Opera Omnia Luigi Einaudi

Dei metodi per arrivare alla stabilità monetaria e se si possa ancora parlare di crisi di stabilizzazione della lira

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/05/1930

Dei metodi per arrivare alla stabilità monetaria e se si possa ancora parlare di crisi di stabilizzazione della lira

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1930, pp. 227-261

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, pp. 114-152

 

 

 

1. – All’articolo su Il contenuto economico della lira dopo la riforma monetaria del 21 dicembre 1927 pubblicato nel fascicolo di novembre-dicembre 1929 di questa rivista furono mosse alcune obbiezioni, che importa discutere, anche se le obbiezioni ebbero luogo sovratutto in forma epistolare[1].

 

 

2. – L’obbiezione prima sostanziale era la seguente: «come si può sostenere che la lira attuale sia una lira oro quando la Banca d’Italia non ha l’obbligo di cambiare i suoi biglietti in oro o in divise estere permutabili a vista al portatore in oro ad un rapporto fisso; ma siffatto obbligo ha solo rispetto a chi, chiedendo il cambio, presenta la documentazione (fatture, polizze di carico, passaporti, notifiche, ecc., ecc.), occorrente a dimostrare di avere bisogno di divise auree per scopi reputati legalmente legittimi, come il pagamento di merci forestiere, il saldo di spese di viaggi all’estero, la soluzione di interessi passivi e di rate di ammortamento di debiti legalmente contratti all’estero, la riesportazione all’estero di capitali importati dall’estero da stranieri e per i quali, all’epoca della importazione, fosse stata fatta la necessaria legale notifica?»[2].

 

 

3. – Siffatta obbiezione non avevo ignorato nello scrivere l’articolo, ma avevo avvertito in nota che la teoria contenuta nel testo non teneva conto di molteplici attriti «come, ad esempio, il permanere di vincoli alla esportazione di oro e di divise estere». Del non tenerne conto vi era una ragione di prima ed una di seconda approssimazione. Lo studio voleva, innanzi tutto, chiarire in uno schema astratto quale fosse il contenuto economico della lira attuale sulla base ed «entro i limiti precisi» del decreto 21 dicembre 1927, n. 2325; e sarebbe stato perciò illogico introdurre elementi tratti da una legislazione precedente informata ad altri ed opposti criteri.

 

 

In seconda approssimazione, poi, i vincoli esistenti al commercio dei cambi facilitavano davvero il mantenimento della lira alla pari attuale? A mio parere no. Essi partivano dalla premessa che la lira corresse pericolo se si fossero date liberamente divise auree anche a chi di divise aveva bisogno puramente e semplicemente per esportare capitali dall’Italia. Ciò, temevasi, avrebbe favorito le vendite di lire da parte dei timorosi, degli sfiduciati, degli speculatori, avrebbe depauperato le riserve auree. Quindi, concludevasi, diamo le lire solo a chi dimostra di averne bisogno per legittimi pagamenti commerciali. Come al solito, i vincoli tendevano a partorire effetti opposti a quelli che i loro ideatori avevano immaginato:

 

 

  • facendo nascere il dubbio che una richiesta futura di divise auree non sarebbe stata accolta per mancanza di sufficiente documentazione, i vincoli inducevano gli esportatori a non far rientrare le divise auree di cui erano possessori per merci vendute, così da costituirsi all’estero una riserva a cui attingere senza uopo di licenza veruna;

 

  • lasciando permanere nell’animo dei risparmiatori italiani un sottile dubbio intorno alla stabilità  della lira – se questa era davvero incrollabile, perché non dare liberamente, senza impacci di documentazione, a tutti divise contro lire? – i vincoli incoraggiavano ad esportare capitali per metterli in salvo da eventuali svalutazioni future. Né il capitalista facoltoso era impacciato nell’esportare i suoi capitali; ché bastava trovasse l’amico industriale provvisto di divise per merci vendute disposto a girare a suo favore il credito posseduto presso banche estere. Altri avvedimenti soccorrevano l’esportatore dei capitali; avvedimenti inaccessibili solo al medio e minuto risparmiatore, privo di aderenze industriali o bancarie;

 

  •  insinuando nei capitalisti stranieri disposti ad importare capitali in Italia il dubbio di non poterli a loro libito riesportare – era obbligatorio bensì il rilascio del visto di esportazione per i capitali i quali al momento di entrare avevano avuto il visto di importazione ed il visto era rilasciato senza difficoltà ; ma chi può mettere limiti, in regime di vincoli, al dubbio che la promessa di un visto non sia mantenuto? o che i «visti» per loro indole medesima non sono una facoltà  lasciata all’arbitrio, prudente arbitrio, ma arbitrio di una autorità, la quale può mutare parere?

 

  • i vincoli trattenevano quei capitalisti dall’importare.

 

 

Perciò se è vero che alla stabilità di una moneta giovi non turbare artificiosamente l’equilibrio naturale fra quantità  offerta e quantità domandata di divise estere, i vincoli al commercio delle divise, creati bensì allo scopo di limitare la quantità «domandata», ma di fatto cospiranti a produrre una rarefazione nella quantità «offerta», si palesavano dannosi alla stabilità della lira.

 

 

4. – Tutto questo residuo di disposizioni vincolatrici è stato spazzato via dal R. decreto 12 marzo 1930, n. 125, pubblicato nella Gazzetta ufficiale, n. 60, del 13 marzo 1930, il quale abolisce i decreti vincolatori (citati e sunteggiati sopra nella nota al paragrafo 2) e dal R. decreto 12 marzo 1930, n. 129, pubblicato nella Gazzetta ufficiale, n. 61, del 14 marzo 1930, il quale abolisce il divieto di esportazione delle monete metalliche nonché dei titoli italiani emessi dallo stato, da enti pubblici e da società  nazionali, già  estratti e delle cedole maturate pei titoli medesimi. Quest’ultimo divieto risultava dalla inclusione delle dette monete, e dei titoli in una tabella B annessa al R. decreto – legge 14 novembre 1926, n. 1923, convertito in legge 7 luglio 1927, n. 1495, sui divieti di importazione e di esportazione di carattere economico.

 

 

5. – Colla dichiarazione costituente l’art. 1 del R. decreto 12 marzo 1930, n. 125: «il commercio dei cambi è libero», è stata tolta l’ultima differenza «legale» ancora esistente dopo il 21 dicembre 1927 fra il «concetto» teorico della lira – oro e il «fatto» concreto della lira italiana attuale. Oggi, in virtù  delle norme legislative vigenti, chiunque può chiedere alla sede di Roma della Banca d’Italia il cambio dei propri biglietti in verghe d’oro del peso minimo di 5 chilogrammi (di qui la necessità, già  spiegata nel precedente articolo di presentare al cambio biglietti per un valore minimo di 63.138 lire) ovvero, a scelta della Banca, in divise su paesi esteri nei quali sia vigente la convertibilità dei biglietti di banca in oro. Tra i diversi sistemi, quello del gold standard, o del cambio aureo, per cui l’istituto di emissione deve cambiare i biglietti in monete d’oro, del gold bullion standard, per cui l’istituto deve cambiare i biglietti non in moneta d’oro, ma in verghe o barre d’oro del gold exchange standard, per cui l’istituto deve cambiare i biglietti, a sua scelta, in verghe d’oro ovvero in divise su paesi esteri nei quali sia vigente la convertibilità dei biglietti in oro (oro – moneta od oro – verghe, ma non, evidentemente, divise, che, altrimenti, non si arriverebbe mai all’oro), l’Italia ha scelto il terzo sistema. Ho già  spiegato come sia tendenza e forse assoluta necessità l’abbandonare il primo sistema e come tutt’al più si possa rimanere esitanti fra il secondo ed il terzo. Anche col terzo sistema, e con un giro alquanto più lungo, si congiunge la moneta cartacea coll’oro. E la si congiunge per obbligo assoluto della Banca d’Italia e per diritto incontrollabile dei portatori di biglietti. Dopo il decreto del 12 marzo 1930, n. 195, il portatore non ha alcun obbligo di motivare la sua richiesta di cambio. Fosse anche egli determinato al cambio dal puro capriccio (ipotesi irreale, che nella vita economica si opera per convenienza o creduta convenienza), la banca deve dargli, per qualunque somma, divise estere contro biglietti. Senza interrogazioni curiose, senza ritardi, a vista e al portatore.

 

 

6. – Così vuole la norma vigente di legge; e per ottime ragioni. Se, come si può desumere da un altro decreto contemporaneo, del 13 marzo 1930, n. 130, accordante una proroga fino al 31 dicembre 1933 del termine per la stipulazione di prestiti all’estero, in esenzione dagli oneri fiscali, il legislatore ha in animo di «favorire lo sviluppo ed il potenziamento delle attività produttive nazionali, anche mediante capitali esteri» (parole della relazione Mosconi al relativo disegno di legge di conversione), la libertà assoluta dei cambi si appalesa indispensabile. Nessun capitale libero entra in un impiego se non è sicuro di uscirne. Spesso i risparmiatori agiscono irrazionalmente; e le regole della loro condotta sono, anche in questi casi, oggetto interessante di studio. Ma gli importatori di capitali in paesi esteri sono banchieri, istituti, grossi capitalisti, ossia per definizione nomini che operano in seguito a ragionamenti esatti o reputati esatti; e si sa che la prima domanda che un capitalista ragionatore fa, innanzi di decidersi all’impiego, è: potrò, a mia volontà, uscire dall’impiego? Potrò vendere la casa, il terreno, il titolo, l’azione, la merce acquistata? Solo se la risposta è affermativa, si passa all’esame della convenienza dell’impiego. Nessuno compra, se è capace o desideroso di ragionare, cosa invendibile. Perciò nessuno importa capitali in un paese da cui non è certo di farli riuscire. Perché Londra è il centro monetario del mondo? Perché per lunghissimi anni essa fu la sola piazza dalla quale si potevano fare uscire, senza vincoli di sorta alcuna, capitali. Dopo la guerra, l’Inghilterra fu tra le primissime nazioni a ritornare al cambio libero coll’oro, sebbene il provvedimento le sia costato e le costi tuttora sacrifici fortissimi, perché volle restituire a Londra l’antico primato. Se l’Italia desidera importare capitali esteri, giuocoforza è che essa garantisca prima ad essi la più assoluta ed incontrollata facoltà di fuoruscita. Il che si fece, e non si poteva fare

diversamente, col decreto della libertà  dei cambi.

 

 

7. – Eliminata così l’obbiezione «legale», alla tesi sostenuta nell’articolo, si possono solo opporre obbiezioni logiche o empiriche. I lettori ricordano il ragionamento: «la Banca d’Italia essere in grado di mantenere indefinitamente la lira alla nuova pari legale dei cambi, perché: primo se il cambio migliora troppo, ossia cade sotto 18,90 lire contro un dollaro, la Banca vende lire, di cui può far stampa a piacere, e ne fa ribassare cosi il prezzo, ossia fa risalire il cambio almeno a 18,90; secondo se il cambio peggiora troppo, ossia sale oltre 19,10 lire contro un dollaro, la Banca vende divise estere auree e ne fa ribassare il prezzo, ossia fa scendere il cambio almeno a 19,10. Né la Banca potrà mai, aggiungevo, rimanere priva di divise estere atte alla manovra, perché la vendita di divise è logicamente inseparabile, anzi è la stessa cosa dell’acquisto di lire. La Banca d’Italia dà divise contro biglietti. Dunque i biglietti rimasti in circolazione scemano e scemando rincarano. Rincaro dei biglietti vuol dire miglioramento dei cambi; e vuoi dire altresì ribasso di prezzo delle merci all’interno. Se i prezzi all’interno scemano, conviene esportare di più ed importare di meno. Si esporta da e non si importa in un paese a prezzi bassi verso o da paesi esteri a prezzi più alti. Quindi. la bilancia di pagamenti internazionali si raddrizza; si cerca di avere bisogno di chiedere divise alla Banca d’Italia e probabilmente si riportano quelle ricevute prima. Ed il giuoco può ricominciare quante volte si vuole. Avevo anzi detto a bella posta che il mantenimento della nuova pari era cosa «ovvia»; non essendo possibile immaginare difficoltà  in un processo che fu per un intero secolo, innanzi al 1914, osservato senza che alcuno ciò reputasse miracoloso. S’intende che non ci sono e non si possono immaginare difficoltà  nel fare agire il meccanismo, se il meccanismo è quello che deve essere ossia quello che fu creato con i decreti, ripetutamente citati. È altrettanto ovvio che, mutato il meccanismo, i risultati siano diversi; ma, prima di procedere nella discussione, farebbe d’uopo conoscere di quale altro differente meccanismo si parli.

