Opera Omnia Luigi Einaudi

Classe dirigente e proletariato

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/12/1924

Classe dirigente e proletariato

«Corriere della Sera», 16 dicembre 1924

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.VII, Einaudi, Torino, 1963, pp. 904-908

 

 

 

La vittoria degli unitari al congresso della Confederazione generale del lavoro è un avvenimento degno di commento. La verità storica impone innanzi tutto che si renda giustizia a quel movimento di reazione della borghesia che il «Corriere» non cessò mai d’invocare e che si disegnò particolarmente dopo l’occupazione delle fabbriche. Fu quel movimento che il fascismo seppe far suo riportando successi imponenti nell’opinione pubblica, successi che poi colla faziosità e la violenza esso logorò miseramente per via. Prima di questa riscossa affermatasi vigorosamente in Italia contro il bolscevismo importato dalla Russia, la vittoria del socialismo sembrava troppo vicina e troppo facile. Erano i tempi in cui si parlava della borghesia come di una classe sociale corrotta, in cui sembrava che bastasse un colpo di spalla per buttare a terra il cosidetto regime capitalistico. Il millennio comunistico pareva vicino; il regno dell’uguaglianza prossimo ad attuarsi. La vecchia guardia socialistica, gli scrittori della «Critica Sociale» e gli organizzatori di «Battaglie Sindacali» vedevano bene che i metodi moscoviti della violenza e della dittatura del proletariato non avrebbero approdato a nessuna seria conquista. Ma la follia del dopoguerra aveva guastato le menti; ed essi non osavano opporsi ai predicatori della violenza e della dittatura.

 

 

La riscossa della borghesia snebbiò le menti e persuase tutti che le trasformazioni sociali sono lente e graduali. La pressione del fascismo, il fulmineo passaggio delle masse alle corporazioni, sebbene per nove decimi dovuto alla forza fisica e alla costrizione morale, impressero ben bene nelle menti degli organizzatori che l’arma della violenza, da essi purtroppo usata non di rado dal 1900 al 1920, era pericolosa e che era di gran lunga preferibile la persuasione e l’intima trasformazione ed elevazione degli animi. Quei socialisti, i quali non osavano opporsi a viso aperto ai bolscevichi catastrofici, videro con spavento le conseguenze a cui la violenza conduceva. Essi ripresero coraggio a negare al bolscevismo ogni virtù di conquista duratura, quando videro applicati in Italia i metodi della dittatura dal fascismo vittorioso. Il merito del fascismo nel trasformare il movimento operaio fu dunque negativo ed operò per contraddizione. Storicamente non può tuttavia essere negato.

 

 

Aggiungiamo ancora che l’esperienza fatta in questi ultimi anni deve far meditare le classi dirigenti le quali compongono quella che si suol chiamare borghesia. Dell’annientamento del movimento socialistico ed operaio, che sembrava compiuto coll’avvento del fascismo, della eliminazione degli scioperi, del silenzio imperante nelle officine poteva rallegrarsi, forse, una infima parte della borghesia; non certo la parte pensante di essa. Quando, su queste colonne, nell’estate scorsa si richiamarono gli industriali ad un esame di coscienza di fronte al delitto Matteotti ed al regime fascistico, fu un coro apparente di voci indignate tra i rappresentanti ufficiali dell’industria e del commercio. Ieri, durante la discussione al senato del bilancio degli interni, uno dei grandi capi della confederazione dell’industria, il sen. Conti, confessava che, se il fascismo aveva dato, a parer suo, prosperità e lavoro al paese, non aveva tuttavia dato la tranquillità spirituale, dunque non aveva dato la fiducia nell’avvenire. La gente pavida, amante del vivere tranquillo, aborrente dagli scioperi e dalle violenze, non si affretti a rallegrarsi oltremisura della sconfitta dei massimalisti e dei comunisti. Con essi fu sconfitto, nell’animo delle classi proletarie italiane, quello stesso spirito di violenza e di dittatura faziosa che ai borghesi spaventati tanto piacque quando accorse in loro soccorso coi randelli fascisti. L’idolatria della forza è venuta meno nello spirito delle masse. I moderati, gli organizzatori hanno ripreso il sopravvento; e finalmente osano dire apertamente il loro pensiero di condanna verso la dottrina della violenza che al proletariato recò, per opposte mani, tanto danno in Russia ed in Italia.

 

 

Ma non fu sconfitto lo spirito di lotta e di elevazione delle masse lavoratrici, il quale prende comunemente il nome di socialismo e di organizzazione operaia. Nell’ordine del giorno vittorioso a Milano ancora si parla di un avvenire in cui la produzione sarà socializzata ed in cui il lavoro avrà la somma del potere politico ed economico. La socializzazione della produzione non è il nostro ideale. Noi crediamo invece che alla potenza creatrice dell’individuo, alla virtù organizzatrice dei capi delle imprese economiche è riservata nell’avvenire, forse per sempre, una gran parte nel mondo economico. Siamo persuasi che guai al progresso industriale, al benessere dei lavoratori, se il sistema collettivistico di produzione riuscisse a soppiantare del tutto il sistema odierno della libertà di iniziative, di movimento, di concorrenza! Ma siamo altresì profondamente persuasi che il pericolo della morte collettivistica non avrà nessuna probabilità di attuarsi se le classi dirigenti, imprenditrici e risparmiatrici sapranno dimostrare colla discussione e coll’esperienza di essere degne di vivere e capaci di dare un contributo vantaggioso alla vita collettiva.

