Opera Omnia Luigi Einaudi

Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna in Italia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/03/1933

Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna in Italia

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1933, pp. 203-218

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 317-332

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 71-88

 

 

 

A Catalogue of the Library of Adam Smith, Second Edition, prepared for the «Royal Economic Society» by JAMES BONAR. With an Introduction and Appendices. London, 1932, Macmillan and Co., St. Martin’s Street. Un vol. in 8° di pag. XXXIV-218. Prezzo scellini 21.

 

 

1. – Chi possedeva la prima edizione del catalogo (1894; p. XXX-126) non è rimasto disilluso nel confrontarla con la nuova venuta alla luce trent’otto anni dopo, ad opera del medesimo curatore. Economista fine, conoscitore peritissimo della letteratura classica, bibliofilo accorto, James Bonar era uomo atto a costruire, scheda a scheda, con pazienti ricerche cominciate, a quanto risulta da lettera del suo primo corrispondente (pag. 205), verso il 1879, questo prezioso strumento di lavoro. Insieme con l’edizione critica dalla Wealth of Nations del Cannan, la Life of Adam Smith di John Rae, gli appunti di scuola di uno studente riscoperti e ripubblicati dal Cannan col titolo Lectures on Justice, Police, Revenue, and Arms,il catalogo del Bonar è uno dei sei testi (il quinto ed il sesto sarebbero l’edizione critica tuttora mancante di The Theory of Moral Sentiments e degli Essays on Philosophical Subiects; epperciò bisogna ricorrere agli originali o contentarsi di ristampe qualunque) indispensabili allo studioso di Adamo Smith.

 

 

2. – Che Adamo Smith possedesse una biblioteca ed amasse i suoi libri è di nozione comune, non foss’altro per la frase autobiografica: «Io non sono un beau in nulla, eccettochè nei miei libri». Sebbene l’Higgs, altro economista-bibliofilo, sia scettico intorno al significato della frase, a causa delle legature piatte e dell’ex libris troppo semplice, (cfr. The Economic Journal, dicembre 1932, p. 625), par certo che lo Smith pur non prediligendo le prime edizioni e le rilegature di lusso (eccettoché negli esemplari ricevuti o inviati in regalo), amò i libri come li ama lo studioso, per usarli. Non faceva segni o commenti sulle pagine, scrivendo di sua mano solo gli indici dei volumi di miscellanea che egli riuniva, come allora si usava, in volumi legati. Ne raccolse buon numero. Il Mac Culloch, il quale vide la biblioteca prima della dispersione, la stimava ricca di 5.000 volumi, l’Higgs la riduce a forse 4.000, ed il Bonar la ritiene più vicina ai 3.000 che ai 5.000. Il solo manoscritto importante, in pergamena, con le armi di Venezia sulla copertina, contiene, dice il catalogo (pag. 190), statuti veneziani. Il Bonar è riuscito ad appurare l’esistenza e, salvo pochissimi casi, l’attuale possessore di 1.100 libri od opuscoli, contenuti in 2.200 volumi, più della metà della consistenza originaria. Passata in mano del cugino ed erede universale David Douglas, divenuto poi Lord Reston, essa fu divisa fra le due figlie di questi, maritate in Cunningham ed in Bannermann. La quota Bannermann, comprendente circa 1.400 volumi, è oggi, per legato del nipote di Lord Reston, proprietà del New College di Edinburgh. L’altra quota fu in parte venduta dalla signora Cunningham nel 1879 ed in parte trasmessa al figlio suo naturalista e professore a Belfast, che ne regalò alcuni al Queen’s College di quella città. Alla morte di lui, nel 1918, i rimanenti andarono dispersi. Il blocco più grosso (132 libri in 300 volumi) finì all’università imperiale di Tokio. Parecchi ne raccolse il prof. Foxwell, e da lui i più passarono alla Goldsmiths’s Library di Londra od alla biblioteca della Yale University, a New Haven; altri ne mise insieme il Bonar e da lui passarono alla università di Glasgow; alcuni ne possedeva il prof. Nicholson, ed un campione ognuno riuscirono ad avere il Keynes, l’Higgs ed il Cole.

 

 

3. – Il Bonar dà, in ordine alfabetico, l’elenco di tutte le opere un tempo appartenute alla biblioteca di Adamo Smith, con quelle maggiori notazioni bibliografiche che egli è riuscito ad ottenere dalla ispezione personale del volume o da indicazioni fornite dai possessori: titolo, formato, luogo, data, edizione. Se possibile, aggiunge notizie sul modo probabile con cui il libro pervenne fino ad Adamo Smith e meticolosamente nota le traccie del passaggio nelle sue mani. Sempre ne indica l’attuale possessore; talvolta ne segnala, colla voce dei contemporanei o dei moderni, l’importanza storica o dottrinale. Ma la caratteristica essenziale dell’elenco è il riscontro dell’uso fatto del libro dallo Smith attraverso le citazioni, dirette od indirette, che si trovano in qualcuno dei suoi scritti. Quando la citazione è caratteristica, essa è riprodotta in inchiostro rosso, così da dare anche l’impressione visiva del partito tratto da Adamo Smith dalla lettura dei libri da lui posseduti. Fatica davvero mirabile volta a facilitare il compito di chi voglia studiare le fonti del pensiero smithiano.

 

 

4. – Le fonti erano varie e ricche. Agli scimmiotti, i quali parlano dei grandi economisti come di gente chiusa nella eburnea torre della speculazione astratta, dedico il seguente estratto da me compilato dei libri scritti in lingua italiana, i quali risultano posseduti dallo Smith. Forse egli cominciò a studiare l’italiano in Francia; ed è francese una Grammaire italienne, pratique et raisonnée (Paris, 1758) dell’abate Antonini, la quale, insieme con un Dictionnaire italien, latin et français (Paris, 1735) dello stesso, figura nella lista. Ma s’era altresì provveduto del Vocabolario della Crusca nei sei volumi in foglio dell’edizione di Napoli, 1746. I libri italiani giungono a 56 in 169 volumi, il 5,10 ed il 7,7 per cento rispettivamente, non piccola proporzione, del totale dei libri e volumi elencati.

 

 

Parecchi toccano le arti belle: On sculpture (in italiano?) di L. B. Alberti (s.d.), Le Vite dei Pittori del Bellori (Roma, 1671) e del Vasari (Bologna, 1674), L’Architettura del Palladio (Venezia, 1570) e quella del Vitruvio, tradotta dal marchese Galiana (Napoli, 1758) e On Painting (in italiano?) di Leonardo da Vinci (s.d.).