 

 

8. – Tuttavia, importa riconoscerlo, la dimostrazione è apparsa a taluno troppo semplicistica. Toh! si pensò se è tanto facile mantenere i cambi alla pari, perché tutti gli Stati li lasciarono durante e dopo la guerra allontanare dalla pari e il ritornare ad una pari fissa, quella antica od una nuova, apparve, ragionevolmente, una impresa eroica? «Se mantenere la stabilità della moneta» – così si legge in un appunto indirizzatomi – «fosse tanto facile non si capirebbe perché non si riuscì a tenere la lira a 120 – 121 rispetto alla sterlina nel maggio 1926 dopo sette mesi di relativa stabilità, malgrado la diminuzione delle operazioni attive della Banca d’Italia e malgrado le sue riserve fossero rimaste presso a poco immutate. Né si comprenderebbe come abbia potuto fallire la prima riforma monetaria del Belgio».

 

 

Rispondo: non so perché non si sia riuscito a mantenere la lira a 120 – 121 nel maggio 1926 e non so nemmeno se quello fosse il livello a cui ci si intendeva fermare. Certo è che le monete si mantengono alla pari solo quando l’istituto di emissione ha il governo insindacabile e la responsabilità esclusiva della circolazione. Non consta che ciò accadesse nel maggio 1926 quando la politica dei cambi era fatta dal tesoro, dall’istituto dei cambi, dalla Banca d’Italia e da non so quanti altri enti in Italia e fuori. Parimenti, si può osservare che nel Belgio non si mantenne la pari primamente fissata perché non si operò nel modo classico. Fissare la pari a 125 e volere che i prezzi e i guadagni rimangano al livello 150 è assurdo. Perciò la sola illazione logicamente deducibile dagli esempi ricordati è che condizione necessaria al mantenimento della pari è l’autonomia del governo della circolazione da parte dell’istituto di emissione. Nella nota a paragrafo 6 del mio studio precedente avevo appunto dichiarato che gli attriti di fatto contrastanti l’attuazione dello schema teorico si devono superare «se la banca di emissione può operare nei modi propri del suo istituto». È ovvio che se invece la banca non può operare nei modi suoi propri, se essa deve ubbidire ad esigenze estranee alla sua ragion d’essere, che è di conservare li pari dei cambi, gli attriti non sono superati e la pari dei cambi non si mantiene.

 

 

9. – Dopo fatta l’osservazione di carattere empirico – storico ora commentata, l’appunto prosegue con una argomentazione di carattere logico: «Se si ottiene un miglioramento dei cambi non in conseguenza dell’aumento di valore all’interno della moneta nazionale, ma di una straordinaria offerta di divise estere ottenute per mezzo dell’indebitamento all’estero, conviene cambiare la moneta nazionale in divise estere per acquistare le merci, perché la moneta nazionale ha più valore sul mercato estero che su quello interno. Questa situazione può durare molto tempo se la bilancia dei pagamenti è aggravata dal servizio di interessi per i prestiti contratti all’estero e se le industrie e il commercio nazionale, in seguito alla rivalutazione monetaria, attraversano una forte crisi, sicché il movimento degli affari all’interno diminuisce.

 

 

«Certo è che a lungo andare l’equilibrio si deve ristabilire, attraverso alla riduzione della moneta in circolazione. Ma a lungo andare cosa vuol dire? E di quali riserve dovrebbe poter disporre effettivamente l’istituto d’emissione per resistere fino a questo momento, vendendo divise ed introitando moneta nazionale?».

 

 

Io direi che la obbiezione possa essere formulata così: non può accadere che il ritorno al cambio aureo fisso, nel caso nostro a 19 lire contro un dollaro o 92,46 contro 1 sterlina (cosidetta quota 93), sia ottenuto con mezzi che, per distinguerli da altri detti naturali, chiameremo artificiosi? Per esempio, con un prestito all’estero, il quale arricchisce le riserve della Banca d’Italia di divise? Finché queste durano, possono essere vendute per mantenere i cambi alla pari senza difficoltà . Esaurite, come potranno i cambi essere tenuti? Tanto meno potranno essere tenuti, poiché il miglioramento dei cambi, così artificiosamente ottenuto, non ha prodotto alcuna variazione dei prezzi interni della merci in confronto al livello dei prezzi esteri; ed i primi essendo più alti dei secondi conviene ai detentori interni di lire cambiarle, al cambio basso, in divise e con queste acquistare merci estere a prezzi bassi piuttosto ché con lire comprare merci interne a prezzi alti. Di qui domanda di divise e tendenza del corso dei cambi a superare la pari.

 

 

10. – Nello studio precedente io avevo fatto astrazione del mezzo adoperato per rifornire la Banca d’Italia – d’ora innanzi chiamerò semplicemente «istituto d’emissione» per essere in grado di discutere il problema in termini generalissimi – perché, qualunque sia tal mezzo, il risultato non muta: l’istituto di emissione, possedendo ad es., 12 miliardi grazie ad un prestito o 10 miliardi senza il prestito, in riserve metalliche, raggiungerà o non raggiungerà lo scopo suo che è quello di mantenere i cambi alla pari a seconda della sua condotta. Ho dimostrato che, seguendo la norma classica di condotta, l’istituto è sicuro di conseguire ovviamente e stabilmente lo scopo. L’aver dimostrato ciò, equivale ad avere dimostrato anche che, se l’istituto segue una condotta diversa, lo scopo non si ottiene. Tuttavia, sebbene questa seconda verità sia lapalissiana, giova chiarire in modo schematico taluno dei modi corretti di condotta che fanno raggiungere e, per inversione, i corrispondenti modi sbagliati che possono far fallire la meta. Giova, anche ad evitare siano prese sul serio idee sbagliate dei sempiterni progettisti ansiosi di far passare il mondo da una crisi monetaria all’altra, non mai ammaestrati dall’esperienza passata delle tragiche conseguenze dell’instabilità  monetaria per la vita dei popoli.

 

 

11. – Prima di procedere innanzi, fa d’uopo esporre una avvertenza. Elementare, anche questa, come tutte le altre, ma non di rado dimenticata. Eccettuato il caso in cui si tratti soltanto di legalizzare uno stato di fatto da anni esistente e divenuto stabile, qualunque atto di stabilizzazione di una moneta implica una crisi. Crisi più o meno lunga, più o meno grave; ma crisi. Ritorno all’oro a una determinata pari dei cambi è sinonimo di crisi economica. Se da anni prezzi, salari, stipendi, fitti, imposte, ecc., ecc.; si fossero adeguati alla quota 93 – cito questa cifra, perché è entrata nel vocabolario comune italiano, ma qualunque altra quota di qualunque paese sarebbe ugualmente appropriata – la dichiarazione legale che 93 lire italiane dovevano essere cambiate a vista dall’istituto di emissione con una lira sterlina non avrebbe fatto né fresco né caldo. Nessuno se ne sarebbe accorto. Se crisi ci fu dal 1926 all’incirca sino a ieri (cfr. sotto par. 31), ciò accadde perché nel 1926 i prezzi all’ingrosso e più quelli al minuto, i fitti, i salari, le imposte non erano adeguati a quota 93. Tutto doveva ribassare; e nel ribasso doveva prodursi quello scricchiolio di ossa economiche che si suole designare col nome di crisi. Industriali ed agricoltori che devono contentarsi di prezzi minori per le merci vendute e debbono ridurre i salari; operai che vorrebbero scemassero prima i prezzi al minuto; inquilini contro padroni di casa, ecc., ecc.; la solita tragicommedia del chi deve essere il primo a ribassare. Se i prezzi van su, nessuno si lagna perché tutti hanno l’impressione di guadagnare. Se i prezzi vanno giù, tutti diventano iracondi, perché la sorte di colui i cui costi non vanno giù mentre i ricavi scemano è tragica davvero. La crisi di rivalutazione o di stabilizzazione è seminata di morti e di feriti. Più o meno seminata, a seconda che il salto dal vecchio equilibrio al nuovo è più o meno forte. Se si deve saltare da 150 a 93 la crisi è più acuta e duratura di quella che si deve superare saltando solo da 120 a 93; e naturalmente questa è più grave di quella che si avrebbe sdrucciolando appena da 120 a 115. Sarebbe ad ogni modo un errore logico confondere questo generale costo della stabilizzazione coi particolari e supplementari costi derivanti da taluni speciali metodi seguiti nell’attuare e nel mantenere il ritorno all’oro. Il costo generale è anche inevitabile, perché non è mai accaduto che si sia stabilizzato alla quota di massima svalutazione della moneta. Dappertutto si stabilizzò ad una quota inferiore. Dunque qualcuno soffrì perdite. Poco o molto, un costo generale bisogna ad ogni costo sopportarlo. L’arte monetaria può consistere solo nel rendere minimo siffatto costo generale. Invece può darsi che i costi particolari e complementari derivanti dal metodo scelto siano evitabili.

 

 

12. – Configuro in schemi succinti alcune ipotesi che soccorrono alla mia mente. Le ipotesi scelte mi paiono tipiche; ma non affermo che siano le sole tipiche, altri potendo immaginarne di più interessanti. Ritengo non solo comodo, ma necessario, tradurre le diverse ipotesi immaginabili in situazioni schematiche di bilancio dall’istituto di emissione, perché tutte le variazioni della circolazione, dei cambi, dei prezzi si riflettono in quel bilancio. La maggior parte degli errori che si commettono nel discorrere di stabilità od instabilità monetaria dipende dal dimenticare che esiste quel bilancio e, verità lapalissianissima, che esso è un bilancio. Ossia un qualche cosa di cui non si può muovere un pezzo senza che altri pezzi si muovano nello stesso od in contrario senso in modo da obbedire alla condizione: che i due totali dell’attivo o del passivo bilancino ossia sieno uguali.

 

 

Lo schema è ridotto al minimo (in miliardi di lire):

 

 

Attivo:

Passivo:

Riserva metallica od equiparata………………………..

10

Circolazione (debito per biglietti emessi)…………….

18

Portafoglio ed anticipazioni……………………………….

6

Diversi (capitale, depositi in conto corrente, ecc.)

4

Credito verso il tesoro………………………………………

2

18

22

Diversi (edifici dell’istituto, impieghi di riserve, immobilizzi, ecc.)

4

22

 

 

L’istituto di emissione si provvede (passivo) i mezzi occorrenti per la sua azione con i biglietti (circolazione), col capitale proprio e con depositi in conto corrente di enti pubblici o di privati. Astrattamente, dovrei mettere i conti correnti a vista insieme con i biglietti; ma per non imbrogliare l’esposizione suppongo che i depositi siano di carattere stabile a lunga scadenza e li suppongo fronteggiati dall’altra parte (attivo) con impieghi pure permanenti (diversi), che può accadere ad ogni istituto di fare. Avrei potuto eliminare le due partite uguali (4 miliardi), ma preferisco tenerle in evidenza, quasi a memoria.

