Opera Omnia Luigi Einaudi

Conseguenze economico sociali della guerra anglo boera

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/04/1900

Conseguenze economico sociali della guerra anglo boera

«Critica Sociale», 16 marzo 1900, pp. 84-86

 

 

 

Nella Critica Sociale del 16 febbraio sono esposte alcune considerazioni di Luigi Negro su La guerra anglo boera, le quali meritano un attento esame. Il Negro, partendo dalla premessa che lo sviluppo del capitalismo sia favorevole ai progressi del partito socialista, era tratto a discutere il quesito se lo scacco inglese sia per nuocere o giovare allo sviluppo del capitalismo nelle nazioni continentali. A me non importa ora esaminare la premessa relativa ai rapporti fra capitalismo e socialismo. Essa racchiude un problema molto complesso; forse più complesso di quanto si immaginino molti. Intendo ora soltanto vedere se la soluzione, che il Negro dà al quesito da lui posto, sia esatta, e se una disfatta inglese sia augurabile davvero allo scopo di promuovere il progresso cosidetto capitalistico degli altri paesi di Europa.

 

 

Il Negro afferma che la guerra transvaaliana è scoppiata per sfondare il vicolo cieco in cui sbocca la produzione inglese, per aprire all’industria inglese una via sicura ed un mercato proprio, esclusivo, difeso dalla concorrenza estera. Oramai la concorrenza internazionale minaccia di strappare all’Inghilterra il monopolio secolare della produzione e dei commerci; i Tedeschi portano le loro merci vittoriose sul suolo medesimo dell’Inghilterra e delle sue colonie. Occorre mettervi riparo.

 

 

L’imperialismo, avverte anche Ivanoe Bonomi nell’articolo che immediatamente precede del Negro, sta appunto trasformando i domini inglesi in un vastissimo mercato chiuso. Una enorme barriera doganale chiuderà l’impero, impedendo alle merci estere, francesi, americane, tedesche, italiane, di penetrarvi. Su questa vastissima distesa di territorio regnerà sovrana la grande industria inglese, la quale batte freneticamente le mani al suo eroe Chamberlain, poiché spera che, finita la guerra, essa potrà spadroneggiare da sola nel nuovo Impero anglo sassone. Essa riacquisterà quello slancio, che ora sembra smarrito di fronte alla invadente concorrenza estera. Una incessante fiumana d’oro scorrerà verso la ricca Albione, mentre la miseria e lo squallore si diffonderanno sul continente europeo. Un terribile marasma industriale e commerciale si ripercuoterà non solo sulla borghesia della restante Europa, scemandone i profitti, ostacolandovi lo sviluppo del capitalismo, ma anche sulla stessa classe operaia non inglese, minacciata di un’altra disoccupazione permanente e di salari di fame. Un’era di scioperi, di disoccupati, di miseria, ecco l’ultima parola del mantenimento della supremazia inglese sul mercato mondiale.

 

 

Non nego che il quadro della conseguenza di una vittoria inglese sul Transvaal sia splendido per l’Inghilterra e bruttissimo per noialtri continentali. Ma c’è molto da dubitare che le cose abbiano ad andare precisamente così. Esaminiamo partitamente le premesse da cui discendono le conclusioni del Negro.

 

 

In primo luogo da che cosa deriva «questo monopolio secolare, onde gode tuttora in parte l’industria inglese»? Alla domanda si possono dare due risposte, fondamentalmente diverse.

 

 