 

 

Preferiti sono i poeti: dalla bella collezione in 32 volumi (sui 56 usciti fino al 1802) Il Parnaso italiano dello Zatta (Venezia, 1784/1788) si passa alle Poesie drammatiche di Apostolo Zeno curate da Gaspare Gozzi in 10 volumi (Venezia, 1744), ai 12 volumi di Poesie di Metastasio (Parigi, 1755), ai cinque volumi del Nuovo teatro comico del Capacelli Albergati (Venezia, 1774). Leggeva i grandi poeti in belle edizioni: la Divina Commedia nei cinque volumi in quarto di Venezia, 1757, il Convito e la Vita Nuova nei quattro volumi in quarto di Venezia, 1772, le Rime del Petrarca in due edizioni (Bergamo, 1752 e Venezia 1756, nell’in quarto curato dal Castelvetro). Possedeva la Gerusalemme liberata nei quattro volumi di Londra del 1724 e nei due graziosi del Foulis di Glasgow del 1763; dell’Ariosto l’Orlando Furioso, nell’edizione in quattro volumi di Parigi, 1746, e le Comedie in quella di Firenze, 1724; del Boiardo l’Orlando innamorato (Venezia, 1609) ed il rifacimento del Berni (Parigi, 1768); le Opere del Chiabrera (Venezia, Pasquali, 1771-1782), il Torracchione desolato del Corsini (Londra, 1768), il Pastor fido del Guarini (un dodicesimo s.d.), le Poesie del Guidi (Verona, 1726), il Malmantile racquistato del Lippi (Parigi, 1768), la Merope del Maffei (Londra, 1721), l’Adone (Venezia, 1623) ed i tre volumi della raccolta intitolata La Lira (Venezia, 1674) del Marino, il Morgante Maggiore del Pulci (Firenze, 1752), l’Arcadia del Sannazzaro (Venezia, 1624).

 

 

Nella categoria affine dei novellieri e scrittori in prosa, a tacere della raccolta The Italian Library, del Baretti, entrano il Decamerone del Boccaccio (s.d.), i Ragguagli di Parnaso del Boccalini (Amsterdam, 1669), le Lettere famigliari del Caro (s.l., 1581), il Cortegiano del Castiglione (in una edizione dei figli di Aldo, del 1547), la Ragion pratica del Guarino (Napoli, 1716), i Pensieri diversi del Tassoni (Venezia, 1676) e L’Anima del frate sfratato e libellista, decapitato come eretico in Avignone, Ferrante Pallavicini (Colonia, 1675).

 

 

Scarso è il drappello degli scrittori scientifici: prediligeva il Galilei, delle cui Opere si procurò l’edizione in due volumi di Bologna del 1656 e quella in quattro di Padova del 1744; ed ebbe gli Opuscoli di fisica animale e vegetabile dello Spallanzani nei due volumi di Modena del 1766. Per contro, nutrito è il gruppo storico: le Storie Fiorentine dell’Ammirato (Firenze, 1641), le Relazioni (Anversa, 1629) e le Lettere (Colonia, 1646) del cardinale Bentivoglio, il Della Repubblica e dei magistrati di Venezia del Cardinale Contarini (Venezia, 1650), l’Historia delle guerre civili del Davila (Londra, 1755), l’Istoria della Repubblica di Venezia del Garzoni (Venezia, 1720), la Storia d’Italia del Guicciardini (Venezia, 1738), le Opere del Machiavelli (Londra, 1768), l’Historia dei fatti e guerre dei Senesi del Malavolti (Venezia, 1599), una Relatione delle revolutioni popolari a Napoli (1648), le Opere (in sei volumi di Venezia, 1688) e l’Historia del Concilio Tridentino (Ginevra, 1629) del Sarpi, questa poi ancora voltata in inglese da Sir Nathaniel Brent (London, 1629), le Storie Fiorentine del Varchi (Colonia, 1721) ed in aggiunta la collezioni degli Storici veneziani del Sebellico in 11 volumi in quarto (Venezia 1718).

 

 

E gli economisti? Due soli nomi, di gran fama, vi sono rappresentati; ma del Beccaria egli possedeva soltanto Dei delitti e delle pene nella traduzione francese del Morellet (Losanna, 1766); sicché, – non essendo il libro tra quelli economici del Beccaria, di cui del resto, se la prolusione del 9 gennaio 1769 alle Scuole Palatine di Milano fu l’anno medesimo voltata in inglese, gli Elementi rimasero inediti sino al 1804, – noi siamo ridotti al solo nome di Pietro Verri. Delle meditazioni sulla economia politica lo Smith possedeva due esemplari, ambi datati da Livorno, 1772. Di uno solo è detto essere uscito dalla stamperia dell’Enciclopedia; ma par probabile che ambedue gli esemplari fossero della sesta edizione di quell’anno, nella quale non furono comprese le malevoli annotazioni del Carli e furono inserite invece parecchie aggiunte, principalmente di indole matematica, oltre al transunto compilato dall’abate Frisi del libro sulla moneta del generale Lloyd, apparso a Londra nello stesso anno, 1771, in cui venivano alla luce le Meditazioni. Sicché lo Smith potrebbe aver conosciuto le teorie economiche del Lloyd, di cui non risulta possedesse, insieme ad uno scritto militare, anche l’opera economica, attraverso il libro dell’amico suo italiano.

 

 

5. – Del Verri non consta però che lo Smith traesse partito, nessuna citazione di lui o di altri economisti italiani comparendo nei suoi libri. Invece sono ricordati, tra i poeti, soprattutto nel saggio postumo Of the Affinity between certain English and Italian verses, l’Ariosto (single rhymes occur very rarely in Ariosto), il Tasso, lo Zeno, il Petrarca, e fra i prosatori il Davila ed il Galileo. Dal Guicciardini trasse la notizia, economicamente interessante, essere l’Italia innanzi all’invasione di Carlo VIII coltivata non meno nelle regioni montagnose e sterili che in quelle piane e fertili. Lo Smith attribuisce il fatto alla vantaggiosa situazione del paese ed al gran numero di stati indipendenti che allora esistevano; ma opina che «nonostante siffatta opinione genericamente espressa di uno dei più giudiziosi e prudenti storici moderni, l’Italia non fosse allora meglio coltivata dell’Inghilterra d’oggi». Machiavelli è utilizzato quattro volte, fra le quali una volta per ricordare la cacciata da Lucca nel 1310, ad opera del tiranno Castruccio Castracani, di novecento famiglie di artigiani, le quali trasportarono in Venezia l’industria della seta, ed un’altra per provare la scarsa convenienza dell’esercizio del commercio da parte dei principi, coll’esempio di Lorenzo dei Medici, il quale, dopo aver accollate ripetutamente le sue perdite alla città, si indusse alfine a tralasciare la mercatanzia.