 

 

Il sugo del bilancio è questo: l’istituto ha impiegato i 18 miliardi di lire di biglietti da esso stampati a comprare 10 miliardi di oro o divise estere equiparate all’oro, a fare 6 miliardi di sconti di cambiali commerciali e di anticipazioni su titoli o su merci (sete) ed a mutuare 2 miliardi al tesoro contro acquisto o sconto di buoni del tesoro od altri valori pubblici. L’attivo è eguale al passivo; ed è liquido e sicuro. Per quanto lo riguarda, l’istituto di emissione è in una botte di ferro e può affrontare gli eventi.

 

 

13. – L’evento massimo sta nell’abolizione imminente del corso forzoso fino ad oggi, l’istituto non ha obbligo di cambiare a vista e al portatore i biglietti emessi. E come se non avesse debiti. Beata è la situazione di colui che non ha debiti; ma ancor più beata è la situazione di colui che avendo 18 miliardi di debiti (per biglietti) non ha obbligo di rimborsarli. Domani, colla legge di ritorno all’oro, lo stato di pienezza ha termine. L’istituto deve tenersi pronto a rimborsare a vista ed al portatore i 18 miliardi di biglietti. Sa che non tutti saranno presentati al cambio perché i biglietti sono necessari come il pane ai nazionali per comprare, per vendere, per pagare fitti, salari, ecc., ecc.; perché sono comodi e per millanta altre ragioni. Ma sa anche che l’esempio è contagioso, sovratutto l’esempio del panico. Epperciò vuole tenersi pronto a rimborsare, eventualmente, i primi miliardi presentati, perché è noto che il rimedio principe, l’unico conosciuto come efficace contro i rimborsi è di rimborsare subito, a vista e di incoraggiare il pubblico a chiedere il rimborso.

 

 

Può darsi che l’istituto abbia l’impressione che i 10 miliardi di riserva siano insufficienti a fronteggiare le domande di rimborso. Sovratutto può darsi che i 10 miliardi paiano insufficienti: primo a fronteggiare le anzidette domande; e secondo a rimanere ancora in tanti, dopo i rimborsi, da non fare cattiva figura. Gli uomini sono abituati a guardare alle riserve metalliche degli istituti di emissione come a qualche cosa che è bene si conservi in cifra vistosa. È una abitudine priva di senso, perché le riserve sono invece qualcosa che devono essere date via per rimborsare i biglietti. E se devono essere date via, non possono nello stesso tempo rimanere in cassa.

 

 

Purtroppo, sinora e molto limitatamente, la sola piazza di Londra si è abituata a vedere scemare le riserve metalliche del proprio istituto di emissione senza farsi prendere da un accesso di nervi troppo acuto. In tutti gli altri paesi del mondo, il pubblico diventa nervoso quando vede le riserve metalliche scemare. Non capiterebbe niente; ma al pubblico pare debba capitare il finimondo. Gli istituti di emissione, i quali debbono tenere conto di questa deplorevole psicologia del pubblico, sono perciò ansiosi di avere riserve più vistose del necessario, affinché, se anche in avvenire dovessero diminuire alquanto, siano ancora vistose e facciano bella figura. Stando così i fatti, bisogna ammettere come ragionevole l’ipotesi che l’istituto cerchi di aumentare le sue riserve da 10 a 12 miliardi di lire, portandole dal 55,55 al 66,66 per cento del suo debito in biglietti. E possiamo invece fare l’ipotesi che i 10 miliardi gli sembrino, come sono, sufficientissimi.

 

 

14. – L’istituto sa che un qualche movimento nella struttura del suo bilancio dovrà verificarsi dopo l’abolizione del corso forzoso. Sa infatti che la situazione monetario – economica del paese è squilibrata. Supponiamo infatti che prima del ritorno all’oro, il livello dei prezzi interni carta fosse 700 (in confronto a 100 dell’anteguerra); che 5 unità  monetaria -carta si cambiassero con 1 unità-oro; che perciò il livello interno dei prezzi in oro fosse ; e che 140 fosse pure il livello dei prezzi esteri. Se la legge di stabilizzazione stabilisce che 3,67 unità – carta si cambino con 1 unità  – oro, ecco che il livello interno dei prezzi – carta 700 si deve per ora dividere non più per 5, ma per 3,67, ottenendo un livello dei prezzi interni in oro di 190, assai superiore al livello estero 140. Forse il livello dei prezzi – oro non salirà a 190, perché, al solo annuncio della stabilizzazione a 3,67 e della possibilità della concorrenza di merci estere a 140×3,77=517, i prezzi interni carta ribasseranno. Ma il processo richiede tempo e frattanto il dislivello incoraggia le importazioni (si importa dall’estero, dove i prezzi sono 140, all’interno dove i prezzi tendono a 190) scoraggia le esportazioni (non si rinuncia a 190 per avere solo 110). Sull’orizzonte economico sorge un nuvolone di passività nella bilancia commerciale internazionale e di richieste di divise estere. L’istituto sente approssimarsi il temporale e deve correre alle difese. Tanto più si capisce come gli possa sembrare conveniente di rinforzare le sue riserve metalliche.

 

 

15. – Facendo i debiti scongiuri, presento il quadro delle variazioni della situazione dell’istituto di emissione (in miliardi di lire):

 

 

 

L'istituto di emissione aumenta la riserva metallica mediante prestiti esteri contratti

L'istituto non aumenta la riserva e non si contraggono prestiti esteri (c) L'istituto di emissione non aumenta inizialmente la riserva, ma i privati contraggono prestiti esteri
  dal tesoro (a) da privati (b) Spendendone direttamente il ricavo all'estero in acquisto di merci (d) impiegandone il ricavo all'interno in rimborso di debiti verso le banche ordinarie le quali impiegano dapprima le relative disponibilità in
depositi presso l'istituto di emissione (e) in operazioni diverse dirette (f)
I. – Momento primo: innanzi al ritorno dell'oro
Attivo:            
Riserva     10      
Portafoglio     6      
Credito verso tesoro     2      
      Totale: 18      
Diversi     4      
      Totale: 22      
             
Passivo:            
Circolazione     18      
Diversi     4      
      Totale: 22      
II. – Momento secondo: del ritorno dell'oro ( posizione squilibrata rispetto ai prezzi, salari, fitti, ecc… )
Attivo:            
Riserva 12 12 10 10 10 10
Portafoglio 6 4 6 6 6 6
Credito verso tesoro 2 2 2 2 2
  Totale: 18 Totale: 18 Totale: 18 Totale: 18 Totale: 16 Totale: 18
Diversi 4 4 4 4 6 4
  Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22
Passivo:            
Circolazione 18 18 18 18 18 18
Diversi 4 4 4 4 6 4
  Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22 Totale: 22
III. Momento o periodo terzo: di assestamento ( non si costruisce schema essendo variabili ed infinite le possibili posizioni)
IV. Momento quarto: di nuovo equilibrio
Attivo:     c1 | c2 | c3      
Riserva 7 7 7 | 6 | 7 5 7 5
Portafoglio 6 4 4 | 5 | 6 6 4 6
Credito verso tesoro 2 2 | 2 | – 2 2 2
  Totale: 13 Totale: 13 Totali: 13 | 13 | 13 Totale: 13 Totale: 13 Totale: 13
Diversi 4 4 4 | 4| 4 4 4 4
  Totale: 17 Totale: 17 Totali: 17 | 17 | 17  Totale: 17 Totale: 17 Totale: 17
Passivo:            
Circolazione 13 13 13 | 13 | 13 13 13 13
Diversi 4 4 4 | 4 | 4 4 4 4
  Totale: 17 Totale: 17 Totali: 17 | 17 | 17  Totale: 17 Totale: 17 Totale: 17

 

 

16. – Gli scongiuri contro il malocchio delle ovvie critiche sono indispensabili sia perché ad altri parrà che le ipotesi tipiche siano diverse da quelle da me immaginate, sia perché le variazioni le quali, nelle ipotesi previste, intervengono nelle situazioni dell’istituto di emissione sono certamente più complesse di quelle delineate nel quadro. Al quadro sia concessa venia, perché: a farlo corretto sarebbe stato necessario metterlo in equazioni sulla base di ipotesi altrettanto arbitrarie come le mie ed io non sarei stato in grado di farlo e nessuno mi avrebbe letto; – ed a farlo meno incompiuto avrei dovuto scrivere un libro noiosissimo che sarebbe stato letto ancor meno di quanto lo saranno i seguenti paragrafi. Scopo del quadro non è di mettere in evidenza tutte le variazioni, ma la variazione essenziale che, in ciascuna delle fatte ipotesi, interviene nel bilancio. Perciò si sono trascurate le variazioni minori che un più o un meno nella circolazione produce necessariamente nei «diversi» e, a volta a volta, si è concentrata l’attenzione sulla riserva o sul portafoglio o sul credito verso il tesoro. Ben si sa che invece dell’o si sarebbe dovuto mettere l’e, le variazioni essendo di fatto concomitanti. Anche qui chiedesi venia della consaputa inesattezza, commessa allo scopo di puntare sul lato che pareva essenziale.

 

 

Il quadro è distinto in sezioni orizzontali, di cui la prima rappresenta il momento «anteriore» al ritorno all’oro; quando non si è ancora contratto alcun prestito all’estero né dal tesoro né da privati.

 

 

Il momento secondo è quello dell’istante in cui si ritorna all’oro. Qui intervengono le mutazioni iniziali nella situazione dell’istituto. Sono variazioni contabili: i miliardi passano, ad es., dal conto del tesoro alla riserva o dal portafoglio alla riserva. Si pongono le premesse della manovra che si svolgerà poi.

 

 

La manovra si svolge nel momento terzo; ma io non mi attento a descriverla in cifre, perché sarebbe complicatissimo descrivere movimenti dinamici di adattamento. È il periodo, che può durare mesi od anni o lasciar code accantonate di decenni, degli attriti, degli scricchiolii. Se le cose vanno a posto e se si tende ad un nuovo equilibrio stabile, il secondo momento è caratterizzato dalle querele degli industriali, dei commercianti e delle banche ordinarie. Tutti gridano contro l’istituto di emissione, che è duro di cuore, che fa la faccia feroce, che è tetragono alle notizie di fallimenti. Più si sente gridare e più le cose vanno bene. Talvolta l’aria è tranquilla ed allora bisogna essere inquieti, ché o non ci avviciniamo all’- o ci allontaniamo dall’equilibrio ed il barometro economico segua nuovo temporale in aria.

 

 

Ad un certo punto, che diremo momento quarto, siamo arrivati alla meta.

 

 

Supporremo, per avere un punto di riferimento, che una situazione di equilibrio si sia raggiunto quando la circolazione dell’istituto si sia sgonfiata da 18 a 13 miliardi, ossia, arrotondando, suppergiù  nella tessa proporzione in cui il moltiplicatore della unità monetaria si è ridotto, da 5 a 3,67 ed in quella in cui è desiderabile che i prezzi – oro ribassino, da 190 a 140, per riportarsi al o per non allontanarsi al livello di quelli esteri. L’ipotesi è azzardata perché suppone che rimangano invariate la velocità della circolazione della moneta, la quantità dei surrogati bancari di essa e loro velocità di circolazione, la produzione dei beni; che siano uniformi i metodi di compilazione dei numeri indici dei diversi paesi e certo il loro significato. Epperciò il timoniere dell’istituto di emissione, il quale ha l’intuito diretto del valore di questi inconoscibili, probabilmente regolerà  la sua azione in modo diverso da quello delineato nei miei schermi. Questi debbono servire solo a scopo

di orientamento sui diversi metodi che possono essere tenuti per raggiungere

o per allontanare la meta della moneta stabile.

