Opera Omnia Luigi Einaudi

Della inondazione e dei consigli chiesti agli economisti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 10/01/1944

Della inondazione e dei consigli chiesti agli economisti

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 10 giugno 1944

 

 

 

Chi parla della necessità di smantellare l’edificio autarchico, protezionistico, monopolistico sorto innanzi ma complicato ed innalzato dopo il 1922 si sente spesso obbiettare: è questo, del rinunciare alla protezione, un lusso che si possono prendere i paesi ricchi. I paesi poveri hanno bisogno di superare grosse difficoltà, che i ricchi non conoscono; epperciò per essi è necessaria ed è utile quella protezione statale che ai ricchi è superflua.

 

 

Si può e si deve rovesciare la proposizione: i paesi ricchi possono prendersi il lusso di commettere sciocchezze che scemino la loro ricchezza; ché partendo dal molto qualcosa rimarrà pur sempre. I paesi poveri non hanno il diritto di scendere volontariamente più in giù nella scala della povertà. Il punto della discussione sta dunque nel sapere se il dazio doganale sia causa di ricchezza o di povertà.

 

 

Dico il dazio doganale, e cioè quel pagamento di 10 o 20 od altro numero di lire al quintale (od all’ettolitro, ecc.) che una merce straniera deve pagare all’entrata nel territorio nazionale, non per dare un provento al tesoro dello Stato ma per impedire od ostacolare l’entrata della merce medesima; e così permettere ai produttori nazionali di vendere i loro prodotti al prezzo estero di concorrenza, supponiamo 20, più i 10 di dazio, totale 30. Le altre forme di protezione (contingenti, proibizioni, restrizioni di valute, ecc.) sono varianti inasprite del dazio; e ad esse si può applicare, accentuata, quella qualunque conclusione alla quale si giunge rispetto al dazio. Tanti sono i punti di vista dai quali il problema può essere discusso che, a darvi fondo, converrebbe scrivere il solito libro, che nessuno leggerebbe. Per oggi, debbo contentarmi di illustrare brevemente un aspetto solo del complesso sofisma protezionistico.

 

 

Il quadro, che i protezionisti e vincolisti ed autarchizzanti (chi ci libererà della parola autarchia, che, tra l’altro, è anche uno sproposito linguistico, in quanto la parola corrispondente greca voleva dire autogoverno politico, sovranità politica, laddove l’autosufficienza economica, a cui qui si allude, in greco si scriveva e pronunciava autarcia?

 

 

Ma autarcia ed autarcici, che sarebbero le parole corrette, in bocca italiana farebbero ridere e sarebbero probabilmente state nei passati tempi leggiadri, punite col manganello, quasi fossero schernevoli) hanno delle conseguenze derivanti ai paesi poveri dallo spalancare le porte, senza ostacolo di dazi, ai prodotti stranieri, prende talvolta l’aspetto seguente: Aboliti i dazi, i 43 milioni di italiani – per qualche anno almeno, tutti i 43 milioni, essendo difficile che i paesi stranieri, con tanta carne al fuoco di rifugiati, di reduci, di prigionieri, di trasferiti coatti possano accogliere liberamente la emigrazione volontaria – si vedrebbero offerta la maggiore parte delle derrate e delle merci ad essi bisognevoli a prezzi di poco o molto inferiori a quelli a cui industriali ed agricoltori italiani le potrebbero produrre e vendere.

 

 

Molti industriali dovrebbero chiudere gli stabilimenti; moltissimi campi rimarrebbero incolti. Se il frumento potrà essere posto sulle banchine del porto di Genova e di Napoli a 12 lire vecchie ante 1914 al quintale (suppergiù questa è la parità col prezzo del frumento americano ad 1 dollaro per bushel), quale agricoltore, senza suicidarsi, potrà in Italia ancora coltivare frumento? I mercati italiani saranno inondati da merci straniere: e in paese noi avremo disoccupazione e miseria.

 

 

L’argomento ha un nome e si chiama dell’inondazione. Accadono tuttavia, curiose modificazioni quando certe parole, le quali sono proprie di certi concetti in un dato campo sono trasferite ad altri concetti in campo diverso.

