Opera Omnia Luigi Einaudi

Contribuente e reddito nei progetti di riforma tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 11/05/1910

Contribuente e reddito nei progetti di riforma tributaria

«Corriere della Sera», 11 maggio 1910

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 71-78

 

 

 

 

Nei disegni di riforma tributaria e specialmente di istituzione di una nuova imposta di famiglia o sul reddito che si susseguirono recentemente ad opera dei ministeri Giolitti e Sonnino, oltre a taluni caratteri secondari e quasi esteriori, destinati a cadere colla caduta dal potere di chi li aveva ideati, si potevano notare alcune idee prime, di quelle che uno scrittore francese chiamò idee forze, destinate a lasciare lunga traccia di sé a beneficio od a danno dell’economia del paese. Giova perciò, anche se i ministeri passano, analizzare quelle idee forze, in guisa che le buone siano sceverate dalle cattive e soltanto le prime possano tradursi in realtà. Poiché il discutere per via di dottrine generali è spesso vano, gioverà pigliar le mosse da esempi concreti, richiamando l’attenzione del lettore su due idee che erano fondamentali del disegno Sonnino di una nuova imposta di stato sul reddito, e dovranno per forza ritrovarsi in ogni altra consimile proposta: vogliamo accennare ai concetti del contribuente colpito dall’imposta e del reddito destinato ad essere tassato.

 

 

Chi era chiamato, innanzi tutto nel progetto Sonnino, a pagare l’imposta? Non l’individuo, ma la famiglia. Il progetto così definiva il contribuente alla nuova imposta: «Per famiglia s’intende il consorzio di persone unite da vincoli di parentela o di affinità o comunque associate, insieme conviventi ed aventi patrimonio unico, ovvero interessi, redditi o lucri comuni. Costituiscono peraltro famiglia anche gli individui che vivono soli o abitano in albergo o pensione o presso altra famiglia senza avere con essa vincolo di parentela o di affinità, né comunione di patrimonio o di interessi».

 

 

Si deve riconoscere che questa concezione del contribuente famiglia trova molti ed autorevoli precedenti nel sistema seguito oggidì dalle città italiane nell’imposizione della tassa comunale di famiglia ed in talune legislazioni estere, quale, ad esempio, la legge prussiana la quale aggiunge al reddito del padre di famiglia quello di tutti i membri con lui coabitanti. Forte si dubita tuttavia della correttezza del concetto del contribuente famiglia, sorto, si noti bene, in tempi in cui l’imposta era proporzionale ed era quindi indifferente che si facesse o non la somma dei redditi dei componenti i consorzi familiari, pagandosi sempre la medesima aliquota, qualunque fosse l’ammontare del reddito.

 

 

Intanto la sua applicazione non è scevra di difficoltà. La definizione sovra citata dice che le persone componenti la famiglia devono essere insieme conviventi ed avere patrimonio unico, ovvero interessi, redditi e lucri comuni. Quell’ed sarà cagione di controversie non lievi. Un padre di famiglia ha 5.000 lire di reddito proprio tratto da terreni; e convive col figlio, ammogliato, il quale dispone di un reddito professionale di altre 5.000 lire, mentre la moglie ha un reddito, pure professionale, di 2.000 lire. È un caso non infrequente ora e che tende a diventare sempre più frequente coll’aprirsi delle carriere liberali e degl’impieghi alle donne. Ecco tre persone, che insieme convivono, ma non hanno patrimonio unico, né redditi che possano essere chiamati comuni. Dovranno questi redditi essere tassati separatamente o congiuntamente? La questione è importante, perché, se sono tassati disgiuntamente, ad esempio, a Milano, la moglie non pagherà nulla, non superando il minimo di esenzione, mentre padre e figlio pagheranno l’1% dalle 2.000 alle 3.500 lire e il 2% dalle 3.500 alle 5.000 lire, ossia 45 lire per uno e 90 lire in tutto. Se tassati congiuntamente, il reddito globale diventa di lire 12.000 e paga l’1% dalle 2.000 alle 3.500 lire, e il 2% per il resto, ossia 185 lire, più del doppio che nell’interpretazione precedente.

