Opera Omnia Luigi Einaudi

Dazi doganali e sindacati fra industriali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 03/03/1914

Dazi doganali e sindacati fra industriali

«Corriere della Sera», 3, 8, 15, 26[1] marzo 1914

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. 643-675

 

 

 

 

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Taluni recenti avvenimenti, come la lotta fra l’Unione zuccheri ed alcuni industriali indipendenti, il dibattito tra un consorzio di filatori in cotone ed un gruppo di tessitori, la costituzione di leghe per la difesa del lavoro nazionale e di leghe antiprotezioniste, hanno fatto diventare d’attualità anche in Italia un problema che da tempo si discute altrove: voglio accennare ai rapporti fra protezione doganale e trusts o sindacati fra industriali. Affermano, è vero, i promotori degli istituti o consorzi od unioni o sindacati italiani fra industriali che i loro fini sono profondamente diversi da quelli, che essi riconoscono dannosi all’universale, dei sindacati (trusts) americani. Ma poiché non fu mai con parole e concetti chiaramente comprensibili spiegato in che cosa consista questa differenza; poiché i capitani dei grandi consorzi americani (del resto è ben noto che negli Stati uniti più non esiste alcun trusts propriamente detto, essendo tutti stati sostituiti da companies o corporations, ossia società anonime pure e semplici sorte al posto degli antichi concorrenti) affermano le stessissime cose che in propria difesa adducono i promotori dei consorzi italiani; poiché il «ridare tonalità all’industria… efficienza ai dazi di protezione», il «riorganizzare armonicamente in un tutto complesso le imprese prima discordi» è precisamente ciò che i trusts o cartelli di tutto il mondo si propongono, così noi ragionevolmente dobbiamo supporre che i consorzi si costituiscano al fine precipuo e chiaro di stabilire un livello di prezzi superiore, per altezza, scadenze e metodi di pagamento, a quello che si sarebbe stabilito in condizioni di libera concorrenza; e constatiamo il fatto che per raggiungere il loro fine essi si giovano dell’esistenza di una tariffa doganale.

 

 

In un articolo non è possibile esaminare a fondo questo che è davvero un grave problema. I trusts o sindacati o consorzi o cartelli industriali sono dovuti sicuramente a cause molteplici, di cui la tariffa doganale è una sola. Ma è anche certo che l’esistenza di una tariffa doganale protettiva è quella, tra le cause dei sindacati industriali, che interessa, e giustamente, di più l’opinione pubblica.

 

 

Se invero, in una industria non protetta, un consorzio tra industriali è sorto perché questi si propongono di produrre e vendere più a buon mercato e ritengono di raggiungere meglio cotale intento riunendo le loro forze e riducendo così le spese generali, risparmiando nelle spese di pubblicità, ecc. ecc., la massa del pubblico non ha ragione di preoccuparsi e di chiedere provvedimenti per un fatto ad essa benefico. Ma se il consorzio si costituì solo perché in un dato paese gli industriali, messi dalla protezione doganale al sicuro contro la concorrenza estera, hanno creduto opportuno di accordarsi tra loro per rialzare i prezzi, è ragionevole che l’opinione pubblica si allarmi e discuta il problema, per vedere se non vi sia un mezzo per scongiurare la jattura che minaccia i consumatori in genere e le industrie consumatrici ed esportatrici in ispecie.

 

 

Così il punto forse più interessante della controversia che recentemente si è dibattuta intorno all’industria zuccheriera, punto che forse non è ancora stato compiutamente lumeggiato, è: dato che gli industriali zuccherieri si erano riuniti in un consorzio, chiamato Unione zuccheri, il quale, fino a poco tempo fa dominava intieramente il mercato, e ritornerà a dominarlo prossimamente, se, come si annuncia, sia intervenuto un accordo fra il consorzio ed i dissidenti, si può affermare che, così operando, essi abbiano corrisposto alle speranze di coloro i quali, istituendo quasi un mezzo secolo fa i dazi protettori e conservandoli in seguito, avevano voluto promuovere la fondazione e l’incremento dell’industria italiana dello zucchero? I dazi protettori erano forse stati istituiti affinché gli industriali protetti si riunissero in consorzio e cercassero, sicuri dalla concorrenza estera, di tenere i prezzi elevati sino al massimo consentito dalla protezione?

 

 

Mentre i consumatori in genere fanno questa domanda per l’Unione zuccheri, in altro campo gli agricoltori italiani chiedono: i dazi sui concimi chimici esteri e sul solfato di rame furono istituiti perché la «Super» cercasse di riunire in consorzio i fabbricanti di concimi chimici e di solfati italiani allo scopo di elevare i prezzi al massimo possibile concesso dalla protezione? E di recente sentimmo i tessitori di cotone piemontesi protestare energicamente in una adunanza tenuta alla camera di commercio di Torino contro l’Istituto cotoniero italiano od un gruppo di filatori consorziati, costituito tra i soci dell’istituto, il quale dicesi si proponga di sostenere il prezzo dei filati; e pare già di sentire chiedere: forseché il legislatore concesse a voi filatori italiani una protezione contro i filati esteri perché voi, riuniti in consorzio, poteste aumentare i prezzi dei filati italiani a nostro danno ed a danno quindi dei consumatori italiani? Ed altri ancora, in altre industrie protette, fa o sta per fare lo stesso discorso: nell’industria siderurgica, dominata da un sindacato chiamato «Ferro ed acciaio», nell’industria delle vetrerie, in alcuni rami dell’industria cartaria, ecc. ecc., i consumatori – e tra i consumatori principalissimi si noverano soventi altre grandi nostre industrie – pongono il problema dei rapporti fra consorzi e protezione doganale.

 

 

Per rispondere alla domanda, non mi porrò dal punto di vista che sarebbe il mio naturale, del liberismo doganale. Questo invero non è un problema di protezionismo o di liberismo, bensì di sviluppo interno del protezionismo. Il legislatore, il quale istituì un dazio doganale a favore dell’industria nazionale quale fine volle raggiungere? e tra questi fini vi era la costituzione di consorzi o sindacati tra gli industriali protetti?

 

 

La trustizzazione di industrie protette è un fatto il quale possa da un protezionista sincero e spassionato essere considerato come utile al progresso dell’industria, conforme agli scopi propri della protezione doganale da lui voluta nell’interesse generale del paese?

 

 

A questa domanda sono sicuro che i creatori del protezionismo italiano, ed i maggiori assertori suoi viventi avrebbero dovuto e dovrebbero rispondere di no. Si intende che io parlo dei veri protezionisti; ossia di coloro che, colla protezione doganale, vollero e vogliono acclimatare in paese industrie nuove od inusate, ma promettenti; e non accenno ai protezionisti volgari che vogliono i dazi come tali, al solo scopo di impedire alla merce estera di entrare in Italia ed all’oro italiano di uscire dal paese. Nessuno dei grandi costruttori del protezionismo italiano fece propri questi pregiudizi assurdi di isolamento del mercato italiano dal mercato mondiale. Il fine che si volle raggiungere fu ben altro. V’era, intorno al 1880, una Italia prevalentemente agricola, provvista però di energie naturali non piccole e di una abbondante potenzialmente abile mano d’opera. L’industria non si sviluppava abbastanza rapidamente, perché le imprese nuove dovevano lottare contro la concorrenza di imprese fondate da tempo all’estero, già fornite di maestranze abili, con clientela fida, con impianti perfetti. Diamo – dissero quei creatori del protezionismo italiano – una temporanea protezione doganale all’industria interna; assicuriamola per quindici, venti, venticinque anni contro l’importazione delle merci straniere, mercé un dazio protettivo alla frontiera. In tal modo i capitalisti italiani, ora timidi, acquisteranno coraggio ed investiranno capitali in cotonifici, lanifici, zuccherifici, stabilimenti siderurgici e meccanici e chimici, ecc. ecc. Sicuri di poter vendere per qualche tempo ad un prezzo uguale a quello estero di concorrenza, più l’ammontare del dazio doganale, essi supereranno il periodo iniziale di errori, di tentativi, di addestramento e formazione delle maestranze, di conquista della clientela. A poco a poco l’industria interna si fortificherà, ridurrà i propri costi; grazie alla concorrenza interna le imprese migliori vinceranno le meno bene organizzate e saranno costrette a ridurre i prezzi al livello del proprio costo; e poiché noi supponiamo di proteggere soltanto industrie vitali, capaci di svilupparsi in Italia, giungerà il giorno in cui le intraprese italiane, protette dalla concorrenza straniera, ma concorrenti tra di loro, saranno in grado di poter vendere la loro merce ai consumatori italiani allo stesso prezzo a cui la venderebbero i rivali stranieri. In quel giorno la protezione doganale potrà essere abolita, perché avrà raggiunto il suo fine; e noi saremo lieti di vedere compiuta la nostra opera.

 

 

Così ragionarono coloro che vollero il protezionismo italiano; ed anche noi liberisti, che così profondamente discordiamo da essi, che siamo così profondamente scettici intorno alla possibilità pratica di attuare quegli ideali, dobbiamo ammettere che quello era un ideale logicamente ammissibile. Tanto più volontieri l’ammettiamo, in quantoché i maggiori, anzi i soli teorici del protezionismo si trovano tra gli economisti; e fu lo Stuart Mill ad esporre il celebre teorema della protezione temporanea alle industrie giovani, sebbene egli vedesse in seguito e chiaramente denunciasse gli inconvenienti pratici del suo principio teorico. Ma sempre rimanendo entro i limiti dell’ideale protezionistico e non esorbitando in polemiche antiprotezionistiche, che qui sarebbero fuor di luogo, ed escludendo di proposito pure ogni accenno a questioni diverse e nuovissime, che qui non intendo pregiudicare, come la convenienza di mantenere temporaneamente certi dazi, divenuti in sé inutili, per opporsi a casi di svendite (dumping) estere, si deve subito aggiungere che quell’ideale protezionistico, per potersi tradurre in realtà supponeva inesorabilmente una condizione assoluta: la lotta, la concorrenza tra gli industriali interni. Il dazio doganale era stato imposto per difendere temporaneamente, durante il periodo della crescenza, l’industria nazionale contro la concorrenza estera. Ma a qual fine? Non mai perché il dazio giovasse a procacciare facili lucri agli industriali interni, bensì soltanto per consentir loro di superare quelle difficoltà e quei rischi i quali insidiano la vita delle industrie nascenti. I consumatori erano stati chiamati a pagare per venti o venticinque anni più care le merci consumate, affinché, trascorso quel tempo, l’industria nazionale, oramai agguerrita, potesse fornire ad essi quella merce allo stesso prezzo dell’industria straniera. Lo scopo non era già di sostituire in perpetuo la merce nazionale alla merce straniera, senza badare ai prezzi rispettivi. Nessuno dei fondatori del protezionismo volle dare all’industria interna una protezione perpetua uguale alla differenza tra i costi di produzione esteri ed interni, poiché la protezione fu anzi data solo per il caso e con la premessa che gli industriali interni sapessero far scomparire quella differenza di costi. Lo scopo del protezionismo era quello di riuscire – col mezzo di un temporaneo dazio protettivo – a produrre e vendere in Italia la merce a prezzo uguale e forse minore della merce straniera.