 

 

Ho procurato di descrivere sotto il titolo di momento quarto la situazione nella quale si trova il bilancio dell’istituto di emissione quando esso ha raggiunto una posizione di equilibrio a 19 lire per dollaro e coi prezzi interni a 140 ossia eguali ai prezzi esteri. Il risultato si ottiene contraendo al passivo la circolazione a 13 miliardi. A questo nuovo livello di circolazione, i prezzi interni si devono forzatamente ridurre (come si pagherebbero prezzi alti se la moneta scarseggia?); e pure forzatamente, la bilancia dei pagamenti si aggiusta per il crescere delle esportazioni ed il diminuire delle importazioni (noto meccanismo, sopra ripetuto al paragrafo 7). Scemano salari, fitti, stipendi, imposte, ecc. Siamo ad un nuovo equilibrio, col moltiplicatore 3,67 invece di quello 5, colla lira a quota 93 invece che a 125.

 

 

17. – Due avvertenze. In primo luogo, le cifre addotte nel quadro non devono essere prese come oro in barra ed applicabili ai casi attuali italiani. Ho supposto nel quadro che la circolazione dovesse ridursi quasi del terzo, da 18 a 13 miliardi, perché ho supposto di partire da 18 ed ho fatto l’ipotesi che la riduzione dovesse essere all’incirca proporzionale alla differenza fra il moltiplicatore 5 ed il moltiplicatore 3,67. Nel caso specifico italiano non si è partiti da 18, ma da circa 22 miliardi, il moltiplicatore (rapporto di cambio tra la lira – oro e la lira – carta corrente) non era 5, ma oscillava tra 4,5 e 6, e questo moltiplicatore non è il solo fattore di cui si dovrebbe tenere conto per calcolare il punto d’arrivo della circolazione. Nella nota equazione dello scambio di Fisher, bisognerebbe, oltre che di M (moneta o biglietti circolanti), tener conto di M’ (assegni bancari o surrogati della moneta), di V (velocità  di circolazione della moneta), V’ (velocità  di circolazione dei surrogati), T (trade o massa di affari o negozi compiuti), P (livello dei prezzi dei beni e dei servigi). I dati non esistono per tener calcolo di tutto ciò e a introdurli in uno schema astratto si arriverebbe a risultati affatto arbitrari. Essendo stato necessario andare per le spiccie, è chiaro che le cifre estreme 18 e 13 miliardi, del vecchio e del nuovo equilibrio hanno valore puramente esemplificativo. Si sostituisca 22 e 16 o 17 e tutto sarà ugualmente ragionato.

 

 

In secondo luogo, quando si parla di nuovo equilibrio raggiunto nel momento quarto, non bisogna immaginare che, a tal punto, si possa beati guardare le cifre, rimaste appiccicate per aria in stato di immobilità . Lo stato di beatitudine economico non esiste. Ci si muove sempre. Dalla posizione raggiunta si passa ad un’altra. Da qualche tempo, una schiera animosa di economisti ha cominciato a fare un baccano del diavolo intorno ad una nuova economia «dinamica» che sostituirebbe la vecchia economia «statica», proclamata inesistente ed assurda. Staremo a vedere, alla fine, quale sorcio uscirà dalla montagna. Sempre fu noto che la scienza economica che descriveva lo «stato» era un’astrazione e che la verità, il reale è il «movimento». Se in passato gli economisti si tennero paghi di studiare «stati», quasi sezioni fotografiche dell’attimo fuggente, ciò fecero perché trepidavano nell’osar tanto. Adesso si dice essersi scoperti mezzi tecnici atti a studiare il «movimento». Vedremo se si riuscirà a molto più di quanto i vecchi economisti dicevano anche in fatto di movimento – che essi chiamavano collegamenti o passaggi da un attimo all’altro – col sussidio della logica ordinaria. Qui, per quel che mi riguarda, dirò che parlando di «nuovo equilibrio» del momento quarto, non intendo menomamente affermare che si sia arrivati ad una posizione «stabile», ad uno star fermo, ad un hic manebimus optime. No. Si vuol dire soltanto che in quel momento si sono risoluti i problemi posti dalla stabilizzazione al tipo scelto. Ma, risoluti quelli, altri problemi urgono. Anzi, quell’equilibrio a circolazione 13 miliardi non è un reale; è quel reale che ci sarebbe stato se altri fattori nel periodo intermedio fra l’iniziale nostro e il terminale nostro non fossero sorti e non avessero spinto in su o in giù, gonfiato o sgonfiato, trasformato in modo imprevisto, tutto il sistema economico. Sempre, per la pochezza della logica comune, dobbiamo ragionare sull’irreale ed immaginare fette di irreali che variano separatamente le une dagli altri, laddove invece esse variano congiuntamente. Solo lo storico, a posteriori, può figgere lo sguardo nel reale; ma anch’egli, ahimé! ne riproduce per lo più appena alcune miserande fette avulse, del tutto. Questa è la nostra infelice sorte: di aspirare alla comprensione di quel che accade e di non riuscirvi mai.

 

 

18. – Esaminiamo ora di scorcio quel che succede, nelle varie ipotesi fatte. Nell’ipotesi a il tesoro dello Stato ha contratto all’estero un prestito equivalente a 2 miliardi di lire e ne ha consegnato il ricavo in divise all’istituto di emissione, estinguendo così il suo debito per equivalente somma. Difatti, confrontando la sezione prima con la seconda, si vede che all’attivo, fermo rimanendo il primo totale 18, sono scomparsi i 2 miliardi di credito verso il tesoro e la riserva è cresciuta da 10 a 12. Null’altro è mutato.

 

 

Nel momento terzo, avvengono gli opportuni mutamenti. Essendo la situazione squilibrata, ossia prezzi interni – oro a 190, e prezzi esteri – oro a 140, le esportazioni sono scoraggiate e le importazioni incoraggiate, con un conseguente saldo passivo della bilancia del dare e dell’avere da saldare in oro. L’istituto di emissione perde a poco a poco 5 miliardi sui 12 della sua riserva e resta ridotto a 7 miliardi. A questo punto l’equilibrio è ristabilito e possiamo tirare i conti dell’operazione.

 

 

Dei 5 miliardi perduti, 2 erano stati ottenuti col prestito. Al 7 % di interesse, 1 % di provvigioni e spese diverse e 2,18 1/2 % quota di ammortamento in 20 anni, totale 10,18 1/2 % annualità costante, il tesoro dello stato si è caricato di un onere di 203.700.000 lire all’anno per vent’anni. Il paese inoltre perde il vantaggio di avere nelle cantine dell’istituto di emissione gli altri 3 miliardi di lire d’oro che già  prima possedeva. Economicamente, valuto zero tale perdita, perché l’oro giacente in quelle tali cantine serviva solo a tenere in piedi una circolazione di 18 miliardi di lire. Se oggi basta una circolazione di 13 a che pro avere tutto quell’oro in più? Sentimentalmente e politicamente, finché gli uomini seguiteranno ad adorare l’idolo – oro, quella perdita procurerà un certo dolore psicologico, che ognuno può valutare a piacere. A me pare che il vantaggio della moneta stabile si sia ottenuto a basso costo, se lo si paga solo 203,7 milioni all’anno di imposte in più per vent’anni più un indeterminato dolore psicologico. Astrazion fatta da questo ultimo i 203,7 milioni sono il costo specifico del metodo «prestito estero» governativo adottato per passare dal momento secondo al momento quarto. Ci sono, come dissi, altri costi, generici a tutti i sistemi, conseguenti alla riduzione della circolazione da 18 a 13: attriti, scricchiolii, fallimenti dei deboli. Ma di questi non si può fare a meno.

 

 

19. – L’ipotesi b e quella di prestiti contratti all’estero, invece che al tesoro dello stato, da privati (grandi società  anonime industriali, enti, ecc.), i quali versarono il ricavo in divise all’istituto di emissione (direttamente o indirettamente attraverso le loro banche), diminuendo di altrettanto gli sconti e le anticipazioni che ne avevano ricevuto. Difatti, confrontando la sezione prima alla seconda, vediamo all’attivo crescere la riserva da 10 a 12 e scemare il portafoglio da 6 a 4. Le altre partite ed i totali rimangono invariati. Durante il periodo terzo, l’istituto, per arrivare a ridurre la circolazione da 18 a 13, non può all’attivo ridurre il credito verso il tesoro. Questo non avendo fatto prestiti all’estero, non può rimborsare; né in tempo di crisi può lanciare prestiti all’interno o crescere le imposte solo per rimborsare un debito di anticipazioni, il quale e quasi gratuito. L’ istituto riduce invece come nell’ipotesi a e per le stesse ragioni le riserve di 5 miliardi. La perdita di 3 su 5 miliardi di riserva, posseduti fin da prima, non produce danno economico, ma unicamente il solito dolore psicologico. L’istituto di emissione perde, inoltre, il lucro che prima otteneva dallo scontare 6 miliardi di portafoglio interno invece dei 4 attuali. Gli industriali dal potere scontare 2 miliardi in meno presso l’istituto possono essere avvantaggiati. Essi avevano prima un debito di 2 miliardi presso l’istituto che non hanno più; ed hanno, al suo posto, un debito di 2 miliardi verso creditori stranieri. Nel cambio, essi possono guadagnare o perdere a seconda dei saggi di interesse rispettivi vigenti all’interno ed all’estero. Se c’è guadagno, esiste un punto al di là  del quale esso si converte in perdita, perché, riducendosi oltremisura gli sconti all’interno, l’istituto avrà convenienza a ridurre il saggio dello sconto ufficiale al disotto di quello libero estero. Anche nel caso b dunque, il costo specifico del metodo «prestito estero» privato, non mi pare teoricamente esorbitante.

 

 

20. – L’ipotesi c è forse la più interessante, perché il problema si risolve unicamente con forze interne. Si affronta il ritorno all’oro senza curarsi di aumentare né direttamente né indirettamente le riserve da 10 a 12. Restano a 10. Per ridurre la circolazione da 18 a 13, l’istituto deve premere su qualcuno dei capitoli dell’attivo. Qui l’ipotesi si scinde:

 

 

  •  in c1, l’istituto riduce la riserva metallica da 10 a 7 ed il portafoglio da 6 a 4. Se la prima riduzione comporta solo un platonico dolore psicologico, la riduzione del portafoglio e delle anticipazioni da 6 a 4 è un affare brusco. La restrizione bancaria tocca sul vivo; i dissesti si allargano e possono diventare imponenti. L’impressione mia è che la perdita di resa nel funzionamento del meccanismo economico sia superiore a quella dei 203,7 milioni di imposte del caso a o del rischio di pagare un interesse più forte all’estero del caso b.

 

  • in c2, l’istituto riduce la riserva di 4 miliardi (dolore psicologico), ma il portafoglio solo di 1 miliardo (restrizione bancaria). Soluzione preferibile alla precedente, e forse anche a quelle a o b. Una restrizione bancaria di 1 solo miliardo può anzi essere vantaggiosa, se spazza via solo le imprese male attrezzate.

 

 

L’attuazione di questo metodo, fra tutti forse il più economico, è subordinata alla valutazione della riduzione della riserva metallica a 6 miliardi. Il problema è psicologico, non economico. Come reagirà  il pubblico alla notizia che la riserva cala verso i 6 miliardi? Se il pubblico fosse composto di persone ragionevoli, non se ne preoccuperebbe menomamente: 6 miliardi su 13 essendo ancora una magnifica riserva, del 46,1 per cento. Ma ripetesi, il pubblico è una folla e, come tale, è soggetto alle impressioni più imprevedute. Spetta al dirigente dell’istituto di emissione valutare la sensibilità  del pubblico e decidere se sia possibile adottare questa che è la soluzione economicamente preferibile.