 

 

Una famiglia operaia, in cui il padre guadagna 1.500 lire, la moglie 500 ed i due figli 800 lire a testa non paga nulla, se i membri della famiglia sono tassati disgiuntamente; paga invece, su 3.600 lire di reddito complessivo, 17 lire, se tassati congiuntamente. Insomma il concetto del contribuente famiglia par creato apposta per distruggere la esenzione concessa ai redditi piccoli e il mite trattamento dei redditi modesti, ogni volta che questi redditi sono goduti in comunità familiari o quasi familiari.

 

 

La ragione sostanziale per cui si vogliono riunire insieme i redditi di tutti i componenti la famiglia è questa: che un gruppo di tre persone, le quali godono complessivamente un reddito di 12.000 lire, vive meglio e più largamente delle stesse tre persone divise con i tre redditi di lire 5.000, 5.000 e 2.000 separatamente goduti. Il che è vero; ma è una circostanza della quale una imposta sul reddito non può tener conto, senza cadere in contraddizioni inestricabili. O che forse soltanto la famiglia vera e quella spuria della associazione di persone conviventi, assimilata dal disegno alla vera famiglia, sono un mezzo per minimizzare le spese della vita e trarre il massimo beneficio da una data somma di reddito? In realtà non esiste nessuna differenza sostanziale – s’intende dal punto di vista economico finanziario – tra il figlio che, avendo redditi propri, ricavati sia da una professione indipendente, sia dalla collaborazione nell’azienda paterna, sta a dozzina presso i genitori e l’altro che va in pensione presso estranei od all’albergo. In tutti e due i casi il figlio cerca di utilizzare nel modo migliore il suo reddito; e, non volendo o non potendo crearsi una famiglia propria, cerca di ridurre le spese, facendo vita parzialmente comune con altre persone. Ebbene, questi due casi sono trattati dal progetto ben diversamente. Se il figlio è per indole attaccato alla famiglia, il suo reddito è riunito con quello del padre, cosicché amendue insieme passano in una categoria più alta, colpita da una aliquota più forte. Se egli invece è insofferente dei vincoli familiari e preferisce la vita della pensione o dell’albergo, non solo padre e figlio sono tassati a parte, con tasse più lievi, ma uno di essi può aver la ventura di non pagare nulla affatto. Si direbbe che il legislatore voglia prestar la mano all’andazzo moderno, per cui si dissolvono le forti unità familiari e vi si sostituiscono le riunioni temporanee delle pensioni, alberghi e circoli.

 

 

Tutte queste incongruenze provengono dall’aver sostituito al concetto chiaro, semplice di contribuente persona, il concetto economicamente artificioso di contribuente famiglia. Siamo così arrivati all’enormità di considerare come un reddito unico quello che è un reddito di molte persone, che, per inclinazione o per accidente, convivono insieme. Dieci o cento persone vivono separate col loro reddito individuale di 2.000 lire a testa e non vengono tassate. Deliberano di vivere insieme, per raggiungere certi scopi familiari, sociali o religiosi, e subito sono tassate come una persona sola avente un reddito di 20.000 o di 200.000 lire e pagano le aliquote massime. Ciò potrà essere una buona o cattiva arma di persecuzione dell’istituto della famiglia o della religione – del che non è il luogo di discutere qui -; ma è iniquo dal punto di vista tributario. La capacità contributiva individuale di quelle 10 o 100 persone è ancora limitata a 2.000 lire; né finora si conoscono le persone fisiche che abbiano cento bocche e pur tuttavia consumino come una persona sola.

 

 

L’imposta globale sul reddito, per definizione, non può colpire le persone giuridiche, le associazioni, ma solo le persone fisiche. Dire altrimenti è volere storcerne il significato a scopo di politica, che oggi può essere anticlericale, domani può essere antibuddista, e un altr’anno può rivolgersi contro qualunque associazione, magari d’indole operaia, che accomuni la vita di molte persone per raggiungere un intento sociale qualsiasi.