 

 

L’ideale – l’unico ammissibile dal punto di vista di un protezionismo serio e nazionale – non poteva e non potrebbe essere raggiunto se non in regime di libera concorrenza fra le imprese protette italiane. Poiché soltanto il sorgere di una concorrenza viva e senza limiti tra i produttori italiani può essere arra che essi faranno ogni possa per ridurre i costi e per portarsi all’altezza dei perfezionamenti tecnici dell’industria straniera. Soltanto la riduzione di prezzi, a poco a poco verificantesi sul mercato nazionale sotto la spinta della concorrenza interna, può dimostrare ai contribuenti che essi, col pagare la merce interna rincarata dal dazio, non hanno fatto inutilmente in passato sacrifici costosi; solo il ribasso progressivo dei prezzi verso il livello estero può dimostrare a chiare note che l’industria è riuscita a ridurre i costi al limite delle concorrenti straniere. Parecchi osservatori si erano compiaciuti di aver veduto nell’industria cotoniera italiana una fortunata applicazione del principio milliano della protezione alle industrie giovani perché era parso che, sotto la spinta della concorrenza interna, i prezzi fossero ribassati al livello di quelli esteri e fosse stata automaticamente elisa, come ragion voleva, la protezione doganale. Ma oggi essi ritornano dubbiosi poiché veggono i filatori di cotone costituire sindacati per rialzare i prezzi interni e ritornare a dare efficienza alla tariffa doganale; e li veggono, peggio, augurarsi di poter giungere a dare premi di esportazione onde vendere all’estero a miglior mercato dell’interno. Il che appare, dal punto di vista dell’interesse generale, un regresso ed un venir meno ai postulati logici del protezionismo.

 

 

Perciò la trustificazione di talune industrie protette italiane deve essere guardata con sospetto e con rammarico da liberisti e da protezionisti insieme. Dai liberisti perché essa è indice di una tendenza ad un perdurante sfruttamento di tutta la protezione doganale; e dai protezionisti, i quali non siano dimentichi delle loro origini ideali e delle loro promesse più solenni, perché essa indica che gli industriali interni, invece di fare ogni sforzo per perfezionarsi e ridurre i costi, ed invece di far beneficiare i consumatori, lottando tra loro, di ogni successiva riduzione di costi, preferiscono accordarsi tra loro per trasformare il dazio, che doveva essere uno strumento di progresso tecnico, in un mezzo di dominazione e di incremento di profitti privati.

 

 

I difensori degli zuccherieri affermano che l’attuale protezione doganale, che è uguale alla differenza tra l’imposta interna di lire 73,15 ed il dazio doganale di lire 99 ossia è di 25,85 lire, è assolutamente necessaria all’industria per vivere, essendo il costo italiano di tanto superiore al costo estero, sì che sarebbe impossibile di poter vendere al prezzo di 30 lire circa al quintale – prezzo estero – più l’aggiunta della sola imposta di fabbricazione di lire 73,15 ossia a circa lire 103 ed è necessario di vendere, per non perdere, a lire 103 più la protezione di 25 lire ossia a 128 lire. Ed adducono cifre di costi per dimostrare che le cose stanno precisamente così.

 

 

Ora, è chiaro che l’unico criterio accessibile agli estranei e persuasivo per tutti, delle condizioni di una industria, è il prezzo a cui essa vende in condizioni di concorrenza. Le cifre dei costi sono elastiche, incertissime, variabilissime. Mentre se, in condizioni di aperta lotta tra i produttori, vi sono fabbriche che vendono, come per qualche mese è accaduto, lo zucchero, a 117, ed anche a meno, a 115 e 110 e persino a 109-108 lire al quintale e se quelle fabbriche non vanno in rovina e ripartono discreti profitti, certa cosa è che quello è un prezzo a cui in Italia torna conto fabbricare zucchero. Nell’interesse delle industrie protette, e nell’interesse nazionale, il protezionismo potrà dire di aver raggiunto il suo fine quando sarà diventato inutile, ossia quando vi saranno fabbriche italiane che, in lotta con altre fabbriche italiane e per strappare ad altre la clientela, venderanno ad un prezzo non superiore al prezzo estero di 30 lire od altro prezzo corrente, più l’imposta di fabbricazione di 73 lire, ossia a lire 103.

 

 

A questa meta non si arriva tuttavia coi sindacati. Perché i trusts o sindacati non si fondano in una industria protetta per diminuire i prezzi, bensì per aumentarli sino al massimo consentito dalla protezione doganale. L’Unione zuccheri, finché non sorsero concorrenti, aveva sempre cercato di mantenere i prezzi a 130 lire; ed un rialzo di prezzi vogliono gli altri sindacati sorti in Italia: fra industriali cotonieri, fra produttori di perfosfati e di solfato di rame, di vetri, di carta, di ferro ed acciaio, di lino e canapa, di macchine, ecc. ecc. La industria non cerca più di perfezionarsi e di lottare per ridurre i prezzi; bensì si coalizza per aumentare i prezzi all’ombra della protezione doganale.

 

 

Nessun protezionista, consapevole del fine di interesse generale a cui il protezionismo intende, può voler siffatto risultato. Epperciò il momento in cui le industrie si trustizzano deve essere il momento in cui tutti e principalmente i protezionisti – ché i liberisti non hanno atteso che venisse questo momento per chiedere riduzioni di dazi – devono avvisare ai rimedi adatti ad impedire che la protezione diventi strumento di oppressione delle masse.

 

 

Quali possono essere questi rimedi è controverso. Nel paese dove cotal problema fu più a lungo dibattuto, e sono gli Stati uniti, il legislatore seguì due vie nella lotta contro i sindacati; di cui l’una si potrebbe intitolare a Roosevelt ed a Taft e l’altra a Wilson, dal nome dei presidenti che ne furono gli antesignani. Roosevelt e Taft non vollero toccare la tariffa doganale, poiché ritenevano che questa fosse messa a difesa del mercato interno contro le merci estere e tentarono di fiaccare la potenza dei consorzi (trusts) con leggi proibitive e con processi giudiziari. Fecero dichiarare illegali i trusts, li fecero sciogliere dai tribunali, condannare a multe colossali. Invano; ché i sindacati provveduti di avvocati finissimi, schermidori assai abili dei più sapienti legislatori, si sciolsero per ricomporsi e si risero dei fulmini della legge.

 

 

Diverso fu il metodo tenuto dal Wilson, il quale essendosi persuaso che i sindacati signoreggiavano il mercato interno perché la tariffa doganale impediva la concorrenza estera, a sua volta convinse popolo e congresso che, a questo punto, i dazi protettivi poi dovevano più, neppure agli occhi dei protezionisti, essere considerati giovevoli all’interesse generale; e grandemente li ridusse. Già gli effetti di questa politica si cominciano a vedere; la porta, non ancora aperta del tutto, ma largamente socchiusa alla concorrenza estera, modera le pretese dei sindacati e tende a ridurre i prezzi.

 

 

In un punto le due opposte politiche, di Roosevelt-Taft e di Wilson, concordano: nella richiesta di una grande pubblicità negli affari dei sindacati. Il giorno in cui in una industria si forma un sindacato o consorzio, quella industria ha cessato di essere un affare privato e diventa un affare pubblico. Dico che diventa un affare pubblico, quando quella industria ha chiesto o chiede al legislatore favori o protezioni o premi, i quali siano pagati dalla generalità. Ad un industria vivente in regime di concorrenza il legislatore può, quando lo creda opportuno, concedere una protezione doganale, senza pretendere di rivederne i conti, perché il meccanismo stesso della concorrenza porta per se medesimo a ridurre costi e prezzi.

 

 

Ma quando, in una industria protetta o favorita – per esempio con la preferenza del 5% negli appalti pubblici – si forma un sindacato, qual garanzia ha ancora il legislatore che la protezione o la preferenza vengano adoperate a ridurre costi e prezzi e non invece ad aumentare i prezzi a carico dei consumatori e dello stato stesso? Nessuna. In tal caso, ragionarono i presidenti americani, poiché lo stato concede protezioni, sussidi o favori all’industria, ha diritto di vedere come essi siano utilizzati. Di qui numerose indagini, istituite dall’ufficio delle società (bureau of corporations) intorno ai principali sindacati (trusts) americani. Ho, fra gli altri, sott’occhio un volume di questo ufficio sulla International Harvester Co., il grande consorzio delle macchine agricole, ben noto anche ai nostri agricoltori italiani, per le macchine perfezionate che invia in Italia. Sono 384 pagine di fitta stampa, ricchissime di dati, di estratti di conti, di interrogatori, i quali denudano al vivo la situazione intrinseca del consorzio: i suoi conti, i suoi profitti, i suoi metodi di lotta contro i concorrenti, i suoi rapporti con la clientela e mettono in grado il pubblico di giudicare se le conclusioni, severe ma imparziali, del commissario siano fondate sui fatti. In ogni industria protetta, i sindacati si debbono rassegnare al regime di pubblicità dei loro affari. Il quale non implica il diritto di continuare a godere l’antica protezione, ove l’inchiesta abbia dimostrato che essi ne fanno cattivo uso. Il Wilson ridusse i dazi senza attendere i risultati delle iniziate indagini; ed ora afferma che il regime di pubblicità dovrà diventare permanente e che da essa gli stessi sindacati trarranno grande vantaggio. Non a torto, poiché chi opera alla luce del sole, è tratto ad operare puramente, sì da conciliarsi il favore e non l’odio del pubblico.