 

 

Certamente, è comodo trovarsi di fronte rivoluzionari massimalisti e comunisti, i quali fanno appello alla forza. Con una violenza contraria, è agevole, fu agevole vincerli. Oggi, i rappresentanti dei lavoratori, ammaestrati dall’esperienza, dichiarano di voler giungere alla socializzazione della produzione, con i mezzi legali della conquista della maggioranza nei parlamenti, della persuasione dell’opinione pubblica, dell’ossequio ai sistemi democratici e rappresentativi di governo. I disastrosi risultati del metodo della violenza, lo spirito di irrequietudine dominante oggi più di ieri nelle grandi masse deve aver dimostrato oramai alla borghesia che contro l’ideale socialistico non si lotta con la forza. Il socialismo è un’idea antica, risorgente da millennii attraverso i secoli, che non si distrugge con la forza. Essa è, aggiungasi, un’idea necessaria per fare contrappeso all’individualismo puro, che vorrebbe dire anarchia. La società reale oscilla perennemente tra i due ideali estremi, del socialismo e dell’individualismo. Nessuno ha il diritto di combattere uno di questi due ideali in nome della ragione pura, della ragion ragionante. Si deve cercare soltanto di dare all’ideale una significazione concreta la quale sia vantaggiosa alla collettività.

 

 

Oggi le classi dirigenti possono ancora scegliere. Od esse si tengono allato alla violenza fascistica e tentano di comprimere il socialismo e, per reazione, spingono i lavoratori, proprio nel momento in cui dimostrano di volersene allontanare, in braccio ai comunisti. La mente rifugge dall’immaginare gli orrori di una lotta fra due parti ugualmente violente ed ugualmente accomunate dal feticismo per la dittatura.

 

 

Od esse contribuiscono al ritorno verso forme democratiche e liberali di governo e prenderà in tal caso sempre maggior forza quella corrente socialistica la quale ha vinto a Milano. La vittoria degli unitari in sostanza è la vittoria di una particolare interpretazione dell’ideale socialistico e precisamente di quella interpretazione la quale fa consistere il socialismo nell’elevazione autonoma del lavoro. Tutti dicono di voler bene agli operai, perfino i fascisti; ma questo «voler bene» non ha per se stesso alcuna efficacia per l’elevazione delle masse lavoratrici. Il socialismo, nella interpretazione di Milano, vuol dire che l’elevazione dei lavoratori deve aver luogo per le loro proprie forze, attraverso la organizzazione di classe, grazie ai sacrifici consapevoli dei lavoratori medesimi, riuniti in leghe, federazioni, camere del lavoro. Secondo questa interpretazione, socialismo si identifica col partito del lavoro, con quel partito il quale vuole difendere gli interessi e gli ideali del lavoro, come forza distinta dalle altre forze sociali.

 

 

Leviamoci il cappello e salutiamo il nuovo partito che sorge. Meno di ogni altra classe sociale, la borghesia industriale, commerciante, intellettuale ha diritto di opporsi all’affermazione del nuovo partito. Essa trae le sue fonti perenni di vita da se stessa, dalla sua fatica quotidiana, dalla sua energia di organizzazione e di lavoro. La borghesia è la più alta incarnazione del lavoro nella società presente; e non può non augurare che i lavoratori delle officine, che gli impiegati, che i contadini sentano di essere uomini, affermino la loro dignità di liberi e vogliano pesare sulle sorti del paese per quanto essi valgono. Se in regime di libera discussione, il partito del lavoro un giorno sarà vittorioso, ciò potrà accadere soltanto perché le altre forze sociali saranno state più deboli, meno operanti, meno degne; ciò accadrà solo perché le altre classi sociali avranno avuto meno vigoria di vita ed avranno saputo dare minor contributo di bene alla società. Noi siamo persuasi che la morte della borghesia non verrà tanto presto, se la borghesia non si scaverà da se stessa la fossa, con l’irrigidirsi contro le altre classi sociali con i metodi dell’esclusivismo e della violenza. In regime di libera competizione, la borghesia non può morire, perché essa altro non è se non il fiore degli uomini più attivi, più intelligenti, più sani moralmente i quali organizzano, risparmiano e si elevano ogni giorno dalle file del lavoro. Quanto più consapevoli ed istruiti e forti ed organizzati saranno i lavoratori, tanto più numerose saranno le reclute che essi daranno alle classi dirigenti, a torto, da certi falsi dottrinari socialisti, chiamate borghesi in significato spregiativo. Di nulla hanno tanto bisogno le classi dirigenti italiane nel momento presente quanto di un forte e ben organizzato partito del lavoro, che le sospinga, che le punga e le costringa a purificarsi e ad innalzarsi. In sostanza, la genuflessione della borghesia dinanzi al fascismo fu anche un atto di disperazione e di ignavia. Passata la paura del bolscevismo, occorre persuadersi che la lotta è necessaria, che se il travaglio delle discussioni sociali fa scendere giù gli incapaci e i timidi, innalza i capaci ed i forti. Se vuol vivere, una classe sociale deve continuamente selezionarsi; e per selezionarsi, fa d’uopo che essa non si senta mai sicura sulle posizioni acquisite. Una massa lavoratrice indipendente, consapevole ed organizzata è la prima condizione perché le classi dirigenti si mantengano alacri, sane e progressive.

 

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