Opera Omnia Luigi Einaudi

Coordinare

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1959

Coordinare[1]

Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1959, pp. 360-368

 

 

 

Ad occasione del caso Giuffrè è stato chiesto[2]: come è potuto accadere che il ministero del tesoro, che l’ispettorato del credito presso la Banca d’Italia, il ministero delle finanze, il comando della guardia di finanza, il ministero dell’interno, gli uffici stampa incaricati di far ritagli da giornali, abbiano investigato, abbiano raccolto notizie e dati; ed il frutto delle investigazioni, le notizie ed i dati raccolti siano rimasti entro la cerchia di ogni singola amministrazione, né dell’una sia stato comunicato alcunché alle altre? Il problema, che qui si discute, non è perché cotal frutto non sia pervenuto al capo, ministro o comandante generale, di ogni amministrazione; ma l’altro, ben diverso, del perché le singole amministrazioni non abbiano segnalato le une alle altre le notizie che ad esse potevano interessare. Si noti che nel novero delle amministrazioni le quali hanno dimenticato di comunicare a chi di ragione il frutto delle proprie investigazioni non è compreso l’ispettorato del credito presso la Banca d’Italia. Questa comunicò le notizie raccolte, dalle quali risultava avere la banca esaurito il suo compito, al ministro del tesoro.

 

 

Temo che il quesito sia più grosso di quello sopra indicato; sì da indurmi a capovolgere addirittura la domanda ed a chiedere: come è immaginabile che sul serio si possa supporre, salvo casi miracolosi di zelo per la cosa pubblica, avvengano segnalazioni o comunicazioni cosiffatte? Non è noto ab immemorabile che il principio della sovranità piena ed assoluta non è limitato agli stati veri e proprii? Il principio è in verità oramai divenuto anacronistico anche per gli stati cosidetti sovrani: e la illazione del «non intervento» che da quello si trae è altrettanto fuor dalla realtà. Quanti ostacoli tuttavia dovettero e debbono essere sormontati per sostituire al funesto dogma della sovranità dei singoli stati il riconoscimento della necessità di limitazioni, di restrizioni, di accordi atti a sostituire timide regole di vita civile al regime della giungla nei rapporti internazionali! Cominciammo nel secolo scorso con accordi su faccende pacifiche: poste, ferrovie, brevetti, marchi, proprietà letteraria; e stiamo ora facendo qualcosa in campi più gelosi. Quanta fatica; e quale frastuono prematuro per un minimo mercato comune destinato ad attuarsi intieramente, fra molti se e molti ma, con molte riserve ed eccezioni e sospensioni, fra quindici anni!

 

 

Perché dobbiamo supporre ostacoli minori al coordinamento fra ministero e ministero? Forseché i ministeri non sono potenze armate, forniti, ognuno di essi, di sovranità piena, ciascuno entro il proprio campo? Come mai coloro che hanno in tempi più o meno recenti invocato e conseguito l’aumento da sette a venti del numero dei ministeri; che hanno moltiplicato i ministeri finanziari da uno a quattro, che non hanno subito soppresso il ministero del bilancio non appena venuta meno la sua ragione puramente occasionale; che hanno promosso la costituzione dei ministeri del commercio estero, della marina mercantile, della sanità non hanno pensato che – oltre agli ineluttabili effetti della moltiplicazione per scissiparità delle direzioni generali e dei servizi: si può forse immaginare un ministero della sanità con una sola direzione generale, quella che pure, all’epoca dei Santoliquido e dei Pagliani, creò la organizzazione sanitaria in Italia o con le due sole, degli uomini e delle bestie, oggi esistenti? – con la creazione di ogni nuovo ministero si frantumava, più di quanto non accadesse prima, la sovranità piena dello stato?

 

 

Un ministero deve possedere una competenza sua e questa deve difendere erga omnes. Quello della «competenza» è un mito probabilmente incapace di definizione; ma non si vede come si sia mai riusciti o si possa riuscire a farne a meno.