 

 

6. – L’Higgs ha segnalato, nella citata recensione di questo libro mirabile per erudizione sopraffina, non più di tre indicazioni non piene o non perfette. A proposito di una di queste aggiungerò un rilievo. Fra i libri al cui possesso Adamo Smith teneva maggiormente vi sono i Mémoires concernant les Impositions et Droits en Europe di J.L. Moreau de Beaumont. Ci teneva tanto da rifiutarne il prestito a Sir John Sinclair, autore dell’History of the Public Revenue, mosso al rifiuto dal timore che un’opera ottenuta in dono per particolare favore dal Turgot, quando questi era controllore generale delle finanze in Francia; e di cui appena tre copie esistevano a sua saputa in Inghilterra, andasse nel viaggio smarrita. L’Higgs ritiene che la copia dello Smith, non rintracciata dal Bonar, si trovi in una biblioteca di Edinburgo. Sarebbe interessante controllare la notazione del Bonar su quella o su altra copia (in Francia non devono essere rarissime, perché il libro del Beaumont «a été longtemps le seul où l’on pût s’instruire, avec quelque certitude, de l’état de la France: c’était le Manuel des Intendants». Non dunque un libro segreto, stampato per sola circolazione privata, ed una copia è posseduta dall’amico Piero Sraffa. Il Bonar, nella prima edizione, descriveva l’opera come stampata a Parigi nell’Imprimerie Royale, i vol. I a IV nel 1768-1769 ed il V nel 1789; e nella seconda corregge esplicitamente la data in 1768 e 1769, sempre dell’opera in cinque volumi. La verità è che la prima edizione stampata a Parigi nel 1768-1769 nella stamperia reale era in quattro volumi in 4° (cfr. anche la Bibliographie dello Stourm); e che nel 1787 fu intrapresa una nouvelle édition, pure in quarto, conforme «à celle de l’Imprimerie royale, avec des supplémens et des tables alphabétiques et chronologiques par Mr. Poullin de Viéville». I primi quattro volumi (I, pp. XVI-359, II, pp. X-353, III, pp. 512, ma la seconda pagina è numerata da 2 a 62, IV, pp. 768-73, ma la seconda pagina della prima parte è numerata da 2 a 334) portano la data del 1787 e sono la riproduzione dei quattro volumi della prima edizione. Il quinto volume o tomo «contenant les supplémens par l’éditeur» ha la data del 1789 e conta 610 pagine. Tutti i cinque volumi non escono già dalla stamperia reale, ma sono editi «Chez J. Ch. Desaint, Imprimeur du Châtelet, rue de la Harpe, N. 133, avec approbation et privilège du Roi». L’opera, frutto di un’inchiesta condotta fuori di Francia a mezzo di rapporti ufficiali compilati per ordine delle corti interpellate e di diligenti ricerche all’interno, meritava, per la autorevolezza delle fonti, la stima che ne fece lo Smith citandola e sfruttandola largamente, ed ancora oggi può essere messa tra i manuali per gli studiosi se non più per gli intendenti, come si esprime la frase che sopra riprodussi traendola dalla prefazione alla seconda edizione.

 

 

7. – Poiché mi trovo a discorrere di un monumento bibliografico elevato dalla reverenza moderna verso il grande economista, colgo l’occasione di augurare che qualcuno voglia studiare la fortuna dello Smith in Italia con maggiori particolari di quanto non abbia potuto fare il Palyi nello studio The Introduction of Adam Smith on the Continent (in Adam Smith, 1776 – 1926, University of Chicago Press, 1928, pag. 187-191), dove la prima citazione italiana, su punti particolari, di Adamo Smith è fatta risalire a Giambattista Vasco nel 1790, e si ritiene che il passaggio dalla «posizione di autore rispettabile scarsamente citato a quella di grande pensatore di larga influenza… dovette aver luogo quasi d’un tratto durante i primi anni napoleonici… in gran parte attraverso l’influenza di Say e di altri scrittori francesi». Non discuto la conclusione del Palyi, la quale può forse essere in massima abbastanza esatta; ma egli non ha apprezzato giustamente la circostanza che nell’anno stesso della morte dello Smith (e non nel 1779, come egli scrive, traendo deformata la notizia dal Fornari, il quale invece dà l’altra data erronea del 1780 ripetuta dal Rae; cfr. Delle Teorie, II, 61, e Life, 360) usciva in Napoli il primo volume delle Ricerche sulla natura e le cagioni della ricchezza delle nazioni del signor Smith, tradotte per la prima volta in italiano dall’ultima edizione inglese, e nel 1791 la pubblicazione era compiuta in cinque volumi, editi presso Giuseppe Policarpo Merande. La traduzione è detta dal Cossa «molto