 

 

La parola «inondazione» suscita nella mente di chi l’ascolta l’idea dei raccolti devastati, degli argini travolti, dei campi coperti di sabbia e sterilizzati per anni, di fatiche durate decenni da rifare ecc. ecc.; è connessa cioè con idee di male, di disgrazia, di morte. Se trasportiamo la parola al campo delle importazioni di merci straniere, il contenuto si palesa tutto diverso: inondazione di merci vuol dire «abbondanza», vuol dire «buon mercato». Portata all’estremo, l’inondazione di merci è la manna nel deserto degli ebrei; è il paese di bengodi, dove le salsicce pendono dagli alberi e piatti di risotto e pastasciutta, con bottiglie di vino scelto, sono offerti gratuitamente su tavole apparecchiate per le vie a disposizione dei passanti.

 

 

Se così fosse, l’inondazione delle merci estere non avrebbe nulla di spaventevole. Purtroppo, gli stranieri venditori non danno all’inondazione delle loro merci il significato ora detto. Essi ci vendono, non ci regalano le loro merci.

 

 

E vendita non vuol dire pagamento in oro, che noi non possediamo e del quale i venditori del resto non saprebbero cosa farsi, essendo già abbastanza infastiditi dalle spese cospicue sostenute per custodire, senza costrutto ed a controgenio, le masse auree che Europa ed Asia ed Africa hanno inviato negli Stati Uniti negli ultimi tempi; vendita non vuol nemmeno dire pagamento in biglietti della Banca d’Italia, di cui essi non sanno, ancor più che dell’oro, cosa farsi: vendita non vuol dire, se non per piccole somme, pagamento in obbligazioni, o cambiali od assegni, che sono soltanto un modo provvisorio di pagamento da liquidarsi presto in altra maniera.

 

 

Vendita vuol dire pagamento in beni o servizi. Non esiste altro modo serio di comperare e pagare. Se noi vorremo comperare frumento estero, lo dovremo pagare con seta e seterie, cotonate, macchine, fiori, agrumi, noli della marina mercantile italiana, rimesse di emigranti, rimesse di viaggiatori forestieri.

 

 

Ma se questo è il solo modo serio di comperare e pagare da parte nostra, è contemporaneamente il solo modo effettivo di vendere ed essere pagati da parte dei venditori stranieri. Noi potremo cioè essere inondati dalle merci estere nella stessa precisa misura nella quale noi inonderemo di merci nostrane i paesi stranieri.

 

 

L’equivalenza non si riscontra ad uno ad uno fra ogni paese ed ogni altro paese; idea balzana che è potuta venire solo a coloro i quali hanno creduto di avere fatto una gran bella scoperta col sistema dei clearings unilaterali, fra Italia e Germania, fra Italia e Svizzera ecc., ecc.; ed avevano riesumato uno strumento economico dell’età della pietra. L’equivalenza è fra vendite ed acquisti di ogni dato paese con i paesi restanti del mondo; ma, così concepita, è una verità indiscutibile.

 

 

Si è mai visto, salvo che per gli scroccatori e per i piantatori di chiodi, che le cose vadano altrimenti? Chi di noi riesce a comperare più pane, più vino, più scarpe e vestiti e alloggio ecc. ecc. di quanto possediamo per spendere? Ed il disponibile per la spesa che cosa mai altro è fuor che il frutto della vendita delle proprie merci o derrate, del doppio lavoro, dei propri servigi, del fitto dei propri capitali? Non spaventiamoci dunque: gli italiani, aboliti i dazi, acquisteranno come prima merci estere, nella precisa misura in cui riusciranno a vendere merci e servigi propri agli stranieri. Inondazione contro inondazione; acquisti contro vendite. Non esiste via di uscita. Purtroppo non esiste.

 

 

Chi avrebbe da fare qualche obbiezione a chi, straniero o nazionale, ci usasse la finezza di regalarci, senza pretendere nulla in contraccambio, la roba sua? La fecero, quella obbiezione, nella immortale petizione di Federico Bastiat alla Camere francesi – perché qualcuno non la ritradusse in bello fluido italiano moderno? – i fabbricanti di candele e di lampade contro la concorrenza perfida, atroce, a prezzo rovinoso perché uguale a zero, di un signore forastiero deciso alla rovina di una antica gloriosa industria francese, quella della fabbricazione delle candele di cera e di sego, delle lampade, lampadari, bugie e simili, il quale signore chiamavasi «Sole», e sommessamente supplicavano, quei fabbricanti, volessero le Camere degnarsi di restituire all’antico fiore l’industria decadente con una assai semplice ordinanza: quella della chiusura ermetica di tutte le finestre, aperture, abbaini ed altri pertugi attraverso a cui l’insidioso, perfido, concorrente solare riusciva a sottocosto ad uccidere l’industria provveditrice di una luce, come quella artificiale delle candele, tanto più consona alle esigenze dell’occhio umano, più riposante e meno accecante. Viva è ancor oggi la satira beffarda di Federico Bastiat, contro coloro che traggono ragione di spavento dall’inondazione delle merci estere. Lo spettro non esiste. Il problema è un altro e solo un altro.

