Opera Omnia Luigi Einaudi

Concludendo

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1959

Concludendo[1]

Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1959, pp. 382-415

 

 

 

 

Scrivo le pagine che seguono facendo compiutamente astrazione dall’esistenza delle leggi, sia di quelle costituzionali come di quelle ordinarie. Lo studioso, il quale voglia esporre quella che a lui sembra dover essere la condotta da tenere nel momento presente in Italia, non ha, in un primo tempo, alcuna ragione di tener conto di vincoli legislativi che possono essere posti al suo pensiero. In un secondo tempo egli dovrà chiedersi: è lecito operare in modo siffatto? Contravvengo a qualche norma, obbligatoria per me come per tutti gli altri cittadini, sancita dalla costituzione o dalle leggi ordinarie? Se non ha la preparazione necessaria per rispondere al quesito della liceità della soluzione da lui accarezzata, dovrà ricorrere ad uomini periti in materia e richiederne l’avviso secondo scienza e coscienza. Può darsi che egli abbia o presuma di avere le cognizioni necessarie per rispondere alla domanda; e non dovrà perciò ricorrere al consiglio altrui. Resta fermo il punto trattarsi di due quesiti diversi: quel che si crede di dover pensare o fare ragionando esclusivamente con la propria testa, fatta bene o fatta male che sia; e quel che invece, dopo aver pensato con la propria testa, si riconosce di “poter” fare ove si tenga conto del comando delle leggi vigenti. Lo studioso fa seguire subito alla conclusione, che per lui parrebbe ideale, la riserva del “si può fare?”; la fa seguire subito perché, essendo dotato di un certo buon senso, sa che l’azione non è come il pensiero, il quale va dove vuole; ché essa deve muoversi entro la fitta rete dei rapporti umani, dei vincoli che gli uomini viventi in società debbono porre perché non si cada nel regno della giungla.

 

 

Fa d’uopo soggiungere anche che la ricerca seconda del “si può fare?” è più faticosa e dubbia assai della prima, durante la quale si può procedere innanzi senza impacciarsi di testi scritti, di interpretazioni, di ermeneutica giuridica; sicché chiedo venia se, non potendo o non osando sobbarcarmi alla fatica, mi limito nelle pagine seguenti alla prima e più libera ricerca. A questa prima riserva debbo tosto aggiungere l’altra, che della condotta da tenere nel momento presente toccherò alcuni punti soltanto; quelli che a me sembrano oggi i più importanti. In poche pagine non si può discorrere dell’universo scibile né compilare una di quelle ollapodride in che sono segnalati i compilatori di programmi elettorali o di governo, costretti ad interminabili filastrocche di problemi, veri o immaginati, che se se ne dimentica uno, subito si grida: perché avete dimenticato di parlare di problema di così gran momento per la salvezza del paese?

 

 

Finalmente, per chiudere le premesse, dirò ancora che toccherò i problemi discussi secondo l’ordine della loro degnità.

 

 

Primo, naturalmente, il problema religioso. Il consiglio: i preti in chiesa ad insegnare religione, il che vuol dire per taluno insegnare ai ragazzi a recitare il catechismo ed a servire messa; far prediche edificanti dal pulpito, amministrare i sacramenti, confessare, assistere e confortare gli ammalati, non dice tutta quella che è la missione del sacerdote. Non mi attento neppure per un istante ad esporre il quadro compiuto di essa, come non oserò, voltando pagina, dichiarare i limiti della missione dell’insegnante. Dirò subito che, in regime di libertà, nessun limite è posto alla predicazione ed all’opera del sacerdote. La chiesa ed il suo sagrato sono la casa dei fedeli, dove questi vivono non solo la vita della fede, ma tutta la vita, quella dell’uomo intiero, che fra l’altro, è anche politica ed economica. Il sacerdote non può ignorare che i suoi fedeli vivono in una società, che essi non hanno solo doveri verso se stessi, verso il proprio perfezionamento morale e spirituale, e verso la famiglia, ossia verso la parte intima e riservata ed anche segreta di se stessi; e che perciò i sacerdoti non debbono limitare il loro compito di ammonimento a quel che tocca l’individuo e la sua famiglia. No; il sacerdote sa che i fedeli vivono in una società organizzata politicamente ed economicamente; sa che Cristo ha parlato e che i vangeli hanno registrato le parole dette da lui in non pochi casi della vita in comunità, che i dottori della chiesa hanno spiegato e commentato l’insegnamento del Cristo. Il sacerdote ha perciò l’obbligo di parlare, di consigliare i fedeli, di ammonirli sulle sanzioni spirituali di penitenza e di scomunica nelle quali essi necessariamente, se anche non sempre per condanna esplicita, incorreranno violando i comandamenti del vangelo. Forseché i grandi predicatori, da sant’Agostino a sant’Ambrogio, da santa Caterina a san Bernardino da Siena non parlarono a papi, ad imperatori, a re, a principi, a reggitori di città, a mercanti e ad artigiani, a religiosi ed a laici; non presero di petto le loro colpe, pubbliche e private, non condannarono pubblicamente i loro errori, quelli teologici, quelli politici pubblici e quelli privati?

 

 

Naturalmente, il sacerdote non conosce solo la virtù della carità, che è azione viva ed operosa; conosce anche il dovere della “prudenza”. Farà come quel sacerdote insigne, onore del capitolo di Sant’Orso in Aosta, il quale, in chiesa affollatissima – ed erano presenti le camicie nere, pronte a prendere d’assalto il pulpito – così parlò: «vi è fra noi chi calpesta le leggi divine ed umane; vi è chi mette in carcere gli innocenti, vieta agli uomini di dire la verità, toglie il pane a colui che non sia munito del “segno”; vi è chi persuade tutti coloro, i quali sanno, a scrivere le sue lodi; vi è chi distrugge la libertà del pensare, dello scrivere e del parlare; vi è chi…». Tutti sentivano che il sacerdote parlava del duce; ma, quando le camicie nere già erano sulle mosse, il sacerdote usò prudenza: «vi dirò io chi è colui il quale turba ed oscura la nostra vita: colui è l’anticristo». Correva in quei giorni una cabala, la quale dimostrava che nel capitolo XIII versetti da 16 a 18 dell’Apocalisse di san Giovanni, Mussolini era chiaramente indicato come l’anticristo; sicché i fedeli rimasero persuasi che l’anticristo designato dal sacerdote era l’uomo del destino.

 

 

Usare “prudenza” è lecito e può essere doveroso. Non è dovere assoluto; ed il sacerdote ha ragione in talune circostanze di non essere prudente e di dire apertamente al colpevole che egli, per sua colpa, non appartiene alla comunità dei fedeli; ché tanto e non più vuol dire essere “scomunicato”. Se, per non aver usato prudenza, egli incorrerà in qualche sanzione, civile o penale, prevista dalle leggi dello stato, il sacerdote subirà la sanzione in silenzio. Non perciò egli sarà persuaso di non aver fatto il suo dovere; ché questo gli è dichiarato e imposto dalla legge del vangelo.

 

 

Non perciò è lecito al sacerdote scambiare le proprie elucubrazioni con la parola del Cristo. Valgono, in tutti i campi, le considerazioni che in questa stessa dispensa ho esposto nel saggio Un libro per seminaristi e studenti. Purtroppo, parmi di osservare che anche taluni sacerdoti, troppi tra i giovani, soggiacciono alla moda dell’essere moderni, progressivi, epperciò del rendere omaggio agli ideali del comunismo e del socialismo.

 

 

Essi sentono il dovere di portar via ai comunisti ed ai loro accoliti socialisti i corpi e le anime dei naufraghi; dovere che non di rado credono assolvere facendo concorrenza all’avversario, riconoscendo non solo la bontà degli ideali cosidetti nuovi, ma adottando i medesimi strumenti di lotta, di agitazione e di politica pratica statalista e dirigista. Anche qui il dovere impone ai dirigenti dei seminari e degli istituti superiori ecclesiastici di far studiare seriamente la teoria e la storia delle dottrine economiche; affinché i giovani sacerdoti sappiano esaminare criticamente le dottrine che ai loro intelletti freschi ed entusiasti appaiono seducenti; e sappiano perlomeno che da altri quel che ad essi apparve nuovo e promettente è reputato vecchio e frusto, proprio, per quanto ha tratto alla storia della scienza, dell’età della pietra; e che, ben lungi dal perfezionamento, materiale e spirituale, della persona umana, che è la meta del cristiano, i regimi comunisti, dirigisti e corporativisti conducono necessariamente alla miseria materiale ed alla tirannia morale.