 

 

  • in c3, l’istituto riduce la riserva di 3 miliardi (dolore psicologico) e si fa rimborsare dal tesoro i 2 miliardi di anticipazione. Il tesoro, per effettuare il rimborso, emette un prestito interno e carica sui contribuenti un’imposta uguale all’interesse, spese e quota di ammortamento. Se l’onere è uguale ai 203,7 milioni del prestito estero, è indifferente scegliere tra a e c3; se è minore è preferibile la soluzione c3; se è maggiore quella a.

 

 

21. – L’ipotesi d è forse la più rischiosa di tutte. I privati provvedono per conto loro a procurarsi all’estero con prestiti il valsente per pagare le merci che comprano all’estero. È come se comprassero merci a respiro. Finché la bazza dura, il bilancio dell’istituto non riceve alcuna spinta esterna ad abbandonare la posizione iniziale (momento secondo identico al primo). Nessuno gli chiede divise, perché il disavanzo della bilancia dei pagamenti si copre con prestiti privati che si effettuano fuori del controllo dell’istituto. In guerra, si ebbe un periodo di questa fatta all’epoca dei cambi vincolati, quando il fabbisogno di cambi per il pagamento delle forniture di guerra veniva coperto con aperture di credito inglesi ed americane. Il risveglio venne dopo, quando il flusso dei prestiti cessò. Ad un certo momento, la fonte dei prestiti esteri si inaridisce. Lo sbilancio della bilancia del dare e dell’avere internazionale cresce per il cumulo degli interessi passivi e delle rate di ammortamento sui prestiti esteri conchiusi in passato. Può darsi che l’incremento della produzione nazionale conseguito mercé il giudizioso impiego dei prestiti esteri (macchinari, materie prime, ecc.), dia un margine bastevole a coprire l’annualità . Ma se la speranza non si attua, se i prestiti avevano consentito il prolungarsi di un tenor di vita troppo largo, il risveglio è duro. L’istituto che deve ridurre di 5 miliardi il suo attivo, non può chiedere al tesoro il rimborso delle anticipazioni, perché il momento non è favorevole ai prestiti ed alle imposte; non ritiene prudente ridurre gli sconti e le anticipazioni al commercio, per timore di seminare sfiducia e panico in una situazione tesa e delicatissima di mercato. Deve lasciare ridurre le riserve da 10 a 5 miliardi. Per se stessa, la riduzione sarebbe economicamente innocua, perché in una società  dai nervi saldi 5 miliardi di riserva su 13 di circolazione, ossia il 38,4 %, sono più che sufficienti. Ma chi comanda ai nervi? Quel che sopra ho preso un po’ in giro col nome di «dolore psicologico», diventa l’imponderabile produttivo di conseguenze imprevedibili. Potrebbe cominciare la fuga della moneta nazionale, che nessuno più frena.

 

 

Perciò la soluzione d, che vuol dire rinuncia dell’istituto di emissione a governare la circolazione, a controllare i prestiti esteri (di privati e di enti pubblici minori), mi pare pericolosa. Non fosse altro, l’istituto deve dire il suo parere sui prestiti che privati ed enti macchinano di fare all’estero. Basta che l’istituto brontoli, perché la faccenda finisca in tempo.

 

 

22. – La soluzione e è una variante della b. I privati che hanno contratto prestiti esteri, vendono le divise contro biglietti sul mercato ad importatori, i quali non si rivolgono più all’istituto per farsi dare divise. La riserva non cresce da 10 a 12 nel momento secondo; ma non occorre diminuisca più dopo il ritorno all’oro, perché il mercato è già approvvigionato di divise. I privati mutuatari portano le lire ricevute alle banche ordinarie, le quali, non avendone urgenza in quel momento, le depositano presso l’istituto di emissione, il quale vede al passivo, nel momento secondo, ridotta la sua circolazione da 18 a 16 e cresciuti i diversi (conti correnti) da 4 a 6. Qui, alla lunga, andrà  a finire che, dovendo l’istituto di emissione, se vuole conseguire lo scopo, ridurre la circolazione a 13 miliardi, il mercato del denaro si farà ristretto e le banche ordinarie richiameranno i propri conti correnti, riducendoli di nuovo a 4 miliardi (passivo). L’istituto di emissione, non potendo farsi rimborsare i 2 miliardi del tesoro, ridurrà, come in b, la riserva a 7 e il portafoglio a 4 miliardi. All’economia del paese quest’ultima soluzione può essere in innocua, poiché gli industriali troveranno presso le banche ordinarie – che hanno a bella posta ritirato i 2 miliardi di conti correnti che dapprima avevano verso l’istituto – quello sconto di 2 miliardi che non ricevono più dall’istituto.

 

 

Perché la soluzione e riesca, occorre che nei primi momenti del ritorno all’oro, l’istituto attiri, con un alto saggio di interesse, i fondi che si accumulano presso le banche ordinarie per rimborsi effettuati dai privati che hanno ottenuto prestiti all’estero. Occorre attirarli allora, perché le banche ordinarie non siano indotte a cercare impieghi ed a gonfiare altari che poi occorrerebbe sgonfiare, con un lavorio in perdita. Se non erro, l’esame delle situazioni della Banca d’Italia dimostra che durante la prima metà del 1928 si fece ricorso a questo metodo, mi pare opportunamente. Sottrarre denaro al mercato quando occorre: ecco la condizione per non dovergliene sottrarre troppo dopo, quando sarebbe pericoloso.

 

 

23. – Configuro quest’altra ipotesi in f, dove le banche ordinarie, non allettate dall’istituto di emissione, si tengono le somme che hanno ricevuto in rimborso dai privati, i quali avevano contratto prestiti all’estero. Dovendo impiegare i prestiti, le banche ordinarie faranno sconti al commercio, anticipazioni alle borse. Allegria dappertutto; ma frattanto i prezzi interni stanno su, lo sbilancio verso l’estero permane e forse cresce e la riserva va giù. Va giù anche la circolazione, perché i biglietti rientrano contro divise. Ma l’istituto esita a ridurre il portafoglio, perché ciò farebbe troppa impressione in un mercato gonfio. La riserva, dopo essere passata per il punto minimo del semplice dolore psicologico (6 miliardi), va verso il punto che l’amico Sella (in Teoria del punto critico monetario in «La Riforma Sociale», 1925, pag. 313) direbbe «critico», dei 5 miliardi. A quel punto, l’equilibrio c’è. Ma, in questo mondo di gente nervosa, chi assicura di potervi star fermi e di non essere tratti alla deriva senza bussola e senza nocchiero?

 

 

Perciò devono essere scartate le soluzioni d ed f, che chiamerei della deriva, per rinuncia dell’istituto di emissione a governare il mercato monetario.

 

 

24. – Se il timone è saldo in mano all’istituto di emissione, la meta non falla. Il che non vuol dire che il processo ovvio sia anche facile e piacevole. Quando mai si è saputo che le grandi imprese si conducano a termine senza fatica? Ecco un tentativo di elenco delle qualità che deve avere il dirigente dell’istituto di emissione per condurre in porto il processo ovvio, ossia classico e ripetuto e usato quotidianamente nel secolo scorso senza che nessuno presumesse di compiere azioni sublimi.

 

 

25. – Il dirigente deve avere i nervi a posto e perciò non preoccuparsi se la riserva metallica, sia quella comprata con prestiti che costano le centinaia di milioni all’anno sia quella posseduta prima, scema. Tutti i manuali – i manuali di Bagehot, di Gilbart, di Ricardo, ecc., ossia di gente di esperienza consumata – insegnano che le riserve sono fatte per essere date via e fare rientrare, nel darle via, i biglietti e così far crescere il valore di quelli che sono rimasti fuori in circolazione. Durante la guerra venne in auge la massima contraria; e tutti gli istituti di emissione si dettero a digrignare i denti per tenere ferma e ben serrata in cantina la propria riserva. Finché durò il corso forzoso, questo era un passatempo innocuo; ché nessuno aveva il diritto di farsi dare una sola delle monete serrate. Col ritorno all’oro, deve tornare in onore il buon senso. Se le riserve se ne vanno, bisogna dar loro il buon giorno col più amabile dei sorrisi. Torneranno, se sarà  conveniente tornino, ossia se il livello dei nostri prezzi scenderà al disotto del livello estero. Se non torneranno, vorrà dire che non ne abbiamo bisogno; e perché affannarsi a tenerle o dolersi di una privazione non costosa?

 

 

26. – Il dirigente non deve preoccuparsi se, per il rientrare dei biglietti, e per il conseguente rarefarsi di quelli rimasti in circolazione, i prezzi calano, le industrie sono in casi e la gente si lamenta della mancanza di denaro. Calar di più dei prezzi esteri, i prezzi interni non possono. E che sugo c’è a volerli mantenere più elevati? Ossia a volere l’impossibile? Epperciò il dirigente assisterà  impassibile allo svilupparsi di una crisi necessaria e voluta, la quale deve portare alla meta fissata, secondo il tipo di cambio stabilito.

 

 

27. – Il dirigente non deve consentire a salvataggi, che immobilizzerebbero i biglietti dell’istituto. C’è una categoria di salvataggi che bisogna compiere, descritta insuperabilmente da Pantaleoni. Quella dei salvataggi, i quali guariscono da sé, i quali certamente si liquidano in un tempo non spettacoloso. Nei periodi di ritorno all’oro, bisogna restringere ancora i limiti di Pantaleoni e mettere muso duro verso tutti i postulanti di biglietti. Si rivolgano altrove, al fondo del risparmio o delle imposte.

 

 

28. – Il dirigente deve mettere muso duro anche e direi sovratutto verso il tesoro. Insistere perché lo stato riduca le anticipazioni a zero e dopo, faccia fuoco colla sua legna. Questo è il punto più importante. Durante e dopo la guerra, la svalutazione delle carte-monete europee è stata dovuta quasi per intero ai prestiti concessi ai tesori pubblici.

 

 

In Italia, dopo il ritorno all’oro, le partite attive della Banca d’Italia che, direttamente o indirettamente, possono ritenersi a debito del tesoro, ebbero le seguenti variazioni (in milioni di lire):

 

 

31 dicembre 1927

31 marzo 1930

 

1. Oro depositato all’estero dovuto dallo stato………………………………….

1.847,7

1.801,6

2. Istituto di liquidazioni…………………………………………………………………

1.433,8

755,6

3. Credito di interessi per conto dell’istituto di liquidazioni (al netto degli accantonamenti già depositati all’uopo presso la banca)……………

171,7

98,3

4. Titoli dello stato e titoli garantiti dallo stato di proprietà della banca…

1.015,7

1.051 –

4.468,9

3.706,5

 

 

Niente, in queste partite, si riferisce ad anticipazioni propriamente dette. Oggi la banca non ha in corso anticipazioni al tesoro.

 

 

La partita n. 1 corrisponde al noto oro depositato durante la guerra a Londra. Va riducendosi secondo il piano di rimborso del debito di guerra al tesoro inglese. Col tempo deve scendere a zero.

 

 

La partita n. 2 e quella n. 3 si riducono anch’esse e rapidamente. Bene

sarebbe farle scomparire al più presto.