 

 

La via d’uscita non può essere che una sola: abbandonare in qualunque progetto del genere, se non il nome il concetto, pericoloso e persecutore, dell’imposta di famiglia e considerare il contribuente come individuo così come vollero Giolitti in Italia e Caillaux in Francia nei loro, per altri versi condannabili, disegni di imposta sul reddito.

 

 

Qualche temperamento sarà in pratica necessario, quando si tratti di redditi altrui che siano legalmente a disposizione del capofamiglia: si potrà ammettere cioè che al reddito del padre di famiglia si aggiungano i redditi di capitale della moglie, non separata legalmente, i quali siano a disposizione del marito, eccettuati in ogni caso i redditi provenienti dal lavoro, i quali ultimi sempre andrebbero separatamente tassati al nome della moglie; e così pure si potranno aggiungere i redditi di capitale dei figli, di cui il padre abbia l’usufrutto o la disponibilità. Ma, appena il figlio disponga dei propri redditi di capitale o ricavi un guadagno dal proprio lavoro, anche se minorenne o convivente, egli dovrà essere tassato separatamente. Così pure, in qualunque associazione di fatto, ogni associato deve essere tassato a parte, in ragione del suo reddito personale. Fare altrimenti, vuol dire arrogarsi il diritto inammissibile di inquisire nei sistemi di vita del contribuente, tassandolo forte quando egli vive in famiglia o in unione religiosa od umanitaria con altri compagni di fede o di setta, e lasciandolo magari libero e in ogni caso tassandolo meno quando preferisce dar fondo al suo in mala, e forse più numerosa, compagnia all’osteria od all’albergo.

 

 

Su che cosa si paga l’imposta? Sul reddito netto, rispondeva il disegno di legge. Conviene riconoscere che il compilatore è riuscito assai meglio a stabilire il concetto del reddito netto, che quello del contribuente. Oggetto dell’imposta è invero «la somma complessiva netta delle entrate del contribuente, siano in denaro, siano in natura». Procedendo per esclusione, si aggiunge subito che non sono entrata tassabile i «proventi straordinari, che abbiano carattere di aumento di capitali, come quelli derivanti da successione, donazione, assicurazione sulla vita, compravendita di beni immobili». Il che è logico perché queste entrate straordinarie sono già colpite da altre imposte sulle successioni e di registro; ed il tassarli ancora qui sarebbe stata una evidente duplice tassazione.

 

 

Procedendo per deduzione si nota ancora che il reddito netto può ottenersi solo dopo che dal reddito lordo si siano dedotte «tutte le spese e le passività inerenti alla produzione del reddito stesso»1898. Oltre alle spese propriamente dette, come il fitto del negozio, i salari degli operai, ecc. ecc., devono dedursi anche i pesi fondiari ed ipotecari, i canoni o censi e in generale gli altri pesi a carico del contribuente o dei cespiti che compongono il suo reddito, i premi per l’assicurazione contro gli incendi e contro i danni straordinari – ai beni. Tutto ciò sta benissimo: chi ha un reddito di terreni, o di case o di industria o di lavoro di 5.000 lire ed ha 2.000 lire all’anno di interessi di debiti da pagare, è giusto che paghi sul solo reddito netto di 3.000 lire. Se egli però, oltre a pagare 2.000 lire all’anno di interessi, rimborsasse 1.000 lire sul capitale preso a mutuo, le 1.000 lire non sarebbero dedotte, nel sistema della legge, dal reddito, perché non sono un peso gravante su di essi, ma una volontaria erogazione fatta allo scopo di diminuire il debito, ossia aumentare il patrimonio del contribuente.

 

 

La enumerazione dei pesi e spese deducibili, se è accurata, non è però compiuta. Manca l’indicazione di molte spese, fra cui sarebbe interessante vedere ricordate a parte almeno le seguenti:

 

 

1)    le imposte, le sovrimposte comunali e provinciali, i tributi camerali ed in generale qualsivoglia tributo che menomi il reddito netto residuo a mani del contribuente. Se questa deduzione non si sancisca in modo esplicito, non mancheranno tribunali e corti regolatrici, le quali diranno che il pagar tributi non è un peso, ma un modo di erogazione del reddito netto, dopo che questo è già ottenuto e quindi dichiareranno tassabili una seconda volta coll’imposta sul reddito le somme spese in pagamento di tributi.