 

 

Se la «competenza» di un ministero o di una direzione generale o di un servizio non è più o meno bene definita, come si può evitare la confusione delle lingue e delle azioni? Non appena una impresa – e quella statale è la più grossa di tutte – supera una certa dimensione, sorge il problema della competenza. Fin qui opera Tizio, al di là Caio. Non basta sopprimere ministeri per far a meno delle distinzioni per competenza. Osservati i danni de] frazionamento, si sono per ragioni imperiose, primissima quella di non perdere le guerre, unificati in parecchi paesi i ministeri militari. Non perciò il mito della competenza è venuto meno. Non si giunge tra noi, come pare accada od accadesse in anni recenti negli Stati uniti, a diverbi pubblici dinnanzi alle commissioni del senato e della camera; e la lotta per lo più ha luogo in silenzio entro le pareti del ministero della difesa. Chi può sul serio affermare che le amministrazioni dell’esercito, della marina e dell’aeronautica siano fuse? In Italia, e negli altri paesi occidentali i tre ministeri, nomine mutato, durano separati e gli sforzi del ministro coordinatore danno frutti stentati.

 

 

Il mito della competenza è vivace anche pur nelle persone singole. Esistono paesi in cui i professori di scienze economiche son detti «professors of economics» e pare prendano accordi bonari personali tra di loro per la ripartizione degli argomenti a seconda del grado, della anzianità, della opportunità, della predilezione momentanea o permanente per uno o più problemi speciali. In Italia, e probabilmente non solo in Italia, quando ai vecchi insegnamenti della economia politica e della scienza delle finanze si sono aggiunti via via quelli della politica economica, della storia delle dottrine economiche, della storia economica e forse altri, si sono moltiplicati i compartimenti stagni, le rigidità, i limiti ai passaggi di cattedra, le contese di confine e simiglianti calamità. Il buon senso, dove c’è, appiana; e dove non c’è, è cagione di gelosie ridicole. Nei concorsi a cattedre, il mito agevola gli assassinii di giovani, dei quali ogni commissione, bocciandolo, riconosce il valore, lamentando la mancanza di titoli “specifici” in quel particolare campo ed augurando altre commissioni riconoscano il pregio del candidato nel suo campo proprio.

 

 

Il mito è dannoso per lo stato: gli insegnanti, elementari o medi od universitari, si credono incompetenti nel fabbricare edifici scolastici; ed è certo che il loro parere deve essere assunto con le molle, non esistendo limiti alla fantasia di chi deve lavorare in una scuola o in ufficio, relativamente all’altezza, alla larghezza, al numero dei vani atti a soddisfare le esigenze minime dell’insegnamento o del servizio; ma sono perlomeno altrettanto incompetenti i tecnici ingegneri ed architetti, i quali non hanno vissuto a lungo in e per quel tipo di scuola o di amministrazione. Chi visiti prefetture, università, scuole, ministeri dubita della possibilità di un ragionevole coordinamento e, osservato lo spreco di spazio e di miliardi, resta in forse se non i vecchi, talvolta fatiscenti e rabberciati, edifici ereditati dai conventi e dai monasteri soppressi non siano più adatti allo scopo dei nuovi monumenti, che son detti, con barbara parola, funzionali.

 

 

Il mito della competenza vieta forse, taluno chiederà, di comunicare ad altri servizi affini, il frutto delle proprie investigazioni? Non conosce la natura dell’uomo chi tanto spera. Ogni servizio è geloso delle proprie esperienze, convinzioni, cognizioni, scoperte e le difende ringhiosamente contro chi voglia goderle senza fatica. Né il servizio al quale i dati fossero comunicati sarebbe perciò grato. Che cosa credono di insegnare a noi? Facciano il loro mestiere e non si diano arie! L’arma dei carabinieri e la polizia attendono in parte ad uffici che qualche volta si sovrappongono. Chi oserebbe affermare che le comunicazioni dall’una all’altra siano agevoli e cordiali? Tradizioni illustri, formazione spirituale e tecnica diverse pongono ostacoli al coordinamento ed al lavoro in comune. Forseché la mancanza di azione concorde è sempre un male? Probabilmente il vantaggio supera, nell’interesse pubblico, il male. L’emulazione, la diversità dei metodi usati nella scoperta del vero, il desiderio umano e meritorio di giungere primi, possono dare frutti non spregevoli.