 

 

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Dal dott. Ettore Candiani, presidente della «Super», riceviamo questa lettera a proposito dell’articolo di Luigi Einaudi sui dazi doganali e sindacati fra industriali:

 

 

Gentilissimo signor direttore,

 

Nell’ultimo articolo di Luigi Einaudi, pubblicato sul «Corriere» di martedì scorso, l’illustre economista domanda, o meglio fa domandare agli agricoltori italiani se i dazi sui concimi chimici esteri e sul solfato di rame furono istituiti perché la «Super» cercasse di riunire in consorzio i fabbricanti di concimi chimici e di solfati italiani allo scopo di elevare i prezzi al massimo possibile concesso dalla protezione.

 

 

Permetta a me, quale presidente della «Super», di soffermare l’attenzione del pubblico e dell’illustre economista, autore dell’articolo suaccennato, sui vari errori nei quali è incorso l’illustre uomo, errori che, costituendo una base sbagliata, inducono necessariamente a conclusioni pure erronee.

 

 

Non parlerò di quanto riguarda l’Unione zuccheri, perché, per norma, di ciò che non conosco profondamente, non ho l’abitudine di discutere. Osservo che la «Super» nulla ha a che fare col solfato di rame e se Luigi Einaudi avesse avuto la cortesia di chiedere schiarimenti prima di riferire pubblicamente su cose che la «Super» non si è mai sognata di fare, egli avrebbe appreso come lo scopo della «Super» non fu mai quello di occuparsi del solfato di rame, né quello di un accordo fra i fabbricanti di superfosfati per rialzare i prezzi, messi gli industriali dalla protezione doganale al sicuro della concorrenza estera. Anzitutto la «Super» da quando si è costituita e nonostante l’aumento enorme avuto della juta (N.B. non per il prof. Einaudi, ma per il pubblico: il perfosfato si vende in sacchi fatti di juta), non ha mai rialzato i prezzi.

 

 

Il superfosfato non ha nessuna protezione doganale ed è quindi illogico che la «Super» viva all’ombra di una protezione doganale qualsiasi.

 

 

Della «Super» fanno parte molte cooperative ed il prezzo viene fissato d’accordo con le cooperative stesse, e, ripeto, non è mai stato rialzato. Creda l’illustre economista che altre ragioni talvolta rendono assolutamente necessaria la formazione di coalizzazioni industriali e che nella crisi che attualmente travaglia l’industria italiana, codeste concentrazioni rappresentano sovente una reale ed assoluta necessità, e, non volendo parlare appunto di cose che non conosco profondamente, mi limiterò ad accennare alla crisi enorme che attraversa l’industria superfosfatiera italiana.

 

 

La «Super» ha avuto la mira di regolare la produzione in base al consumo, di eliminare i dannosi trasporti passivi di fabbriche male ubicate, accordando gli industriali fra loro perché chi aveva gli stabilimenti in ubicazione migliore, chi aveva un costo di produzione inferiore avesse la preferenza nella fabbricazione compensando il collega meno bene situato o meno agguerrito nella lotta accanita della concorrenza, concorrenza non solo interna ma estera perché l’estero, pur vendendo nei propri paesi a prezzi superiori ai nostri, col solito sistema delle svendite a prezzi ribassati (dumping) riesce ancora ad importare da noi.

 

 

Il perfosfato è materia povera e non può, non deve sopportare trasporti. Nell’interesse quindi dell’agricoltura sorsero nei principali centri agricoli fabbriche locali. La grande crisi avrebbe fatto scomparire i piccoli enti assorbiti dai grandi che poi avrebbero potuto ottenere prezzi alti. Cosa ha fatto la «Super»? Non ha permesso tale assorbimento, ha fatto sì che le unità locali potessero sussistere; ha cercato e cerca di regolare la produzione a seconda del consumo favorendo ed incitando tale consumo con una sana propaganda. Non va quindi la «Super» considerata alla stregua di consorzi inceppanti la produzione per aumentare i prezzi a danno dei consumatori.

 

 

Ora, non solo la «Super» non ha aumentato i prezzi, ma, fenomeno logico delle concentrazioni industriali, è riuscita invece ad ottenere proporzionalmente un minor costo di produzione perché ognuno ha riscontrata la necessità di un perfezionamento al tecnicismo di fabbricazione, così che la produzione unitaria o per metro cubo di camere di piombo è di molto aumentata. E la «Super» ha seguito anche il sistema di fare prezzi e condizioni assolutamente speciali a tutti gli enti agrari, a tutti quegli enti che direttamente portavano al consumatore il perfosfato. Ha diminuite le spese di vendita dei singoli, concentrandole in un ufficio solo; ha resa più efficace la propaganda intensificandola e meglio indirizzandola, e senza nessun sacrificio, nessunissimo sacrificio per l’agricoltore, spera di riuscire ad eliminare presto quella crisi che poteva suonare estrema jattura per una fra le principali industrie nostre.

 

 

Ma v’ha di più. La «Super», codesto organismo che così erroneamente viene designato come coalizzazione di industriali, a danno degli agricoltori, ha favorito i veri interessi agricoli moralizzando il mercato, insistendo per l’attuazione della legge che combatte le frodi; volendo le analisi, istituendo premi perché anche il più modesto agricoltore possa fare analizzare, dai laboratori governativi, il prodotto ricevuto.

 

 

Io mi associo alla conclusione di Luigi Einaudi per quanto riguarda il regime di pubblicità perché sono d’accordo completamente con lui che chi opera alla luce del sole è tratto ad operare in modo tale da conciliarsi il favore e non l’odio del pubblico; e lodo quella luce del sole che ogni agricoltore tanto invoca e che, noi venditori di superfosfati, invochiamo pure con gli agricoltori. La «Super» ha sempre agito così correttamente che sarà ben lieta se Luigi Einaudi vorrà cortesemente prendere visione di quanto essa fa; di quanto essa ha fatto.

 

 

Per quanto mi riguarda personalmente permetta, egregio signor direttore, che aggiunga un’altra modesta osservazione. Le concentrazioni industriali al giorno d’oggi rappresentano talvolta in Italia una necessità anche per contrapporsi a quanto già da tempo viene fatto all’estero, rappresentano una necessità anche per correggere la strana mentalità di molti che più che al proprio interesse aspirano alla rovina del concorrente e non vanno giudicate tutte in un fascio senza prima bene ponderare la genesi, senza bene verificare l’azione che esse esplicano.

 

 

Voglia gradire, egregio signor direttore, i miei più deferenti saluti.

 

 

Dev.mo

 

Dott. Ettore Candiani

 

Milano, 6 marzo 1914.

 

 

Pure a proposito dello stesso articolo di Luigi Einaudi, che si occupava in modo speciale del sindacato fra gli industriali dello zucchero, riceviamo la lettera seguente dal dott. Adriano Aducco, direttore dell’Unione zuccheri:

 

Chiarissimo signor direttore,

 

Le sarei grato se volesse pubblicare quanto segue:

 

 

Luigi Einaudi ha pubblicato sul «Corriere della Sera» del 3 corrente un importante articolo sui dazi doganali e sui sindacati industriali.

 

 

In detto articolo il dotto economista svolge, con quella alta competenza, e quella chiarezza che gli sono proprie, le sue teorie sui sindacati e sui trusts.

 

 

Dopo di aver accennato brevemente ai sindacati cotonieri, siderurgici, ecc., si sofferma più particolarmente ad analizzare il sindacato degli zuccherieri.

 

 

Credo mio dovere di entrare nell’argomento non per discutere col valente economista sulle funzioni teoriche e pratiche dei sindacati, ma allo scopo esclusivo di rettificare alcuni dati di fatto enunciati dal professore Einaudi a sostegno della propria tesi.

 

 

Il prof. Einaudi non crede di dover analizzare le affermazioni degli zuccherieri quando essi dicono che sarebbe loro impossibile di vendere lo zucchero al prezzo di lire 30 al quintale più la aggiunta dell’imposta di fabbricazione.

 

 

Il prof. Einaudi non si ferma nemmeno ad indagare quale sia l’importo della materia prima (barbabietola) che occorre agli industriali italiani per ottenere un quintale di zucchero, ma dice soltanto che «l’unico criterio accessibile agli estranei e persuasivo per tutti delle condizioni di una industria, è il prezzo a cui essa vende in condizioni di concorrenza».

 

 

Mi permetto di osservare all’egregio prof. Einaudi che questo sistema è troppo semplicista e pericoloso, giacché non si può prendere per base la situazione anormale di una industria in un determinato momento di crisi, per doverne concludere che l’industria possa vivere sempre in quella determinata condizione.

 

 

Forse che se un uomo ammalato può continuare a vivere per molto tempo con un brodo al giorno, si deve dedurne logicamente che l’organismo umano può vivere normalmente con un tale regime di alimentazione?

 

 

E più avanti il prof. Einaudi aggiunge che per qualche mese è accaduto che alcune fabbriche di zucchero hanno venduto a lire 117, 115, 110 e persino 109, 108 al quintale, e ne deduce che «se quelle fabbriche non vanno in rovina e ripartono discreti profitti, certa cosa è che quello è un prezzo a cui in Italia torna conto fabbricare zucchero».

 

 

Il prof. Einaudi venne senza dubbio male informato sul prezzi di vendita dello zucchero, poiché il prezzo minimo a cui è sceso lo zucchero raffinato è stato intorno alle 116 lire, il quale è sempre un prezzo rovinoso per l’industria nazionale.

