Opera Omnia Luigi Einaudi

Come può funzionare la legiferazione per commissioni?

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 14/09/1921

Come può funzionare la legiferazione per commissioni?

«Corriere della Sera», 14 settembre 1921

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. VI, Einaudi, Torino, 1963, pp. 353-356

 

 

 

L’esperimento di legiferazione per mezzo di commissioni parlamentari compiuto nel caso delle leggi per la nominatività dei titoli e per la confisca dei profitti di guerra, dà modo di trarre alcune conclusioni, le quali possono riuscire utili per l’applicazione che in avvenire si voglia tornare a fare del metodo stesso. Non basta dire che la camera è sovraccarica di lavoro ed incompetente per concludere alla possibilità di legiferare altrimenti. Bisogna esaminare le condizioni le quali necessariamente devono esistere affinché un diverso sistema legislativo possa funzionare con efficacia.

 

 

In primo luogo occorre che il parlamento sappia chiaramente quale è il principio a cui vuole dare forza di legge e gli dia espressione chiara. Sta bene che il parlamento fissi i principii; e che i particolari di applicazione siano determinati da sue commissioni tecniche. Ma non è possibile precisare e particolareggiare il principio incerto e non chiaro neppure nella mente del potere delegante. Ora era questo precisamente il caso della nominatività dei titoli e della avocazione dei guadagni di guerra. Le due camere votarono affannosamente, sotto la spinta di passioni politiche e di sentimenti demagogici, non due idee ma due parole. Chi proponeva e chi discuteva non conosceva la gravità e la difficoltà dei problemi. Si approvò la obbligatorietà della nominatività dei titoli, immaginando che tale obbligatorietà esistesse in Inghilterra e negli Stati uniti e che si trattasse di cosa facilissima; e poi si scoperse che né l’una né l’altra cosa era vera. Si approvò la avocazione dei profitti di guerra: ma non fu definito affatto che cosa fosse il profitto di guerra ed era chiaro che la grande maggioranza di coloro i quali partecipavano alla discussione e gli stessi ministri proponenti non avevano alcuna chiara idea in argomento. La verità era che la delegazione di legiferare data al governo ed alle commissioni parlamentari non era determinata da cause tecniche, ma dal movente politico di lavarsi le mani di due problemi scottanti, avendo l’aria di risolverli. Quando le cose stanno così, non c’è sistema legislativo che valga. Tutti sono ugualmente pessimi. Perché le commissioni possano legiferare occorre che il campo sia ad esse chiaramente delimitato.

 

 

In secondo luogo, occorre dire chiaramente a chi sia delegato il potere di tradurre in articoli di legge il principio approvato dal parlamento. Si dice a bella posta in articoli di legge; poiché qui non si tratta di compilare il regolamento per l’applicazione della legge, ma di compilare la legge medesima. Anche se si adopera la parola «regolamento», in realtà trattasi di cosa ben diversa. Il regolamento solito cura solo i particolari di esecuzione ed è funzione di governo; il regolamento, di cui qui si parla, è la legge medesima; è tutto. Senza di esso, il principio votato dal parlamento resta lettera morta.

 

 

Perciò, appare naturale che la facoltà di legiferare non possa essere delegata al governo. Questo è potere esecutivo, non legislativo. La potestà di legiferare non può essere delegata se non a commissioni composte da membri delle due camere, in cui quelli scelti dalla camera dei deputati rappresentino specialmente l’elemento politico e volitivo e quelli scelti dal senato l’elemento tecnico. Così operando, le due camere vengono utilizzate a seconda delle loro attitudini specifiche, le quali sono, per la camera elettiva, di esprimere la volontà collettiva, mentre la camera vitalizia reca la esperienza giuridica e tecnica atta a dare forma adeguata a questa volontà collettiva. Sotto questo aspetto, la relazione della commissione parlamentare sulla avocazione dei profitti di guerra dimostra che tale appunto era stato il contributo rispettivo delle due sezioni in cui si dividevano i commissari.