 

 

Fa d’uopo essere scettici intorno alla possibilità di porre rimedi legislativi al difetto di coordinazione fra i servizi statali. Il problema non è proprio del nostro paese; e forse uno studio, non sui testi di legge, che in argomento non dicono nulla di istruttivo, sui tentativi compiuti nei paesi che hanno, non ingiustamente, fama di sperimentatori, potrebbe essere utile. In Inghilterra e negli Stati uniti non mancano gli sperimenti più o meno riusciti intesi a risolvere il problema del far funzionare la macchina dello stato. Gli approcci indiretti paiono più efficaci degli assalti frontali. Cagione rilevante di disordine è, come dissi dianzi, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ossia dei ministeri, dei commissariati, degli enti, dei servizi, delle direzioni generali ecc. D’altro canto, la moltiplicazione, se in parte ha motivi di scissiparità, di creazione di posti direttivi, di ufficiali senza sotto-ufficiali, ha pure qualche ragione sostanziale nelle accresciute attribuzioni.

 

 

Come si risolve il problema del numero crescente dei capi delle amministrazioni dello stato? Al di là di un certo numero di ministeri, nessun gabinetto funziona. Il Parkinson, il quale in qualità di professore in una università britannica di Singapore ha pubblicato or ora un volume The Evolution of Political Thought, ne aveva prima scritto un altro (Parkinson’s Law or the Pursuit of Progress by C. Northcoe Parkinson with illustrations by Osbert Lancaster, John Murray, London 1958, un vol. di pp. IV-122) divertentissimo, nel quale l’autore inventa equazioni, intese a dare la necessaria dignità scientifica al fatto notorio, che da tanti anni dico della scissiparità, ossia della autoctona spontanea moltiplicazione dei pani e dei pesci; ed i pesci sono gli impiegati, i commissari, i ministri. Il numero dei ministri oscilla attualmente da 6 in certi piccoli paesi come il Lussemburgo e l’Honduras a 35 in Jugoslavia e 38 nell’Unione sovietica, passando a 27 in Cuba e 29 in Rumania che non paiono paesi di grande importanza. Le vicende inglesi nel numero dei ministri sono istruttive. Conosciuto col nome di «Lords of the King’s Council» il gabinetto nel 1257 contava meno di dieci membri; e per un po’ non si superarono gli undici. Il processo di scissiparità ad un certo punto si riafferma; dai 20 del 1433, i consiglieri del re diventano 41 nel 1504; ma quando giunsero a 172 la turba dovette finire di radunarsi. Già prima, dentro il Consiglio del re, aveva dovuto essere costituito un consiglio minore, detto «Privy Council» composto in origine di nove persone. Crebbe però in ossequio alla legge di incremento dei corpi collettivi, a 20 nel 1540, a 29 nel 1547, a 44 nel 1558. Anche il Privy Council diminuiva di importanza a mano a mano aumentava in numero a 47 nel 1679, a 67 nel 1723, a 200 nel 1902. Ora che i consiglieri privati montano a 300, non contano nulla e sono radunati formalmente dalla regina in pochi casi prescritti dalla legge; ma, essendo ridotti all’ufficio di timbro, basta assistano tre o quattro pezzi grossi. L’iscrizione al Privy Council è diventata mero titolo onorifico.