 

 

Tanto meno si può affermare che le fabbriche vendendo al detto prezzo abbiano ripartito discreti profitti, poiché il prezzo di concorrenza a limiti così bassi, non è sceso che da circa due mesi e quindi non è possibile di conoscere già i risultati finanziari delle fabbriche, i quali saranno soltanto noti dopo un periodo di durata della crisi di almeno un anno.

 

 

Il prof. Einaudi nel suo poderoso articolo non è alieno dal consentire alla giovane industria nazionale una temporanea protezione doganale per 15-20 ed anche 25 anni mediante un dazio protettivo alla frontiera; dazio protettivo da abolirsi il giorno in cui le industrie potessero vendere la loro merce al consumatore italiano allo stesso prezzo a cui lo si venderebbe dalle rivali straniere.

 

 

Questo criterio è stato appunto applicato alla industria dello zucchero, la quale, mentre è all’estero una industria secolare, è da noi sorta, con qualche che importanza, da soli 15 anni; è appunto una industria giovane la quale ha ancora tanto cammino da fare prima di raggiungere la situazione delle estere, specialmente per quanto ha riferimento alla parte agricola, che forma la sua essenza.

 

 

Giova altresì notare che la protezione doganale di cui godeva l’industria colla legge 1883 è stata fruita da pochissime fabbriche perché il grosso delle fabbriche è sorto nel 1900, e da quell’epoca è cominciata la progressiva sensibile falcidia della protezione da parte del governo, falcidia che è tuttora in corso colla legge Luzzatti.

 

 

E faccio punto perché, come ho premesso, non intendo di entrare nella discussione delle idee svolte dal professore Einaudi essendo stato mio unico proposito quello di rettificare dei dati di fatto i quali hanno una grande importanza, tanto maggiore quanto è grande, come in questo caso, l’autorità della persona, che li ha enunciati.

 

 

Ringraziandola dell’ospitalità

 

Dev. Adriano Aducco

 

Direttore della Unione zuccheri

 

Milano, 6 marzo 1914.

 

 

Un accenno fatto genericamente da me alla protezione dei concimi chimici e del solfato di rame ed alla «Super» ha procurato ai lettori del «Corriere» alcuni interessanti chiarimenti dell’on. Candiani. Alcuni punti della lettera Candiani non riguardano l’argomento di cui avevo trattato; e quindi non possono formare oggetto di discussione in questo momento. Io mi ero occupato esclusivamente dei rapporti fra consorzi (trusts) e protezione doganale, e mi ero guardato bene dal discorrere dei vantaggi e degli inconvenienti delle grandi organizzazioni industriali. Senza essere un entusiasta della riunione di molti piccoli stabilimenti produttori di prodotti chimici in un unico complesso e senza nascondermi che in pratica i piccoli stabilimenti indipendenti, con clientela locale, possono spesso lavorare a miglior mercato dei molti grossi e piccoli, i quali lavorano sotto un’unica direzione centrale e lontana – della quale verità si ebbero, anche tra noi, prove chiarissime – non nego che in determinate circostanze e per certi fini di propaganda e di risparmio sui trasporti la concentrazione industriale possa essere economicamente utile. Epperciò io ritenevo criticabile la politica Roosevelt-Taft che perseguita i consorzi (trusts) solo perché tali e preferibile il metodo Wilson che vuole la pubblicità per tutti – s’intende pubblicità in rapporti messi in vendita ed accessibili a tutti gli interessati – e compie riduzioni doganali per impedire i rialzi di prezzi da parte degli industriali protetti. Ritengo anch’io, coll’on. Candiani, utile che i fabbricanti cerchino di mettersi di accordo con i consumatori e con le loro organizzazioni; sebbene a questo riguardo non debba nascondere che mi sembra pericolosa la tendenza a volere costringere gli agricoltori, per ottenere ribassi di prezzi, a far parte di certe organizzazioni agrarie. La cooperazione obbligatoria o semiobbligatoria non ha affatto le mie simpatie e non vedo la ragione di fare ribassi solo a certe cooperative ed enti agrari e non anche ai privati i quali facciano acquisti di partite similari di prodotti. Solo dalla concorrenza più ampia può nascere il beneficio massimo per gli agricoltori.

 

 

Ma, ripeto, tutto ciò non ha nulla a che fare colla questione di cui io avevo discorso. A me incombe solo l’obbligo di chiarire la ragione per cui sono caduto nell’equivoco, se equivoco v’è, di considerare la «Super» come uno di quei sindacati i quali si giovano della protezione doganale. Sapevo che, secondo la nostra tariffa doganale, il cloruro di calce, di potassa e di soda è colpito da un dazio di 4 lire per quintale; il nitrato di sodio raffinato da un dazio di 3 lire per quintale, i sali ammoniacali non nominati da lire 10 per quintale, il solfato di ferro da 2 lire al quintale e che finalmente il solfato di rame paga 2 lire per quintale. Di questi prodotti, alcuni sono concimi chimici propriamente detti, altri entrano nella fabbricazione di essi, ed altri sono utilissimi ed assai diffusi disinfettanti e rimedi contro le malattie delle piante. Il dazio sul nitrato di sodio deve essere considerato, sebbene il nitrato di sodio non si produca in Italia, come un dazio protettivo a favore di quei concimi chimici azotati che in Italia si producono. Dirò di più: il rincaro dei concimi azotati e dei cloruri giova a rendere comparativamente più convenienti i concimi fosfatici e di altra specie, almeno nell’opinione degli agricoltori, i quali spesso paragonano solo i prezzi e troppo poco si curano delle diverse funzioni delle diverse specie di concimi. Chi ha qualche pratica di contadini, sa che la domanda dei perfosfati e delle scorie Thomas in confronto ai concimi azotati e potassici è determinata sovratutto dal minor prezzo per quintale. Ora questa preferenza non giova forse a tenere più elevati i prezzi dei perfosfati e non è in parte dovuta ai dazi i quali rincariscono alcuni prodotti chimici utili all’agricoltura?

 

 

Dimostrato così come il mercato dei prodotti chimici utili all’agricoltura sia influenzato dal regime dei dazi, dirò come io abbia creduto che la «Super» utilizzasse questo stato di cose doganale. In una relazione del settembre scorso di una delle maggiori società affiliate alla «Super» io lessi che si era costituita tutta una rete di interessi fra quella società ed altre, indicate non come produttrici di soli superfosfati ma genericamente di prodotti chimici; e che questi controlli e queste intese avevano permesso di far entrare alcune di queste fabbriche nella «Super», permettendo così alla società in discorso «di meglio disciplinare anche il mercato del solfato di rame sottoponendo alla sua diretta sorveglianza gli impianti e la produzione delle fabbriche stesse».

 

 

A me era rimasta l’impressione che la «Super» appartenesse al genere, diffusissimo in ogni paese, di quei sindacati i quali istituiscono un legame fra imprese concorrenti in una certa direzione lasciando poi che si costituiscano o perdurino legami più stretti e variabili tra i propri federati in guisa da costituire al disotto del sindacato massimo e che adempie a talune funzioni parecchi raggruppamenti od unioni minori, di carattere diverso, con nomi e modalità diversissime aventi ciascuna finalità proprie. Può darsi che la «Super» non venda prodotti direttamente protetti, sebbene indirettamente ciò sia assurdo, per il legame intercedente tra prodotti protetti e prodotti non protetti; ma la esistenza di organizzazioni minori le quali traggono profitto da dazi doganali sembra certa; e sembra altresì probabilissimo che, senza l’esistenza della «Super», gli accordi parziali tra le fabbriche protette potrebbero non avere quell’efficacia che hanno. L’on. Candiani dirà che trattasi di dazi piccoli in confronto a quelli di cui godono gli zuccherifici, la siderurgia, ecc. ecc. E potrà darsi. Ma il mio discorso era generico e procedeva per via d’esempi; e ad ogni esempio si doveva dare il peso che effettivamente esso ha.

 

 

Ed eccomi alle obiezioni dell’egregio direttore dell’Unione zuccheri, prof.

Aducco:

 

 

1)    egli afferma che il prezzo minimo a cui si è venduto lo zucchero nei mesi scorsi fu di 116 lire. Io invece ho letto in giornali commerciali che taluni grossisti, tenendo conto degli sconti e di tutti gli altri elementi di prezzo, avevano comprato nei mesi scorsi persino a 108. Se sia vera od inesatta questa notizia io non lo so, ma immagino non lo sappia neppure il prof. Aducco;

 

 

2)    il quale, prendendo occasione dalla mia affermazione che alle industrie giovani si può consentire una protezione per un 25 anni, ne ricava la conseguenza che la protezione alla industria zuccheriera deve ancor durare per almeno 10 anni, essendo quella industria sorta solo 15 anni fa. Qui è questione di date. Nel 1867 la protezione doganale esistente era già di 20,80 lire per lo zucchero greggio e di 28,85 lire per lo zucchero raffinato. In seguito la protezione effettiva fu per lunghi anni più alta, e cominciò a diventare più bassa delle cifre ora riportate solo con la legge 17 luglio 1910, che la ridusse di 1 lira all’anno a partire dal primo luglio 1911. Il regime protettivo ha dunque quasi mezzo secolo di vita. Le prime fabbriche sorsero nel 1887, ossia 27 anni fa e si andarono moltiplicando dopo il 1897. Io conto gli anni dal 1867 o, per abbondanza, dal 1887; il prof. Aducco li vuol contare solo dal 1900 circa. Giudichi il lettore quale sia il conteggio più logico, riflettendo che una volta si diceva ed io dico ancora che la protezione può essere data per aiutare l’industria nei primissimi e nei primi passi. Ora si dovrebbe dire, secondo il criterio del prof. Aducco, che la protezione data nei primi anni, quando le fabbriche sono poche, non conta e che essa può ritenersi cominciata solo quando l’industria sta ampliandosi ed arricchendosi di nuovi e numerosi impianti, ossia quando, se non proprio adulta, è già una giovane assai promettente;

 

 

3)    tutto ciò, del resto, non ha alcuna importanza ai fini del mio articolo il quale riguardava unicamente i rapporti fra trusts e dazi protettori. E rispetto al nucleo del mio articolo, il mio cortese contraddittore rileva solo che il criterio di non badare affatto a ciò che i produttori dicono sui loro costi di produzione e di tener conto unicamente dei prezzi di vendita in regime di concorrenza, è un criterio semplicista e pericoloso. Non posso, a questo riguardo, se non confermare di nuovo la bontà del mio criterio. Io non credo affatto alle cifre di costo.