  1. Il monopolio attuale è il pallido riflesso del monopolio antico che l’Inghilterra conquistò durante secoli di protezione doganale. Rinchiusa nei suoi confini e protetta dalla concorrenza estera, l’Inghilterra sviluppò le sue industrie ad un grado di perfezione straordinaria, mentre le altre nazioni rimanevano nell’infanzia e nella miseria. Poi, quanto le sue industrie furono divenute grandi, e cogli Atti sulla navigazione furono distrutte le marinerie estere, l’Inghilterra proclamò il libero scambio ed inondò il mondo coi prodotti delle sue fabbriche, il cui capitale era già ammortizzato, e contro cui le giovani fabbriche europee non potevano lottare. Fu il periodo della massima potenza economica per l’Inghilterra, la quale, forte del suo monopolio, sfruttava i mercati esteri impoverendoli e riducendoli in istato quasi di vassallaggio. – La spiegazione non spiega nulla. La protezione doganale dei secoli scorsi impoverì forse l’Inghilterra, ma non cooperò niente affatto alla fioritura delle sue industrie, e ben altre cause dovuta. Chissà per quale misteriosa cagione le industrie si svilupparono nella protetta Inghilterra, e rimasero rachitiche nelle egualmente protette Francia, Germania, Italia, ecc.? Lo sviluppo delle industrie o, come si suol dire, del capitalismo non può ritenersi dovuto ad una causa la quale esisteva anche laddove non si produsse quell’effetto. Nei manuali di logica si dice effetto di una certa causa quel fenomeno che si manifesta sempre quando esiste il fenomeno detto causa. Nel caso nostro l’effetto(sviluppo del capitalismo) si sarebbe prodotto nell’Inghilterra e non negli altri paesi, malgrado che in tutti la medesima pretesa causa (protezione doganale) fosse presente, Il che prova, se non altro, che la protezione doganale ebbe ben poco a vedere col progresso economico dell’Inghilterra.

 

  1. Lo sviluppo economico dell’Inghilterra è palesemente dovuto alle condizioni naturali ed acquisite che favorirono e favoriscono tuttora, sebbene in grado relativamente minore, l’Inghilterra: esistenza di grandi giacimenti carboniferi, impulso allo sviluppo della marineria mercé i trasporti di carbone nel Northumberland a Londra (vivaio dei marinai inglesi) e mercé i moli di ritorno assicurati col carico di carbone in zavorre; vicinanza delle miniere di ferro alle miniere di carbone; spirito di libertà e di indipendenza del popolo inglese che lo rendeva insofferente del giogo e dei vincoli a cui i produttori continentali erano sottoposti; tranquillità del territorio immune da invasioni estere e da guerre civili; sicurezza e pace interna, che permisero la formazione del capitale ed assicurando la proprietà dei frutti del proprio lavoro, incitarono alla formazione di imprese ed alle invenzioni industriali, prolificità della popolazione che, espandendosi nelle colonie, diede origine e scambi proficui colla madre patria; spropositi dei Governi continentali che, col pretesto di favorirla, impoverirono la ricchezza nazionale ed impedirono lo sviluppo delle industrie che avrebbero potuto lottare colle industrie inglesi; abolizione del sistema antico dei soccorsi obbligatori a domicilio ai poveri, che avea finito per degradare la popolazione operaia inglese, inducendola a poltrire nell’ozio e nella sicurezza di potersi far mantenere dai poteri pubblici; libertà di coalizione e di sciopero, inesistenza del servizio militare, inesistenza della piccola proprietà, che favorirono la formazione di una classe operaia ardita, abile, intraprendente, abituata a fidare solo su sé stessa e non sulle eredità paterne e su appoggi di qualsiasi genere; mitezza e giustizia ognora crescente del sistema tributario, alimentazione a buon mercato grazie al sistema del libero scambio, ecc., ecc. Queste le cause più evidenti del cosidetto «monopolio industriale inglese».

 

 

In secondo luogo: è utile alle nazioni continentali che codesto monopolio scompaia?

 

 

Se si riflette che l’unico modo con cui il «monopolio inglese» può debellare la concorrenza continentale si è quello di vendere a miglior mercato, francamente noi dobbiamo augurarci che i continentali sappiano profittare delle condizioni loro naturali e sappiamo acquistare qualità tali da perfezionarsi sempre più nelle industrie, costringendo in tal modo il «monopolio inglese» se pure vuole conservare la sua supremazia, a perfezionarsi ancora di più. Questo è l’unico modo con cui è possibile sperare di fare star meglio le nostre classi operaie, la borghesia nostra, pure dando guadagni convenienti agli aborti inglesi. Io vorrei sapere quale è il danno per l’Italia se gli inglesi le vendono il panno a 5 lire al metro, mentre sul mercato interno si potrebbe comprarlo solo pagandolo 6 lire; e vorrei anche sapere qual è il danno degli operai italiani se gli operai inglesi, pure vendendo il panno a prezzo minore, riescono a guadagnare 5 scellini al giorno. Francamente non ne vedo nessuno.