inferiore a quella inserita nella Biblioteca dell’Economista» (Introduzione, 311), giudizio ripetuto dal Michels (Introduzione, 199, nota). Il giudizio pare soprattutto appropriato per ciò che se la versione recente, che diremo del Ferrara, 1851, tradisce solo indirettamente la derivazione francese – nel senso che il traduttore probabilmente tenne sotto occhio, oltre al testo inglese, anche la traduzione francese del Garnier ed abbandonò francamente l’indice originale della terza edizione smithiana per attenersi in principal luogo a quello compilato dal traduttore francese e nel 1843 ripubblicato nella collezione Guillaumin, la versione anonima del 1790 pare di derivazione esclusivamente francese. Per tenermi alle prove più appariscenti, il famoso periodo con cui il libro si apre: «Il travaglio, che una nazione fa in un anno, è la sorgente, d’onde ricava tutte le cose necessarie, e voluttuose, che consuma annualmente» pare tradotto piuttosto dal francese: «Le travail annuel d’une nation est la source d’où elle tire toutes les choses nécessaires et commodes qu’elle consomme annuellement» che non dall’originale: «The annual labour of every nation is the fund hich originally supplies it with all the necessaries and conveniences of life, hich it annually consumes». Le parole labour e fund che il Ferrara correttamente non si arbitra di cambiare e traduce con lavoro e fondo diventano sotto la penna del traduttore di seconda mano travaglio e sorgente. Tra le due versioni francesi dell’abate Blavet (1779-1780, 1780, 1788 e 1800-1801) e del poeta Roucher (1790 e 1794), quella del conte Germain Garnier (1800) essendo fuori causa, preferirei indicare la traduzione Blavet come fonte della nostra, sia per la derivazione di qualche nota sia per taluna somiglianza del fraseggiare. Il but when the barter ceases dell’originale (ed. Cannan, primo, 34) è tradotto «quando i cambi non si fanno più immediatamente» dal «lorsque les échanges ne se font plus immédiatement» del Blavet, piuttostochè dal «mais lorsque l’échange en nature cesse» del Roucher. La traduzione italiana non tenne conto delle aggiunte e correzioni che lo Smith introdusse dopo la prima edizione, perché il Blavet tradusse quelle aggiunte soltanto nell’edizione del 1800 (Recherches, etc., traduit de l’anglais d’Adam Smith, par le citoyen Blavet, in 4 vol. Paris, de l’imprimerie de Laran et C. 1800-1801; e da questa traggo le citazioni fatte in seguito). Quelle precedenti (una in sei volumi in 12° di Yverdun 1780, ed altra in due volumi in 8° di Parigi, presso Dupain, 1788) sono tutte semplici ristampe, la prima, a detta del Blavet medesimo, «plus fautive» e la seconda «encore plus défigurée que… celle d’Yverdun», della edizione originale pubblicata a puntate, fra il gennaio 1779 ed il dicembre 1780, «pour remplir» il Journal de l’Agriculture, des Arts et du Commerce e cavare il direttore Ameilhon dall’«embarras où le jetait la disette d’articles intéressants». Il Blavet si scusava nel 1800 della fretta con cui, per compiacere all’amico, s’era indotto a consegnargli il manoscritto di una versione, che egli non aveva fatto «que pour [son] utilité particulière, avec la négligence d’un homme indépendant du jugement d’autrui, et avec la conscience de tout ce qui me manquait pour rendre exactement l’original». Le scuse non gli vietarono di inviare «A M. Smith, de la part de son très-humble serviteur, l’Abbé Blavet», una copia della sua traduzione che il Bonar (pag. 174) misteriosamente descrive in tre volumi, 12mo, Paris 1781. Edizione misteriosa, perché non pare sia né la ristampa di Yverdun in sei volumi 1780, né quella di Parigi, in due vol. del 1788. Forse è «un des vingt exemplaires qu’on avait tirés à part lorsqu’on l’imprimait dans le journal de monsieur Ameilhon» e che il Blavet afferma d’avere inviato in omaggio allo Smith. Il B. avrà fatto legare l’estratto in tre volumi con la data di Parigi, che era quella del Journal. Il Blavet, irritato dalla concorrenza della traduzione fatta dal Roucher, rimprovera – sulla testimonianza di un M. Morel, autore di una teoria dei giardini e sedicente amico del povero poeta Roucher e forse è questa la fonte della uguale condanna pronunciata di nuovo or non è molto dall’Allix in Revue d’histoire des doctrines économiques et sociales, 1912, 318 – a costui di non sapere l’inglese sicché la sua versione «ce n’est qu’un travestissement de la mienne qu’il avait toujours sur sa table, et qui lui servait de trucheman, excepté dans les additions qui ne s’y trouvent point, parce que je l’avais faite sur la première édition anglaise». Della accusa importa ritenere che la versione Blavet originaria era fatta sulla prima edizione inglese, cosicché la versione italiana, derivata dal Blavet, indirettamente, sebbene malamente, riproduce la prima edizione della Ricchezza delle nazioni, laddove la traduzione ferrariana è conforme all’ultima.

 

 

8. – La prefazione del Blavet alla seconda edizione del 1800 è importante non solo per le notizie che ora ne ho tratte, sibbene anche per alcuni estratti da due lettere di Adamo Smith, della cui esistenza non ha trovato traccia né nella Life del Rae, la quale tuttavia è il maggior repertorio in materia, né nelle annotazioni alla vita scritta dal Dugald Stewart, nel Catalogue del Bonar, nel Dictionary del Palgrave e nell’Economic Journal, fonti parimenti autorevoli di informazione in argomento. Il Rae ricorda bensì che lo Smith frequentò assiduamente nel 1766 a Parigi il salotto della contessa di Bouflers-Rouvel, amica del principe di Conti e corrispondente di Davide Hume. La contessa si piccava di filosofia e più tardi nel 1770 pensava di tradurre in francese la Theory of Moral Sentiments (Rae, 199). Come l’intenzione si concilii con quel che lo Smith lascia capire nel brano di lettera inviata «au sujet de ma traduction de la Théorie des Sentiments moraux» che il Blavet riproduce (I, XXIV) non è agevole chiarire fondatamente:

 

 

«C’était une grande mortification pour moi de voir la manière dont mon livre (Théorie des Sentiments moraux) avait été traduit dans la langue d’une nation où je n’ambitionne sûrement pas d’être estimé plus que je ne le mérite. Votre bonté généreuse m’a délivré de cette peine, et m’a rendu le plus grand service qu’on puisse rendre à un homme de lettres. Je me promets un grand plaisir à lire une traduetion faite, parce que vous l’avez désiré. Si ce n’est pas être trop curieux:, je serais bien aise de savoir le nom de la personne qui m’a fait l’honneur de me traduire».