 

 

In regimi di libertà, predicare spropositi di logica e di esperienza non giova né sul sagrato, né in chiesa; sebbene sia augurabile nessun impedimento giuridico sia posto allo spropositare. Non meraviglino però i sacerdoti se, quando essi enunciano, come è lor pieno diritto, tesi politiche, economiche e sociali erronee, si trovino contro avversari niente affatto disposti a scambiare come verità religiose quelli che sono soltanto spropositi logici. Né si illudano basti ad essi dichiarare che l’avversario è un “liberale” per annientarlo. Il “liberale” invero non esiste se non è fornito di logica; ed il ragionamento non è buono o cattivo, vero o falso perché esposto da un liberale o da un democristiano o da un socialista; ché la falsità o la verità vivono di vita propria indipendente dalle etichette attraverso le quali sono presentate o ricevute.

 

 

Ripetutamente (vedi Scuola e libertà nella dispensa prima; Contro il monopolio e non contro la scuola di stato nella dispensa terza) furono qui esposte le ragioni per le quali il “liberale” non può accettare il principio del monopolio oggi dominante in Italia nella scuola. Non parlo della istruzione elementare, essendo questo un tipico caso della necessità dell’intervento dello stato per la nessuna convenienza dei privati di fornire un bene, che pochissimi sono disposti a pagare in misura non inferiore al costo. Alcuni pochissimi genitori sono pronti al sacrificio necessario; e per essi deve essere ovviamente consentito l’apprendimento privato. Il fatto è siffattamente marginale, da poter essere trascurato.

 

 

Importa invece riaffermare che il sistema usato in Italia, di dare validità legale ai titoli statali di licenza nelle scuole secondarie e di laurea in quelle universitarie, è contrario a libertà. Esso consacra di fatto il duopolio dello stato e della chiesa; ché non esistono altri fornitori di istruzione secondaria ed universitaria fuor di essi; e quei pochi, i quali conducono scuole secondarie private, hanno dimensioni numeriche piccole e sono principalmente preparati a procacciare salvataggi agli immeritevoli, sicché in un regime di libertà non potrebbero sopravvivere.

 

 

Ricapitolando cose dette nelle dispense prima e terza: 1) il sistema della validità legale ai diplomi rilasciati dallo stato riposa sul falso; non essendo vero che il bollo statale aggiunga alcunché al valore del titolo, il quale dipende esclusivamente dal giudizio degli esaminatori; 2) esso consacra il monopolio dello stato e della chiesa, i soli due enti i quali di fatto hanno ricevuto dalla legge o dai regolamenti la potestà di rilasciare quei pezzi di carta che, detti diploma di licenza e di laurea, sono richiesti per adire a concorsi, occupare posti retribuiti da organi statali, pubblici o semipubblici, territoriali od istituzionali; 3) esso crea pericolose aspettative di diritto all’impiego da parte di coloro, i quali hanno frequentato le scuole non per studiare, ma per essere forniti di quel tale pezzo di carta, che è tutt’altra cosa; 4) è una delle cause della cosidetta disoccupazione intellettuale, frutto delle false aspettative create dallo stato con la validità legale attribuita ai suoi pezzi di carta.

 

 

Il sistema antinapoleonico ed antimonopolistico lascia invece libertà allo stato, alla chiesa ed a quanti altri vorranno cimentarsi all’ufficio dell’insegnamento, di creare istituti organizzati all’uopo. I diplomi rilasciati dalle scuole di stato, da quelle private (religiose o secolari) abbiano il valore che l’opinione pubblica ad essi vorrà attribuire. Lo stato consacrerà alla scuola i mezzi sinora forniti ed altri maggiori, di gran lunga maggiori, se a mano a mano le sue disponibilità finanziarie cresceranno. La chiesa ed i privati faranno del loro meglio per provvedere i fondi necessari ad istituzioni che sono, per indole loro, certamente non suscettibili di offrire un qualsiasi reddito netto e sono, altrettanto certamente, feconde soltanto di perdite. Sono siffattamente grandi le esigenze dell’insegnamento ed in particolare di quello universitario che i capi degli istituti detti sinora statali non solo dovranno far capitale sul contributo dello stato e delle tasse pagate dagli studenti; ma dovranno ricorrere al senso civico di amministratori di enti pubblici locali, di imprese economiche, di antichi scolari rimasti affezionati all’ateneo nel quale hanno studiato. Appelli del resto non ignorati neppure oggi, sebbene domini la convinzione lo stato debba provvedere a tutti i bisogni della scuola.

 

 

In un regime di libertà scolastica, non solo i contributi dello stato dovranno ingigantire; ma gli istituti, liberi dalla pretesa di governi e parlamenti di tenere basse le tasse scolastiche, potranno fissarne l’ammontare, a seconda delle proprie esigenze. La necessità di fornire un insegnamento elevato li costringerà ad aumentare le tasse al di sopra delle risibili tariffe odierne, sebbene sempre e di gran lunga al di sotto del costo dell’insegnamento, dei laboratori, dei gabinetti, delle biblioteche, degli ospedali ed in generale dell’attrezzatura necessaria ad un insegnamento degno. La scuola dovrà dai mezzi raccolti porsi in grado di concedere esenzioni e sussidi in danaro, in alloggi e in vitto agli studenti meritevoli e male provveduti di mezzi proprii.

 

 

Perciò essa chiederà molto allo stato ed in regime di libertà, chiederà molto e non concederà nulla, nel senso che essa non consentirà allo stato di influire nella scelta degli insegnamenti, degli assistenti, degli assistiti di borse di studio. La meta delle università, le quali seguiteranno per tradizione a dirsi di stato, perché mantenute sovratutto grazie al concorso finanziario dello stato, è quella che sinora è stata tenacemente difesa dalle università inglesi, da quelle tradizionali di Oxford e di Cambridge alle ben più numerose, e crescenti di numero, provinciali: il parlamento fissa la somma complessiva che lo stato destina all’insegnamento universitario; e della ripartizione della somma fra le università e fra i varii scopi che le università si propongono, dalla costruzione degli edifici all’acquisto dei macchinari, dalla determinazione degli onorari dei professori, dei lettori, degli assistenti, diversi da luogo a luogo e da persona a persona, alla dotazione delle biblioteche, sono arbitri un comitato elettivo di delegati delle università per quel che attiene al riparto fra di esse e i consigli accademici per la ripartizione interna. Nonostante le querele della Camera dei comuni, le università hanno tenuto fermo nel diniego di consentire ad un qualsiasi controllo della tesoreria (da noi si direbbe il ministero del tesoro, con la sua ragioneria generale dello stato) e, s’intende, del ministero dell’educazione, il quale non ha nessuna ingerenza nella gestione, sia scientifica come finanziaria, di corpi tenacemente gelosi della loro autonomia.

 

 

Il solo punto su cui i liberali possono essere dubbiosi intorno al diritto dello stato di sussidiare le scuole private oltrecché quelle mantenute prevalentemente con fondi pubblici vien fuori dalla concezione la quale affida allo stato compiti detti di benessere. Si suppongano risoluti i problemi dei limiti di convenienza pubblica delle varie maniere di assicurazione e di assistenza sociale (e le opinioni che in generale possono essere dette liberali possono leggersi nelle mie Lezioni di politica sociale) e si supponga che sia accolto il concetto che lo stato debba consentire a tutti i meritevoli la possibilità di profittare non solo dell’insegnamento elementare, ma anche di quello medio ed universitario. L’idea si dice dell’uguaglianza dei punti di partenza, tutta diversa da quella dell’uguaglianza nei punti di arrivo od uguaglianza nelle rimunerazioni e nei guadagni. L’uguaglianza nei punti di arrivo è socialmente dannosa e tende a livellarsi verso il basso; l’uguaglianza nei punti di partenza, offre ai giovani volonterosi e capaci la possibilità di sormontare gli ostacoli della nascita, della povertà, delle disavventure e discordie familiari.

 

 

Il quesito è: lo stato ha ragione di scegliere le scuole, dette statali o dette private, alle quali è dato il privilegio di educare ed istruire i giovani meritevoli di ottenere e di continuare a godere di una borsa di studio? La risposta è nettamente negativa. Lo stato può definire le condizioni obbiettive di fortuna e quelle personali di presunta attitudine dei giovani a profittare delle occasioni di studio e di mantenimento gratuito o semi-gratuito a lui offerte; ma non può dire: tu potrai godere della borsa soltanto se tu frequenterai questa o quella scuola, questa o quella università. L’obbligo violerebbe la libertà dei giovani i quali, col consenso, se minori di età, dei loro genitori, hanno pieno diritto di scegliere l’educatore da essi preferito. L’opinione contraria conduce alla instaurazione di un monopolio o duopolio nel campo della scuola, che, fra tutte le specie monopolistiche, pare la pessima.

