Opera Omnia Luigi Einaudi

Conclusione L’attuazione della riforma tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1927

Conclusione

L’attuazione della riforma tributaria

La guerra e il sistema tributario italiano, Laterza Bari e Yale University Press, New Haven 1927, pp. 481-492

 

 

 

296. Variazione avvenuta nel carico tributario in Italia tra il 1914 ed il 1924 rispetto al reddito nazionale. – 297. Rispetto alla distribuzione tra le classi sociali, la sola variazione sostanziale sembra essere quella determinata dalle imposte straordinarie sul patrimonio e sui profitti di guerra. – 298. Le imposte straordinarie come strumento preparatorio del nuovo assetto tributario. Gli insuccessi fecondi degli sperimenti tributari occasionati dalla guerra. – 299. Ragione per cui il tentativo di applicare in tempo di guerra il sommo principio utilitario del sacrificio minimo non poté riuscire. Si riafferma, dopo il 1922, il principio «produttivistico» dell’imposta più adatta ai periodi lunghi in cui si deve ricostruire la fortuna del paese. – 300. Dalle invocazioni ai tribunali straordinari per l’accertamento delle imposte di guerra al rinnovato ossequio al principio smithiano della «certezza». Ritorna in onore il catasto e ridiventano di attualità i solenni insegnamenti di Carlo Cattaneo.

 

 

296. – Condotta a termine la narrazione dell’influenza che sulla struttura del sistema tributario italiano esercitò la guerra, sarebbe d’uopo chiarire quale sia stato il risultato ultimo della trasformazione avvenuta. I dati che si trovano a nostra disposizione non rappresentano tuttavia se non una realtà in divenire.

 

 

Gli effetti della iniziata trasformazione delle imposte dirette reali, dei migliorati accertamenti, della istituzione dell’imposta personale progressiva sul reddito e della abolizione dell’imposta successoria si faranno sentire compiutamente solo fra qualche anno, certamente non prima che parecchio tempo sia trascorso dal giorno della vittoria e dell’armistizio. Ma già si possono scorgere alcune grandi tendenze, caratteristiche della trasformazione avvenuta, anche attraverso alcune poche cifre riassuntive delle entrate tributarie dello Stato e degli enti locali.

 

 

 

ENTRATE TRIBUTARIE DELLO STATO

1913-1914

1923-1924

Fatte uguali a le entrate dell’anteguerra del 1923-1924 le entrate sommano a:

Imposte sui redditi e sui patrimoni

553.1

5.201.9

9.40

Imposte sui trasferimenti della ricchezza

278.7

2.785.4

9.99

Imposte sui consumi (di fabbricazione, dogane, e privative fiscali)

1.229.4

7.509.6

6.18

TOTALE

2.061.2

15.496.9

7.51

DELLE PROVINCIE

1914

1925

Sovrimposta terreni

73.2

352.6

4.81

Sovrimposta fabbricati

60.9

207.4

3.40

Imposta sui redditi industriali

40.8

Imposta di utenza stradale

22.4

TOTALE

134.1

623.2

4.64

DEI COMUNI

1912

1924

Imposte sui redditi

Sovrimposta sui terreni e sui fabbricati

194.4

991.5

5.14

Sovrimposta sulla ricch. mobile

46.4

Imposta di famiglia

35.6

284.1

7.98

Imposta sugli esercizi e rivend.

14.7

190.2

13.00

Imposta sul valor locativo

4.4

23.4

5.35

TOTALE

249.1

1.535.6

6.16

Imposte sui consumi

Dazio consumo

200.6

1.237.6

6.16

Tassa bestiame

20.5

157.6

7.69

Altre tasse

12.5

95.4

7.63

TOTALE

233.6

1.490.6

6.33

TOTALE

482.7

3.026.2

6.26

 

 

 

 