 

 

Per la partita n. 4 il discorso è un po’ più complesso. Di fatto, la Banca d’Italia possiede questo miliardo di titoli di stato per ragioni storiche svariatissime. Le ragioni, per cui i titoli capitarono in possesso alla banca, non sono valide oggi a giustificarne il possesso; epperciò occorrerebbe che la banca li vendesse. Tuttavia, i libri e gli articoli di gran marca in materia bancaria sono, pure oggi, pieni di lodi al sistema delle cosidette open-market operations, che, a causa del nome difficile, paiono una novità  e non sono nient’altro che le risapute operazioni di acquisto e di vendita di titoli e di altri valori (bills) da parte degli istituti di emissione. Usò sempre la Banca d’Inghilterra e usano ora le Banche Federali di riserva degli Stati Uniti comprare in borsa titoli di stato quando vogliono dare denaro al mercato e venderne quando vogliono rarefare quel denaro e renderlo caro. È una politica concorrente o sussidiaria a quella delle variazioni del saggio di sconto. Non c’è nessuna ragione per sconsigliare alla Banca d’Italia l’uso di tal mezzo potente di governo della moneta. L’uso, però, richiede che la cifra dei titoli di stato oscilli e forse oscilli fortemente e non rimanga immobile sul miliardo come usa da noi dopo il 1927. Mazzucchelli parmi osservi sulla Rivista bancaria, che per far variare questa cifra, occorre che il mercato dei titoli di stato sia così largo da sopportare, senza piegare se non di pochi centesimi, l’urto della vendita anche di centinaia di milioni di lire di titoli di stato da parte dell’istituto di emissione; e, all’opposto, così elastico da sopportare analoghi acquisti. Il che par prematuro pretendere oggi da noi. Non so se sia prematuro. Certo occorre dare opera a che il mercato dei titoli di stato diventi così elastico da consentire alla Banca d’Italia di compiere le operazioni ora dette che l’esperienza dei paesi più progrediti dice essere efficacissima a governare il mercato del denaro. Ma quell’opera è estranea al compito proprio dell’istituto d’emissione e spetta al tesoro dello stato.

 

 

29. – L’elenco ora compiuto dimostra che il ritorno stabile all’oro non è impresa da pigliare a gabbo e richiede polsi fermi e vigilanza quotidiana.

 

 

Il maggior pericolo da cui deve difendersi l’istituto di emissione è quello che concludeva l’appunto critico rivoltomi: «Che cosa accadrà se l’istituto torna ad emettere in circolazione le lire che riceve vendendo divise»? Coeteris paribus, accadrebbe che al momento quarto della stabilità  monetaria non si arriverebbe mai. Se il dirigente dell’istituto di emissione è largo di cuore, i biglietti entrati ritornano ad uscire per sconti, salvataggi, anticipazioni. Le cifre del portafoglio gonfiano o rigonfiano, la circolazione rimane alta e la riserva cade.

 

 

Può anche darsi che l’istituto di emissione si induca a consegnare i biglietti ritirati al tesoro dello stato, il quale ha bisogno di fondi e non può o non sa procurarseli con imposte o con prestiti. In tutti questi casi la stabilizzazione è in pericolo. Chi si lascia andare alla deriva, è perduto. Nell’ipotesi a invece di arrivare ad un momento quarto, di equilibrio, si giunge ad un momento quarto bis.

 

 

Momento secondo

Momento quarto

Nuova stabilizzazione

Attivo:

bis

ter

Riserva………………………………………………

12

10

8

12

Portafoglio………………………………………….

6

8

9

9

Credito verso tesoro…………………………….

2

4

18

20

21

21

Diversi……………………………………………….

4

4

4

4

22

24

25

25

Passivo:
Circolazione……………………………………….

18

20

21

21

Diversi……………………………………………….

4

4

4

4

22

21

25

25

 

 

Polonia e Belgio hanno vissuto questa esperienza. A un certo punto, quando si vede la riserva diminuir troppo, si decide di cambiare il piede monetario; e l’unità monetaria di cui dovevano darsi 120 unità per lira sterlina è fatta uguale a 180. Al passivo le cifre rimangono invariate; ma all’attivo, la riserva, che valeva nel momento quarto ter 8 miliardi, diventa uguale a 12 miliardi. Con il «guadagno» cartaceo così ottenuto si cancellano i 4 miliardi di credito verso il tesoro ed il bilancio è di nuovo in equilibrio. Si può ricominciare.

 

 

In Belgio ed in Polonia, avendo imparato la lezione del primo insuccesso, la moneta è divenuta stabile e pare non ci sia più probabilità di nuove esperienze. Sarebbe stato assai meglio evitare anche la prima lezione.

 

 

Fa d’uopo evitare di farsi venire l’attacco di nervi solo perché la riserva dal momento secondo al momento quarto diminuisce. In Argentina, dopo il ritorno al cambio del peso – carta in oro alla vecchia pari, la riserva aurea, per favorevoli condizioni dei raccolti e dei prezzi, era salita di ben 132 milioni di peso – oro, cosicché la cassa di conversione (equivalente argentino dell’istituto di emissione), nel gennaio 1929 arrivò a possedere 504,7 milioni di peso oro in riserva. Bastò che durante il 1929 per contrarie sfavorevoli condizioni del mercato del frumento e per altre contingenze transitorie la riserva diminuisce a 427,4 milioni nel gennaio 1930 perché le autorità si impressionassero, sospendessero il cambio in oro da parte della cassa di conversione, ossia ritornassero al corso forzoso. Fu nei centri finanziari europei e nord – americani, una stupefazione generale. Per così poco, per un naturale riflusso all’estero dell’oro che dall’estero era venuto, per un episodio volgarissimo di storia monetaria, compromettere il gran passo compiuto? La cosa parve ed è incomprensibile.

 

 

30. – A tutti coloro che chiedono: c’è pericolo che si ripeta in Italia l’esempio doloroso del Belgio e della Polonia o quello comico dell’Argentina? la sola risposta che uno studioso può scientificamente dare è storia per il passato, ipotetica per l’avvenire. Lo studioso rinuncerebbe alla dignità  impostagli dall’abito scientifico, se consentisse a profetizzare. Vaticinare, volere l’avvenire è qualità del politico, non dello studioso. Il politico, il veggente, il missionario fa la storia. Lo studioso la narra. Per narrare compiutamente il passato, bisognerebbe esaminare attentamente la situazione della Banca d’Italia. Impresa complessa, che allungherebbe a dismisura questo già  lungo saggio. mi limito ad estrarre da quelle situazioni le partite essenziali per le sue date estreme, subito dopo il ritorno all’oro ed oggi (in milioni di lire):

 

 

31 dicembre 1927 31 marzo 1930 Diminuzione
Passivo:
Circolazione (di biglietti, di vaglia bancari e circolazione potenziale di prestiti pubblici e privati)[3]…………

21.821,9

18.807,6

3014,3

 Attivo:
Riserve auree e divise auree……….

12.105,9

10.060 –

2045,9

Portafoglio, anticipazioni e prorogati pagamenti alle stanze di compensazione………………………….

5.520 –

4.489,5

1080,5

17.625,9

14.549,5

3076,4

 

 

La Banca d’Italia ha ridotto la circolazione effettiva e potenziale di 3 miliardi, come era logico prevedere, dovendosi passare da un equilibrio di prezzi alti (quello che ancora sussisteva per eredità della quota 120 circa dominante dal 1921 al 1926), all’equilibrio di prezzi più bassi determinato dalla quota 93. Essa ha potuto ridurre la circolazione per 3 miliardi, perché ha contemporaneamente scemato all’attivo di 2 miliardi la riserva e di 1 miliardo gli sconti e le anticipazioni. La storia passata, quale è registrata nelle situazioni a firma del governatore della Banca, dice dunque che la manovra della stabilizzazione si è svolta in atto secondo lo schema che la teoria

classica ha codificato nei manuali.

 

 

Per l’avvenire, allo studioso non è lecito adoperare altro ragionamento all’infuori di quello ipotetico. Coloro che cercano nei libri di economia le ricette per diventare ricchi, per speculare bene, per comprare a tempo e simili, sbagliano. L’economia è una scienza di tipo astratto. Fa solo ragionamenti ipotetici. Tutti i libri seri della nostra scienza sono fondati sul se. Se questa è la premessa, queste sono le conseguenze. Se la premessa muta, mutano le conseguenze. Chi vuole altre forme di ragionamento, si rivolga agli storici e sento dire, ai filosofi; non agli economisti.

 

 

Dirò dunque che se in Italia si adotteranno per l’avvenire le regole classiche del governo della moneta, regole che i dati storici sopra riprodotti fanno ritenere essere state applicate nel periodo dal 31 dicembre 1927 al 31 marzo 1930, il problema della stabilizzazione definitiva della lira può ritenersi risoluto.

 

 

Dicendo questo, affermo che i dati storici del periodo 31 dicembre 1927 al 31 marzo 1930 ci dipingono un governatore della Banca d’Italia muso duro, occupato a respingere gli inviti allettanti di coloro i quali certamente avrebbero desiderato che i 3 miliardi di circolazione rientrata ritornassero al mercato sotto forma di salvataggi, aiuti, soccorsi e via dicendo.

 

 

Quanti, avendo solo intravisto di sfuggita quell’ometto gentile, tutto complimenti e tutto sorrisi e tutto braccia in aria e sospiri per i malanni finanziari di cui gli tocca da più di un terzo di secolo di essere il quotidiano confessore, avrebbero immaginato che Bonaldo Stringher avesse tanto muso duro!

 

 

Auguriamo che, fino a quando sarà  necessario e nei limiti che gli sono consentiti dall’animo cortese, il governatore della Banca d’Italia continui a fare la faccia feroce.

 

 

31. – Che il grosso della crisi di stabilizzazione possa dirsi oramai trascorso, dicono altri indizi, oltre a quello dello sgonfiamento delle situazioni della Banca d’Italia.

 

 

Primo, il ribasso dei prezzi all’ingrosso. Questi, che erano nel primo trimestre del 1926, secondo le ottime Prospettive Economiche per il 1930 del Mortara (pag. 517) a 648 in lire allora correnti sono caduti a 470 in lire attuali; ed in oro da 132 a 127. La crisi ci fu, quando gli industriali, che avevano stocks di materie prime acquistate a caro prezzo, si trovarono dinnanzi a prezzi calanti dei prodotti finiti e dovettero dar di frego ad una parte dei loro inventari-merci. Una volta dato il frego, non bisogna più ripeterlo, od almeno, non bisogna più ripeterlo per quella causa. Non è di buon gusto seguitare a gridare al lupo della stabilizzazione, quando le cause di una eventuale crisi persistente, se crisi c’è, deve certamente essere un’altra. Si cerchi l’altra e si lasci stare in pace la stabilizzazione a quota 93.

 

 

Gli industriali che vorrebbero trovare il rimedio ad un loro malessere presente nel riporto della quota, ad es., da 93 a 120, avendo sbagliato la diagnosi del malessere, sbaglierebbero la cura. Certo, un riporto – qui assunto come possibilità teorica non come programma pratico – darebbe un colpo di frusta all’economia del paese. Gli industriali, gli agricoltori, i commercianti guadagnerebbero, vendendo a prezzi alti e subendo costi ancora ridotti; crescerebbe l’occupazione e gli operai avrebbero la sensazione, in gran parte illusoria, di star meglio. E poi? Ricomincerebbe lo scricchiolio solito. Tutti i valori dovrebbero adeguarsi al nuovo tipo 120; a poco a poco i costi crescerebbero e gli industriali, dopo qualche anno, si troverebbero al punto d’adesso. Ossia col loro malanno addosso, se malanno c’è, inciprignito dal lungo farsi attendere della vera cura.