 

 

Se la libertà del credere (rapporti fra lo stato e la chiesa) e del pensare (ordinamento della scuola) attengono ai puri valori dello spirito, la libertà del vivere indipendenti da dominazioni straniere è parimenti un valore spirituale, e perciò il discorso della difesa e dei rapporti internazionali viene qui subito. Viene dopo, perché fa d’uopo dare pur sempre un ordine formale al discorrere, non perché il problema sia per degnità minore.

 

 

Gli italiani vogliono essere sovrani in casa propria; ma sanno che non è possibile vivere isolati. Noi facciamo parte di una società di stati sovrani, tutti legati gli uni agli altri in modo così stretto che se non ci associassimo ad altri, l’indipendenza e la libertà sarebbero morte. Solo gli stati colossi – e se ne conoscono due soli, gli Stati uniti e la Russia, ai quali domani potrà, ma non è ancora sicuro diventar pari la Cina e più in là, forse anche l’India – possono sfidare chi volesse assorbirli. Gli altri stati, se non vogliono essere dominati dai colossi, debbono giocoforza allearsi; e presto le alleanze, sempre precarie e deboli, non basteranno e converrà federarsi in una unità superiore.

 

 

La scelta delle alleanze non è dubbia. Noi apparteniamo al tipo di civiltà occidentale, quello di cui fanno parte l’Inghilterra, i paesi scandinavi, la Svizzera, la Germania occidentale, la Francia, l’Austria, il Belgio, l’Olanda, gli Stati uniti; retti con liberi ordinamenti politici, forniti di libertà di parola e di stampa, retti cioè in maniere che sostanzialmente, con qualche deviazione sinora non essenziale, possono essere dette libere. Noi non possiamo uscire dalla società politica occidentale ed, in concreto, dalla alleanza atlantica, senza rinunciare alle nostre medesime ragioni di vita. Qualunque riserva posta alla accettazione di siffatta necessità, qualunque attenuazione sotto colore di perseguire fini collaterali compatibili con i principi informatori della società occidentale, nega l’alleanza.

 

 

Nessun vincolo, qualunque sia il regime dal quale sono rette, può essere ovviamente posto al crescere di rapporti e di transazioni economiche, consigliati dalla convenienza, con i paesi del levante, dell’oriente, dell’Africa, dell’Asia ecc. ecc. Il rischio può essere maggiore nei paesi a regime comunistico od autoritario che nei paesi liberi; ma tutti i rischi può convenire siano sopportati, a condizioni liberamente discusse. Non più in là.

 

 

I privati risparmiatori – privati sul serio, non società ed enti pubblici o semipubblici camuffati da privati – possono azzardarsi a compiere investimenti in Africa, in Asia, in Oceania, nell’America meridionale ed anche, se ne sperano bene, nei poli nord e sud. Il rischio può essere calcolato; e nessuno rimpiangerà perdite e profitti degli avventurosi.

 

 

Talun paese ad alto livello di reddito medio – nel novero figurano soltanto gli Stati uniti ed, a distanza, fra i non minimi l’Inghilterra e la Germania – possono concedersi il lusso di iscrivere in bilancio le somme occorrenti per pagare il ricatto di Nasser e dei suoi accoliti.

 

 

Gli Stati uniti, dopo avere correttamente rifiutato di fornire, senza alcuna garanzia ed a fondo perduto, i capitali occorrenti alla costruzione della diga di Assuan, possono decidere di tentare, non forse di costruire dighe a vantaggio del popolo egiziano, sì di tenere provvisoriamente quieto il dittatore. Noi non possiamo compiere un calcolo politico nemmeno lontanamente paragonabile. Qualunque sottrazione ad opera di enti statali o semistatali dal limitato nostro risparmio allo scopo di conseguire nel vasto mondo illusori vantaggi politico – economici, sarebbe un delitto contro un paese assetato di ogni più piccola briciola del risparmio nuovo, che così stentatamente si sta producendo dagli italiani.

 

 

Lo stato, sinché piatisce e non avrà rimborsato i prestiti stranieri ottenuti in passato, ed anche dopo, non può né direttamente né per interposta persona far correre agli italiani alcun siffatto rischio.

 

 

In materie economiche, il comandamento primo è quello stesso che si impone nelle materie spirituali. Così come l’uomo libero non concepisce alcun limite alla predicazione della fede religiosa, salvo quelli che sono dettati dalla convivenza degli uomini in società; così come egli non può riconoscere alcun privilegio allo stato, alla chiesa od a privati nell’insegnamento della verità e non riconosce alcun valore alle stampiglie ufficiali apposte ai certificati di studio, così egli non può riconoscere alcun privilegio economico a danno della uguale libertà per tutti di lavorare, di intraprendere, di risparmiare. Liberalismo non vuol dire assenza di vincoli statali, di norme coattive. Dovrebbe oramai essere inutile ripetere ancora una volta che il “liberismo economico”, così come è comunemente ossia volgarmente ripetuto, è un buffo fantoccio, che nessun economista – non dico della categoria pantaleoniana di coloro che “la sanno”, che sanno cioè, s’intende, la economia politica e, sapendola sanno di non conoscerne se non una piccola parte e per tutto il resto conoscono la loro ignoranza – nessun economista di quelli che hanno anche soltanto una certa intuizione del contenuto e dei limiti della disciplina da essi coltivata, ha mai fatto proprio. Il liberismo economico è una invenzione sfacciata dei socialisti, dei dirigisti, degli interventisti; e il comandamento del laissez faire, laissez passer ha un contenuto limitato, proprio di taluni circoscritti campi dell’operare umano. Ciò fu detto, ridetto, ripetuto le infinite volte, fino alla nausea. Non giova; ché ad ogni volta sui giornali, in parlamento, nelle adunanze e nei comizi, il solito innocente, giovane o anziano o vecchio, ripete, a guisa di pappagallo, il ritornello del liberale il quale ignora lo stato, il quale perciò è antiquato, superato, superstite di secoli defunti, ripetitore di formule che hanno fatto il loro tempo. Il pappagallo innocente non si accorge che il superato, l’antiquato, il superstite, il ripetitore di vecchie formule è lui, che non ha imparato quel che tutti sanno: la linea di distinzione doversi porre non fra chi vuole e chi non vuole l’intervento dello stato nelle cose economiche; ma tra chi vuole un certo tipo di intervento e chi vuole un altro tipo. Quel che l’uomo libero non vuole è di essere preso per il naso da taluni uomini, i quali, per via di elezioni od in altre maniere sono i padroni della macchina statale e perciò da sé si definiscono “lo stato” e di vedersi insegnare da costoro, i quali certamente, in quello specifico punto, ne sanno meno di lui, in qual modo egli deve gestire la sua impresa, seminare i suoi campi, vendere a tale prezzo, associarsi con Caio e Sempronio per produrre meglio, comprare gli strumenti, le macchine, le sementi di cui ha bisogno in paese o, se gli converrebbe comprar fuori, acquistare tanto e non più, a prezzo cresciuto di tanto ecc. ecc. Coloro i quali dicono di essere lo stato si accorgono in un certo momento che di frumento se ne produce troppo: 100 milioni di quintali, invece degli 85 che basterebbero e subito consigliano e pretenderebbero comandare: restringete – oggi dicono: ridimensionate, con parola che dice male lo stesso concetto – la cultura del frumento; fate i buoni cittadini, ché altrimenti lo stato (qui i governanti scompaiono e se ne lavano le mani perché lo scotto lo devono pagare i contribuenti) il quale ha già 25 milioni di quintali di frumento nel gobbo, sarà costretto ad acquistarne quest’anno altri 15 per salvare i cerealicultori dalla rovina dei prezzi bassi ed il disavanzo non scomparirà più e farete una ferita certa alla sanità della lira. Si guardano bene costoro dal fare l’unica cosa che sarebbe efficace: non occuparsi del prezzo del frumento e lasciare che questo vada per la sua strada. Misericordia!, succederebbe il caos: agitazioni di cerealicultori, dimostrazioni, baccano, elezioni andate a male. Perciò il prezzo discenda pure un po’; ma con buona grazia, per esempio a 6.200 lire. Accade, che, essendo quel prezzo indifferente a molti, i quali coltivano frumento per mangiarselo e dare le farinette e la crusca alle bestie da allievo, e remunerativo per molti altri, l’anno venturo, perfezionandosi i metodi di coltivazione e riducendosi con le macchine i costi, i quintali prodotti rimarranno a 100 milioni o forse cresceranno. Se domani, come può capitare, si produrrà troppa uva ed i prezzi del vino caleranno, ecco i soliti sopracciò vestiti dei panni del cosidetto stato, insegneranno e forse ordineranno di spiantar viti in pianura, dove si produce vino di bassa gradazione, il quale fa ribassare il prezzo del vino buono delle colline; e, con qualche abbuono di imposta allo spirito di vino, faranno pagare il vino andato a male al solito pantalone, chiamato a sobbarcarsi a qualche imposta in sostituzione della minor resa dell’imposta sugli spiriti.