Il carico tributario degli italiani poteva, tenuto conto della difficoltà di paragonare le entrate di Stato (dati tratti dai consuntivi) con quelle delle provincie e dei comuni (dati presuntivi, riferiti ad esercizi differenti) essere stimato prima della guerra a 2.500 milioni di lire in cifra tonda; quello del 1923-1924 si aggirerebbe sui 19 miliardi, con tendenza ad avviarsi, come pare sia accaduto nel 1924-25, verso i 20 miliardi di lire. Se si pon mente alla mutata potenza di acquisto della lira, ridotta tra il 1924 e il 1925 ad un settimo della potenza antebellica, si può concludere che il carico tributario assoluto è aumentato soltanto da 2.5 a 2.9 miliardi di lire, ossia di qualche cosa meno di un sesto. Ma non pare che il reddito nazionale sia cresciuto nelle medesime proporzioni in cui progredì lo svilimento della lira e qualunque siano le ragioni del fatto, statisti insigni, i quali valutavano a 20 miliardi il reddito nazionale nel 1914, non reputano di potere giungere per il 1924 al di là dei 100 miliardi[1].

 

 

Sicché il rapporto tra l’imposta ed il reddito, che era del 12,50% nel 1914, sarebbe oggi cresciuto al 20 per cento.

 

 

297. – Su quali classi sociali gravò soprattutto l’aumentato onere tributario? Non sembra che sia variata apprezzabilmente la distribuzione del carico tributario degli enti locali. Rimane invariata la preferenza quasi esclusiva del sistema tributario provinciale per la ricchezza immobiliare, poca importanza avendo per ora l’imposta sui redditi industriali e quella sulle utenze stradali ed in non piccola parte sostituendo esse, con gli stessi contribuenti, l’abolita sovrimposta sui fabbricati industriali.

 

 

Nella finanza comunale, crebbero con lo stesso moto i due gruppi d’imposte sui redditi e sui consumi,; sicché non pare che quel qualunque rapporto, che innanzi alla guerra esisteva tra le imposte sulle classi e sulle masse, sia apprezzabilmente variato. Forse nel gruppo delle imposte sui redditi si è fatta qualche ragione alle antiche querele dei proprietari di terreni e di case, i quali lamentavano di essere fatti segno quasi soli all’incidenza delle imposte comunali; ed invero l’incremento proporzionale massimo si ebbe nell’imposta di esercizio e rivendita da 1 a 13; venendo subito dopo, con un incremento da 1 ad 8, l’imposta di famiglia che tende a colpire il complesso dei redditi del contribuente. Ma, ove pure si faccia astrazione da ciò che i redditi fondiari entrano in prevalenza a costituire il reddito complessivo tassato coll’imposta di famiglia, la sovrimposta sui terreni e sui fabbricati, tuttoché accresciuta in minor misura, rimase pur sempre facile princeps nell’assetto tributario comunale.

 

 

Più accentuata pare la mutazione avvenuta nel campo delle imposte statali; laddove il gettito delle imposte sui consumi si moltiplicò soltanto per 6, il coefficiente di aumento delle imposte sui redditi e sui trasferimenti della ricchezza sta tra il 9 ed il 10. Qualche ragione di dubitare della conclusione a cui per tal guisa si perverrebbe, si ha in ciò che poco meno dei due quinti del gettito dell’imposta sui redditi e sui patrimoni è fornito dalle imposte straordinarie e principalmente da quelle sui profitti di guerra e sul patrimonio che sono per loro indole temporanee. Se da queste si facesse astrazione, l’incremento delle imposte sui redditi e sulla ricchezza non sarebbe gran fatto diverso da quello sui consumi.

 

 

L’analisi fatta condurrebbe dunque alla conclusione che se, durante e per causa della guerra, fu mutata la distribuzione del carico tributario, l’unica sostanziale modificazione si ebbe con le imposte straordinarie intese in diversi modi a colpire gli arricchimenti di guerra ed a prelevare una decima sui patrimoni nuovi ed antichi. Cessate le imposte straordinarie si ritornerebbe all’antico, nessuna traccia rimanendo del grande sconvolgimento.

