, con danno dei negozianti onesti con bottega aperta al pubblico a vantaggio dei venditori clandestini; c) l’imposta sulle vendite degli oggetti di lusso, la quale per la sua aliquota del 12% dava luogo ad una resistenza invincibile da parte dei clienti ed a fatale acquiescenza da parte del commerciante.

 

 

Al posto di tutto ciò, si allarga una quarta tassa già esistente, detta tassa sugli scambi commerciali la quale colpiva finora con l’aliquota dello 0,36% gli scambi fra commerciante e commerciante.

 

 

Se ho capito bene, la nuova tassa riprodurrebbe quella già esistente e continuerebbe ad applicarsi, con una sola eccezione che dirò poi, su «ogni scambio di materie gregge di prodotti e di qualsiasi merce, fra industriali, commercianti ed esercenti per causa del loro esercizio industriale e commerciale». Le variazioni in confronto al regime esistente sembra si riducano a queste:

 

 

  • una più lunga lista di derrate alimentari esenti;
  • la elevazione dell’aliquota dallo 0,36 allo 0,50% per gli scambi di materie gregge e di prodotti dell’industria agraria; e dallo 0,36 all’1% per tutti gli altri prodotti, salvo ancora l’eccezione già ricordata;
  • la obbligatorietà del versamento col bollo virtuale per le merci soggette ad imposta di fabbricazione;
  • la facoltà di fare convenzioni di abbonamento per le società per azioni e per tutte le ditte iscritte per l’imposta di ricchezza mobile con un reddito imponibile non inferiore a lire 20.000.

 

 

La eccezione indicata sopra riguarda un limitato numero di merci qualificate di lusso (automobili, avorio, gemme, metalli preziosi, pelliccerie, sete, tappeti orientali, pianoforti, profumerie sciolte, guanti di pelle e mobili, questi ultimi se di valore superiore a certe cifre indicate nel decreto). Per queste merci di lusso, la tassa è del 2% e non si applica solo alle vendite fra commercianti, ma anche sulle vendite fatte «dal fabbricante o produttore al compratore, sia direttamente che a mezzo di filiali, agenti, rappresentanti o mediatori». È l’antica tassa di lusso, ridotta dal 12 al 2 per cento.

 

 

Al decreto, che risponde alle norme della buona finanza ed alle richieste dei contribuenti, avrei solo due osservazioni da fare:

 

 

Era davvero necessario il frazionamento dell’aliquota della tassa sugli scambi fra commercianti in due sotto aliquote dello 0,50 e dell’1%? La necessità di distinguere fra materie gregge e materie lavorate; fra prodotti agrari che non hanno subito alcuna lavorazione o trasformazione e quelli che un po’ furono trasformati (il vino è prodotto trasformato?); di investigare se un materiale refrattario sia per uso «edilizio» o per altro uso, ecc. non complicherà l’applicazione del tributo? Non sarebbe stata più semplice, meno dispendiosa e più redditizia un’aliquota unica dello 0,60%? È vero che le aliquote bolsceviche del tempo di guerra e dell’armistizio hanno sconvolto i criterii di giudizio; ed appena usciti fuori dal manicomio del 100%, siamo disposti a considerare come «mite» una imposta del 10%, come quelle sui redditi agricoli o sui salari degli operai statali, che, ai tempi che furono, sarebbero bastate ad assicurare la fama di ferocia tassatrice di Quintino Sella. Ma, in tema di tassa di scambi, ossia di tassa che colpisce due o tre volte e magari più la stessa merce, quante volte passa da un commerciante ad un altro, si dura fatica a chiamar «mite» un’aliquota dell’1% sul prezzo – badisi bene, sul prezzo e non sul profitto ricavato dalla vendita – che può diventare del 3 o del 4% innanzi che la merce arrivi al consumatore.

 

 

La seconda osservazione riguarda la data vicinissima del 10 aprile, alla quale dovrebbe andare in vigore il decreto 18 marzo, pubblicato nella «Gazzetta ufficiale» del 24 marzo, distribuito agli abbonati al 26, il quale è impossibile venga materialmente riprodotto per la stampa privata ed acquistato dai commercianti ed industriali in tempo per la data in cui essi ne dovrebbero già iniziare l’applicazione. Bisognerebbe, almeno, che il ministro rinviasse al primo maggio l’applicazione dell’articolo 14, il quale commina penalità da 10 a 20 volte l’ammontare della tassa dovuta. Le contravvenzioni cadrebbero, altrimenti, nel primo mese come gragnuola su commercianti di null’altro colpevoli all’infuori di una scusabile ignoranza.

 

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