 

 

Vale la pena di ripetere che all’uomo amante di libertà siffatte maniere di intervento dello stato danno gran noia, perché inefficaci e dannose ai cerealicultori ed ai viticultori; e che costui predilige altra specie di intervento dello stato, più indiretta, più difficile, ma più efficace. L’uomo libero vuole che lo stato intervenga, così come sono sempre intervenuti i legislatori saggi di tutti i tempi e di tutti i paesi. Forseché i codici del diritto privato non danno da millenni norme alle quali i cittadini si devono attenere nelle loro transazioni civili e commerciali, nella loro vita familiare (matrimoni, paternità, filiazione e relativi doveri)? Lo stato interviene per fissare le norme di cornice entro le quali le azioni degli uomini possono liberamente muoversi; non ordina come gli uomini debbono comportarsi nella loro condotta quotidiana.

 

 

Per non parlare solo sulle generali, si assuma il caso dei monopoli. Se accada che un gruppo di produttori diventi padrone del mercato e fissi prezzi diversi e maggiori di quelli che sarebbero di concorrenza, l’uomo dirigista subito gioisce e pensa che la via buona sia quella di trasformare il monopolio privato in pubblico o semipubblico o, se lasciato ai privati, in qualche modo regolato o disciplinato dallo stato. Per cominciare, va benissimo il “disciplinato”; ché altrimenti si cade dalla libertà vera nella licenza, nell’anarchia, nel disordine della concorrenza. Così nascono in Italia le varie discipline che regolano gli zolfi, la carta da giornali, gli zolfanelli, il riso, il frumento, la canapa, ecc. ecc. I prezzi non saranno più fissati, da monopolisti privati a loro piacimento, con diritto di taglia sui consumatori. Provvederà un comitato di tecnici, di uomini scelti da una pubblica autorità per le loro qualità di perizia e di imparzialità; e fatti i conti dei costi di produzione, il comitato fisserà prezzi “equi” per tutti: produttori, consumatori e spettatori. Va a finire che, non si sa come, se i prezzi non sono calcolati bene, nascono perdite che, naturalmente, sono accollate allo stato. Non fa sempre d’uopo che le perdite siano visibili; ché i conti delle imprese collegate in gruppi statali si confondono; ed i guadagni dell’una compensano le perdite dell’altra; ovvero lo stato non riceve i redditi che sarebbero suoi e questi sono devoluti alle urgenze di investimenti, che paiono ottenuti senza sacrificio del tesoro; ma il tesoro non aveva ricevuto quel che altrimenti gli sarebbe spettato.

 

 

L’uomo libero o liberale non pensa che la sostituzione del monopolio pubblico a quello privato sia un bel modo di risolvere il problema vero, che è quello del cancellare o ridurre la forza del monopolio; e, convinto della difficoltà di “risolvere” un problema che da millenni tormenta i legislatori, non trova malvagia l’idea di affrontarlo sotto specie diverse, a pezzi e bocconi.

 

 

E chiede: non sarebbe opportuno prima “conoscere” quel problema che si vuol risolvere? Di qui la richiesta di fare obbligo alle società anonime per azioni, in accomandita, cooperative, agli enti economici, privati o pubblici, statali e parastatali di includere nei loro bilanci e rendiconti contabili, o qualsiasi sia la denominazione dei documenti, dati siffatti da rendere possibile a chiunque lo desideri, farsi un’opinione abbastanza esatta degli affari della società od ente e dei loro rapporti con altre società od enti, con lo stato, con i clienti, con i consumatori. L’elenco dei dati di cui dovrebbe essere obbligatorio dar pubblica notizia probabilmente varia da industria ad industria, da banca a banca, da un tipo all’altro di veste giuridica assunto dall’ente ecc. Se non ricordo male, l’amico Tremelloni, in queste cose diligentissimo, deve essere riuscito a bandire un concorso per modelli chiaramente informativi di bilanci di società; e la formulazione di norme legislative dovrebbe giovarsi degli studi all’uopo condotti in Italia e fuori. Talune notizie non dovrebbero mai far difetto:

 

 

  • elenco dei titoli, azioni, obbligazioni di qualunque specie posseduti dall’ente all’inizio ed alla fine dell’anno; con la indicazione, alle date prescritte, del numero, del prezzo di acquisto, del valore nominale, del valore di inventario, del prezzo di realizzo di ogni singolo titolo;
  • l’elenco delle partecipazioni ad ogni altro ente economico, con la indicazione del tipo della partecipazione, della somma investita, di quella di inventario ecc. ecc.;
  • l’indicazione all’attivo, delle somme investite originariamente, alle date relative, in terreni, fabbricati, impianti fissi, macchinari, utensili e di quanto appartiene al capitale immobilizzato nell’impresa;
  • la indicazione al passivo degli ammortamenti eseguiti nei successivi anni sulle partite diverse dell’attivo; cosicché sia possibile calcolare il valore residuo di inventario al principio e alla fine dell’anno in corso;
  • la indicazione delle posizioni creditorie e debitorie dell’ente verso ogni altro ente con cui esso intrattenga rapporti di affari;
  • la compilazione di un bilancio consolidato al nome dell’ente capo gruppo; cosicché sia chiara la situazione d’insieme dell’ente capo gruppo e di tutte le società ed enti che sono a quello affiliati o da esso dipendenti.

 

 

Qui non finiscono le notizie delle quali si può richiedere ragionevolmente pubblica comunicazione. Esistono oramai uomini periti ed enti specializzati atti a compilare, distintamente per ogni tipo di impresa, uno schema di disegno di legge, siffattamente particolareggiato da non consentire alcuna via di sfuggire all’occhio dell’indagatore deciso a conoscere.

 

 

A che prò tutto ciò in punto di lotta contro i monopoli? Come si può farne a meno, se davvero non si vuol combattere contro i mulini a vento? Da millenni, dal diritto romano a quello medioevale si scrivono nelle leggi anatemi contro i monopoli, contro gli accaparratori della terra, del frumento, del pane, del vino; e tutti gli scolari del ginnasio sanno che nel ducato di Milano i governatori spagnuoli avevano l’abitudine di ripetere minacce terribili di galera e di impiccagione, previo squartamento, ai colpevoli di sì abbominevoli delitti. Gli scolari sanno anche che le minacce avevano il solo risultato di crescere la mole del gridario di manzoniana memoria e nulla più. Se oggi negli Stati uniti le norme antimonopolistiche della legge Sherman sono meglio applicate delle grida spagnuole, ciò è dovuto in notabile parte alle istruttorie diligentissime ed alle procedure giudiziarie che possono essere condotte sul fondamento delle notizie che società ed enti devono approntare e comunicare in virtù di leggi federali e statali, di regolamenti di borsa e di istruzioni delle commissioni sul commercio interstatale e del consiglio della riserva federale. Se monopoli od oligopoli sono vietati dalla legge e la violazione del divieto è punibile, il giudice deve poter conoscere il fatto per applicare le sanzioni; ché altrimenti si cadrebbe nell’arbitrio amministrativo.

 

 

Oltrecché conoscere il reato, il giudice non deve trovarsi dinnanzi al fatto, che sarebbe vietato, ma non può essere punito perché il fatto è stato voluto dal legislatore. La seconda maniera di combattere il monopolio è dunque di “non crearlo”. Immagino che, se rinvangassi cose mie scritte in passato, potrei affermare che da oltre mezzo secolo ripeto vanamente la stessa solfa che il più dei monopoli o monopoloidi o polipoli ecc. ecc. sono di voluta creazione diretta ed indiretta del legislatore; e che se non si vuole l’effetto (monopolio) non si deve volere la causa (la legge). Essere mera ipocrisia invocare e fabbricare grida contro i monopolisti, quando essi sono stati espressamente voluti dal legislatore. I viticultori strillano contro il caro prezzo dello zolfo? Perché non ricordano che la legge, creando il sindacato obbligatorio dello zolfo, vieta ai consumatori di rifornirsi nella Luisiana e nel Texas, dove pare lo zolfo venga su, con poca spesa, da sottoterra quasi da sé bell’e liquido, semplicemente soffiandovi dentro acqua bollente? Il monopolio obbligatorio dello zolfo si spiega con il desiderio di non lasciar chiudere le miniere e privare di lavoro qualche migliaio di minatori siciliani. La spiegazione sarà buona o cattiva; ma chiarisce l’ipocrisia del gridare contro il monopolio dello zolfo, che fu volutamente creato dallo stato.