 

 

Conviene agli italiani di produrre essi stessi tutto il frumento di cui hanno bisogno: ovvero produrre solo quella quantità che essi, ove non si rassegnino, il che sarebbe ingiurioso non solo ma sovratutto calunnioso, a dirsi e ad essere quei gran minchioni di cui favellava Camillo di Cavour, saranno sempre in grado di produrre a prezzi di concorrenza: ed acquistare il resto con quelle altre merci o derrate che ad essi converrà di produrre? Certo, gli agricoltori italiani non dovranno chiedere a noi economisti quali merci e quali derrate essi potranno convenientemente produrre. Dar consigli su quel che conviene produrre non è il mestiere degli economisti: ma è quello degli agricoltori medesimi.

 

 

Può darsi che qualche economista sia anche agricoltore; ma in quel caso l’agricoltore non è certo andato a chiedere consiglio a sé stesso in qualità di economista su quel che gli conveniva fare: ma, agricoltore, ha studiato il suo terreno, le culture possibili, le sue capacità direttive, la mano d’opera disponibile, i prezzi delle diverse derrate coltivabili ed ha scelto quelle culture che gli erano più convenienti o meno sconvenienti.

 

 

Oggi, può darsi sia conveniente, per una parte del terreno, il frumento, ma se domani non lo sarà più o lo sarà in misura minore, quell’agricoltore, astrazion fatta dalla sua eventuale qualità di economista, ossia semplicemente di uomo che desidera ragionar bene e non male, sostituirà al frumento qualche altra cultura, o la vigna o il prato, o il frutteto o l’orto, quella cultura che gli darà, in paragone a tutte le altre possibili, il risultato netto maggiore.

 

 

E se il reddito netto del suo fondo sarà diminuito in confronto di quello odierno, si rassegnerà pensando che il maggior reddito di prima, seppure giuridicamente non criticabile, era moralmente illecito, perché la legge gli dava scorrettamente diritto di far pagare ai consumatori il frumento a prezzo artificialmente elevato: ossia gli dava diritto di tirar fuori denari di tasca a taluno che forse non riusciva neppure a sfamare moglie e figli. Se il valore capitale dei suoi terreni scapiterà, quell’agricoltore si rassegnerà, perché il moralista e l’economista, i quali sono in lui, gli sussurrano che non esiste alcuna legge divina od umana la quale garantisce agli agricoltori la invariabilità dei prezzi dei loro terreni.

 

 

La protezione doganale è un mezzo con cui si inducono gli agricoltori a preferire di coltivare, grazie al prezzo alto, un quintale di frumento là dove, se il prezzo fosse più basso, egli avrebbe convenienza a coltivare e produrre qualcos’altro e col ricavo di questo, comperare il suo quintale e forse il quintale e mezzo di frumento.

 

 

Certo a produrre qualcos’altro, sia frutta od uva od ortaggi o bestiame ci vuole più pazienza, più tecnica, più rischio di impiego di lavoro e di risparmio, proprio o preso a prestito, che non a seminar frumento! ma bisogna rassegnarsi ad aver pazienza, a studiare, a rischiare.

 

 

Ché, se non si ha pazienza e voglia di studiare, di sperimentare e di rischiare, ci si deve rassegnare ad andarsene fuor dei piedi. Colle buone, vendendo i terreni ai prezzi che si potranno ottenere anche se bassi, a qualche altro agricoltore, più in gamba, il quale non avrà la pretesa di farsi insegnare da un economista la maniera migliore di coltivare i propri campi: ma li saprà utilizzare lui, sperimentando e provando e lavorando. Oppure colle cattive; quando a furia di lamentarsi nei caffè cittadini avrà fatto tanti debiti, avrà tanti arretrati di imposte da pagare e avrà lasciato crescere tanta gramigna al piede delle sue piante, che la terra gli sarà portata via all’asta a prezzi di fallimento. Poiché costui si sarà meritata la sua sorte, nessuno lo compiangerà.

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