 

 

32 – Il malanno non pare stia in uno squilibrio nei prezzi interni di fronte a quelli esteri. Nel Bulletin mensuel de Statistique del marzo 1930 della società delle nazioni leggo che l’indice Bachi in febbraio era a 111,3 (base 100 nel 1913) e quello del consiglio dell’economia di Milano a 120,7. Contemporaneamente, l’indice degli Stati Uniti era a 131,9, quello della Francia a 114,3, del Belgio a 114, del Canadà a 146,9, della Gran Bretagna (Board of Trade) a 127,8 o (Statist) 123,3 od ancora (Economist) 121, della Germania a 126,4, dell’Austria a 121, della Svizzera a 133,1. Sebbene questi numeri indici non siano esattamente comparabili, se ne può dedurre tuttavia con un certo fondamento l’impressione che i prezzi all’ingrosso italiani non siano squilibrati apprezzabilmente al disopra dei prezzi esteri. Non dunque per causa dei prezzi ci sono difficoltà  ad esportare.

 

 

33. – Uno squilibrio non sembra neppure risultare dall’inadeguato ribasso

dei prezzi al minuto. Certo, secondo il Mortara, i prezzi al minuto da 653 nel primo semestre 1926 sono ribassati solo a 543 nel secondo semestre 1930 (contro, si vide, un ribasso da 648 a 470 nei prezzi all’ingrosso). Ma, dappertutto, i prezzi al minuto sono più viscosi di quelli all’ingrosso. Se guardiamo di nuovo all’utilissimo Bulletin della società delle nazioni vediamo che i prezzi – oro del costo della vita, sulla base per lo più del mese di luglio 1914 sono in marzo 1930 in Italia a 147 ma in Germania sono parimenti a 148,7, negli Stati Uniti (gennaio; ma nei prezzi al minuto le variazioni da un mese all’altro sono limitate) a 160, in Inghilterra (febbraio) a 161, in Svizzera a 159, in Danimarca (gennaio) a 170, in Egitto a 150, o Irlanda (gennaio) a 179, in Norvegia a 176, in Olanda (dicembre 1929) a 167, in Svezia (gennaio) a 167. Stanno al disotto l’Austria a 111, la Bulgaria 104,9 (gennaio), la Francia a 115, la Grecia a 123,9 (gennaio), l’Ungheria a 111 (febbraio), la Cecoslovacchia a 108,4 (febbraio), ma probabile qui ci sia qualche non comparabilità di dati da chiarire. La Francia fu sempre paese a basso costo della vita, epperciò ora si lamentano forte del suo crescere. In complesso, trattandosi di querele vecchie, ante – belliche ed universali, il mantenersi di un livello più alto del costo della vita (prezzi al minuto), in confronto ai prezzi all’ingrosso), non sembra potersi attribuire al fatto specifico italiano della stabilizzazione a quota 93.

 

 

34. – Lo squilibrio sarebbe doloroso se i salari fossero ribassati di più del costo della vita. Non pare che ciò accada. Citando sempre dalla preziosa tabella di pag. 517 delle Prospettive di Mortara, si ha:

 

 

Costo della vita

Salari

1° semestre 1926……………………………………………………………

653

659

2° semestre 1930……………………………………………………………

543

534

 

 

Casomai, c’è stato un raddrizzamento dei rapporti. Prima della stabilizzazione i salari erano aumentati troppo poco in confronto all’aumento del costo della vita. Ora non si sono ancora messi alla pari, ma poco ci manca a riconquistare la posizione del 1913.

 

 

35. – Dunque, i salari non sono in squilibrio in confronto al costo della vita. Sono essi in equilibrio, ossia troppo alti, in confronto alle possibilità dell’industria? Il problema è troppo complesso per porlo qui di sfuggita e forse mancano per risolverlo dati sufficienti. Mi basti fare un rilievo. Poiché i prezzi all’ingrosso sono cresciuti da 100 nel 1913 a 470 nel secondo semestre 1930, noi possiamo ragionevolmente supporre che in media l’industria, se fosse rimasta nelle medesime condizioni in cui si trovava nell’anteguerra dovrebbe essere in grado di pagare salari parimenti cresciuti da 100 a 470. I salari medi sono invece cresciuti da 100 a 534; ossia sono aumentati del 13 per cento in confronto ai ricavi lordi. Non mi pare che l’aumento relativo sia insopportabile. È normale che l’industria sia in grado di far vivere sempre meglio coloro che vi danno opera: tutti, dal capo all’ultimo operaio. Se l’industria (ed agricoltura e commercio) non è in grado di migliorare la sorte degli uomini che vi conferiscono capitale e lavoro, essa è stazionaria e perciò solo decadente. Non posso ammettere che ciò sia vero per l’Italia. Non posso ammettere che dal 1913 al 1930 i dirigenti italiani non siano stati capaci di migliorare la organizzazione tecnica ed economica delle loro imprese ed il rendimento dei loro operai, e che gli operai non abbiano migliorato se stessi in modo da non essere in grado di pagare e di meritare il 13 per cento di più del guadagno ante – bellico. Se così fosse, riflessioni pessimiste dovrebbero farsi sulla nostra attitudine a tenere un degno posto nel mondo.

 

 

Sono invece convinto che noi dobbiamo e possiamo fare ancora lunga strada sulla via dell’aumento dei salari reali. L’ottima Revue internationale du travail dell’Ufficio Internazionale del Lavoro di Ginevra pubblica tutti gli anni, traendola esclusivamente da fonti ufficiali, una statistica dei salari reali in alcune principali città del mondo. L’ultima (fascicolo di aprile 1929, pag. 597), si riferisce al gennaio 1929. Eccola:

 

 

Numero indice dei salari reali calcolato sulla base dei salari

in moneta effettivamente pagati e del costo delle derrate alimentari secondo le quantità consumate nell’Europa meridionale

Numero indice dei salari reali calcolato sulla base dei salari in moneta effettivamente pagati e del costo delle derrate alimentari più il fitto di casa secondo le quantità consumate in media in tutti i paesi considerati

Lisbona

32

Vienna

41

51

Lodz

42

46

Varsavia

45

47

Roma

45

38

Milano

48

46

Bruxelles

50

54

Praga

51

53

Madrid

56

Parigi

57

Berlino

69

84

Amsterdam

84

87

Stoccolma

87

87

Dublino

99

110

Londra

100

100

Ottawa

147

154

Sydney

150

Filadelfia

186

197

 

 

Trattasi di salari reali, ossia ridotti a masse di merci al minuto acquistabili con i rispettivi salari in moneta (colonna 1) ovvero a masse di merci più casa (colonna 2); ed è quindi eliminato l’errore di paragonare salari monetari nominali, aventi, a parità di cifra, differenti poteri d’acquisto.

 

 

Nella colonna 1 le città sono messi all’ordine della capacità ad acquistare merci secondo le usanze di vita dell’Europa meridionale. Ciò allo scopo di eliminare, nei limiti del possibile, l’altro errore di paragonare il salario reale dell’operaio di Milano con quello dell’operaio di Londra, tenendo conto delle derrate che essi possono acquistare rispettivamente a Milano e a Londra. Siccome acquistano derrate diverse, i paragoni sono dubbi. Invece così si paragonano i due salari reali riferendoli amendue alle quantità di derrate consumate nel mezzogiorno d’Europa. Nella seconda colonna il confronto invece è fatto riferendolo ad abitudini medie, per derrate e casa, in tutte le città  considerate.

 

 

Sebbene la tecnica statistica sia per ora ben lungi dall’eliminare tutte le differenze implicite nei dati, si può fondatamente dire che gli operai italiani hanno ancora da fare molta strada per giungere al livello non dico dei loro colleghi australiani ed americani, ma anche di quelli del nord dell’Europa. L’ambizione degli imprenditori non deve essere il ribassare i salari operai. Essi devono crucciarsi invece di non essere ancora riusciti a portarli al livello, almeno dei francesi e poi dei tedeschi e poi più su. Se la stabilizzazione della lira a quota 93 li ha costretti a fare un passo su questa via (534 salari a 543 coste vita ossia 0,98 nel secondo semestre 1930 contro 609 a 653 ossia 0,93 nel primo semestre 1926), pensino che il passo è modesto, e che, astrazion fatta dalla stabilizzazione, di ben maggiori ne dovranno compiere nell’avvenire.

 

 

36. – Presto, dopo il giugno 1930, l’adeguazione dei fitti delle case al mutato livello del valore della moneta dovrà essere un fatto compiuto, in conseguenza della libertà dei fitti. Seguendo il criterio dei prezzi all’ingrosso, i fitti dovrebbero essere uguali a  (moltiplicatore legale della lira)  (rialzo medio dei prezzi all’ingrosso in Italia rispetto all’oro nel febbraio 1930 in confronto all’ante-guerra) volte quelli dell’ante – guerra. Seguendo il criterio dei prezzi al minuto, i fitti dovrebbero essere uguali ad  (rialzo medio dei prezzi al minuto in Italia rispetto all’oro, nel marzo 1930 in confronto all’ante – guerra)  volte quelli dell’ante – guerra. È probabile che inquilini e proprietari in media si siano adattati all’idea del moltiplicatore cinque. Se così fosse, non dovremmo essere lontani dall’equilibrio.

 

 

37. – Oramai dovrebbe essere sistemata la situazione patrimoniale delle imprese industriali. È questo il punto più a lungo dolente delle crisi di rivalutazione e di stabilizzazione. Assumiamo le due situazioni tipiche estreme: l’agricoltore od industriale, o commerciante che non ha debiti e colui che lavora sovratutto a credito.

 

 

Tizio aveva un patrimonio valutato ad 1 milione di lire nel 1928 perché ne ricavava nell’industria un frutto di 100.000 lire all’anno. Nel 1930 quel patrimonio frutta appena 75.000 lire all’anno e perciò vale solo 750.000 lire. È spiacevole; ma non vedo come ciò possa dar luogo alla prosecuzione di una pretesa crisi. La crisi fu patita subito nel 1926. Tizio vide falcidiato il nome monetario del suo patrimonio e si dovette rassegnare ad un frutto netto minore. Se egli coi tre quarti di milione, che sono tutti suoi, fa andare avanti l’impresa (ed è probabile sia così perché le materie prime si sono ridotte del 28 %, i salari del 13 %, ecc.), perché ci deve essere ancora crisi od almeno crisi di stabilizzazione?

 

 

Caio dirigeva un azienda che dava un frutto di 100.000 lire all’anno e perciò valeva 1.000.000. Ma di suo, egli vi aveva impiegato solo 200.000 lire, avendo chiesto il resto al credito. Nel 1930 il reddito è ridotto, come nell’altro caso, a 75.000 lire annue e l’azienda vale solo 750.000 lire. Il capitale proprio di Gaio è scomparso e sono scomparse anche 50.000 lire dei creditori. Spesso le cose sono andate anche peggio. Appunto perché l’impresa viveva sul credito, era governata con minore taccagneria. I denari degli altri spendono facilmente; e se Caio aveva osato farsi imprestare 800.000 lire su 1 milione, ciò era appunto accaduto perché egli era coraggioso, audace, altri direbbe impulsivo ed azzardato. Queste imprese subiscono per le prime i colpi dell’avversa fortuna. Probabilmente il reddito si è ridotto non a 75.000 lire, ma a 50.000 lire, a 25.000 lire; e forse il bilancio accusa una perdita. Il capitale proprio di Caio è sfumato ed è sfumato in gran parte quello dei creditori.

 

 

La crisi consiste in questo sfumo, non in un suo prolungamento o ripetizione. Una volta che i creditori, che le banche abbiano fatto il conto delle partite di credito da deprezzare, che le abbiano coperte con le riserve; o non potendole coprire, si siano esse medesime messe in liquidazione, abbiano fatto il loro bravo concordato, si siano fuse, ecc., ecc., ed i loro creditori e depositanti abbiano verificato la perdita, la crisi è finita.