 

 

La necessità di venire in aiuto ai miseri non spiega il monopolio del metano (e, per quel che si cerca e trova, del petrolio) concesso ad una filiale dell’E.N.I. per la valle padana. Il metano non si produce in perdita, come lo zolfo, anzi il prezzo pare lasci – e lasci correttamente al punto di vista economico – un amplissimo margine al produttore. Chi invocasse sanzioni contro il monopolista perderebbe il tempo, perché e finché il monopolio è scritto nella legge istitutiva dell’ente nazionale idrocarburi (E.N.I.).

 

 

Per lo più, la volontà del legislatore creatrice di monopoli non è così chiara come per lo zolfo siciliano e per il metano della val padana; tuttavia, nonostante la via traversa prescelta, sulla volontà non v’ha dubbio. Se le vetture automobili e gli autocarri sono colpiti da dazi stravagantemente alti in confronto alla media altezza dei dazi italiani; se, nonostante le cosidette liberalizzazioni, i permessi di importazione di vetture estere e di impianto di succursali di fabbriche concorrenti straniere sono concessi con parsimonia; e se, per conseguenza, i prezzi interni italiani sono, a parità di prodotto, più alti di quelli esteri e perciò sono inficiati di monopolismo, a che prò farne la colpa al monopolista o ai polimonopolisti? La responsabilità è tutta di chi volle la quasi chiusura del mercato nazionale, ossia del legislatore; sicché bastò l’avvicinarsi della riduzione del 10 per cento sui dazi e del 20 per cento dei contingenti a causa della prossima entrata in vigore del mercato comune, perché fossero annunciate riduzioni apprezzabili di prezzo di tutto ciò che è automobile.

 

 

Fin qui, la lotta contro i monopoli è un mero problema di volontà di chi fa le leggi. Conoscere non è certamente cosa facile; ma se la legge prescrive che società ed enti debbano scrivere nei loro bilanci tali e tali altre notizie precise, e siffatte notizie non sono palesate al pubblico, la violazione del comando non è soggetta a dubbio. Il funzionario del servizio competente – e sarebbe bene costui appartenesse al ministero il quale provvede alla preparazione ed all’osservanza delle leggi, e cioè il ministero della giustizia – non potrebbe tardare a denunciare il fatto alla procura della repubblica e questo ad iniziare procedura dinnanzi alle corti giudiziarie.

 

 

Parimenti, per quanto tocca la seconda maniera di lotta contro i monopoli, che è la non creazione, la difficoltà sta nel contrasto fra le velleità dei politici e la loro volontà. La velleità generica di lottare contro i monopoli ci sarebbe; manca la volontà di resistere alle pressioni degli interessati, i quali vogliono la conservazione delle norme favorevoli ai monopoli privati presenti e futuri.

 

 

Vane sono le declamazioni. Se non si è decisi a ridurre sul serio i dazi doganali esistenti, se non si vogliono abolire del tutto i contingenti ed i vincoli alle importazioni, in virtù e al di là del mercato comune; se le riduzioni e le abolizioni non sono estese automaticamente dall’area dell’OECE agli Stati uniti, ai paesi facenti parte dell’area del dollaro, della sterlina, ecc. ecc.; se ad ogni momento si creano o si tenta di creare nuovi vincoli e nuovi privilegi, ad esempio l’allungamento del tempo di vita dei brevetti industriali; se non si cessa di istituire ogni giorno nuovi enti privilegiati in cose economiche e non si aboliscono sul serio quelli esistenti, le affermazioni scritte nei programmi di questo o quel partito di essere decisi a partire in guerra contro i monopoli, sono mere ipocrisie sfacciatamente consapevoli di essere tali.

 

 

Dovrebbero essere pronti a passare dalla velleità alla volontà di lotta i commercianti ed i loro dipendenti, interessati in modo chiarissimo alla libertà del commercio ed alla abolizione dei vincoli al movimento delle cose e delle persone. Ahimé! ché il solo buon tentativo (purtroppo già mandato a picco dal parlamento) compiuto dal governo attuale di fare un passo sulla via della abolizione dei monopoli, che fu la abolizione del privilegio dei comuni di istituire mercati generali, fu accolto assai tiepidamente dal ceto commerciale. La grandissima maggioranza dei commercianti, ossia venditori al minuto, vide, nella abolizione del privilegio dei grossisti annidati, in virtù della scarsità delle licenze distribuite nei mercati generali dai comuni, il pericolo della abolizione altresì del sistema delle licenze per l’esercizio del commercio al minuto. Sinché la confederazione del commercio, e le analoghe organizzazioni di coloro che trasportano e vendono al pubblico, difenderanno il metodo delle licenze commerciali, vano è sperare che da quella parte possa partire, come pur sarebbe nel suo evidente interesse, una campagna per l’abolizione dei monopoli.

 

 

Per quant’è all’agricoltura ed all’industria, è più evidente l’ipocrisia dei datori di lavoro o quella dei lavoratori? Ho l’impressione che in Italia il problema non sia chiaramente veduto. Altrove, nei paesi anglosassoni e sovratutto in Inghilterra, la responsabilità dell’aumento del costo della vita, il che pare sia sinonimo del deprezzamento della unità monetaria, è di giorno in giorno vieppiù accollata alla politica delle organizzazioni operaie. Sino agli ultimi mesi, i ceti politici, conservatori e laburisti, parevano rassegnati alle richieste periodiche di aumenti di salari e di stipendi proporzionati all’incirca all’aumento del costo della vita; e poiché l’aumento medesimo non ha un rapporto necessario con l’aumento nella produttività netta del fattore lavoro, accadeva di fatto che se quella produttività aumentava ogni anno, ad ipotesi, del 3 per cento e il costo della vita invece del 5 per cento, il rialzo dei salari nella misura del 5 per cento voleva necessariamente dire spinta all’inflazione sino al valore della differenza fra 5 e 3 per cento. Di qui l’aumento progressivo del costo della vita ed in genere dei prezzi al minuto, che sono quelli che contano, del 2 per cento circa ad anno. Nel secondo semestre del 1958 il governo per le imprese nazionalizzate e gli imprenditori privati per le imprese libere hanno cominciato a puntare i piedi. Studiosi e politici hanno indicata, nella azione delle leghe operaie di chiedere regolarmente rialzi di salario al di là del limite della cresciuta produttività del lavoro, la causa, se non unica, fondamentale dell’inflazione, ossia della degradazione progressiva dell’unità monetaria. Qua e là si ebbe qualche decisione favorevole alla tesi sensata che alle variazioni all’insù dei salari dovesse porsi il limite di una equivalente variazione della produttività del lavoro; e nei congressi annui, sia delle trade-unions (sindacati dei lavoratori) sia del partito laburista, voci vigorose si fecero sentire per richiamare alla ragione ed al buon senso gli uomini responsabili della politica economica di parte operaia.

 

 

In Italia, il problema non è chiaramente né veduto né agitato. Il principio della scala mobile fa credere che il problema delle variazioni del salario sia razionalmente risoluto; laddove invece, essendo il principio in contrasto con la realtà, ché i salari variano in funzione di molteplici fattori (produttività del lavoro, variazioni della tecnica, variazioni dei gusti dei consumatori, della domanda e della offerta del lavoro, scadenze delle variazioni), la scala mobile la quale li varia in funzione del costo della vita è un grossolano errore, il quale conduce dritti dritti alla svalutazione monetaria. La silenziosa connivenza fra datori di lavoro e lavoratori a danno della cosa pubblica è aggravata dall’adozione dell’altro principio, detto “sociale”, dello stato il quale “deve dare il buon esempio”. Di qui lo sganciamento delle imprese economiche statali, parastatali, pubbliche e semipubbliche dalle confederazioni dei datori detti privati di lavoro; di qui la costituzione del ministero delle partecipazioni statali, il cui compito principale pare sia stato quello, non impreveduto (vedi L’andazzo è agli sganciamenti, in dispensa seconda) di impedire ai disgraziati dirigenti delle imprese pubbliche di adattare il numero dei loro dipendenti alle esigenze tecniche ed economiche della impresa; cosicché, costrette a conservare anche quelli inutili, le imprese debbono rinunciare a guadagnare, ridurre gli ammortamenti e veder diminuire a poco a poco il capitale realmente esistente; finché il solito tesoro, ovverosia pantalone, sia chiamato a saldare il conto. Nel clima cosidetto sociale, che è in sostanza clima di distruzione del frutto del progresso tecnico ed economico, come si può sperare di ottenere qualcosa seguendo la seconda maniera di lotta contro i monopoli, che è la loro non – creazione? Gran mercé se non sarà aggravata la situazione attuale; e se, nonostante le regole del mercato comune, non si inventeranno congegni atti a consentire ai datori di lavoro, costretti dalla concorrenza delle imprese pubbliche, a trovar modo di farsi rimborsare dallo stato il “buon esempio”, che anch’essi dovranno dare in materia di “relazioni sociali”.