 

 

A sua volta, verso il 1615 dentro il Privy Council si era formata una «giunta» o «Cabinet Council» di otto membri, cresciuti a 12 verso il 1700 ed a 20 nel 1725 e questo a sua volta verso il 1740 prende il nome più succinto di «Cabinet» ed è quello che esiste tuttora. Erano cinque all’origine; diventarono sette nel 1784, 12 nel 1801, 14 nel 1841, 16 nel 1885 e 20 nel 1900. A questo punto, considerato il danno dell’aumento, pare ci si sia fermati; attraverso a qualche variazione, 23 nel 1939, 16 nel 1945, oggi il numero oscilla fra 17 e 18.

 

 

Esiste un numero ottimo per il numero dei ministeri? Il Parkinson propende a favore dell’8; per la ragione, validissima ai suoi occhi, che quel numero non è usato, oggi, in nessuno degli stati contemporanei. Non gli dispiace neppure il numero 10, che pare sia ancora preferito negli Stati uniti, dove il numero di 5 del 1789, dopo essere giunto ad undici nel 1945, sembra per il momento mantenersi costante. Opera egregiamente in Isvizzera il numero 7, il quale sinora pare legato stabilmente a quello dei consiglieri federali.

 

 

Sarebbe tuttavia imprudente trarre oroscopi sicuri dalle poche esperienze di fermo posto alla tendenza verso il gonfiamento del numero degli uomini consolari. Dappertutto, a porre un argine, si è dovuto ricorrere ad espedienti.

 

 

Le società anonime e gli enti pubblici hanno risoluto il problema, istituendo, accanto al consiglio di amministrazione frequentemente, per contentare i molti aspiranti ed i molti aventi diritto ad una rappresentanza, troppo numerosa, un comitato esecutivo di poche persone, il quale soltanto è informato sugli affari correnti e decide sul serio da solo; e dà al consiglio di amministrazione quelle sole informazioni, che giudica prudente fornire e gli sottomette talune grosse decisioni, già bell’e formulate, alle quali praticamente si possono apportare emendamenti di pura forma. Come funzionerebbe altrimenti un qualunque ente o società?

 

 

Il coordinamento dell’azione dei molti non sempre può essere altrettanto autoritario nei corpi amministrativi e politici eletti. Il principio di sovranità proprio dei singoli ministeri, commissariati, direzioni crea contrasti ed impone limiti all’unicità d’azione. Le soluzioni qua e là tentate sono parecchie.

 

 

Se c’è l’uomo adatto, talvolta si raggruppano alcuni ministeri sotto un ministro di dignità maggiore. L’esperimento ha preso in Italia il nome di CIR (Comitato interministeriale per la ricostruzione), creato per istruire e deliberare talune materie interessanti i diversi ministeri economici e finanziari. Il comitato interministeriale per il credito, presieduto dal ministro del tesoro e composto dai ministri finanziari e di pochi altri delibera su materie definite dalla legge, su relazione del governatore della Banca d’Italia, il quale dirige l’ispettorato del credito. Nella Gran Bretagna, la tesoreria, che è una cosa grossa, provveduta di parecchi ministri, esercita un controllo, che taluno reputa terroristico, sui ministeri della spesa. Talvolta, parecchi ministeri, particolarmente i tre militari, della guerra, della marina e dell’aeronautica, sono raggruppati col nome di ministero della difesa, con un unico ministro e parecchi sottosegretari, uno per ogni dicastero, come in Italia, ovvero un superministro e parecchi ministri minori, come in Inghilterra e negli Stati uniti.

 

 