 

 

298. – La conchiusione non può essere accolta senza una sostanziale riserva. Noi non possiamo, nell’apprezzare l’importanza sociale del gettito delle imposte straordinarie, non ricordare che queste hanno soddisfatto soprattutto ad un compito preparatorio.

 

 

Nel tempo di passaggio dall’antica alla nuova finanza, importava possedere uno strumento di tassazione, che desse all’erario l’aiuto immediato di cui esso aveva necessità, senza pregiudicare l’assetto definitivo del sistema.

 

 

Le due imposte sui profitti di guerra (cap. quarto) e sul patrimonio (cap. quinto) insieme con le minori imposte sui profittatori della guerra (cap. terzo) furono questo strumento. Grossolano, spesso sperequato, non di rado incidente sui capitali antichi, anche quando intendeva di tassare soltanto gli arricchimenti di guerra; ma strumento fatalmente imposto, come a suo luogo si chiarì, dal ribollimento di passioni e di odi scatenato dalla rivoluzione monetaria verificatasi in occasione della guerra. Fin quando fu usato, quello strumento servì – non pare che il fatto sia controvertibile – a porre un carico differenziale d’imposta sulle classi ricche od arricchite. Frattanto si andava svolgendo quel movimento di riforma tributaria, che nel testo fu descritta ai capitoli sesto e settimo e che ha già dato alcuni frutti di carattere permanente e più ne darà in avvenire. Gli insuccessi medesimi della ricca esperienza tributaria di guerra hanno contribuito anch’essi a dare al presente ordinamento tributario un’impronta di maggiore potenza e giustizia.

 

 

Fu un insuccesso fecondo il tentativo d’istituire nuovi monopoli: sul caffè, sui surrogati del caffè, sul carbone, sullo zucchero e simili (par. 36 a 42). Insegnò che lo stato può perseguire, con la politica dei monopoli fiscali, scopi di socializzazione o di ordinamento burocratico della privata attività economica; non già locupletare l’erario con risultati uguali a quelli che si ottengono con i metodi tradizionali delle imposte di fabbricazione e delle dogane.

 

 

Fu parimenti vano il tentativo di inserire il principio della progressività sul vecchio ceppo delle imposte reali (par. 45,46 e 48).

 

 

Le tendenze piccolo-borghesi per tal modo venute alla luce si frantumarono dinanzi alla necessità di un ordinamento tributario inspirato ai concetti tradizionali della semplicità, della chiarezza e del rispetto alla parità di trattamento fra contribuenti posti in condizioni identiche.

 

 

Fu dimostrata l’inanità di creare nuovi nomi e doppioni di imposte esistenti, come di centesimo di guerra, di 5% dei fitti, d’imposta complementare sui redditi superiori a 10.000 lire e simiglianti (par. 46, 52 e 54); e fu aperta così la via al ritorno plaudito alla semplicità tributaria del primo decennio dell’unificazione italiana.

 

 

Se l’imposta straordinaria sul patrimonio e quella sui profittatori della guerra ebbero un utile ufficio transitorio, giova aggiungere che l’istituzione della prima dimostrò la difficoltà somma e si può dire la impossibilità di operare un taglio o leva sulla ricchezza privata e la necessaria trasformazione dell’idea grezza primitiva in un’imposta normale sul reddito dei capitali investiti (par. 141, 149 e 150); laddove l’operare pratico dei tributi sui profittatori della guerra mise in luce un’altra difficoltà gravissima, quella di distinguere tra reddito ordinario o normale ed ultrareddito o rendita, sicché l’imposta colpisca nell’ultrareddito soltanto quelle somme le quali non sono il compenso necessario del risparmio o dell’attività personale e possono essere avocate allo Stato senza pericolo per la produzione della ricchezza. Sebbene i postulati teorici della tassazione dei guadagni di congiuntura non si siano compiutamente avverati nelle imposte italiane sui profitti di guerra o sui compensi degli amministratori e dirigenti delle società commerciali, l’approssimata attuazione che di quei postulati si fece fu utilissima a chiarire come i confini tra reddito ordinario ed ultrareddito, fra reddito-costo e reddito-rendita siano indistinti e come sia agevole distruggere, pur mirando a scopi ben diversi, i moventi dell’azione economica.