 

 

Dopodiché, auguro approdi a qualcosa la terza maniera di lottare contro i monopoli, che è di emanare norme giuridiche atte a definirli ed a limitarne o proibirne l’azione eventuale contro l’interesse pubblico; che è la maniera più difficile ad attuarsi, quella in cui l’Inghilterra muove ora i primi passi; quella nella quale negli Stati uniti un modesto grado di successo ha potuto arridere ai funzionari del dipartimento di giustizia ed alle corti giudiziarie per il numero relativamente scarso di monopoli effettivamente pericolosi esistenti in quel paese. Scarsi perché le dimensioni del mercato sono siffattamente ampie che i monopolisti non riescono, nonostante i dazi, a sopprimere del tutto la concorrenza; né i margini di lucro monopolistico possono essere allargati troppo, senza provocare l’entrata sul mercato di nuovi concorrenti. Sinché in Italia lo stato continuerà ad essere il maggiore tra i monopolisti ed a mantenere in vigore i vincoli che sono il terreno fecondo da cui traggono massimamente alimento i monopoli privati, le leggi anti-monopolistiche rimarranno scritte e non attuate. Forse, se una legge severa imponesse precise norme sulla pubblicità dei bilanci e conti, riusciremmo a conoscere qualcosa delle gesta dei monopolisti, che sarebbe risultato meraviglioso, e forse il solo che io possa avere la speranza, se la vita mi durerà, di vedere.

 

 

Le cose dette dianzi spiegano il limite entro il quale la difesa della unità monetaria, della lira italiana, è riuscita e riuscirà. Sinché il governo dell’istituto di emissione rimarrà nelle mani attuali – e sono mani fatte di dura fermezza, di perizia e di tatto – la lira sarà certo serbata alla pari di ogni altra più ferma moneta esistente al mondo, a cagion d’esempio, del franco svizzero o del dollaro americano.

 

 

È vano tuttavia sperare che un qualunque istituto di emissione possa difendere né la lira, né il franco svizzero, né il dollaro, né la sterlina al di là del punto consentito dalla volontà degli uomini oggi viventi nel mondo civile.

 

 

Dopo il 1914 a poco a poco gli uomini si sono dimenticati che la difesa della unità monetaria era un tempo poggiata sulla volontà di dio, ed hanno preferito poggiarla sulla volontà del principe. La “volontà di dio” in materia monetaria ha sempre avuto un significato convenzionale ed era la “volontà del caso”, quel caso che, dopo la rovina del mondo romano, per un millennio rende rari i ritrovamenti dei metalli preziosi; che li cresce improvvisamente, all’incirca dopo il 1550, per la scoperta dei tesori e delle miniere di oro e di argento del Messico e del Perù; che tace nuovamente per qualche secolo e poi manda venturieri a cercare e trovare oro in California ed in Australia verso il 1850; che, dopo un prolungato silenzio, annuncia qualche effimero ritrovamento nei deserti ghiacciati dell’Alaska e giacimenti amplissimi e duraturi nel Transvaal, ed ora, dicesi, in Siberia. La volontà di dio ovverosia del caso era per fermo instabile e capricciosa; sicché gli uomini, inquieti per variazioni della potenza di acquisto dell’oro, le quali giunsero in tempi brevi anche al 10-20 per cento e in periodi secolari anche al 100 per cento, dissero che l’unità oro era instabile e perciò cagione di sovvertimento sociale. Economisti andarono alla cerca di qualche unità più tranquilla dell’oro. Si pensò che il “principe”, che vuol dire il ceto dirigente monetario, formato di uomini sapienti ed imparziali, scelti per le loro attitudini tecniche e sottratti ad ogni pressione di parte, avrebbe saputo governare la moneta, in guisa che l’unità di essa, lira italiana, franco svizzero, dollaro, lira sterlina, conservasse di anno in anno invariata capacità di acquisto di beni e di servizi. Era manifesta in principio del secolo la preferenza degli uomini per le lire, i franchi, i dollari che non ingrossassero e non diminuissero. A prezzi in media costanti noi, rinunciando, dissero, al vantaggio dei prezzi ribassati ed evitando il danno dei prezzi crescenti, godremo, a prezzi costanti, dei risultati del progresso tecnico-economico. Rimanendo i prezzi costanti in media – una media fatta di alcuni beni divenuti più rari e costosi e di moltissimi prodotti a costi grandemente scemati grazie alla nuova tecnica – noi godremo gli effetti della abbondanza crescente di beni e servizi. Se la media dei prezzi avesse tendenza a diminuire lentamente, gli uomini godrebbero i vantaggi combinati di prezzi minori e di prodotti più abbondanti. Se, per serbare ai produttori un umore ottimista, fecondo di spinte ad investimenti, a invenzioni ed a iniziative, il “principe” operasse in modo che il livello generale dei prezzi e dei servizi continuamente e tenuissimamente aumentasse in tempo lungo, l’aumento dei prezzi dovrebbe superare quello della produttività per un margine così minuto da potersi dire evitato ogni pericolo di inflazione; ed anche un raddoppio dei prezzi in un secolo, pur producendo qualche buon effetto di ilarità, sfuggirebbe persino alla ordinaria capacità di misurazione degli uomini.

 

 

Ahimé! l’esperienza del tempo corso dopo il 1914 ha dimostrato quanto più imprevedibili e pericolosi siano gli effetti monetari della volontà del “principe” in confronto a quelli determinati dalla volontà di dio. Scoperta dell’America, galeoni spagnoli che trasportano in Europa oro e argento, assalto ai filoni auriferi della California e dell’Australia e poi dell’Alaska e del Transvaal fanno sì variare nei secoli la potenza d’acquisto dell’unità monetaria argentea ed aurea. Ai nostri occhi quelle di un tempo paiono oggi increspature impercettibili in un mare che i contemporanei giudicavano tempestoso: tra il 1870 ed il 1909 il livello dei prezzi all’ingrosso in Italia scese da 115 nel 1870-79 a 91 nel 1890-99 e risalì a 100 nel 1900-908. L’unità monetaria aurea è certamente pazza; perché nessuno può prevedere le sorprese che le viscere della terra preparano rispetto alla produzione dell’oro e quindi rispetto alle variazioni della potenza d’acquisto della unità monetaria aurea; ma in passato accadde che i capricci dell’oro riuscirono a far variare – e bisognarono le decine di anni all’uopo – il costo della vita del 10-20 per cento all’insù o del 10-20 per cento all’ingiù. Quando lo scudo od il marengo dei nostri padri perdeva il 20 per cento del suo valore1[2], pareva il finimondo. Nessuno si stupì dopo il 1914 quando si vide il pezzo di carta denominato dollaro perdere i due terzi del suo valore (per brevità indico con la parola “valore” la capacità del pezzo di carta denominato “un dollaro” ad acquistare merci o servizi), quella detta “lira sterlina” i tre quarti circa; la lira italiana ridursi all’ingrosso ad una trecentesima parte di quel che era; il fiorino austriaco a non si sa quanto, forse una milionesima parte, il marco tedesco a nulla. Quel mostro di stabilità che ha nome di franco svizzero non sfugge alla sorte comune di ridursi all’incirca ad un terzo di quel che era in principio del secolo. La volontà del principe si rivela assai più pazza di qualunque più estrosa volontà di dio, manifestantesi sotto le spoglie della pazzia aurea. Il “principe”, ossia il gruppo o ceto governante politico, fa o subisce le guerre e le rivoluzioni; stampa ieri carta per sostenere le guerre e domare o sostenere le rivoluzioni; stampa oggi carta per fare una politica che si dice sociale o del benessere, ed ha come contenuto il fare il passo più lungo della gamba e cioè spendere di più di quel che annualmente si produce, aumentare salari, stipendi e profitti in misura superiore a quel che di netto i consorti producono. Gran vanto – e giusto vanto – può menare quel “principe” il quale non si discosta dal saggio di svalutazione monetaria mediamente invalso nel mondo civile. Quel “principe” il quale, essendo il saggio medio annuo di svalutazione del 3 per cento, si tiene in Italia alquanto al di sotto di quel livello, è un portento; e fa d’uopo il paese se lo tenga carissimo.