 

 

4)    Mi parvero sempre e mi paiono tuttora cifre fantastiche, incertissime, stiracchiabilissime. L’unico dato certo è il prezzo. Ma, badisi bene, il prezzo in regime di concorrenza. Il quale, s’intende, varierà, in più od in meno, a seconda della quantità prodotta o domandata; ma sarà un dato certo. Finché l’industria dello zucchero sarà dominata da un consorzio e finché ogni tentativo di concorrenza viene, con la maggior sollecitudine possibile, fatto cessare, assorbendo od accordandosi coi dissidenti e ripristinando, come sta accadendo adesso, il dominio esclusivo del sindacato, io seguiterò ad affermare che la protezione ha mancato al suo fine e che è dovere strettissimo del governo di intervenire, ribassando i dazi doganali, per ripristinare quella concorrenza che gli industriali protetti si ostinano a volere sopprimere.

 

 

3

 

Dal marchese ing. R. Ridolfi, presidente della società anonima «Ferro e acciaio», riceviamo questa lettera a proposito del recente articolo di Luigi Einaudi sui dazi doganali e sindacati fra industriali:

 

 

Signor direttore,

 

L’interessante e dotto articolo del prof. Luigi Einaudi pubblicato nel n. 62 del «Corriere della sera» (3 marzo 1914) tratta la questione generale dei sindacati fra gli industriali in regime di protezione; ma mentre si riferisce particolarmente al sindacato degli zuccherieri emette dei giudizi severi sui sindacati in genere, citando a più riprese anche quello del ferro e dell’acciaio.

 

 

Può sembrare opportuno mettere in luce come alcune critiche mosse dall’egregio economista mal si adattino al caso particolare dell’industria e delle speciali organizzazioni commerciali della nostra siderurgia a cui accade di essere sovente bistrattata e raramente difesa di fronte al pubblico.

 

 

In Italia non funzionarono mai «coalizioni dominatrici» del mercato siderurgico; quelle che hanno esistito e che esistono non rappresentano che aggruppamenti parziali, traissitori.

 

 

Non si può dominare un mercato, se non naturalmente entro i limiti regolatori e moderatori dei prezzi di concorrenza estera e in Italia l’importazione siderurgica estera è sempre ragguardevole, malgrado l’attuale protezione e la lotta sostenuta dai nostri industriali.

 

 

Si noti poi che la «Ferro e acciaio» esercita la sua azione sopra poco più di un terzo della produzione siderurgica italiana. Ben 10-12 stabilimenti nazionali non seguirono e non seguono il regime della «Ferro e acciaio» e sono quindi perfettamente liberi da ogni vincolo di produzione; automaticamente, anche il prezzo della concorrenza libera fa da regolatore a quello della produzione sindacata. La lotta interna è necessaria, scrive il prof. Einaudi, e la lotta interna c’è, e vivissima. Ed un altro errore fondamentale e gravissimo che conviene ai siderurgici di energicamente respingere, con voce alta e sicura, avviene di sentir ripetere spesso ed è ripetuto anche nell’articolo Einaudi riguardo le forniture allo stato.

 

 

È notorio, fu affermato più volte, può essere comprovato con documenti, con fatti ad ogni momento, come in tutte le effimere organizzazioni di vendita che ebbero vita in Italia, furono sempre escluse e lasciate alla libera, aperta concorrenza le fornitore allo stato, alle amministrazioni pubbliche, agli arsenali, ai cantieri navali anche privati.

 

 

Ma vi ha di più: non solo per le fornitore alla marina, alle ferrovie, ai comuni e provincie, ecc., vi è libera e vivace concorrenza, anche in regime di sindacato, ma per qualsiasi impresa privata di costruzione, per tutte le imprese di cemento armato, per tutti i costruttori di vagoni e locomotive, per qualunque, anche modesta, officina meccanica, vi è una gara accanita, giornaliera di libera offerta e di libera contrattazione fra i fabbricanti non sindacati e quelli che lo sono.

 

 

Non è esatto dunque che la così detta coalizione siderurgica sia «dominatrice»; non è esatto che abbia avuto per scopo e per effetto di aumentare i prezzi a un livello sensibilmente superiore a quello della concorrenza interna; non è esatto che sia stato per essa soppresso quel giusto calmiere che è appunto il prezzo di libera concorrenza; non è esatto che le amministrazioni dello stato, né gli industriali meccanici possano averne risentito danno.

 

 

Ma si potrebbe obiettare: perché dunque i siderurgici hanno a più riprese tentato di organizzarsi in sindacato?

 

 

I veri principali vantaggi sono tre, oltre altri minori, e non sempre sono conseguiti:

 

 

a)    quello di regolare le vendite con quasi uniforme distribuzione di lavoro fra gli stabilimenti e le maestranze rispettive;

 

 

b)    quello di ottenere il maggior coefficente di rendimento delle vendite secondo le zone di destinazione, restando costante il prezzo di vendita in ogni singola regione e non sensibilmente superiore a quello della libera concorrenza interna;

 

 

c)    quello di regolare i fidi.

 

 

Ma qui l’articolo Einaudi parla di affidamenti e promesse che sarebbero state date dai fautori del protezionismo dicendo in certo modo anche ai siderurgici:

 

 

«Vi furon concessi i dazi, ma temporanei, per un periodo di prova di 15, 20, 25 anni, perché vi metteste in grado di a poco a poco ridurre il vostro prezzo di costo tanto da pareggiare quello della concorrenza estera e andare anche al disotto, e in modo da poter poi togliere il dazio con vantaggio dei consumatori».

 

 

Da quali «veri protezionisti» sian state date queste promesse non è detto; certamente non dagli industriali metallurgici.

 

 

Non è da ritenersi che sarebbero state spese diecine e diecine e centinaia di milioni in impianti perfettissimi colla premessa che l’industria avesse a morire dopo pochi anni. Non è possibile ritenere che nessuno (parlando sempre della siderurgia) abbia presunto che né in 15 né 20 né 50 anni e più il prezzo di costo dei laminati in Italia potesse mai giungere al di sotto del prezzo dei prodotti germanici, ad esempio. Dal legislatore che attentamente studiò le condizioni della infantile siderurgia italiana e volle metterla in condizioni di sviluppo, fu elevato il dazio protettivo da lire 4,62 a franchi 6 in oro. L’aumento fu quasi illusorio, perché contemporaneamente fu applicato un dazio sulla materia prima, che in parte è fiscale, e che grava per franchi 1,30 (130 kg ghisa e rottami per un quintale di laminati) su un quintale di produzione; si ridusse così l’aumento di produzione effettiva alla differenza fra 4,70 in oro e 4,62 in lire.

 

 

Comunque sia, la protezione per il laminato italiano non è molto superiore a quella della tariffa germanica che è di franchi 3,12 (marchi 2,50): è inferiore a quella della Francia che è di franchi 6 netto e anche di più a quella dell’Austria che è di franchi 7,40 (corone 7).

 

 

Fu ritenuto dal legislatore che franchi 4,70 al quintale compensassero la disparità di condizioni naturali esistente fra l’Italia e regioni dotate di vantaggio industriale quali ad esempio la Germania, la Francia, l’Austria, ecc. e che esercitano il «dumping» contro l’Italia.

 

Ma chi poté mai sognare e promettere che mercé la perfezione degli impianti e delle maestranze avesse in 25 o 30 anni a diminuire il prezzo di costo italiano di tanto da scender al disotto del costo estero?

 

 

Per qual miracolo avrebbe dovuto avvenire che d’un tratto si fossero colmate le enormi disparità notorie (combustibile, ecc.) che mettevano e mettono in condizioni evidenti di inferiorità l’industria siderurgica italiana in confronto di quelle, ad esempio, del Belgio, della Francia, della Germania e dell’Austria?

 

 

Si verrebbe così a coonestare un’accusa di indebita locupletazione ai siderurgici; la dimostrazione del contrario sarebbe per parte dei siderurgici molto facile, ogni qualvolta il prof. Einaudi la desiderasse anche in dettaglio. I siderurgici non guadagnano sei lire al quintale sui materiali sindacati, ma appena pochi centesimi al quintale!

 

 

Certo è che l’abolizione o la diminuzione di protezione sarebbe un assurdo finché non fosse dimostrata (ciò che non è) una delle due cose: o che i siderurgici abbiano già ridotto il loro costo al disotto del costo estero; o che essi, per la sopradetta circostanza o per altro artificio, si siano isolati dal mercato mondiale, abbiano saturato colla loro produzione la richiesta nazionale in modo da impedire alla merce estera di effettuare la naturale opera di calmiere alle cupidigie dei produttori nazionali.

 

 

Il provvedimento adottato contro i consorzi dal presidente Wilson negli Stati uniti, di tagliar nel vivo i dazi protettori, ha avuto l’approvazione del prof. Einaudi nel suo articolo.

 

 

Certamente la porta non largamente, ma appena socchiusa alla concorrenza estera avrà moderato le pretese e le cupidigie dei capitalisti speculatori più che degli industriali, ma in primo luogo il funzionamento dei colossali consorzi finanziari americani non ha niente di paragonabile colle nostre modeste e parziali transitorie organizzazioni di vendita, e poi non è ancor detta sull’efficacia dei provvedimenti del Wilson l’ultima parola.

 

 

La protezione delle tariffe doganali fu dal Wilson ridotta a circa 2/3 di quella della tariffa precedente, in media.