 

 

Non tu risoluto il problema della tassazione dei salari operai, sebbene l’esperimento di tassare i militari non combattenti (par. 70) avesse dimostrato la possibilità di obbligare con aliquota mitissima i salariati a versare direttamente il tributo all’erario; e sebbene la via sia ormai tracciata con il metodo usato dall’on. De Stefani per i salari degli operai dipendenti dallo stato, dagli altri enti pubblici e dalle società od imprese sovvenzionate dallo stato (par. 255 a 259). I due esperimenti dimostrarono che la tassazione potrà essere generalizzata soltanto quando lasci immune un ragionevole reddito minimo, sia assai più tenue delle aliquote generali dell’imposta mobiliare e non soggiaccia al vizio dell’accertamento al nome dei datori di lavoro, ai quali l’esercizio della rivalsa è praticamente vietato.

 

 

Coll’abolizione dell’imposta sui sopraprezzi delle azioni fu eliminato un istituto che deviava l’attenzione dal problema ben più grave del metodo di tassazione del reddito mobiliare delle società per azioni. L’abbandono del criterio del reddito prodotto a favore di quello sul reddito distribuito, disposto dal disegno di legge Meda, ordinato dal decreto Tedesco, conservato nel disegno Soleri, (par. 187 a 189 e 215) non fu attuato sebbene ad esso si rivolgessero pur sempre le aspirazioni delle imprese societarie desiderose di semplicità e certezza nella determinazione dei redditi imponibili.

 

 

Parve impossibile superare le obbiezioni sorgenti dal pericolo di fraudolente manipolazioni dei bilanci operate allo scopo di rendere minimo il reddito distribuito e tassabile.

 

 

Fu affrontato il problema di assicurare alla tassazione i redditi dei titoli al portatore: problema capitalissimo, in un paese in cui i titoli al portatore sono prediletti dai risparmiatori, rispetto ai tributi personali progressivi sul reddito, sul patrimonio e sulle successioni. A lungo contrastarono il sistema della nominatività obbligatoria e quello della nominatività forzosa (par. 218 a 230); e pareva che, dopo un’apparente vittoria del principio della nominatività obbligatoria, rimanesse in campo il principio della nominatività forzosa ossia della libera scelta lasciata al contribuente tra i titoli nominativi e quelli al portatore, immuni tuttavia i primi e soggetti i secondi ad imposte differenziali. Ma l’abolizione dell’obbligo delle società di far godere i portatori dei titoli nominativi del vantaggio della minore imposta di negoziazione sui titoli medesimi in confronto a quelli al portatore (par. 230) e l’abolizione recente dell’imposta del 15% sui dividendi, interessi e premi dei titoli al portatore (par. 229, nota) hanno tolto ogni interesse dei portatori ad iscriverli al nome. Oggi, la finanza priva di quel sussidio che spontaneamente i contribuenti erano tentati a fornirle colla iscrizione dei titoli al nome per sfuggire a più gravose imposte all’origine, trovasi nuovamente disarmata dinanzi al problema dei redditi dei titoli al portatore.

 

 

Giova osservare che il problema non ha più quell’importanza che pareva dovesse assumere nell’indomani immediato della guerra, quando l’ondata sentimentale espropriatrice tendeva a sostituire in tutto all’imposte reali quelle personali e ad assoggettare queste ad una progressione vieppiù rapidamente confiscatrice. Abolita nel gruppo famigliare l’imposta successoria (par. 245), avviata alla sua eliminazione l’imposta straordinaria sul patrimonio (par. 171 a 174), unica imposta personale rimane quella complementare sul reddito.