 

 

Parrebbe, da questo che è intitolato Extrait d’une lettre de Smith à Mme la comtesse de Boufflers e di cui è detto trattarsi di una traduzione «confrentée d’un bout à l’autre avec l’original par Mme de Boufflers, connue pour une femme de beaucoup d’esprit et de goût, et qui entendait et parlait fort bien l’anglais», che lo Smith fosse stato mortificato per il modo con cui il suo libro era stato tradotto in francese (nella prima edizione, comparsa nel 1764 col titolo Métaphysique de l’âme?) e fosse stato tratto di pena dalla comparsa nel 1774 della versione Blavet fatta dietro preghiera della Boufflers, la quale avrebbe abbandonato quindi l’intenzione di tradurla essa stessa, intenzione ripresa poscia dalla marchesa di Condorcet nel 1798. Lo Smith non dà qui in verità alcun giudizio sul merito della versione. Perciò è più interessante la seconda lettera, la quale sarebbe stata scritta a proposito della primissima traduzione della Ricchezza delle nazioni e precisamente di quella intorno alla quale l’abate Morellet, inacerbito dal disappunto di non essere riuscito, egli amico dello Smith, da cui aveva ricevuto in regalo un bel portafoglio inglese da tasca, a pubblicare in tempo la sua traduzione, dà il seguente feroce giudizio: «Un ex-bénédictin, appelé l’abbé Blavet, mauvais traducteur de la Théorie des sentiments moraux, s’était emparé du nouveau traité de Smith, et envoyait toutes les semaines, au journal du commerce, ce qu’il en avait broché; tout était bon pour le journal qui replissaity son volume, et le pauvre Smith était trahi plutôt que traduit, suivant le proverbe italien, traduttore traditore». (Mémoires, I, 224). Ecco la lettera dello Smith:

 

 

«Monsieur, mon respectable ami, Mr. Lumsden, m’a fait l’honneur de me remettre votre lettre avec votre excellente traduction de mon ouvrage dans le dernier séjour que j’ai fait à Londres, où j’ai été si occupé de différentes affaires, que je n’ai pas eu le temps ni le loisir de vous remercier de la grande faveur, ainsi que de l’honneur que vous m’avez fait. Je suis charmé de cette traduction, et vous m’avez rendu le plus grand service qu’on puisse rendre à un auteur, en faisant connâitre mon livre à la nation de l’Europe dont je considère le plus le goût et le jugement. J’étais fort content de votre traduction de mon premier ouvrage; mais je le suis encore plus de la manière dont vous avez rendu ce dernier. Je puis vous dire, sans flatterie, que partout où j’ai jeté les yeux dessus (car comme il n’y a que peu de jours que je suis parti de Londres, je n’ai pas encore eu le temps de la lire en entier) je l’ai trouvée, à tous égards, parfaitement égale à l’original.

 

 

Quelques jours après avoir quitté Londres, j’ai recu une lettre d’un grentilhomme qui est à Bordeaux. Il s’appelle le comte de Nort, et il est colonel d’infanterie au service de France. Il me mande qu’il a traduit mon livre en fraçais, et qu’il se propose de venir en Écosse pour soumettre sa traduction à mon jugement avant de la publier. Je lui écrirai par le prochain courrier que je suis si satisfait de la vôtre, et que je vous ai personnellement tant d’obligation, que je ne puis en encourager ni en favoriser aucune autre».

 

 

«Cette lettre» intitolata Extrait de la lettre que Smith m’a fait l’honneur de m’écrire, dice il  Blavet, «est datée d’Edinbourg, le 23 juillet 1782» e la sua autenticità riposa sulla dichiarazione del Blavet. Che nel 1782 lo Smith si fosse recato a Londra risulta da una lettera del 7 dicembre di quell’anno all’editore Cadell in cui egli si scusa della pigrizia dimostrata dopo il ritorno in Scozia, adducendo per motivo la dissipazione del leggere i molti libri nuovi o nuovamente pubblicati che egli aveva comprato a Londra e che lo avevano distratto dal compito di approntare una nuova edizione della Ricchezza delle nazioni (Rae, Life, 362).

 

 

Il signor Lumsden della lettera al Blavet è probabilmente Andrew Lumisden, segretario del principe Carlo Stuart (il pretendente conosciuto come prince Charlie, sconfitto a Culloden nel 1745), il quale, ritornato in Scozia dopo lungo esilio politico, conviveva coll’antiquario e naturalista Mc Gowan, e faceva parte del club settimanale, fondato dallo Smith, dal chimico Black e dal naturalista Hutton, poscia esecutori testamentari ed editori delle opere postume dello Smith, il quale li radunava a pranzo ogni venerdì alle due pomeridiane in una taverna di Grossmarket in Edimburgo. Il Lumisden era intimo amico dello Smith e il ritratto di lui composto dal Tassie è una delle poche reliquie delle cose di Smith giunte fino a noi (Rae, Life, 334 e 335). Il Lumisden vissuto a lungo in esilio in Francia aveva forse avuto occasione di conoscere qui il Blavet.

 

 

Gli elogi inviati dallo Smith al traduttore dei suoi due libri hanno del resto più l’indole del ringraziamento di cortesia scritto appena ricevuto il dono, che non del giudizio meditato. Non pare che fra i due sia seguito altro carteggio; ché il 18 novembre 1788, incitando il Blavet ad attuare il disegno di una nuova edizione (quella uscita poi nel 1800), il signor Guyot, di Neuchatel, amico del prof. Dugald Stewart, il futuro biografo dello Smith, gli si profferiva come intermediario: «J’ai lieu de croire que ce voeu [di riprendere la vecchia traduzione] sera pareillement celui de Mr. Smith; et comme je sais que toute correspondance le peine un peu, je me ferai un vrai plaisir de le lui faire parvenir, par son ami [il Dugald Stewart], ce que vous aurez à lui dire» (lettera del Guyot, riprodotta in Préface, cit., I, XXII).

 

 

Che il Guyot fosse intrinseco del Dugald Stewart risulta anche dalla menzione che quest’ultimo ne fa in una lettera del 10 maggio 1789 da Parigi e dalla nota del curatore delle opere dello Stewart, sir William Hamilton, il quale lo dice «ecclesiastico svizzero, notabile per meriti letterari ed intimo amico dello Stewart»; ma che l’opinione vera, non quella delle lettere di complimento, dello Smith e dello Stewart intorno ai meriti delle versioni blavettiane fosse tanto benevola può essere fondatamente messo in dubbio quando si legga una delle note apposte dallo Stewart nel 1810 alla Vita dello Smith da lui scritta nel 1793: «La Teoria dei sentimenti morali non attrasse in Francia tutta quella attenzione che si poteva sperare se non dopo la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni. Il signor Smith costumava accagionar di ciò in parte la traduzione dell’abate Blavet, che egli giudicava mediocremente (but indifferently) eseguita». Lo Stewart, il quale aggiunge, come seconda e miglior ragione, il basso stato degli studi etici e metafisici in Francia prima dell’Enciclopedia, non esclude però quella addotta dallo Smith (The Collected Works of Dugald Stewart, edited by Sir William Hamilton, vol. X, pag. CXXV, testo e nota, ed 86, nota F).