 

Si legge difatti nel «Times» del 9 febbraio 1954, ove si riassume il memoriale della commissione inglese delle tariffe sui provvedimenti americani, che detta protezione era antecedentemente, in media, del 41% ad valorem e fu portata al 30 percento. La riduzione sui ferri e acciai fu superiore alla media, ma giova considerare che prima dell’intervento moderatore del Wilson, i dazi di protezione siderurgica agli Stati uniti erano addirittura enormi, in via relativa, e proibitivi in via assoluta.

 

 

Oltre alla difesa naturale della distanza, gli Stati uniti avevano una protezione doganale di franchi 3,43 al quintale per i laminati di ferro e acciaio; protezione enorme se si consideri che gli Stati uniti, possedendo i più ricchi giacimenti minerali di ferro e di carbone del mondo ed un’industria siderurgica perfettissima, sono in condizioni favorevolissime, superiori a quelle della Germania, del Belgio, della Francia, dell’Austria.

 

 

Il presidente Wilson, malgrado il suo ardimento liberista, non osò proporre il libero scambio per la siderurgia, sebbene gli Stati uniti potrebbero essere in grado di affrontarlo.

 

 

L’Italia, no; in questo non potrebbe accettarsi il desiderio del prof. Einaudi; piuttosto sarebbe accettabile quello, espresso dal prof. Einaudi e da altri suoi egregi colleghi nelle discipline liberiste, che fosse data maggior pubblicità agli atti dei siderurgici.

 

 

Questi sono spesso accusati di avvolgersi nel mistero, e l’accusa è forse in parte giustificata.

 

 

Si può anche apertamente convenire col prof. Einaudi che quando un’industria chiede od ha chiesto al legislatore favori o protezioni o premi, ed in pari tempo si costituisce in un sindacato che sopprima il regime di libera concorrenza e monopolizzi o domini il mercato, diventa un affare pubblico. Ma questo non è assolutamente il caso per la nostra siderurgia, perché, se ha chiesto o chiede dazi di protezione o se di tratto in tratto si formano nel suo seno delle organizzazioni commerciali, queste non hanno mai eliminato la funzione della concorrenza, sia estera, sia nazionale.

 

 

I siderurgici dovrebbero non pertanto essere pronti anche ad essere controllati e a mostrare i loro conti; il concetto, spesso falsato, che ne hanno gli egregi e valorosi liberisti, si verrebbe a modificare, e sarebbero eliminati molti incresciosi malintesi; basata la discussione sui fatti e non sulle parole e sulle teorie astratte, potrebbe anche trovarsi una formula di comune accordo a risolvere il solo problema che a tutti preme ugualmente: il benessere del paese.

 

R. Ridolfi

 

Presidente della soc. an. «Ferro e acciaio»

 

Milano, 11 marzo 1914.

 

 

Contro la tesi da me esposta, che fra protezione doganale e consorzi esista un legame, e che il legislatore debba intervenire a ridurre i dazi quando esistono all’interno sindacati industriali, che si propongono di utilizzare i dazi per ottenere aumenti di prezzi, il Ridolfi obietta che il sindacato che trae nome dalla Società ferro ed acciaio non domina il mercato, non ha elevato i prezzi, ecc. ecc. Poiché commercianti e consumatori si lamentano del contrario, l’unica conseguenza che da questo dissenso si può ricavare è la necessità di un’inchiesta su tutte le industrie notoriamente trustificate od in cui vi siano indizi di restrizioni di concorrenza per mezzo di accordi, scritti o verbali, delle più diverse specie. Naturalmente l’inchiesta, per ispirare fiducia, dovrà essere pubblica; gli inquirenti dovranno essere investiti dei più ampi poteri giudiziari, di interrogare testimoni, sotto vincolo di giuramento, di ordinare la produzione di libri e documenti d’ogni specie, di interrogare la clientela, ecc. ecc. vero che esiste una commissione reale incaricata di studiare le riforme da apportare al regime doganale; ma è anche vero che in questa materia nessuno studio può inspirare fiducia, se non quando sia circondato dalla maggiore pubblicità.

 

 

Il Ridolfi cerca di togliere importanza all’esempio americano del Wilson dicendo che le riduzioni da esso operate nei dazi furono assai miti e che i colossali sindacati americani sono una cosa assai diversa dalle «modeste», «parziali», «transitorie» organizzazioni italiane di vendita. Quanto al primo punto, non credo che i siderurgici ed altri sindacati americani siano della stessa opinione, almeno se si deve giudicare dalla vivacissima campagna che essi fecero contro la riforma doganale, la quale correva perciò rischio di essere travolta al senato, se il Wilson, con una energia, di cui in materia economica non si avevano più esempi dall’epoca aurea dei Peel e dei Cavour, non avesse provocato una inchiesta sui metodi di cui i sindacati si servivano per premere sul congresso e non avesse costretto i senatori, repugnanti e frementi, a votare il disegno di legge, sospendendo, fino a dopo il voto, l’esercizio del privilegio di cui i senatori americani godono, di far proposte al presidente per la nomina agli impieghi federali.

 

 

Quanto al secondo punto, io ho frequentemente pensato che si renderebbe assai benemerito quello studioso il quale compilasse una antologia delle opinioni che i capi di sindacati di ogni paese espongono rispetto ai sindacati degli altri paesi. Probabilmente il risultato più curioso ed interessante dell’antologia sarebbe il seguente: che i capi dei sindacati tedeschi ritengono che essi sono degni di premio avendo per iscopo di avvantaggiare l’economia nazionale, col ripartire equamente la produzione secondo le località, la potenzialità di lavoro, col regolare i fidi ed i trasporti, mentre i sindacati americani, tedeschi, italiani ed austriaci sono condannabili perché si propongono di aumentare i prezzi a danno dei consumatori, cosa dalla quale essi tedeschi aborrono. E si vedrebbe che alla loro volta i dirigenti italiani pensano male dei sindacati tedeschi, americani, ecc., e bene di sé; e così via sino alla fine. Della quale constatazione forse il buon senso popolare trarrebbe argomento per concludere che essi si rassomigliano tutti e non se ne può concepire, per ragioni di assurdo, l’esistenza senza una certa pressione sui prezzi.

 

 

Le restanti argomentazioni del mio cortese contraddittore non interessano il problema da me posto, come quelle che sono rivolte a dimostrare la necessità della protezione doganale all’industria siderurgica; intorno alla quale necessità od inutilità io non avevo detto verbo. Ma, poiché il Ridolfi quasi a forza mi vi costringe, giova chiarire un punto fondamentale. Io avevo detto che gli iniziatori del protezionismo italiano avevano voluto istituire i dazi per consentire alle industrie nascenti in Italia di potersi rafforzare durante il periodo iniziale della loro vita, sì da potere resistere colle loro forze dopo alquanti anni, dieci o quindici od al massimo venticinque, alla concorrenza straniera. Chiunque conosca le dispute dottrinali e pratiche che, su questa vessata questione del protezionismo, si sono susseguite, comprende che io rendevo così il massimo omaggio che per me era possibile ai fondatori del protezionismo italiano, riconoscendo essere la loro tesi logicamente fondata in base ad un ragionamento celebre dai tempi di Giovanni Stuart Mill; sebbene io ritenessi, insieme con lo stesso Stuart Mill, siffatta tesi di difficilissima ed assai pericolosa applicazione pratica. Viene ora il Ridolfi e dice: «Mai no. Nessuno si è mai sognato di dire in Italia che i dazi sui prodotti siderurgici dovevano essere concessi temporaneamente per sorreggere l’industria nei suoi primi passi. Né in 15, né in 20, né in 50 anni e più l’industria italiana potrà giungere al disotto dei prezzi stranieri».

 

 

Con questa dichiarazione si distrugge l’unico argomento che poteva essere astrattamente invocato a favore della protezione doganale per i prodotti siderurgici e si fornisce un’arma formidabile a noialtri liberisti i quali da anni andiamo dicendo di non sapere se per altre industrie il dazio doganale poté praticamente avere un qualche utile ufficio, ma di essere certi che simigliante utile effetto non poteva il dazio avere per l’industria siderurgica, essendoché questa non potrà né ora né poi essere in grado di produrre allo stesso costo dell’industria straniera. Taluno farà certo le più alte meraviglie nel sentirmi dire che una industria, la quale non può promettere di vendere allo stesso costo della straniera neppure fra 50 anni, non ha diritto di chiedere al legislatore alcuna protezione doganale. Ma assai maggiore è la mia meraviglia nel sentir dire che vi sia stato un legislatore in Italia il quale consapevolmente abbia stabilito un regime protettore a favore di una industria che non si prevedeva se e quando avrebbe potuto uscire dal suo stato di inferiorità in confronto alle industrie straniere. No, non posso credere che il legislatore abbia voluto una cosa che sarebbe stata priva di qualsiasi significato e di qualsiasi, anche remoto, utile effetto per il paese.

 

 

4

 

Dal comm. Giorgio Mylius, presidente dell’Associazione cotoniera italiana, riceviamo questa lettera a proposito del recente articolo di Luigi Einaudi sui dazi doganali e sindacati fra industriali.

 

 

Gentilissimo signor direttore,

 

 

Ho letto con interesse l’abile articolo del prof. Einaudi Dazi doganali e interessi industriali. Non vorrei che il silenzio di tutti i cotonieri potesse essere dai lettori dell’autorevole giornale interpretato come una acquiescenza incondizionata alle teorie professate dal facile critico e geniale cultore dell’assioma del liberismo ad oltranza.

 

 

Onde chiedo anch’io per quanto in ritardo cortese ospitalità.

 

 

Al prof. Einaudi sembra dunque giusto di estendere anche all’industria della filatura in Italia la teoria da lui professata: essere illegittima la stipulazione di accordi fra industriali fino a tanto che essi godono di una protezione doganale e di conseguenza essere doveroso di abolire la protezione doganale ogni qual volta i produttori di un dato ramo di produzione protetto si uniscano in un accordo per godere della protezione loro accordata, in quanto che, per effetto degli accordi fra industriali «il legislatore non avrebbe più la garanzia che la protezione venga adoperata a ridurre costi e prezzi e non invece ad aumentare i prezzi a carico del consumatore ed eventualmente dello stato».