 

 

Il Negro discorre dell’adunca e rapace mano del capitale britannico, che si stende sul profitto della borghesia straniera e sul salario del proletariato continentale, il quale vive rachitico, male rimunerato, votato alla disoccupazione crescente. Ora tutte queste reminiscenze, non so se il Marx o di Engels, sono, mi perdoni il Negro, chiacchiere senza costrutto. Prenda il Negro in mano il primo manuale, che gli capita, di Economia politica, e si persuaderà che gli operai ed i capitalisti inglesi guadagnando 5 scellini al giorno e profittando col vendere il panno a 5 lire al metro, non solo non rubano un centesimo a noialtri italiani, ma ci rendono un vero servizio da amici affezionati, inducendoci ad impiantare fabbriche di panno solo quando la forza motrice idraulica, le qualità acquisite della nostra maestranza, ecc., ci permettono di produrre anche noi il panno a 5 lire, e stimolando colla concorrenza a dedicare il capitale ed il lavoro nostri a produrre vino, o fiori, o agrumi, o ad esercire alberghi, od a fare insomma quel qualsiasi mestiere in cui noi riesciamo meglio. Si può dire, rovesciando la proposizione del Negro, che la concorrenza del monopolio inglese, è un coefficiente poderoso dello sviluppo industriale di ogni nazione ed è la genitrice di un proletariato organizzato e rimunerato con salari alti e normali; giacché, come dice benissimo il Negro, il salario può aumentare soltanto coll’aumento della ricchezza nazionale, e questa cresce quanto più capitale e lavoro si indirizzano agli impieghi più proficui; e ciò accade tanto più quanto meglio urge la concorrenza straniera e nel caso nostro la concorrenza del cosidetto «monopolio inglese».

 

 

Nulla importa che lo sviluppo industriale di tutti i paesi sia omogeneo, come vorrebbe il Negro; poiché in verità sembra molto difficile non solo dimostrare i benefici, ma persino definire il significato di questo «sviluppo omogeneo». Qualunque ne sia la ignota definizione, lo «sviluppo omogeneo» del capitalismo in tutti i paesi è il risultato della libera concorrenza, ed allora esso si attuerà meglio sotto l’impulso del buon mercato dei prodotti inglesi cosidetti monopolistici; od invece si può raggiungere soltanto distruggendo la concorrenza dell’adunco capitale britanno e proteggendo le industrie nazionali contro le sue nefaste inondazioni di merci a bassi prezzi, ed allora si può star sicuri che lo «sviluppo omogeneo» partorirà in definitiva danni e miseria alle nazioni da esso deliziate. La persistenza del cosidetto «monopolio inglese» non può avere altro effetto che questo: da incitare le nazioni continentali a raggiungere il più velocemente possibile quello stadio di sicurezza pubblica, di rispetto alla proprietà altrui, di utilizzazione razionale delle proprie energie naturali, di educazione operaia, di iniziativa intraprendente, che formano l’unica base su cui poggiamo i resti ancora esistenti del «monopolio inglese». In verità noi ci dobbiamo augurare che non solo l’Inghilterra conservi, ma che i continentali raggiungano ben presto questo preteso stadio «monopolistico».

 

 

In terzo luogo: è utile all’Inghilterra ed alle colonie rassodare il vacillante «monopolio inglese» esigendo attorno ai possedimenti della graziosa regina una barriera doganale contro tutte le provenienze estere?

 

 

Se l’esperienza storica servisse a qualcosa, essa basterebbe ad autorizzare una risposta negativa. L’Inghilterra e le colonie sono così convinte dell’utilità della federazione doganale pan britannica, che, quando Chamberlain, durante l’epoca del giubileo della regina Vittoria, propose uno schema analogo ai primi ministri delle colonie radunati a Londra, un’opposizione vivissima si manifestò nell’Inghilterra e nelle colonie, per modo che non si concluse nulla. E l’insuccesso delle proposte del Chamberlain non fu dovuto alla novità della cosa, ma alla convinzione che la federazione doganale era impossibile e dannosa.