 

 

9. – Poiché il traduttore italiano non poteva ancora avere sotto occhio il mediocre francese di là da venire delle aggiunte, egli, dopo la dichiarazione: «Il libro più grande che di essi [gl’Inglesi] abbiamo, sono le Ricerche sulla natura e le cagioni della ricchezza delle nazioni, che io ho trasportato fedelmente nella italiana favella, dall’ultima (!) edizione inglese», avrebbe dovuto usare maggior prudenza nell’aggiungere: «Questa è la famosa opera del signor Smith, un tempo professore nella università di Glasgow, filosofo grande e politico di prim’ordine, col quale ho aperto un commercio di lettere, affinché se mai egli ha delle note o delle aggiunzioni da fare a questo suo libro me le comunichi, promettendo di darle al pubblico tradotte in italiano.

 

 

Quando la stampa era al terzo volume giunse a Napoli la notizia della morte di «questo grande uomo avvenuta in Edimburgo a’ 10 [e fu invece il 17] luglio p.p.»; ed il traduttore, ricordando l’annuncio dell’«aperto commercio di lettere» si sentì obbligato a comunicare qualcosa ai lettori. Il qualcosa fu «di essere stato assicurato dal suo corrispondente di detta città [Edimburgo], che fra le carte del defunto filosofo politico nulla di nuovo si è trovato riguardo alla presente opera». Dal contesto dei racconti fatti dal traduttore «ai signori associati» sembra potersi fondatamente desumere che il commercio epistolare probabilmente non fu mai iniziato o ebbe luogo per via assai indiretta; ché lo Smith od i suoi amici non avrebbero mancato di fargli sapere come, se era vero che tutti i manoscritti, salvo pochi e questi non attinenti all’economia, erano stati bruciati prima della morte per volere dell’autore, tuttavia fin dalla terza edizione del 1784 in ottavo (ed anzi separatamente in fascicolo in quarto per i possessori delle due prime edizioni) erano venute in luce quelle «additions and corrections», di cui il traduttore affettava di andare in cerca ancora nel 1790.

 

 

Messosi costui sulla via delle bugie editoriali, ed avendo nel frattempo ricevuto copia della traduzione eseguita a Parigi dal Roucher, nel frontispizio della quale era detto che le Recherches sarebbero state «suivies d’un volume de Notes, par M. le Marquis de Condorcet, de l’Académic Francaise, et Secrétaire perpetuel de l’Académic des Sciences» si affretta a promettere di pirateggiare, come del resto era uso universale d’allora, anche le note ed annuncia che «il dotto Signor di Condorcet, segretario dell’Accademia di Parigi avendo fatte alcune note all’edizione che si è stampata in Francia, mi comprometto di aggiungerle alla presente traduzione in un tomo a parte, il quale si rilascerà agli associati allo stesso prezzo, e si venderà anche separatamente a coloro che avessero l’edizione inglese o l’antica traduzione francese, [la prima del Blavet, da lui ritradotta] e desiderassero profittar delle note del Signor di Condorcect». Nella fretta, l’infelice aveva scambiato la promessa di note fatta dal Condorcect al Roucher con la stesura effettiva di esse. Ma poiché il Condorcet non mantenne la promessa di commentare, anch’egli non poté tenere la sua di tradurre.

 

 

Osservò, invece, una ben diversa altra promessa che egli nella prefazione aveva fatto, mosso dal desiderio di non rendere l’edizione mancante ed insieme dal timore di incorrere in appunti della censura a causa di «alcuni sentimenti, nei quali lo scrittore inglese si esprime secondo le massime della sua religione»; promise perciò di tradurre senza mutilazioni ma «ove il bisogno il richiedea» di aggiungere «brevi note, le quali possono bastare per rendere ogni cattolico lettore prevenuto e guardingo». Le note esorcizzatrici infatti sono sette; tutte suppergiù simili a quella apposta al luogo in cui lo Hume, citato dallo Smith, accusa la molteplicità delle sette, fomentata dal proselitismo di ogni «patrizio spirituale» – derivazione probabile di un refuso di stampa di una delle due edizioni del 1780 o del 1788, che io non potei vedere, del Blavet, il quale nel 1801 volta il «ghostly practitioner» dello Hume di «practicien spirituel» (laddove il Roucher nel 1791, con fraseologia conforme ai tempi nuovi, recava «ministre du culte») – di provocare vevità e dissensioni: «Ben vede da se stesso il lettore che l’autore parla negli stati, ove la religione protestante è la dominante, ne’ quali le varietà delle sette produce tali sconcerti».

 

 

10. – Sia pure per bocca di un traduttore di seconda mano e di modesta levatura, lo Smith era dunque già nel 1790 proclamato “filosofo grande” e “politico di prim’ordine” e l’opera sua era detta “famosa” anzi “il libro più grande” che si abbia degli inglesi. Altra notevole testimonianza della fama acquistata in Italia dallo Smith si legge in certe Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia e Olanda venute fuori anonime nel 1790 in Firenze, presso Pietro Allegrini, le quali all’autore cav. Luigi Angiolini non dovettero fruttare gran plauso se in Firenze corse dopo la pubblicazione l’epigramma:

 

 

Mio carissimo Angiolino.

Chi sarà quel babbuino

Che sei Giuli voglia mettere

Pelle vostre insulse lettere?

 

 

Codeste lettere hanno tuttavia pregio per noi, essendo in esse contenuto (a pagine 355-358 del secondo volume) il seguente giudizio sopra Adamo Smith:

 

 