 

 

Ed in via subordinata chiede: che, ove cessi in tutta la sua estensione ad agire la illimitata libertà di concorrenza debbano, quasi a compenso del beneficio della protezione, gli industriali legati da accordi dare larga pubblicità ai loro costi, ai prezzi, ai bilanci, a tutto quello insomma che concerne la loro industria.

 

 

Su quest’ultimo terreno non avrei difficoltà alcuna di seguirlo; su questo terreno d’altronde il prof. Einaudi è già stato prevenuto dagli stessi filatori sindacati colla deliberazione di invitare i tessitori, ossia i consumatori, a far parte del comitato esecutivo dell’organizzazione.

 

 

Dove invece non posso seguire il prof. Einaudi è nella parte principale delle sue argomentazioni.

 

 

Egli sembra partire da due presupposti: l’uno a) che i filatori italiani abbiano ancora molto cammino da poter fare nella via del perfezionamento della loro industria; l’altro b) che i provvedimenti che i filatori hanno attuato o che stanno per attuare, a tutela della loro industria, siano intesi a procurarsi facili lucri, mentre purtroppo, invece, tendono solo a rendere modestamente redditizia una industria che perde denaro da oltre 5 anni ed il cui percorso recente è seminato da molte rovine.

 

 

Il caso affatto eccezionale di qualche filatore che non ha perduto non può e non deve, per rimanere nel campo di una onesta discussione, essere preso per base, bensì lo stato della media delle buone filature d’Italia. Tanto varrebbe, nella determinazione dei cottimi agli operai, pretendere di fissarne la misura sulle attitudini particolari di un unico o di due soli operai fra tutti che con quel cottimo potessero guadagnare una mercede

sufficiente.

 

 

L’arguto scrittore, che ha l’abilità di esporre le sue tesi in un modo così piano e insinuante da interessare anche i profani, mi sembra che questa volta si sia lasciato trasportare dall’ardore che pone nell’attaccare tutto quello che possa nuocere al trionfo delle sue idee liberiste: «la protezione», egli asserisce «fu accordata perché venisse adoperata a ridurre costi e prezzi»; e poi, non per la prova documentata di prezzi aumentati in modo da trar profitto dalla barriera doganale, ma per la soltanto discussa eventualità che i filatori potessero far rivivere questa protezione, seppure in misura limitatissima, egli già li accusa di voler commettere un atto contrario allo spirito della legge doganale.

 

 

Ma come vuole egli che i filatori si valgano della protezione doganale, ammettiamo pure per ridurre costi e prezzi, senza adoperarla? Non lo capisco.

 

 

Forse, le parole dell’articolo non esprimono prettamente il pensiero del prof. Einaudi. Forse egli intendeva riferirsi soltanto alla teoria della protezione temporanea ed egli giudicava che ormai, alla distanza di 27 anni dalle tariffe dell’87, nonostante i successivi ribassi in occasione di trattati di commercio e per l’introduzione del dazio d’importazione sul cotone, che si traduce in una riduzione della protezione, debba essere giunto il tempo che della barriera doganale in genere non dovessero più far uso i filatori.

 

 

Ma il prof. Einaudi ha l’aria di ignorare completamente, o vuole a scopo di dimostrazione ignorare un fatto nuovo salientissimo, per la nostra industria, un fatto che segna addirittura una nuova fase nella vita della filatura del cotone in Italia.

 

 

Mi riferisco alla soppressione del lavoro notturno del 1908. Enormi furono i capitali investiti per sopperire alla soppressione del lavoro notturno, anzi, disgrazia volle che inavvertitamente gli ingrandimenti riuscissero maggiori del bisogno, tanto più che il governo, con la concessione del lavoro a due squadre, finì col rendere quasi illusorio il provvedimento, almeno dal punto di vista della preconizzata riduzione di produzione. Ma è giusto che per questo i relativi capitali vadano dispersi, che le aziende, per assenza di ogni spirito di solidarietà professionale, non organizzate, anziché diventare utili elementi della collettività, si logorino in vani sforzi, in lotte senza alcuno scopo, per un irrisorio beneficio dei consumatori, invece di procedere d’accordo in attesa che maturino gli eventi e che sia raggiunto il definitivo equilibrio fra potenzialità di produzione e collocamento? È naturale che di fronte a questo nuovo stato di cose, creato da una disposizione legislativa, la filatura italiana si trovasse a dover in parte ripetere il cammino già percorso nel ventennio precedente a quella misura. E a far ciò si sono posti con ogni lena i filatori.

 

 

I nostri stabilimenti, nelle condizioni nelle quali attualmente si trovano, data l’eliminazione e la trasformazione dei vecchi impianti, sono giunti ad un grado di perfezione tecnica tale da non aver nulla da invidiare agli stabilimenti più moderni sorti all’estero.

 

 

Ci sono però degli elementi di costo che, con tutta la buona volontà, non si possono, almeno per opera dei filatori, ridurre. In questo rinnovamento dell’industria della filatura i filatori hanno dovuto rinunziare all’uso della forza motrice idraulica nelle ore notturne, che costituiva un privilegio della nostra industria; molti filatori hanno dovuto ricorrere all’energia delle imprese elettriche pagando la forza in ragione di 120 a 140 lire per cavallo in confronto al costo del cavallo termico in Inghilterra di poco più di 50 lire; altri hanno dovuto impiegare vistosi capitali per creare nuove forze idrauliche che occorre ammortizzare a supplemento delle vecchie già ammortizzate. Si può calcolare che il costo della forza motrice per chilogrammo di filato è raddoppiato per gran parte delle filature.

 

 

Il macchinario proveniente dall’estero è gravato da un maggior costo di almeno il 25% per dazio, imballaggio, trasporto e montaggio ed i nostri impianti, per molteplici ragioni anche a difesa dell’incolumità dell’operaio e per ragioni di carattere igienico, riescono più costosi che in Inghilterra. Filatori inglesi, tedeschi e francesi hanno vantaggi per l’approvvigionamento del cotone maggiori dei nostri e noli ridotti, che si traducono in una economia.

 

 

L’unico cespite di risparmio parrebbe essere quello della mano d’opera; ma anche la mano d’opera a buon mercato è spesso un mito per la minore efficienza delle nostre masse operaie tratte da una popolazione agricola e non prettamente industriale come in Inghilterra.

 

 

D’altronde è da chiedersi se sia opportuno di convergere tutti gli sforzi nel cercare di ridurre la base unitaria delle mercedi e degli stipendi invece di conseguire un prezzo normale del prodotto, giacché un’industria non può continuare a perdere indefinitivamente.

 

 

Ma che cosa mai può importare al consumatore un aumento sul filato di 5 od anche 10 centesimi al chilo che è quello che i filatori hanno desiderato di conseguire perché il prezzo corrispondesse al costo? Nel tessuto di qualità media del peso di 100-110 grammi al metro, l’aumento di 10 centesimi al chilo rappresenta un centesimo o poco più e quindi 3 centesimi circa per una camicia. Questa frazione minima che è assolutamente insensibile per la vendita al dettaglio, può d’altra parte bastare a rendere redditizia, da perdente che era, un’industria che da 5 anni non lascia rimunerazione al capitale.

 

 

E neppure la tessitura che esporta può dolersi di una uniforme, ragionevole stabilità nei prezzi, in quanto che elimina quegli sbalzi nelle offerte che si sono verificati in passato appunto per opera di quei compratori che riuscivano ad accaparrarsi i filati a prezzi inferiori e che danneggiavano la vendita di tessuti di tutti i concorrenti.

 

 

Non è forse vero che i più forti concorrenti agli esportatori italiani sul mercato estero, sono appunto gli esportatori italiani stessi?

 

 

Può star tranquillo il prof. Einaudi che, organizzati, i filatori non commetterebbero la inavvedutezza di compromettere l’esportazione dei tessuti dei propri clienti sapendo benissimo che il principale coefficiente della prosperità loro ed il definitivo assetto della loro industria dipende dal mantenimento e dall’ulteriore sviluppo delle esportazioni.

 

 

Qualcuno sentenzierà che i filatori dovrebbero ricercare la loro difesa nella specializzazione. È presto detto!

 

 

Ma è appunto la organizzazione industriale, la necessaria preparazione alla specializzazione, la disorganizzazione, la concorrenza ad oltranza, la gara per salvarsi, tentando tutti i mezzi per sottrarsi alle conseguenze delle vendite in perdita, sono il maggiore degli ostacoli alla specializzazione e conducono gli industriali a invadere reciprocamente i campi nei quali, in tempi normali, essi si erano già divisi la produzione.

 

 

L’organizzazione industriale in generale e in particolare l’iniziativa di intese per disciplinare i prezzi, dovrebbero essere salutate dagli studiosi con intima soddisfazione e particolarmente da coloro che desiderano che l’industria della filatura possa progredire, onde, attraverso alla evoluzione industriale ed economica, la barriera doganale non rimanga più in vigore che come arma di difesa contro possibili invasioni.

 

 

Indubbiamente gli scritti del prof. Einaudi si informano ad un profondo amore della cosa pubblica ed all’interesse generale; ma non esito per un momento ad affermare che a sentimenti non diversi si sono inspirati gli uomini che particolarmente si sono occupati della riorganizzazione dell’industria cotoniera in Italia con profonda conoscenza della materia e con finissimo senso della misura per risolvere tutti gli argomenti connessi all’importantissimo problema.

 

 

L’azione loro si impernia sul concetto di giungere, mediante l’evoluzione nel congruo tempo, agli scopi prefissi, non ultimo fra i quali, come disse egregiamente il senatore Ponti, il passaggio graduale dal regime protezionista a quello del libero scambio senza quelle scosse e quei perturbamenti a cui dovrebbe inevitabilmente dar luogo la traduzione in atto delle teorie caldeggiate dal prof. Einaudi.

 

 

Mi professo, con distinta osservanza,

 

Suo dev.mo

 

Giorgio Mylius

 

Pres. dell’Assoc. Cotoniera Italiana

 

Milano, 20 marzo 1914.