 

 

Chi conosce i perniciosi effetti del sistema doganale dei secoli scorsi non ha bisogno di un lungo discorso. Per chi non lo conosce, ricorderò come la federazione mette un dazio differenziale sulle provenienze estere, dando così un vantaggio alle colonie nel fornire di grano, lane, cotone, riso, coloniali, ecc., ecc., il mercato della madrepatria; in contraccambio le colonie mettono pure un dazio differenziale sulle provenienze estere, in guisa da facilitare all’Inghilterra la fornitura dei tessuti, delle macchine, del carbone, ecc., ecc., alle sue colonie. Effetti di questi dazi differenziali sono l’incarimento del grano nell’Inghilterra, obbligata a provvedersene nelle Indie, mentre potrebbe comprarlo a minor prezzo nell’Argentina e negli Stati Uniti; diminuzione dei salari reali degli operai inglesi od aumento del costo di produzione dei tessuti e delle macchine, e perdita, in tal modo, del guadagno che la madrepatria potrebbe ricavare dallo smercio a condizione di monopolio nelle sue colonie, e del guadagno molto maggiore, che essa attualmente ricava sui mercati non coloniali. Non si può supporre che gli industriali inglesi siano così poco intelligenti da voler andare in rovina pel problematico vantaggio di ottenere un monopolio nelle colonie. E neppure si può supporre che le colonie, per vantaggio di potere vendere alquanto più caro il loro grano, la loro lana, ecc., sul mercato inglese si vogliano esporre a rappresaglie da parte dei Governi esteri e vogliano inoltre pagare più caro agli inglesi quei tessuti o quelle macchine che potrebbero comprare a minor prezzo in Germania o in Francia. Per l’Inghilterra la federazione doganale significherebbe l’abbandono degli attuali principii libero scambisti; e lo stesso lord Salisbury, grande proprietario interessato al dazio, almeno differenziale, sul grano estero, ha dovuto melanconicamente riconoscere che si trattava di una utopia irrealizzabile finché almeno industriali ed operai inglesi avranno la testa sul collo e continueranno a preferire di comprare il pane ad un penny di meno al chilo che non vendere i tessuti qualcosa di più per metro nelle colonie. Finché l’opinione pubblica sarà convinta che un dazio differenziale a favore delle colonie avrebbe per unico effetto di spostare e non di creare la ricchezza, si può essere sicuri che l’Inghilterra non abbandonerà la politica della porta aperta per tutte le merci di qualsiasi provenienza, coloniale ed estera. Per fortuna l’opinione pubblica inglese non sembra disposta a mutare tanto presto i suoi convincimenti.

 

 

Quanto alle colonie, la federazione doganale potrebbe voler dire non il rincrudimento dei dazi sulle provenienze estere (che abbiamo già dimostrato dannoso), ma l’abbassamento o fors’anche l’abolizione dei dazi sulle sole provenienze inglesi. In tal caso è evidente che, se le colonie si sono convinte delle necessità di abolire i dazi sulle merci inglesi, a maggior ragione dovranno essersi convinte della necessità di abolire anche i dazi sulle merci esistere per avere maggior libertà di scelta nelle loro compere e per non veder resa frustranea l’abolizione dei dazi sulle merci inglesi a causa del monopolio accordato ai fabbricanti della madre patria.

 

 

A me sembra di aver schiarito le ragioni per le quali non posso acconciarmi all’idea che una vittoria inglese avrebbe un risultato di spingere l’Inghilterra sulle vie di costituire un mercato monopolistico pan britannico cinto da una barriera doganale contro le provenienze estere; essa e le colonie ne ricaverebbero, non utile, ma danno. Lo stesso si dica nel caso che l’Inghilterra venga sconfitta. Non c’è nessun motivo per credere che essa voglia aggiungere ai disastri militari lo sproposito economico e politico di alienarsi l’animo delle colonie, imponendo loro un gravoso monopolio, che non riuscirebbe nemmeno beneficio alla madre patria.

 

 

Sembra dunque che – qualunque sia l’esito della guerra anglo boera e lasciando impregiudicate affatto le ragioni politiche, economiche, ecc., che militano a favore dei due combattenti – le classi operaie europee: 1. debbano augurarsi che si fortifichi ognora più il cosidetto «monopolio attuale inglese» fondato sul produrre e sul vendere a buon mercato; 2. possano essere sicure che l’Inghilterra con grande probabilità continuerà ad ascoltare la voce del suo interesse, la quale le impedisce di costituire la federazione doganale pan britannica, ossia un «monopolio vero» a danno proprio, delle colonie e delle altre nazioni europee.

 

 

Forse le conclusioni schematiche alle quali sono giunto meriterebbero di essere più largamente svolte e corroborate con altri e più numerosi dati di fatto e con più lunghi e convincenti ragionamenti. La natura polemica lunghi e convincenti ragionamenti. La natura polemica dell’articolo, e la brevità dall’indole della Critica Sociale, me lo hanno impedito, spero senza danno della chiarezza e della semplicità delle cose dette.

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