 

 

2)    gli interessi di qualsiasi debito, anche chirografario o cambiario, a condizione che si conosca la persona del creditore e questi abbia pagato l’imposta di ricchezza mobile. A questa condizione, la deduzione non presenta nessun pericolo per il fisco ed è di evidente giustizia per il contribuente debitore.

 

 

3)    gli interessi pagati sulle operazioni di anticipazione, riporto o simili. Si tratta di debiti e sarebbe iniquo tassarli come se fossero redditi; perché se Tizio, possessore di una cartella di rendita del frutto di 1.000 lire l’anno, ha ottenuto, su pegno del titolo, una anticipazione che gli costa 600 lire all’anno di interessi, ha chiaramente solo un reddito netto di 400 lire, e su queste soltanto deve pagare l’imposta. Purtroppo, se ciò non è espressamente detto, ben difficilmente riuscirà il contribuente indebitato a far valere il suo buon diritto.

 

 

Ricordiamo per ultima una deduzione, che era davvero la più significativa e lodevole di tutte. Era una novità nel nostro sistema legislativo tributario; ed a differenza di tant’altre brutte novità, introdotte per spirito fiscale o scimmiottate dall’estero per supina imitazione di sedicenti progressi, era una novità degna di lode incondizionata. Vogliamo accennare alla deduzione dei premi annuali per l’assicurazione sulla vita in nome del capo di famiglia tassato. Alcuni legislatori esteri avevano già accolto il principio: quello prussiano esentando i premi di assicurazione fino a 600 marchi all’anno, quello inglese sino a concorrenza di un sesto del reddito totale del contribuente. Nessuno però l’ha accolto in misura così larga come il compilatore del disegno di legge italiano, il quale esenta, senza alcun limite, qualunque somma pagata a titolo di premio di assicurazione al nome del capo di famiglia. Questa è davvero una di quelle idee forze, accennate più su, che meriterebbero di non cadere in terreno sterile. Importa non solo abbracciarla e difenderla: ma affermare ben alto che essa ha una portata amplissima e fecondissima. Chi non ammetta la ragionevolezza del concetto del contribuente famiglia, deve logicamente estendere la esenzione ai premi di assicurazione pagabili al nome di qualunque contribuente, anche se con altrui convivente, e pur quelli pagati a nome della moglie o dei figli, non aventi redditi disponibili in proprio. Dovrebbero chiaramente proclamarsi deducibili non soltanto i premi per assicurazioni sulla vita intiera, ma pur quelli per assicurazioni miste o per pensioni immediate o differite. Una volta ammesso il principio, non bisogna arrestarsi a mezza via; bensì applicarlo nella sua integrità. Che si tratti di principio siffatto che la sua trascuranza sia una vera iniquità tributaria appare manifesto: colui il quale contrae una assicurazione in sostanza non fa altro che rinunciare ad un reddito attuale in cambio di un reddito futuro; rinuncia a 100, 200, 1.000 lire oggi per avere un equivalente reddito per sé o i suoi eredi in un tempo futuro, fra 10, 20, 30 anni. Egli opera un trasporto nel tempo del reddito: dal 1910 al 1940 a cagion d’esempio. Oggi, nel 1910, il reddito non vi è e non deve essere tassato; sorgerà e dovrà essere tassato, a nome del contribuente odierno, se vivo, o dei suoi eredi, se morto, nel 1940. Operare altrimenti è manifestamente tassare due volte lo stesso reddito. Se l’attuale disegno di legge avrà contribuito a togliere, anche in piccola parte, lo sconcio, diffusissimo nella nostra e nelle estere leggi d’imposta, della duplice tassazione dello stesso reddito, i suoi proponenti avranno bene meritato del risparmio nazionale.

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