 

 

Suppongo che oramai i lettori abbiano potuto farsi un’idea esatta del dibattito suscitato dal mio articolo sui sindacati industriali e protezione doganale. Sicché basterà riassumere i punti intorno a cui v’è disaccordo fra me ed i miei egregi contraddittori.

 

 

Alcuni dissensi possono chiamarsi di fatto:

 

 

1)    talvolta non esisterebbe la protezione doganale, come per i concimi chimici, e mancherebbe quindi la base della discussione; al che osservai che la protezione può essere parziale, per alcuni soli prodotti chimici e materie utili all’agricoltura, e può essere utilizzata da organizzazioni connesse con quelle che hanno, anche nel linguaggio comune, il nome di sindacato;

 

 

2)    che altra volta non esistono i sindacati (trusts) incriminati; e sarebbe il caso dell’industria cartaria, a proposito della quale il presidente dell’associazione dei fabbricatori di carta ed enti anni scrive, in una lettera a me indirizzata, «non constare a lui che esistano sindacati nell’industria cartaria; anzi constare nel modo più positivo non essere neppure possibile di portare le ditte a risultati effettivi sul terreno di semplici accordi per migliorare alcune condizioni di vendita, come la fatturazione dell’imballaggio o la spedizione in porto franco».

 

 

3)    L’indagine pubblica, che oramai si appalesa necessaria, dovrà accertare questi fatti. Naturalmente però – è opportuno avvertirlo espressamente per evitare equivoci – non dovrà partire dalla premessa che siano sindacati soltanto quelli che hanno certe determinate caratteristiche, che si suppone o si favoleggia esistano sempre nei sindacati stranieri e mai in quelli italiani. Non esistono sindacati classici o tipici; esistono invece moltissime e variabilissime forme di essi: dalle società anonime che risultano dalla fusione di parecchie imprese prima concorrenti ai sindacati o cartelli con ufficio di vendita, ai sindacati per fissare i prezzi o le condizioni, o le zone di vendita, ai semplici e transitori accordi, anche solo verbali. Vi sono sindacati, la cui caratteristica è persino il semplice adunarsi a colazione dei capi delle imprese concorrenti, per discorrere con tranquillità degli interessi comuni. Almeno negli Stati uniti tutti sono d’accordo nel reputare anche questa una forma di sindacato (o trust), talvolta più pericolosa di altre in apparenza più rigide. Ed è inutile avvertire che non è affatto necessario che il sindacato si riferisca ai prezzi. L’accordo può farsi sulle modalità della consegna, del pagamento, sulle tare, sugli imballaggi; sempre si avrà un accordo, suscettibile di tradursi in lire e centesimi e quindi in una variazione sostanziale di prezzo;

 

 

4)    con la quale osservazione si risponde all’obiezione di coloro i quali osservano che, sindacandosi, non hanno voluto aumentare i prezzi, ma organizzare meglio la produzione ed il consumo. Il che avevo esplicitamente avvertito essere questo un possibile ed utile frutto dell’organizzazione sindacale; ma poiché tutti i sindacati di tutti i paesi adducono questa loro ragion d’essere, pare necessario saggiarne la portata, per vedere fin dove l’organizzazione riesca vantaggiosa ai consumatori e quando cominci ad essere utilizzata a loro danno;

 

 

5)    che i sindacati italiani sono modestissime cose in confronto agli stranieri. Ciò ripete anche il Mylius e rifà il conto dei 3 centesimi di più che verrebbe a costare ogni camicia se il sindacato dei filatori di cotone riuscisse nel suo intento.

 

 

Certamente fa d’uopo distinguere fra sindacato e sindacato e misurare esattamente la pressione sui prezzi che essi possono, giovandosi della protezione doganale, esercitare sui consumatori. È probabile che l’industria cotoniera, in regime normale di concorrenza – anche astrazion fatta, cioè, dai momenti di crisi e di disorganizzazione – non utilizzi il margine di protezione doganale, di cui essa gode. Ma appunto per ciò, non è desiderabile che si costituisca un sindacato forte nel suo seno, sindacato il quale, qualunque fossero le intenzioni dei promotori, presenterebbe il pericolo di tendere ad utilizzare l’intero dazio protettivo. Io, ad esempio, non sarei d’accordo col Mylius nello stimare scarsissimo il peso da darsi all’aumento dei prezzi che un sindacato di filatori e tessitori di cotone, i quali premiassero l’esportazione all’estero, potrebbe provocare. Una recente polemica, in cui strenuamente e brillantemente battagliarono da un lato il senatore Ponti, il barone Cantoni, il comm. Mylius, il signor Soldini, e dall’altra il prof. Attilio Cabiati («La Riforma Sociale» dell’aprile del 1913) ed i signori Usigli e Freschi sul «Sole» ha messo in luce i vari aspetti e le complicazioni del problema.

 

 

Certamente tra un sindacato cotoniero, difficile a conchiudersi per la disparità degli interessi e delle produzioni, ed un’intesa, nazionale e persino internazionale, tra gruppi siderurgici, specie nelle produzioni di prodotti grezzi e semi-lavorati ed un sindacato zuccheriero assai lungo è il cammino; né la pressione sui prezzi, relativamente tenue e temporanea, del primo può essere paragonata a quella, più gravosa e permanente, del secondo e sovratutto del terzo. Può darsi che una precisa inchiesta dimostri la necessità dell’intervento dello stato solo nei casi in cui più saldo e forte è il legame sindacale (e forse il caso tipico è lo zucchero), mentre in altri casi (probabilmente il cotone) i consumatori possono fare affidamento più pronto e sicuro sulla difficoltà grandissima di costituire sindacati forti e vitali, data l’indole particolare dell’industria, che sembra ribelle, per fortuna, all’organizzazione sindacale.

 

 

Alle controversie di fatto si aggiungono quelle che si possono chiamare di principio:

 

 

1)    gli uni affermando che li protezione doganale è necessaria anche al di là del periodo di infanzia delle industrie; sia perché mai l’Italia si troverà in grado di resistere alla concorrenza straniera o sia perché nuove circostanze, come l’abolizione del lavoro notturno, la legislazione sociale, la persistente minor efficienza della mano d’opera italiana, il soverchio costo dei macchinari, ecc., rendono più costoso l’esercizio dell’industria in Italia.

 

 

2)    Intorno al qual punto dissi altra volta che nessuno tra gli economisti ed i politici, che si possono chiamare veri padri del protezionismo, volle questo come strumento permanente di vita economica. Sicché, in attesa di più ampia dimostrazione, finora non data, parmi legittima la aspettativa del legislatore di vedere, ad opera della concorrenza interna, ridotti, dopo un quarto di secolo di protezione, i costi al livello dei costi esteri. Legittima aspettativa, malgrado i fatti nuovi, i quali o non hanno riferenza al problema discusso od accaddero non in Italia soltanto, ma anche all’estero;

 

 

3)    ed altri sostenendo che i sindacati sono necessari per utilizzare la protezione doganale concessa dallo stato. Era questo il solo argomento specifico del mio articolo. La mia tesi, esservi cioè contraddizione stridente, insanabile tra la protezione concessa dal legislatore, nell’esclusivo intento che la concorrenza interna costringesse i produttori nazionali a ridurre i costi e quindi a ribassare i prezzi al livello dei prezzi esteri, e la costituzione di un sindacato non fu oppugnata formalmente da nessuno. Soltanto il Mylius vi fa un accenno sostenendo che il mezzo migliore per giungere al libero scambio e per ridurre i costi di produzione dell’industria cotoniera italiana al livello estero è appunto la organizzazione sindacale.

 

 

È invece mia convinzione profonda che l’industria cotoniera troverà la sua salvezza nella sopravvivenza dei più forti e nella rovina degli organismi deboli; non mai nella innaturale riunione degli uni e degli altri.

 

 

Su un punto l’accordo è parso unanime: nella convenienza di una larga pubblicità data all’opera dei sindacati. Ma ho gran paura che l’accordo sia puramente apparente. Ed invero alcuni si proffersero di fare studiare da me o da altri le condizioni della loro industria; altri dichiararono di avere invitato industriali tessitori a controllare l’opera dei filatori; altri disse che esiste già una reale commissione incaricata di studiare il regime doganale. Ad evitare equivoci, è bene ripetere che l’unica specie di pubblicità nella quale io creda è quella classica, all’inglese, del resto in parte già osservata in Italia nella prima inchiesta doganale; ossia l’interrogatorio pubblico, in sale aperte ai giornalisti e con diritto nei giornali di riprodurre quotidianamente domande e testimonianze. Gli inquirenti dovrebbero avere poteri larghissimi di richiedere produzione di documenti, registri, conti; e dovrebbero essere, a preferenza, scelti fra persone pratiche appartenenti anche e sovratutto alle industrie ed ai commerci a cui i sindacati vendono i loro prodotti. Dovrebbero essere interrogati non solo i dirigenti dei sindacati, ma anche gli estranei, ossia coloro che al sindacato non appartengono; e, possibilmente, si dovrebbe andare alla ricerca di coloro che dai sindacati furono eliminati. Tutto ciò non è sicuramente molto facile ad eseguirsi; ma si illudono grandemente coloro i quali credono che l’opinione pubblica possa acquetarsi ai procedimenti segreti ed ai rapporti ufficiali delle commissioni governative sul regime doganale, alle comunicazioni confidenziali fatte agli studiosi od al controllo di qualche piccolo gruppo di interessati. È verissimo che l’industria richiede, per svolgersi con successo, rapidità, segretezza e lontananza dalla politica. Mi guarderei bene dall’invocare inchieste a carico di industrie, le quali null’altro chiedessero allo stato fuorché di essere lasciate in pace. Ma, quando si vogliono le protezioni governative e si vuole organizzarsi per utilizzarle, nasce il dubbio che l’organizzazione contrasti coll’interesse pubblico, sicché fa d’uopo che il dubbio venga dissipato nell’unica maniera consentita in un paese libero: ossia colla pubblica discussione.



[1] Con il titolo Concludendo [ndr].

[2] Ristampato ne Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 385-394 [ndr].

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