 

 

Se la delegazione è fatta alle commissioni e non al governo, deve ritenersi che il governo sia privo di iniziativa e di poteri? No. Il governo deve avere, in questa fase della elaborazione legislativa, poteri analoghi a quelli che possiede normalmente quando si seguono i metodi legislativi ordinari. Trattandosi di elaborazione tecnica e di ubbidire ad una legge già scritta, ad una volontà precisa del parlamento, l’eventuale dissenso fra commissione e governo non può portare ad una crisi di gabinetto; ma, da questa differenza in fuori, bisogna sforzarsi di porre governo e commissioni nello stesso rapporto in cui sono governo e camere dinanzi ad un disegno di legge. Le difficoltà da sormontarsi all’uopo sono grandi e saranno superate solo dopo molti e ripetuti esperimenti. Occorre però superarle, se si vuole che il sistema funzioni.

 

 

Trattandosi di una funzione delegata, alle commissioni deve essere impedito di tirare in lungo artatamente l’adempimento del compito ad esse affidato. Perciò deve essere fissato un termine entro il quale esse debbono avere finito di elaborare il regolamento legislativo.

 

 

A facilitare il lavoro, gioverà che il governo, come fece nei due casi più volte ricordati, prepari uno schema di regolamento. Lo prepari a suo piacere, con o senza commissioni interne; ma queste non devono avere nulla a che fare con le commissioni parlamentari. Il governo difenderà, per mezzo dei ministri o di alti funzionari o di commissioni interne, lo schema predisposto dinanzi alla commissione parlamentare; e nulla più. La commissione deve essere libera ed autonoma nelle deliberazioni prese; e deve avere ampie facoltà di informazione e di discussione, così come le hanno le due camere. Può ascoltare interessati, rivolgere questionari al governo od ai privati.

 

 

La commissione non deve ritenere tuttavia esaurito il suo compito con un voto o parere segreto. Le camere non legiferano da sole. Esse si trovano sempre dinanzi ad un governo, il quale può ritirare il disegno di legge in discussione, esprimere il proprio avviso e porre la questione di fiducia. Nella legislazione dinanzi alle commissioni, il governo non può ritirare il regolamento o porre questioni di fiducia, perché governo e commissioni hanno l’obbligo di ubbidire ad una legge già in pieno vigore. Il governo ha però diritto di essere sentito e di esprimere il proprio parere sulle deliberazioni della commissione.

 

 

Che cosa fare in caso di dissenso? Non è facile rispondere, perché se da un lato la sola commissione ha facoltà di interpretare la volontà del legislatore, dall’altro lato non bisogna dimenticare che, coi metodi legislativi normali, il governo avrebbe avuto diritto di porre la questione di fiducia dinanzi ad una proposta ad esso invisa. Una soluzione potrebbe essere quella di autorizzare, in caso di dissenso, il governo a sospendere l’applicazione del regolamento votato dalla commissione, salvo l’obbligo di portare il problema dinanzi al parlamento, il quale sarebbe chiamato a sconfessare o il governo o la commissione.

 

 

Ovvero, per evitare la spiacevole necessità di una sconfessione e trattandosi di questione tecnica, trattandosi cioè di sapere non quale debba essere la legge, ma come la legge vigente debba essere interpretata, si potrebbe rendere obbligatoria la soluzione votata dalla commissione parlamentare, dopo sentito il governo, salvo il rimedio consueto del rifiuto di registrazione da parte della corte dei conti. Il rifiuto di registrazione dovrebbe imporre un nuovo esame da parte della commissione; dopo di che la corte dei conti dovrebbe aver l’obbligo di registrare il regolamento, salvo riserva. In caso di riserva, il problema ritornerebbe automaticamente dinanzi alle due camere, secondo le regole finora osservate. In tal maniera, una discussione da parte del parlamento non esautorerebbe né governo né commissioni, perché determinata da pure ragioni di interpretazione della legge vigente.

 

 

Certo, trattasi di problemi ponderosi e disputabili. La soluzione si troverà per tentativi graduali e non senza difficoltà. Un augurio si può fare: che il nuovo metodo di sfollamento del lavoro delle camere sia applicato con prudenza e nei soli casi di materie tecnicamente complicate, a cui un’assemblea legislativa è manifestamente disadatta e rispetto alle quali sia ridotta al minimo la possibilità di un conflitto politico tra governo e commissioni parlamentari. Entro questi limiti, la delegazione potrà essere applicata con successo e contribuirà a rendere più agevole al parlamento la trattazione dei problemi finanziari e politici di carattere generale e non tecnico.

 

 

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