 

 

La confusione delle lingue è giunta a tal punto, che si crede di parlare sul serio di stabilità della moneta, paragonando le variazioni di una di esse con altri pezzi di carta, che sono tutti convertibili in nient’altro che in se stessi e riposano tutti sullo stesso fondamento della volontà del principe di mantenere intatto il valore della moneta. Il paragone della lira italiana con il dollaro degli Stati uniti, con il franco svizzero, con la lira sterlina, con il marco tedesco, con il franco belga è un paragone con enti immaginari o di opinione e la stabilità dei loro saggi reciproci di conversione l’uno nell’altro vale in funzione dell’apprezzamento della volontà dei relativi “principi” o ceti dirigenti politici, le cui mutazioni sono imprevedibili.

 

 

Neppure vale il paragone con la unità monetaria tipica, con l’oro; ché oggi nessuno sa quale sia la potenza d’acquisto dell’oro. Oggi il rapporto fra l’oro ed il dollaro e quindi con tutti gli altri pezzi di carta, i quali si tengono alla pari col dollaro, è di 35 dollari per ogni oncia d’oro. Se tuttavia domani il “principe” decidesse negli Stati uniti di aumentare il rapporto da 35 a 70 ovvero ridurlo a 20 dollari per oncia, quello diventerebbe il valore in oro del dollaro. Sinché la Banca di riserva federale degli Stati uniti acquista o vende dollari dalle o alle altre banche centrali di emissione a 35 dollari per oncia, questo e non altro è il prezzo dell’oro: non può ribassare sotto 35 perché a quel prezzo la banca d’emissione americana acquista oro; non può rialzare perché a quel prezzo la banca vende. Alla stessa stregua perché il prezzo non dovrebbe essere 70 o 50 o 30 o 10 o quel qualunque prezzo il principe decidesse di fissare? Per ragioni diverse – delle quali due sono conosciute: il timore di dare l’avvio a qualche irrazionale e perciò imprevedibile terremoto nei prezzi ed il proposito dell’amministrazione negli Stati uniti di non fare un regalo gratuito alla Russia, alla quale si attribuiscono quantità non precisabili di oro da vendere, coll’acquistare il suo oro ad un prezzo superiore a 35 dollari per oncia – non è prevedibile il rapporto 35 ad 1 possa mutare.

 

 

L’uomo amante di libertà, posto nel mondo di matti ora descritto, nel quale tutti discutono sul valore della moneta, senza sapere altro se non che l’unità monetaria anche aurea, oggi è arbitrariamente fissata da una volontà inconoscibile e imprevedibile di uno fra i tanti “principi”, la cui sentenza è decisiva, può augurare, con scarsissima fiducia nell’avveramento dell’augurio, che i principi sappiano abdicare alla loro volontà e si sottomettano di nuovo alla volontà di dio, ossia alle mattie dell’oro, che sono sì mattie, ma di gran lunga meno imprevedibili e meno pericolose di quelle proprie dei ceti governanti. Ritorno all’oro vuol dire rinuncia a valutare d’impero, per atto di legislatori e per fatto di governanti, prezzi di beni e di servigi; vuol dire rinuncia a fabbricar pezzi di carta, detti unità monetaria, a libito dei reggitori degli stati; vuol dire rinuncia a spendere i danari dei contribuenti altrimenti che procacciandoseli con imposte e con prestiti volontari; vuol dire restituzione dei bilanci a sanità per il diniego posto ai governanti di manipolare imposte e spese surrettiziamente mercé variazioni nell’unità monetaria cartacea. La difesa della lira non vuol dire conservare invariato il rapporto della lira con la migliore tra le monete cosidette “forti”. A ciò bastano in ogni paese i governatori degli Istituti di emissione, decisi ad andarsene, dichiarandone pubblicamente il motivo, se ad essi pervenga da governanti ordine scritto – ché gli ordini verbali non contano – di far cosa contraria al mantenimento di quel rapporto. La difesa della lira per i liberali vuol dire qualcosa di più: vuol dire lotta intesa a sottrarre allo stato ed ai suoi reggitori il potere di avere una volontà in materia monetaria. Volontà del principe vuol dire tirannia, vuol dire oppressione dei cittadini, vuol dire tutto ciò che i liberali debbono negare.

 

 

Poiché discorro in questa medesima dispensa del problema delle autonomie regionali, ricordo soltanto la conclusione: le autonomie sono politicamente educative ed economicamente feconde se i cittadini delle regioni sono pronti a pagare essi il costo con imposte all’uopo nuovamente istituite, chiedendo allo stato unicamente di concorrere a coprire spese straordinarie ben definite di investimento; ed intendo per “investimento”, oltre a quelli compiuti a scopo economicamente redditizio, anche quelli il cui frutto sia immateriale, come l’edificio scolastico e la sua attrezzatura, od a lunghissima scadenza, come il rimboschimento e le bonifiche. Una regione, la quale ricorra allo stato per sopperire alle spese di amministrazione od a quelle correnti dei suoi compiti proprii, dichiara da se medesima la sua natura parassitaria e corruttrice.

 

 

Ho dichiarato troppe volte di essere fautore del collegio uninominale per poter tacere in proposito. L’ufficio dei parlamenti non è quello di consentire alle correnti e tendenze ideologiche di farsi conoscere. Bastano all’uopo le società di dibattito, i giornali, le riviste settimanali o periodiche, i comizi, le conferenze. I parlamenti sono creati per scegliere le vie dell’azione politica interna e internazionale, per esaminare i bilanci e i conti delle spese e delle imposte, per discutere e deliberare su disegni di legge, per esprimere dal proprio seno i governi. Importa a ciò non l’unanimità, propria dei paesi a regime tirannico; sì una maggioranza. Il sistema della rappresentazione proporzionale, favorendo il moltiplicarsi di piccoli gruppi, contrasta con la esigenza fondamentale di vita dello stato ed è perciò dannabile. Esso è altresì contennenda perché riduce a mera apparenza il dogma della sovranità popolare. Il dogma non ha alcuna virtù assiomatica, non poggia sull’evidenza della sua verità, non è suffragato da alcuna dimostrazione razionale. È un mito, il quale non ha in sé alcuna virtù maggiore di quelli che in passato furono suoi concorrenti: la grazia di dio, il privilegio della nascita, il diritto di conquista, il plebiscito ed altri che a loro tempo servirono abbastanza bene alla bisogna ed ebbero il consenso dei popoli. Il dogma della sovranità popolare ha sostituito gli altri, perché nessuno può dimostrare che, venuto meno il consenso ad altri dogmi, ad esso sia possibile sostituire dogma migliore. Quando apparve chiaro che il metodo di rompere le teste o di ridurle al silenzio con l’olio di ricino o con la tortura ed il carcere o la morte non era accettabile, il consenso generale si fece a prò del metodo di far votare le teste invece di spaccarle.

 

 

Il metodo di far votare le teste, che dicesi della sovranità popolare, va contro ad una grossa difficoltà ed è che se le teste non si mettono d’accordo prima, il voto è una farsa; e ciascuno votando a capriccio per se stesso, per il parente, per l’amico, per il compagno di lavoro, i voti necessariamente si disperdono ed il vero elettore è il caso fortuito.

 

 

Il metodo del caso fortuito, che può dirsi anche della estrazione a sorte, non sarebbe privo di pregi; fra i quali segnalato quello di essere imprevedibile e di non poter essere frutto di patteggiamenti e di corruzione. Nessuno però, salvo parzialmente e in certi tempi e paesi, ha applicato il metodo del caso fortuito nella chiara sua specie di estrazione a sorte.

 

 

Se votare si deve, occorre che l’elettore debba fare la scelta fra due o più candidati. Nel sistema della rappresentanza proporzionale, data la vastità delle circoscrizioni ed il numero notabile degli eligendi, date le candidature di dieci o venti o più persone, quasi sempre sconosciute ai più degli elettori, giocoforza è siano presentate da comitati di amici dei candidati, incaricati di scegliere gli uomini che, appartenendo alla medesima parte o fazione o credo politico, compongono una lista di nomi degna di essere contrapposta alle liste presentate da comitati o gruppi appartenenti ad un’altra parte o fazione politica. Nascono i partiti, i quali sono governati da una macchina così chiamata nei paesi anglosassoni – o da un apparato – questo è il nome italiano – ossia da coloro che si dedicano al mestiere di tenere insieme, tra una elezione e l’altra, gli elettori appartenenti alla medesima fede politica, di organizzare la propaganda, di sorvegliare la procedura elettorale contro gli eventuali soprusi od abusi degli opposti apparati.