 

 

299. – Non sarebbe tuttavia conforme a giustizia storica asserire che la guerra non abbia lasciato un solco profondo e fecondo nel sistema tributario italiano.

 

 

Riannodando la lunga disamina analitica fatta nel testo a famigliari concetti teorici si può dire che l’Italia ha compiuto durante la guerra e negli anni immediatamente successivi all’armistizio (1915-1920) un onesto tentativo di applicare il principio sommo utilitario del sacrificio minimo[2]. Secondo la regola del sacrificio minimo, i cittadini dovrebbero essere chiamati, in tempo di guerra, a dare allo Stato tutto quanto del reddito ecceda le più semplici necessità della vita, affinché lo Stato ottenga i mezzi materiali per la salvezza del paese. Quando gli uomini validi sacrificano eroicamente la vita, ben possono gli agiati ed i ricchi essere costretti a pagare imposte fortemente progressive, anzi livellatrici. Il sacrificio da essi sopportato sarà pur sempre un minimo, in confronto al sacrificio della vita dei soldati, alle ansie ed ai dolori degli orfani e delle vedove. Ed essendo il sacrificio temporaneo, per la sola durata della guerra, la livellazione dei redditi non può avere conseguenze economiche dannose, come si avrebbero se il principio dovesse essere durevolmente applicato anche in tempo di pace.

 

 

Ma il tentativo, tuttoché onesto ed inspirato ad una nobile idealità di sacrificio degli interessi individuali sull’altare della patria, non riuscì. Troppo era manchevole l’organizzazione di scoperta dei redditi perché il sacrificio potesse essere imposto a tutti con equità; troppo eccitate le passioni perché l’altezza delle imposte anche portata a massimi del 102,75% come quella sulle successioni o del 100% come quella sui sopraprofitti di guerra, o del 2,50% ad anno in ragione del capitale, come quella sui patrimoni, potesse soddisfare le cupidigie delle folle, eccitate dall’idea che esistessero ricchezze dormienti, atte ad essere distribuite tra i diseredati e tra i reduci della guerra. La ideologia distruttrice che in quel torno di tempo aveva portato alla occupazione delle fabbriche e delle terre, portò nel campo tributario all’avocazione totale dei profitti di guerra (par. 92) ed all’inasprimento progressivo delle imposte sulla successione (par. 232 a 244) e sui patrimoni (par. 150 a 165). Nel modo stesso come la marea montante sociale aveva dovuto recedere dinanzi alla dimostrata incapacità operaia di governare le fabbriche o contadina di conservare in assetto produttivo le terre, così dovette recedere la marea montante confiscatrice dei redditi e dei patrimoni privati a mezzo delle imposte. Dopo un momento di incertezza, ecco inaugurarsi un altro principio di distribuzione delle imposte che si può chiamare «produttivistico».

 

 

Laddove il principio del «sacrificio minimo» con la logica conseguenza della rapida progressività livellatrice è adatto ai periodi «brevi» della guerra, quando si può correttamente supporre che il flusso del reddito sia una quantità fissa, che il legislatore può attribuire alla finanza allo scopo di salvare il paese senza pericolo di distruggere la massa di ricchezza esistente e cancellare nei lavoratori e nei risparmiatori il movente dell’azione economica, Poiché unico movente «deve» nei frangenti di guerra essere il sacrificio individuale per la salvezza comune, il principio «produttivistico» proclama che nei periodi lunghi ed in quelli massimamente di una pace susseguente alla guerra la quale deve ricostruire le fortune economiche del paese, si lavora, si produce e si risparmia entro i limiti della convenienza e l’imposta quindi non può essere congegnata in modo da distruggere questa convenienza.

 

 

Il principio «produttivistico» parte dalla premessa che in un paese soprapopolato e soggetto ad un forte incremento di popolazione, come l’Italia, massa di ricchezza e flusso di reddito sono quantità troppo esili e precarie perché possano essere impunemente sottoposte ad una pressione troppo forte per il raggiungimento di scopi di giustizia sociale, di più ugualitaria distribuzione della ricchezza. Dovere le imposte essere congegnate in guisa da ridurre al minimo la loro pressione sui produttori, sì da crescere al massimo il flusso del reddito da distribuirsi fra capitalisti, proprietari, imprenditori e lavoratori.