Adamo Smith, il grande Autore delle Ricerche sopra la Natura e la cagione della ricchezza delle Nazioni, è uno degli Uomini d’ingegno più acuto e più profondo che abbia avuti la Gran Bretagna. Fu prima professore di Filosofia Morale nella Università di Glasgow e quel che scrisse allora relativamente, mostra quanto meritava di esserlo: poi andò a viaggiar per la Francia e tra gli Svizzeri col Duca di Buccleugh, e in tal tempo vedendo gli stabilimenti esteri e conversando con Uomini dotti e con Persone di affari e di Finanza della Francia in ispecie, concepì e formò il suo originale sistema di pubblica Economia. Al ritorno pubblicò la sua Opera in due vol. in 4°, di nuovo stampata ultimamente in tre in 8°, ch’egli mi ha detto aver aumentata e corretta da se stesso, e che è perciò edizione senza paragone miglior dell’altra. Con questo merito e colla fama acquistatasi, fatta valere dalla protezione del Duca di Buccleugh, ottenne l’Impiego di Commissioner of the Customs di Edimburgo, ossia di esser uno dei Capi della Dogana, Posto lucroso e onorifico di cui gode ancora. Il Dr. Smith e Uomo che sa bene le lingue estere, di prodigiosa memoria, di profonda meditazione, e facile nella concezione delle grandi idee. Non l’è però altrettanto nell’esprimerle in Dialogo; intrigato e confuso e spesso troppo metafisico, è anche spesso trasportato dove non sa forse egli stesso: Questo con qualche difetto organico della bocca che rende il suono della sua voce grasso, cupo, malagevole, fa che molte volte non è possibile intenderlo da quelli neppure avvezzi a trattarlo. Egli è anche di un carattere singolare, distratto spesso, e qualche volta altiero e di tuon dommatico e decisivo; pien d’opinione e non senza ragione, di se medesimo e del suo giudizio. Non soffre contradizione, eppure egli abbraccia volentieri l’occasione di esercitarla, che non è rara quando si han lumi com’egli ha, molto maggiori degli altri; egli è compatibile dunque non scusabile, perciò Uomo grande e di mondo quale egli è, deve ricordarsi che per ordinario è più facile persuadersi che persuadere, e a calcolo fatto resta problema se gli Uomini in generale vagliano la pena di persuaderli. Per tutto questo l’invidia che perseguita sempre e per tutto gli Uomini superiori, dice esser egli soggetto da leggersi più che da trattarsi. In quanto a me, per altro, con tutti i suoi difetti, se ne ha, vorrei pure averlo vicino: Parli egli chiaro o parli confuso, contradica o sia in distrazione, da lui traspira sempre qualche lampo di genio, rare volte infecondo. Egli è Uomo tale che credo aver contribuito non poco, particolarmente con la sua Opera, a far essere la Scozia montata sul piede regolare in cui la vediamo; ho detto questo a lui stesso, e il mio rendergli giustizia fu accettato con quel genere di modestia con cui si riceve quel che si crede dovuto.

 

 

Il ritratto, se, per ciò che ha tratto all’alterigia ed alla sufficienza dello Smith, è contraddetto da più autorevoli testimonianze, conferma ed accentua talune altre note caratteristiche di lui; sicché può essere degno di fede l’Angiolini quando afferma di averlo trattato personalmente.

 

 

L’Angiolini era arrivato ad Edimburgo poco innanzi alli 7 luglio 1788, data della sua prima lettera di colà; e quivi era raccomandato al cav. Guglielmo Forbes, distinto banchiere, il quale «coglieva volontieri l’occasione di adunare insieme e far conoscere ai forestieri gli uomini di lettere del suo paese». In casa del Forbes egli conobbe, oltrecchè lo Smith, lo storico Robertson, allora “Principal” dell’università, il predicatore e critico letterario dott. Blair, ed il pubblicista Mackenzie, tutti soci collo Smith della Royal Society of Edinburgh fondata nel 1783. Dichiara invece di non avere avuto occasione di incontrarsi col Ferguson, col Cullen, col già ricordato Black e col Dott. James Anderson, l’economista a cui si deve la prima formulazione della teoria della rendita, curiosamente non ricordata mai dallo Smith, sebbene si incontrassero soventi alle sedute della Società reale ed anzi ad una lunga e, pare, noiosa lettura di lui, lo Smith finisse per addormentarsi (Rae, Life, 421).

 

 

Ma che l’Angiolini avesse davvero letto il gran libro dello Smith, dubito. In verità in parecchie altre occasioni egli lo ricorda: «L’istesso Adamo Smith, il primo forse degli scrittori di cose economiche, non ne favorisce la massima [delle corporazioni di arti e mestieri]» (primo, 312) – «Sono molti anni che gli Inglesi neppur ci hanno dato Opere Filosofiche da chiamarsi di genio. Davide Hume e Adamo Smith sarebbero stati gli ultimi, se non ci fosse Gibbon con la sua Storia sulla decadenza dell’Impero romano, Opera grande e che mostra l’Autore essere tale che niuno in Europa sa più di lui» (I, 219). Ma ad un tratto, a proposito dell’agitazione contro i dazi di esportazione sulla lana, l’Angiolini esce fuori a dire: «Il celebre Adamo Smith, gran fautore della libertà dell’Industria, aveva già sostenuto con una sua ingegnosa opera pubblicata sono ormai 40 anni, che le Leggi proibenti l’esportazione della Lana implicavano permission di Monopolio contro i Proprietari di questa lana, e tenevano il prezzo di lei sotto il valor naturale che aver dovea» (secondo, 117). Qual fosse l’”ingegnosa opera” di Adamo Smith pubblicata quarant’anni prima del 1788, è difficile immaginare, non potendosi l’indicazione riferire alla lettura fatta, ma non pubblicata, dinanzi alla “Glasgow Economic Society” nel 1755 per difendere il suo diritto di priorità nella formulazione della teoria della libertà naturale economica; né alla Teoria dei sentimenti morali uscita alla luce nel 1759. Probabilmente l’Angiolini aveva un’idea grossolana della Ricchezza delle nazioni, di cui pare avesse avuta tra mani la terza edizione del 1784, e nelle sue lettere si faceva soprattutto l’eco dell’opinione che in Inghilterra e in Scozia prevaleva intorno ai grandi meriti dello Smith. Forse egli, equivocando a causa della imperfetta citazione fatta da Adamo Smith nel libro I, cap. XI, parte terza (vol. I, pag. 230 dell’edizione di Cannan) dei Memoirs of Wool del suo omonimo Smith (ma nel libro IV, cap. VIII la citazione è del «very accurate and intelligent author of the Memoirs of Wool, the Reverend Mr. John Smith») scambiò l’autore John per Adam. Le memorie di John Smith sull’industria della lana erano state pubblicate nel 1747, circa un quarant’anni prima dell’epoca in cui scriveva l’Angiolini. Il giudizio di questi meritava tuttavia di essere riprodotto a testimonianza del cammino che già nel 1790 aveva fatto la fama dello Smith; sicché v’era in Italia chi, facendosi eco del grido d’oltremonti, reputava quello dello Smith un «original sistema di pubblica economia» e lo Smith medesimo uno dei maggiori uomini della Gran Bretagna e promotore di notabile avanzamento nel suo paese.