 

 

Perciò è vero che non gli elettori scelgono tra i candidati; ma che essi non hanno libertà di scelta se non tra i candidati offerti dai comitati od apparati dei diversi partiti. L’elettore è libero di scegliere fra un partito e l’altro; non di scegliere gli uomini appartenenti al suo partito; ché per questi deve rassegnarsi a votare, tuttalpiù con qualche segno di preferenza, per gli uomini presentati dagli apparati o macchine di partito.

 

 

Perciò si dice ancora che i veri elettori dei parlamenti sono gli apparati dei varii partiti; e che gli eletti sono automi che, sotto pena di non essere più presentati alle elezioni successive, debbono comportarsi in parlamento come vogliono gli apparati. Quindi ancora si osserva che le leggi ed i governi non sono votati o scelti dai parlamenti; ma dagli apparati del partito o dai partiti di maggioranza.

 

 

Il metodo della rappresentanza proporzionale è indiziato come il grande colpevole in materia; per la vastità delle circoscrizioni elettorali, la quale riduce al minimo la conoscenza personale dell’eletto con l’elettore, per il predominio acquistato dagli apparati che formano le liste; e per la dipendenza finanziaria degli uomini appartenenti agli apparati locali dalla cassa centrale del partito, che sola è in grado di procacciare i milioni ed i miliardi indispensabili nella concorrenza fra i partiti. Cosicché il dogma della sovranità popolare al quale, ripeto, nessun altro migliore fu contrapposto sinora né probabilmente si scoprirà che possa essere contrapposto in avvenire, si riduce a far scegliere i parlamenti da un piccolo manipolo di membri dell’apparato centrale di ogni partito. Che è quella specie di selezione che dicesi democratica.

 

 

Il sistema uninominale, in virtù del quale per quasi due terzi di secolo furono scelti i deputati in Italia e ab immemorabile si scelsero e si scelgono i membri della camera dei comuni in Inghilterra, della camera dei rappresentanti e del senato negli Stati uniti, consente agli elettori di votare per “un” candidato in ognuno dei molti piccoli collegi nei quali è diviso il paese. Il vizio dei comitati od apparati che presentano il candidato agli elettori non è eliminato; ché gli elettori non sono, neanche nel piccolo collegio, in grado di scegliere da sé l’uomo da mandare in parlamento. Fa d’uopo che i candidati si presentino da sé o siano presentati da qualcuno, da un comitato od apparato o macchina. Data la imponenza delle spese che i candidati debbono sostenere, è fatale che una macchina esista e che questa influisca sulla scelta degli elettori. Alla necessità della macchina non sfugge perciò il collegio uninominale. Il male è tuttavia alquanto minore. Vi sono candidati che in una piccola circoscrizione hanno saputo farsi conoscere ed apprezzare; e che gli apparati non possono ignorare, sotto pena di perdere elettori. Vi sono candidati, i quali possono contribuire del proprio alle spese elettorali; ve ne sono che godono il favore di grossi sindacati operai, dalle cui file escono; ve ne sono che son gran parte di cooperative di consumo o di produzione, le quali hanno vasta clientela nel paese. Vi sono uomini che in politica hanno acquistato gran nome, talvolta anche al di là dei confini dello stato. Il piccolo collegio è orgoglioso di aver dato i natali all’uomo celebre o di averlo mandato la prima volta al parlamento, quando nessuno lo conosceva; e lo vota, con o senza il consenso dell’apparato.

 

 

Esistono dunque nel collegio uninominale alcune idee o forze o legami che attenuano l’impero degli apparati, dominante nel metodo della rappresentanza proporzionale. L’apparato del partito riesce ancora a far eleggere i più; ma al margine sopravvivono ancora alcuni indipendenti, i quali debbono l’elezione a se stessi od agli amici. Il numero dei “meno” è probabilmente più grande nel sistema del collegio uninominale che in quello opposto della rappresentanza proporzionale; ed è forse questo il suo pregio principale. Per fortuna, infatti, nelle cose politiche, come in tante altre, non prevalgono i più. Scriveva Giuseppe Giusti nel celebre sonetto:

 

 

Che i più tirano i meno è verità,
Posto che sia nei più senno e virtù;
Ma i meno, caro mio, tirano i più,
Se i più trattiene inerzia o asinità.

 

 

Sulla scena politica, è inevitabile che tra gli eletti dal suffragio universale i meno dominino i più.

 

 

Gaetano Mosca ha chiarito, due terzi di secolo or sono, che la classe politica è reclutata, in tutti i paesi, qualunque sia il sistema elettorale, fra uomini i quali hanno le qualità richieste a farne parte; qualità che sono parecchie e diverse: cultura generale e studi speciali nelle scienze politiche, economiche e sociali – e sembra giovi in particolar modo la preparazione forense, atta a far vedere i varii contrastanti aspetti dei fatti e dei provvedimenti; – l’appartenenza a ceti sociali influenti, ieri i ceti industriali e terrieri, oggi quelli dei lavoratori (tirocinio nelle associazioni o sindacati di mestiere; inclusi i sindacati professionali e di qui il numero notabile degli insegnanti elementari e medi, meglio organizzati e più numerosi degli insegnanti universitari); la carriera compiuta negli apparati dei partiti medesimi e nelle amministrazioni locali, di cui l’uno o l’altro partito ha la padronanza. Le qualità politiche sono diverse da quelle le quali determinano le scelte nelle altre occupazioni: agricole, industriali, commerciali, professionali, scolastiche, artistiche, di lavoro od impiego dipendente; ma in ogni branca la palma spetta a coloro che hanno meglio sviluppate le qualità proprie di quella branca. Tra coloro i quali posseggono le attitudini politiche ve n’ha di quelli che hanno accentuate le doti moralmente neutre o negative come l’astuzia, la furberia, l’intrigo, la volontà di sopravanzare i concorrenti; e ve n’ha che sono invece forniti di doti moralmente più alte: la devozione alla cosa pubblica, l’amore della patria, la giusta ambizione di lasciare ai figli un nome onorato, lo spirito di sacrificio, la capacità di comando.

 

 

Accade che su parecchie centinaia di parlamentari si distinguano alcune dozzine di uomini; ed a questi siano assegnate le cariche più ambite di ministri, sottosegretari, presidenti di assemblee o di commissioni legislative, relatori di disegni di legge importanti ecc. ecc.

 

 

Quale al riguardo la differenza fra il sistema elettorale proporzionale e quello uninominale? La proporzione di coloro che alle doti richieste agli uomini politici aggiungono quelle della indipendenza del pensiero e del carattere probabilmente è più alta nel sistema a collegio uninominale che in quello a sistema proporzionale; ché, per le cose dette, la forza dell’apparato o macchina di partito è nel collegio uninominale alquanto minore. Indipendenza o non conformismo di pensiero e di carattere in verità sono probabilmente dati negativi nel corso ordinario della vita dei popoli; sono tuttavia quelle dalle quali dipende la salvezza dei popoli medesimi nell’ora del pericolo; quando i furbi, gli astuti, i conformisti, gli amministratori meramente integri e capaci, i devoti al dovere scompaiono o non sanno prendere le decisioni supreme. Epperciò l’uomo amante di libertà non può rinunciare allo strumento, sebbene non sicuro, il quale si palesi atto a costruire un ceto politico nel quale non paia assurdo sperare abbiano luogo gli alcuni pochi uomini capaci, per indipendenza di pensiero e di carattere, di dire la parola e compiere l’azione necessaria alla persistenza della patria.

 

 



[1] Con il titolo Il problema religioso, vennero ristampate sul «Corriere della Sera», a. 84, n. 16, 18 gennaio 1959, p. 5, le pp. 382-392 di questo saggio. [ndr]

[2] Discorrendo del passato, suppongo si considerino soltanto le variazioni dovute al caso, ossia alle variazioni della produzione dei metalli preziosi (volontà di dio), facendo astrazione delle variazioni che, diversamente nei varii paesi, possono essere attribuite all’intervento, che anche allora talvolta si verificava (caratteristica la esperienza di John Law in Francia durante la reggenza) della volontà del principe. Sulle variazioni italiane della unità monetaria, veggasi ora il piccolo libro di CARLO M. CIPOLLA Le avventure della lira (Edizioni di Comunità, Milano 1958), piccolo ed aureo, nel quale sono chiarite le vicende della lira, da Carlomagno ai nostri tempi, di uno studioso che nel tempo stesso signoreggia le fonti e criticamente le interpreta.

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