 

 

Sono informati al principio produttivistico alcuni dei più caratteristici provvedimenti tributari degli anni posteriori al 1922; come la più volte menzionata abolizione dell’imposta successoria nel gruppo famigliare (par. 245), la riduzione delle aliquote statali e la semplificazione delle imposte dirette sui terreni (par. 265), sui fabbricati (par. 264) e sulla ricchezza mobile 261), la esclusione delle valutazioni presuntive del reddito soggetto all’imposta complementare ed il ritorno al criterio della certezza (par. 269); l’abbandono prima della nominatività obbligatoria e poi di quella forzata (par. 228 a 230); l’abolizione delle vessatorie imposte sul lusso e sulle diverse specie di consumi voluttuari e la sua sostituzione con un’imposta generale sugli scambi commerciali (par. 28) destinata a diventare potentissimo strumento per l’accertamento della cifra degli affari compiuti da industriali commercianti e quindi per l’introduzione del criterio della certezza anche nel campo finora riservato inviolabilmente alla opinabilità più arbitraria.

 

 

300. – Chi ricordi come nel 1919 e nel 1920 si sentissero voci auguranti la costituzione di tribunali straordinari statari, i quali sentenziassero rapidamente ed inappellabilmente, quasi a grido di popolo, sull’arricchimento dei profittatori della guerra e li condannassero, sotto minaccia del plotone di esecuzione, al pagamento immediato di imposte restitutrici, deve constatare che il ritorno alla regola smithiana della «certezza» è la novità più significante della finanza italiana più recente. Perché il principio della certezza trapassi compiutamente dalla parola scritta nella legge alla realtà vivente nella storia uopo è che si sottragga del tutto il giudizio sulle contese fra Stato e contribuente alle commissioni amministrative, sempre sospette di condiscendenza ai poteri politici e lo si affidi senz’altro a magistrature inamovibili. Primo inizio di vivo effettivo ritorno al principio della certezza, è il rinnovato omaggio all’istituto classicamente italiano del catasto. Questo che pareva destinato a scomparire a scadenza più o meno lunga nei progetti di riforma Meda, Tedesco e Soleri, rifiorisce di nuova vita nella legislazione De Stefani (par. 265 e 268). Catasto vuol dire imposizione del reddito medio teorico invece di quello individuale effettivo; del reddito ordinario invece di quello ottenuto in più o in meno grazie a straordinaria diligenza o a grave trascuranza. Catasto vuoi dire sostituire all’arbitrio della trattativa individuale la regola universale stabilita a traverso discussioni di periti. Per verità, il teorico più insigne del principio produttivistico fu in Italia Carlo Cattaneo, il quale dichiarando agli scienziati lombardi radunati a congresso a Milano nel 1844 le ragioni del fiorire della Lombardia (Notizie naturali e civili su la Lombardia, vol. primo, Milano, 1844, p. 95esimo), reputava precipua quella per cui la stima dei fondi era dal catasto fatta invariabile per lungo tempo, sicché «la famiglia che duplica il frutto dei suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d’imposte, alleggerisce di una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso carico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all’industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi l’ubertà di un campo, che possedere due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece si che col corso del tempo e coll’assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finché a poco a poco tutto il paese si rese capace di alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle barbare tasse che presso altre nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!».

 

 

Gli erramenti della finanza bellica non appariranno vani, se dai lor dannosi risultati saremo stati condotti a rimeditare la saggezza del più solenne insegnamento di pubblica finanza che l’Italia abbia mai dato al mondo!

 

 



[1] G. Mortara, Prospettive economiche, 1925, pag. 394.

[2] F. Y. Edgeworth, The pure theory of taxation in Papers relating to Political Economy, vol. secondo, pag. 107.

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