 

 

11. Il libro dello Smith era stato invece letto e meditato attentamente dai valorosi uomini i quali avevano costituito in Torino un cenacolo economico e, con altri, pubblicarono dal 1787 al 1792, col titolo Biblioteca oltremontana e piemontese, una piccola rivista mensile nella quale comparvero non pochi articoli attinenti alla scienza economica. Vi annunciarono (ad es. nell’agosto 1791, 179) i volumi della versione del Roucher, a mano a mano che venivano alla luce; vi sunteggiarono (ottobre 1790, pag. 10-11) il lungo compendio che, scusandosi di sunteggiare «ciò che il genio creatore ha già ridotto alle sue giuste proporzioni», della Ricchezza delle nazioni diede il Condorcet nei tomi terzo equarto della sua Bibliotheque de l’homme public (T. III, 108-216 e IV, 3-113). La fama dello Smith doveva essere già grande tra noi, se essi nel 1790 segnalano la sua come “opera celebratissima”; e se erano, poco dopo, ricercati già i commenti all’opera. L’annuncio delle già ricordate note di Condorcet aveva cagionato infatti una diffusa aspettazione, ed un ignoto memorialista piemontese, il quale nei tempi più critici della invasione francese scriveva sulla carta monetata, rammaricandosi di non trovare «opere riguardanti l’economia pubblica… per l’interruzione del commercio librario cagionata dalla guerra» in particolar modo lamenta di non aver potuto leggere «la nuova edizione dell’opera di Smith intorno alla Ricchezza delle nazioni colle annotazioni del Condorcet, della quale lo scrivente non poté vedere gli ulteriori tomi, dove hanno luogo le note» (cfr. il n. 16 del M. 7° di 2a add. in Arch. S. di T. sez. I, Mat. econ., Zecca e monete, come citato dal Prato in Problemi monetari e bancari nei secoli XVII e XVIII, pag. 62, nota).

 

 

Il Vasco, operosissimo tra gli studiosi piemontesi di economia, utilizza la Ricchezza delle nazioni nella dissertazione Delle Università delle Arti e Mestieri, non solo, come fa ritenere il Palyi (loco cit., 189), a proposito «di particolari storici», ma anzi a proposito di problemi generali (distinzione fra il commercio estero di consumo e quello di transito, cfr. pag. 222 dell’edizione Custodi; circostanze determinanti il profitto delle diverse professioni, pag. 258). Poco innanzi all’invio della dissertazione sulle università di arti e mestieri al concorso dell’accademia di Verona, il Vasco in principio del 1790 scriveva il Saggio politico della carta-moneta, rimasto inedito sino a quando Giuseppe Prato lo riscoperse (testo e introduzione in Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, serie II, tomo 65) e lo dichiarò la prima trattazione ampia e rigorosa sulla carta-moneta innanzi a quella dello Storch. Nel Saggio il Vasco ripetutamente ricorda lo Smith in punti essenziali: fino a quale proporzione la circolazione possa comporsi di carta – moneta; come vari col progresso agricolo la proporzione del prodotto netto al lordo; chiudendo la Memoria col riprodurre ad ammonimento degli inflazionisti di quel tempo, tutto il celebre brano nel quale lo Smith paragona il lavoro della banca ad un carro il quale si muova lungo una strada posta in aria, dando così modo di convertire in terreno fruttifero il suolo prima occupato dalle strade ordinarie; ma l’industria ed il commercio, quando si affidano «alle dedalee ali della carta-moneta, non si sentono così sicuri come quando si muovono sul terreno sodo dell’oro e dell’argento» (Wealth of Nations, libro II, cap. II, Ediz. Cannan, I, 304).

 

 

13. Primo in Italia a studiare attentamente la Ricchezza delle nazioni pare sia stato il conte Gian Francesco Napione (1748 – 1830), il quale, entrato da giovane nei ministeri, fu intendente delle provincie di Susa e Saluzzo, diresse l’opera del catasto nel Monferrato e nel 1797 tenne l’ufficio di generale delle finanze. Nell’Elogio di Giovanni Botero (in Piemontesi illustri, I, 151-353), il più importante tra gli scritti politico economici del Napione, questi fin dal 1781, citandone il titolo in inglese, ricorda l’opinione del “profondo” Smith sulla degnità rispettiva dell’agricoltura e dell’industria (in annotazione XXXIII, intorno alle teorie fisiocratiche sulla sterilità di tutto ciò che non sia coltura della terra, pag. 330) e quella sulla caducità del possesso di lontane colonie («veggasi il saggio sopra le colonie del profondo inglese Smith tratto ultimamente dalla sua grand’opera precitata di pubblica economia» in annotazione XXXV, 336-337). Vero è che il Napione non pare mettere lo Smith al disopra del Galiani, pur detto «profondo» (ivi 338), del Broggia, il cui trattato De’ Tributi, si reputa da lui «dotto e profondo» o del Pinto chiamato «dotto e sperimentato». Ad attestare la particolare influenza esercitata su di lui dal gran libro dello Smith, stanno le lodi che egli dà al filosofo, oltreché all’economista – «quanto giovi per trattar bene le scienze più pratiche l’essere andato lungamente speculando dietro le più astratte lo dimostrano ai tempi nostri Locke, Hume, Genovesi, Condillac, Smith prima sottili metafisici, poi valenti scrittori di pubblica economia»; e sta il fatto che su di esso il Napione ritornò più e più volte, illustrandolo con “Note”, rimaste manoscritte colla data del 1826 (cfr. la bibliografia allegata alla Vita del conte G.F. N. per Lorenzo Martini, Torino, 1836, 248); sicché può affermarsi, sino a quando ricerche più fortunate non abbiano meglio illuminato l’argomento, che il culto italiano per lo Smith abbia avuto origine in Piemonte.

 

 

14. – La nuova edizione del Catalogo è, come la prima, adorna di un piano della casa posseduta e abitata da Adamo Smith a Kirkcaldy, di un fac-simile di sua lettera all’editore Strahan; ed in aggiunta reca, insieme con quella del ritratto della madre eseguito nel 1788, la riproduzione del medaglione in smalto bianco duro composto nel 1787 da James Tassie, la migliore anzi l’unica autentica e simigliante figurazione nota di Adamo Smith. Per la eleganza dell’edizione, dei tipi e della carta fa d’uopo congratularci, oltreché col Bonar, colla Royal Economic Society e con la casa Macmillan.

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