 

 

Non so se in Italia la liquidazione sia finita in tutti i casi di inventari patrimoniali da sgonfiare a spese dei proprietari o dei creditori. Ho l’impressione di sì; e che quel che resta da risolvere appartenga al novero delle resistenze formali. Accade talvolta che dissestato e creditori del dissestato immaginino di avere od abbiano interesse a far restare piedi un inventario di 1 milione, che dovrebbe essere ridotto a 300.000 lire. Ciò produce l’apparenza della continuazione della crisi. Pura apparenza. La crisi è già  passata: proprietario e creditori sanno che l’osso da rodere vale solo 300.000 lire. Si può chiamare crisi un semplice stato di indecisione a prendere l’inevitabile partito di scrivere sulla carta la cifra ridotta, che da tempo è la sola vera nella realtà ? Parmi assurdo di continuare a chiamare in colpa la stabilizzazione di un fenomeno così umano di indecisione.

 

 

38. – Fatte tutte queste eliminazioni, che cosa resta di squilibrato? Non prezzi all’ingrosso, non prezzi al minuto, non salari, non inventari patrimoniali. Resta un fattore da esaminare: le imposte. La guerra ed il post – guerra hanno qui lasciato un’eredità di squilibrio che sarà  faticosa, ma urgente opera dell’avvenire liquidare. I lettori hanno su «La Riforma Sociale» letto i diligentissimi studi condotti in proposito da E. Rossi sulle migliori fonti ufficiali (fascicoli del luglio – agosto 1829 e marzo -aprile 1930). Non intendendo riassumere e ripetere il già ben detto, riferisco invece la cifra riassuntiva che si legge in Mortara (Prospettive 1930, pag. 537): la parte del reddito nazionale privato assorbito dalle imposte di stato, provinciali e comunali, esclusi i contributi sindacali e quelli per le assicurazioni sociali, era del 12-13 per cento nel 1913, superava di poco il 20 % nel 1925-1828 e giunse nel 1928-1929 al 25%.

 

 

Quanto sia elevata tale pressione, si deduce dal seguente riflesso del Mortara: «La proporzione del 25 per cento segna per l’Italia un carico tributario relativo che non è raggiunto da nessun altro grande paese. E se qualche altro Stato chiede ai suoi contribuenti una frazione del loro reddito poco minore di quella che lo Stato italiano esige, la stessa frazione detratta da un reddito medio tre o quattro volte maggiore implica un sacrificio incomparabilmente inferiore a quello del contribuente italiano. Da noi viene prelevato il 25 % sopra un reddito individuale di 2.200 lire attuali; nella Gran Bretagna il 24 % sopra un reddito di 7.900; in Germania il 20 % sopra un reddito di 5.000; in Francia circa il 20 % sopra un reddito di 4.400» (id., pag. 538).

 

 

Pur fatta la dovuta parte all’ineluttabile, pare certo che il fattore «imposta» non si sia finora adeguato al cresciuto valore della lira. Il processo di riduzione dei valori non si è esteso alle imposte né in misura assoluta né in misura relativa. I ripetuti inviti all’economia del primo ministro, del ministro delle finanze, dei relatori delle commissioni delle finanze alla camera ed al senato non sono stati finora ascoltati. Bisogna che lo stato e gli altri enti pubblici facciano economie. Per non esporre un programma irreale, bisogna che essi cessino dal chiedere maggiori sacrifici ai contribuenti. Basterebbe non chiedere di più per avviare alla soluzione quest’ultimo residuo della crisi di stabilizzazione. I produttori ed i lavoratori creerebbero a poco a poco un margine di nuovo reddito, se lo sapessero libero da tributi. Il peso, anche gravissimo, sul vecchio reddito finirebbe per divenire tollerabile.

 

 

39. – È necessario ridurre, col non crescerla, la pressione tributaria, affine di eliminare qualsiasi possibilità che il tesoro debba ritornare a chiedere anticipazioni all’istituto di emissione. Oggi, eccettuate le partite storiche in liquidazione, il tesoro non deve niente alla Banca d’Italia. Continuare a non dover niente: ecco in sostanza il porro unum et necessarium della indefinita durata della stabilità  monetaria. Ma, per essere sicuri di non dovere chiedere niente alla Banca d’Italia (quale istituto di emissione, per quanto indipendente, si è mai rifiutato in passato di consentire alle richieste del suo governo, giustificate dalla salus patriae, suprema lex?) è necessario che il tesoro non varchi il punto critico della pressione tributaria. È necessario che il tesoro abbia un margine proprio di imposte non ancora instaurate. Se la salvezza del paese lo vorrà, si toccherà  il margine, senza chiedere nulla all’istituto di emissione. L’indipendenza di questo è materiata della prudenza del pubblico tesoro.

 

 

40. – Coloro che si lamentano di crisi, dopo avere accusato la stabilizzazione,adesso chiamano in causa la crisi mondiale: convulsioni di New York, ribassi del frumento, del caffè, della gomma elastica, della lana. Una lunga analisi dovrebbe intraprendersi per valutare la portata reale dei fattori esterni sulla situazione economica nazionale. Non posso tacere però una impressione: che questi discorsi sulla crisi mondiale siano un perditempo. Le crisi si sono sempre aggiustate. Come sono cominciate, così finiranno. Che cosa possiamo fare, del resto, per farle finire più presto, queste diavolerie venute tanto da lontano? Nulla o pressoché nulla.

 

 

Perciò la sola azione seria è interna. Ogni impresa deve studiare se stessa, per accertare quali siano i punti dolenti, dove si sentono ancora gli attriti, per individuare le ragioni per cui la macchina non funziona perfettamente. Se è vero che una crisi esista, se essa non può essere spiegata intieramente con i fattori sopra discussi: imposte alte o mano d’opera non ancora utilizzata fino al limite del suo costo, diminuzione di domanda estera per crisi dei paesi produttori di materie prime in ribasso, salterà fuori un residuo ed una spiegazione del residuo. Conosciuto il residuo, sarà possibile cercare il rimedio.

 

 



[1] I professori A. Graziani e G. Mortara mi scrivono facendo rilevare non essere del tutto esatta la mia affermazione che «la lira antica di grammi 0,290.322 non esiste più». Quid delle monete d’oro da 20 a 100 lire, di cui alcune coniate recentemente quando ministro delle finanze era l’on. De Stefani, le quali non sono state messe fuori corso da nessun provvedimento legislativo? L’osservazione è corretta; ma parmi concludere soltanto alla segnalazione di un «relitto» anacronistico rimasto in vita per pura dimenticanza del legislatore. Probabilmente, il relitto odierno ha numerosi precedenti storici. Con questa differenza che nei secoli passati, essendo ignota o poco usata la moneta cartacea, quando il principe abbassava il piede monetario, le monete nobili, d’oro e d’argento, straniere e nazionali, seguitavano a correre, insieme alle nuove a piede abbassato, al corso determinato dal rapporto fra la parità antica e la parità  nuova. Il che non significava che esistessero due lire o doppie od aquile d’oro. Una sola era la lira d’oro corrente od a corso legale ed era la nuova; la vecchia era simile ad una moneta estera accettata, come in quei tempi usava, nelle comuni contrattazioni al corso determinato dalle quotazioni quotidiane dei cambi. Nei tempi moderni le monete estere o storiche non usano, salvo i momenti di straordinarie commozioni monetarie, correre nel comune commercio; epperciò le vecchie pezze d’oro italiane sono in pratica dovute puri oggetti di collezione per numismatici. Ad evitare inutili confusioni verbali sarebbe opportuno un provvedimento legislativo, il quale togliesse il corso legale ai «relitti» di epoche trascorse. Ma ancor più opportuno, anzi urgente sarebbe un provvedimento legislativo, il quale vietasse di usare in documenti ufficiali espressioni divenute prive di senso dopo la riforma monetaria. O non accade ancora di vedere parlare di dazi doganali in lire oro, che sarebbero poi le vecchie lire, i quali dazi devono essere ritradotti in lire oro nuove? Non è assurdo che una branca della medesima amministrazione (direzione generale delle dogane) paia ignorare una norma uscita fuori dallo stesso ministero delle finanze? C’è da superare, per fermo, qualche difficoltà  materiale, come il ricalcolo e la ristampa delle tariffe; e si può consentire che a ciò occorre tempo, per non sprecare formulari e stampati; ma sono piccole difficoltà . Il prof. Mortara, per uscire fuori dalla babele linguistica delle lire oro e carta, vecchie e nuove, ha acconciamente introdotto nelle sue Prospettive economiche l’uso del vocabolo lira attuale per indicare la lira-oro d’adesso. Usanza, che vedo diffondersi e che anch’io seguirò, insieme e nello stesso senso di lira-oro parendomi atta ad evitare equivoci.

[2] I vincoli risultavano dal R. decreto 10 giugno 1926, n. 942 e dai decreti ministeriali in data 11, 19 e 20 giugno e 2 luglio 1926. Col R. decreto 10 giugno 1926, n. 942, le contrattazioni in cambi erano state riservate alle banche con almeno 100 milioni di lire di capitale versato e si era disposto che nessuna contrattazione in cambi potesse essere eseguita, se non rispondente a reali necessità  dell’industria e del commercio o a bisogni di chi viaggia all’estero: necessità  e bisogni che bisognava documentare e del cui controllo le banche autorizzate alle contrattazioni in cambi assumessero la responsabilità  verso il tesoro. Col decreto ministeriale 19 giungo 1926 e col decreto Reale 20 giungo 1926, n. 1029, la Banca d’Italia era stata autorizzata a prendere speciali accordi con altre banche per operare in divisa estera. Col decreto ministeriale 11 giugno 1926, si era disposto che le contrattazioni in cambi potevano consistere solo in compere e vendite a contanti o a termine e si vietavano i riporti in cambi; si dettavano norme per l’esecuzione delle compere e vendite e circa la documentazione da presentare; si faceva obbligo alle banche autorizzate ai cambi di comunicare in giornata le operazioni compiute all’ispettore del tesoro presso la borsa più vicina e alla direzione generale del tesoro; si faceva divieto di concedere crediti in lire a favore di banche e ditte residenti all’estero anche di nazionalità  italiana, di scontare cambiali in lire emesse da case estere a carico di ditte italiane, sia pure a copertura di operazioni di commercio, di scontare cambiali in lire emesse da case estere sopra le proprie dipendenze e sopra i propri rappresentanti in Italia, anche se girate da terzi, di scontare qualsiasi altra cambiale che apparisse mezzo usato da ditte estere per procurarsi disponibilità  in lire, di scontare cambiali di ditte italiane, stilate in lire, a favore di ditte estere, di pagare per conto di banche e di ditte estere lettere di credito in lire, il cui controvalore in divise non esistesse effettivamente a credito in conto o non venisse messo contemporaneamente a disposizione della Banca Italiana trassata, di consentire crediti di corriere a favore dell’estero e di esportare lire senza autorizzazione del tesoro. Col decreto ministeriale 2 luglio 1926, venne chiarito che il divieto di esportazione in lire si estendeva a tutti i titoli di credito stilati in lire, emessi e pagabili in Italia.

[3] Nella circolazione ho compreso, seguendo l’opinione prevalente tra gli studiosi, insieme con quella in biglietti, anche quella in vaglia bancari e le cifre dei conti correnti, incluso il vincolato del tesoro, pubblici e privati. I conti correnti sono circolazione potenziale, perché il depositante ha diritto di trarre in qualunque momento assegni sulla banca e può costringere perciò questa ad emettere biglietti.

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