Un espediente il quale in Inghilterra non sembra male riuscito, è quello di ascrivere al gabinetto vero e proprio solo alcuni ministri, non sempre scelti in ragione della importanza dell’ufficio, ma piuttosto secondo la valutazione fatta dal primo ministro della importanza dell’uomo. Per lo più i membri del gabinetto coprono un ufficio importante (tesoreria, esteri, difesa); ma, se si fa entrare nel gabinetto un uomo al quale non è opportuno affidare un ministero, gli si dà una sinecura, di cui esiste sempre una provvista, ad esempio, il cancellierato del ducato di Lancaster, la quale lascia al titolare il tempo di occuparsi degli affari generali o di quelli che sono in quel momento veramente grossi e per cui non occorre creare un ministero nuovo, che si dovrebbe abolire il giorno dopo. Il sistema offre il vantaggio di non fare coincidere il numero, ad esempio 18, dei membri del gabinetto, col numero dei ministeri o servizi od uffici, a cui sono chiamati ministri in titolo, ministri tirocinanti (juniors ministers), segretari parlamentari e simiglianti nomi; nessuno essendo designato con la denominazione italiana di sottosegretari. Anche se i membri del gabinetto non superano oggi, se non per rarissima eccezione, il numero di venti; quello dei membri del ministero è alto più che in Italia e giunge normalmente all’ottantina. Quel che monta, i ministri non facenti parte del gabinetto hanno – come in Italia non accade per i sottosegretari, ai quali il ministro delega, non sempre senza riserva di controllo o decisione da parte sua, quegli uffici che a lui piace assegnare – compiti originari, ad essi spettanti e non derivati da delega di un superministro. La coesistenza di un gabinetto che delibera, e di un ministero in senso largo limita in parte il danno della mancanza di coordinamento fra le molte potenze ministeriali fornite di competenza propria autonoma.

 

 

Non conviene però farsi illusioni. Il mito della competenza e della derivata sovranità delle potenze ministeriali e commissariali ed entificate non può essere distrutto dalla legge e dal regolamento. La legge potrà inventare norme che impongano comunicazioni di notizie e dati dall’arma dei carabinieri alla polizia, dal tesoro alle finanze, dalle finanze al tesoro, da tutti al bilancio, dall’Eni e dall’Iri al ministero delle partecipazioni; ma se gli uomini preposti ai servizi sono gelosi della propria competenza, se essi ritengono che quella materia ad essi spetta e non ad altri, i comandi di coordinamento resteranno lettera morta.

 

 

Il problema del coordinamento, così come è stato ingenuamente posto dai pubblicisti quotidiani è insolubile dalla legge. Solo efficace è l’opera degli uomini o dell’uomo preposto alla cosa pubblica. Se l’uomo c’è e vede e coordina, è possibile persino risolvere il problema del coordinamento fra ministeri e servizi sovrani. Cavour risolveva il problema, concentrando nella sua persona i ministeri e facendo lavorare i suoi collaboratori, che talvolta eran detti ministri, ai suoi ordini diretti. Se l’uomo manca, e vengono fuori solo rompiscatole curiosi dei fatti altrui, qualunque legge è fatalmente inutile.

 

 

La richiesta di risolvere per legge il problema del coordinamento fra ministeri e servizi, venuta fuori dalla constatazione che in taluni casi specifici qualche rotella non si incastrava con qualcun’altra rotella della medesima macchina statale appartiene al genere dei falsi problemi che «si devono risolvere». Se disgrazia vuole nasca baccano intorno a qualcosa che non va, ad un problema che si deve risolvere, politici e pubblicisti non hanno tregua sinché con una bella legge il problema non appaia risoluto. Di fatto il problema detto urgentissimo non è risoluto; né può essere risoluto da alcuna legge. La norma nuova ha nove volte su dieci l’effetto di imbrogliare vieppiù la matassa, di far sorgere nuove difficoltà di applicazione, promuovere nuove querele e nuove inchieste. Si approvano emendamenti su emendamenti; e la matassa si imbroglia sempre più; sicché, per qualcuna delle mutazioni che sempre avvengono nel nostro mondo scombinato, nessuno si occupa più di quel tale problema, né delle leggi che lo avevano sedicentemente risoluto.

 

 



[1] Con il titolo Coordinare in Saggi italiani 1959 scelti da Moravia e Zolla, Milano, Bompiani, 1960, pp. 21-24 vennero ristampate le pp. 364-368 di questo saggio. [ndr]

[2] Così lessi nei fogli quotidiani, quando, tra l’ottobre e il novembre, scrissi questa e la seguente predica.

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